Con la pronuncia in commento, pubblicata il 13 maggio 2021, la sesta sezione della Suprema Corte ha affermato il principio secondo cui l’accordo di mediazione che accerta l’usucapione di beni immobili ai sensi dell’art. 2643 n. 12-bis c.c. non è opponibile al curatore fallimentare ove non sia stato trascritto in data anteriore alla dichiarazione di fallimento.
La Cassazione, nel confermare sul punto il decreto col quale il Tribunale di Reggio Calabria (confermando, a sua volta, la decisione adottata dal giudice delegato in sede di verifica del passivo) aveva rigettato l’istanza di rivendica ex artt. 93 e 103 L. fall. presentata da una società per un immobile acquisito all’attivo fallimentare, ne ha tuttavia emendato la motivazione ai sensi dell’art. 384, co. 4, c.p.c., ritenendo non corretto lo sviluppo motivazionale del provvedimento “per avere il decreto portato l'analisi anche sul piano dell’effettivo riscontro della sussistenza di un fatto d'usucapione a livello di fattispecie concreta”. Secondo la pronuncia in commento, infatti, “in realtà, nell'ambito di un procedimento di rivendica per usucapione – che si situi all'interno del sistema di verifica del passivo fallimentare ex artt. 92, 93, 98 e 103 legge fall. […] – il rilievo relativo all'opponibilità ed efficacia del titolo di usucapione nei confronti del fallimento non è solo logicamente precedente a quello attinente al riscontro della sussistenza in concreto di un fatto di usucapione” ma è del tutto “assorbente”, nel senso che “nell'ipotesi in cui sortisca un esito di segno negativo, il primo riscontro è tale, invero, da rendere comunque «impropri», e quindi in sé stessi non rilevanti, la considerazione e l'esame di ogni altro profilo”, ragion per cui il Tribunale reggino – una volta appurata la mancanza della trascrizione (anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento) dell’accordo di mediazione e l’inesistenza di una sentenza accertativa della compiuta usucapione dell’immobile oggetto di domanda – “avrebbe dovuto ritenere esaurito l'arco dell'indagine che era suo compito espletare, senz'altro respingendo ogni ulteriore richiesta formulata in materia dall'opponente”, non potendo “consentire - come per contro ha fatto - lo svolgimento di giudizio di accertamento incidentale inteso, nel contesto del procedimento di verifica fallimentare, a riscontrare nella fattispecie concreta l'eventuale esistenza del fatto di usucapione allegato dal rivendicante”.
In altri termini, secondo la sentenza in esame non sarebbe ammissibile in sede “endofallimentare” la domanda di rivendica volta ad ottenere – in mancanza di un titolo già conseguito e opponibile alla procedura fallimentare – un accertamento dell’avvenuta usucapione di beni immobili acquisiti all’attivo fallimentare, “equivalente” alla sentenza emessa ai sensi dell’art. 2651 c.c.. Ciò in quanto il curatore è “terzo (e non già «rappresentante» del fallito o suo avente causa) rispetto a tutte le vicende che realizzano la fuoriuscita di un bene dal patrimonio del soggetto, del cui fallimento si discute, con connessa acquisizione del bene medesimo nel patrimonio di un altro soggetto” (non essendovi ragione “per limitare la posizione di terzo del curatore fallimentare alla categoria degli atti negoziali traslativi di beni, al fine di escluderne la riferibilità al titolo dell'usucapione”, atteso che “il fenomeno propriamente preso in considerazione dalla norma dell'art. 2913 cod. civ. si concentra in via diretta […] sulla «sottrazione» di un bene dalla responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod. civ. del debitore (del cui fallimento si discute). Con la conseguenza che - rispetto alla vicenda realizzata dall'usucapione - un differente trattamento rispetto a quello proprio dei negozi traslativi non potrebbe ritenersi giustificato sul piano oggettivo”), e il titolo di acquisto del bene rappresentato dall’usucapione (“al pari di ogni altro titolo di acquisto di bene di cui il soggetto poi fallito sia stato il precedente titolare”) gli è quindi opponibile solo se già “interamente formato al tempo della sentenza dichiarativa”. La terzietà del curatore impedirebbe inoltre la proponibilità nei suoi confronti di una domanda di accertamento dell’usucapione in quanto inerente a “vicende che si svolgono propriamente tra il rivendicante e il soggetto che si pone come ultimo proprietario del bene”, il cui accertamento giudiziale non potrebbe che avvenire con “la sentenza emessa ex art. 2651 cod. civ., in esito a un processo di cui sempre i detti soggetti si manifestano essere le parti necessarie” (laddove “quello della verifica fallimentare, per contro, è un processo che vede come parte necessaria non già colui che è stato dichiarato fallito (cfr., tra le altre, la norma dell'art. 95 comma 4 legge fall.) […] quanto invece la massa di creditori di quest'ultimo, come soggettivamente polarizzata nella persona del curatore”).
Ad ulteriore supporto del principio enunciato, la pronuncia in commento aggiunge il duplice rilievo secondo cui, da un lato, “il procedimento di verifica fallimentare risulta in sé stesso strutturalmente inidoneo ad accogliere un giudizio come quello di accertamento di compiuta usucapione, specie in ragione delle lunghe e complesse indagini di fatto che facilmente possono al riguardo occorrere”, e dall’altro non “appare ipotizzabile che nella sede fallimentare - per definizione intesa ad assicurare ai creditori del fallito una tutela di peculiare intensità - questi possano essere protetti in misura minore di quanto venga loro assicurato nella sede del semplice pignoramento dell'immobile (in cui il rivendicante per acquisto a titolo di usucapione non ha, per l'appunto, alternative diverse da quelle dell'intervenuta sentenza di accertamento ex art. 2651 cod. civ. o dell'accordo di mediazione, che sia stato tempestivamente trascritto)”.
Se la soluzione adottata dalla Cassazione in merito all’inopponibilità al curatore dell’accordo di mediazione non utilmente trascritto prima dell’apertura del fallimento appare pienamente convincente (v. in termini anche Trib. Torino, 9 giugno 2016, in www.ilcaso.it), non può non evidenziarsi che le argomentazioni poste a fondamento della correzione dell’iter motivazionale del Tribunale reggino sembrano aprire nuovi scenari sulla discussa tematica delle modalità e dei limiti dell’accertamento dell’usucapione su beni immobili acquisiti all’attivo della procedura fallimentare, da ritenersi senz’altro attratto – all’indomani della riforma del 2006 – nell’ambito degli accertamenti che devono essere compiuti in sede “endofallimentare” ai sensi dell’art. 52, co. 2, L. fall. (a norma del quale “ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”) in forza di apposita domanda di rivendica ex art. 103 L. fall..
Desta invero perplessità il suindicato rilievo in base al quale l’accertamento dell’usucapione sarebbe incompatibile con il procedimento di verifica fallimentare “in ragione delle lunghe e complesse indagini di fatto che facilmente possono al riguardo occorrere”. Come noto, infatti, la speditezza dell’istruttoria caratterizza (in forza dell’art. 95, co. 3, L. fall. in base al quale “il giudice delegato può procedere ad atti di istruzione su richiesta delle parti, compatibilmente con le esigenze di speditezza del procedimento) solo il procedimento di verificazione dinanzi al giudice delegato e non anche il successivo eventuale giudizio di opposizione, avente natura di giudizio a cognizione piena (v. ex multis Cass. 19697/09). La complessità dell’istruttoria che spesso si rende necessaria ai fini della verifica della fondatezza della domanda di accertamento dell’usucapione non pare quindi costituire un aspetto dirimente al fine di escludere la proponibilità della domanda in sede “endofallimentare”, ben potendo tale istruttoria svolgersi – così come per altre domande che il più delle volte implicano complessi accertamenti anche di natura tecnica (si pensi, ad esempio, alle domande aventi ad oggetto il risarcimento dei danni da infortuni sul lavoro o da vizi e difetti dell’opera realizzata in esecuzione di un appalto, pur pacificamente proponibili dinanzi al giudice delegato) in seno al giudizio di opposizione allo stato passivo (v. in tal senso anche Limitone Il procedimento di usucapione nel fallimento, in www.ilfallimentarista.it).
Poco convincente appare anche il ragionamento secondo cui il giudizio sull’accertamento dell’usucapione dovrebbe necessariamente svolgersi “tra il rivendicante e il soggetto che si pone come ultimo proprietario del bene”, non potendo quindi essere compiuto nell’ambito di un procedimento – quello della “verifica endofallimentare” – in cui il fallito non è parte necessaria (potendo egli solo “chiedere di essere sentito”, ai sensi dell’art. 95, co. 4, L. fall.) e che si svolge nei confronti di un terzo qual è il curatore fallimentare, rappresentante della massa dei creditori concorsuali. Va infatti evidenziato, a tal proposito, che la terzietà del curatore non impedisce che siano (rectius: debbano essere) proposte nei suoi confronti proprio in sede di verifica fallimentare tutte le domande di rivendica della proprietà di beni del fallito, che normalmente vanno necessariamente indirizzate nei confronti di chi risulti proprietario all’atto della domanda (v. Cass. 17270/2015), ma che, in caso di fallimento del legittimato passivo, devono essere proposte – per effetto della perdita della capacità processuale del fallito ai sensi dell’art. 43 L. fall., sempre che si tratti di beni acquisiti all’attivo della procedura concorsuale – dinanzi al giudice delegato con ricorso ex art. 93 L. fall. (v. in proposito Cass. 22166/2019, secondo cui, in caso di fallimento del debitore esecutato nel corso del giudizio di opposizione all’esecuzione proposto ai sensi dell’art. 619 c.p.c. dal terzo che si affermi proprietario del bene, che vede come parte necessaria lo stesso debitore esecutato, tale processo si interrompe e la pretesa del terzo di far valere il proprio diritto nei confronti della massa dei creditori passa necessariamente attraverso la proposizione di una domanda di rivendica ex art. 93 L. fall.).
Se è vero, quindi, che il curatore è terzo anche rispetto alla “vicenda realizzata dall’usucapione” quale “titolo di acquisto di bene di cui il soggetto fallito sia stato il precedente titolare” (così come rispetto ad ogni altro fenomeno che “si concentra in via diretta […] sulla «sottrazione» di un bene dalla responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod. civ. del debitore (del cui fallimento si discute)”), le conseguenze che ne trae la pronuncia in commento – la quale, da un lato, pare affermare l’improponibilità della domanda di accertamento dell’usucapione nella sede della verifica fallimentare, e, dall’altro, in maniera apparentemente contraddittoria, giunge alla conclusione secondo cui il giudice delegato potrebbe (e dovrebbe) accogliere una tale domanda solo se fondata su un titolo (negoziale o giudiziale) trascritto in data anteriore alla dichiarazione di fallimento e quindi opponibile alla procedura concorsuale, dovendo in caso contrario necessariamente emettere una pronuncia di rigetto senza compiere alcuna indagine ulteriore – appaiono tutt’altro che necessitate.
L’argomento secondo cui la possibilità di un accertamento dell’usucapione in sede “endofallimentare” (non fondato sull’esistenza di un titolo trascritto in data anteriore all’apertura della procedura fallimento) implicherebbe nei confronti dei creditori concorsuali un inammissibile trattamento deteriore rispetto a quello riservato al singolo creditore “nella sede del semplice pignoramento dell'immobile (in cui il rivendicante per acquisto a titolo di usucapione non ha, per l'appunto, alternative diverse da quelle dell'intervenuta sentenza di accertamento ex art. 2651 cod. civ. o dell'accordo di mediazione, che sia stato tempestivamente trascritto)” non appare in linea con il diverso principio, affermato giurisprudenza in tema di opposizione di terzo ad esecuzione immobiliare, in base al quale la norma di cui all’art. 619 c.p.c. legittima il terzo a far valere l’intervenuto acquisto a titolo di usucapione anche quando tale situazione non sia stata ancora giudizialmente accertata, ben potendo, peraltro, il termine utile a consolidare l’usucapione venire a maturazione anche dopo il pignoramento (v. Cass. 27668/09, nonché, in termini, nella giurisprudenza di merito, App. Napoli, 30 gennaio 2018, e Trib. Palmi, 5 dicembre 2006, entrambe in DeJure; in dottrina, v. M. Di Marzio, Possibile proporre domanda di usucapione su un immobile oggetto di un procedimento di esecuzione forzata immobiliare?, in www.ilprocessocivile.it; si veda poi Cass. 17605/2015, sul tema dell’efficacia interruttiva della possessio ad usucapionem della redazione dell’inventario dei beni del fallito da parte del curatore, tema che non avrebbe alcun rilievo se non potesse prospettarsi il consolidamento dell’usucapione in data successiva alla dichiarazione di fallimento).
Quanto, poi, all’affermazione secondo la quale “in ragione del principio di cui all'art. 42 comma 1 legge fall., rimane escluso che sui beni di proprietà del fallito al tempo della sentenza dichiarativa i terzi possono acquistare diritti (fuori dalla prospettiva liquidatoria di cui agli artt. 104 ss. legge fall., è chiaro), posto che si tratta di beni che sono ormai vincolati al soddisfacimento dei creditori che saranno ammessi al passivo (cfr., per i tempi più vicini, la pronuncia di Cass., 8 maggio 2013, n. 10895)”, sicché, trattandosi pur sempre della “sottrazione» di un bene dalla responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod. civ. del debitore (del cui fallimento si discute)”, un differente trattamento della “vicenda realizzata dall'usucapione […] rispetto a quello proprio dei negozi traslativi non potrebbe ritenersi giustificato sul piano oggettivo”, tale affermazione non si confronta con i precedenti della stessa Cassazione che hanno in proposito sottolineato la peculiarità dell’acquisto della proprietà per usucapione, che, avvenendo a titolo originario e sulla base di “fatti” e non di “atti”, non è in sé impedito dalla disposizione di cui all’art. 42 L. fall. (v. la stessa Cass. 27668/09, nonché Cass. 7323/06 e Cass. 13184/99, secondo cui è proponibile la domanda di acquisto della proprietà immobiliare per usucapione nei confronti della curatela fallimentare, atteso il carattere di acquisto a titolo originario che, con essa, si intende far verificare, ed a ciò non risultando di ostacolo l’art. 42 L. fall., trattandosi di disposizione che, limitandosi a porre il vincolo di indisponibilità sui beni del fallito – con equiparazione del fallimento al pignoramento – non può essere riferita a “fatti” acquisitivi di diritti reali tipici (che si assumono) già compiuti e produttivi di effetti in capo al fallito).
Allo stesso modo, nel compiere il passaggio argomentativo secondo cui “correttamente […] il Tribunale reggino è venuto a sottolineare come […] la sentenza resa ex art. 2651 cod. civ. non costituisca solo lo strumento che il sistema positivo ha deputato ad accertare - nel confronto tra il rivendicante e l'ultimo proprietario del bene - la sussistenza dei presupposti dell'intervenuto acquisto del bene da parte del primo (con correlata espropriazione a carico dell'altro), ma costituisca anche lo strumento istituzionalmente predisposto per rendere opponibile ed efficace l'acquisto di un bene a titolo di usucapione nei confronti dei soggetti che, rispetto alla detta vicenda, rimangono terzi”, sicché “una volta acquisiti i detti profili - non compiuta trascrizione dell'accordo di mediazione; mancanza di una sentenza accertativa della compiuta usucapione dell'immobile in questione -, il Tribunale reggino avrebbe dovuto ritenere esaurito l'arco dell'indagine che era suo compito espletare, senz'altro respingendo ogni ulteriore richiesta formulata in materia dall'opponente”, la sentenza in commento omette di confrontarsi con il principio – parimenti enunciati più volte dalla stessa Cassazione, oltre che dalla giurisprudenza di merito – secondo cui alla proponibilità nei confronti del curatore della domanda di accertamento dell’usucapione su beni immobili non risulta di ostacolo neppure l’art. 45 L. fall., non essendo configurabile, a carico di chi agisca per conseguire l’accertamento dell’usucapione, alcun onere di pubblicità, posto che l’art. 2651 c.c. si limita a disporre al riguardo una forma di trascrizione (della sentenza, e non anche della domanda) la quale è priva di effetti sostanziali e limitata a rendere più efficiente il sistema pubblicitario (v. ancora Cass. 27668/09, Cass. 7323/06 e Cass. 13184/99, nonché, nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 7 maggio 2018, in DeJure, e Trib. Taranto, 13 luglio 2015, in www.ilcaso.it; sulla funzione di mera “pubblicità notizia” da attribuirsi alla trascrizione di cui all’art. 2651 c.c., v. altresì Cass. 2717/82, nonché Cass. 2161/05 e Cass. 18888/08, Cass. 15503/00, Cass. 8650/94, secondo cui la trascrizione della sentenza di accertamento dell’usucapione di beni immobili è irrilevante ai fini della risoluzione del conflitto con l’acquirente a titolo derivativo, sul quale prevale sempre e comunque l’acquirente per usucapione; per l’applicabilità del principio anche in relazione all’acquisto a titolo derivativo in forza di aggiudicazione in sede di esecuzione forzata, v. Cass. 443/85, Cass. 5308/80 e Cass. 4331/77).
Sarebbe dunque auspicabile, alla luce delle suesposte riflessioni, un intervento chiarificatore della giurisprudenza di legittimità sul complessivo tema dei limiti e delle modalità dell’accertamento dell’usucapione sui beni immobili acquisiti all’attivo fallimentare, la cui “attrazione” alla sede “endoconcorsuale” appare peraltro, in prospettiva, confermata dall’art. 151, co. 2, CCII (a norma del quale, tra l’altro, “ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo III del presente titolo, salvo diverse disposizioni della legge”) e persino rafforzata dalle disposizioni di cui all’art. 204, co. 5, CCII (col quale, in attuazione della delega contenuta nell’art. 7, co. 8, lett. d, l. 155/2017, si stabilisce che “il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all'esito dei giudizi di cui all'articolo 206, limitatamente ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui, producono effetti soltanto ai fini del concorso”) e all’art. 210, co. 5, CCII (in base al quale “il decreto che accoglie la domanda di rivendica di beni o diritti il cui trasferimento è soggetto a forme di pubblicità legale deve essere reso opponibile ai terzi con le medesime forme”), che sanciscono la rilevanza non più meramente “endoprocedimentale” e l’opponibilità ai terzi (con le necessarie forme pubblicitarie) delle decisioni adottate sulle domande di rivendica nell’ambito della liquidazione giudiziale.