di Simone D’Orsi, Ricercatore presso l’Universitas Mercatorum di Roma
L’oggetto della decisione
La pronuncia del Tribunale di Milano suscita notevole interesse. Oltre che per la notorietà della vicenda, per la novità dei principi affermati.
La lite è conseguenza della decisione assunta dal consiglio d’amministrazione di procedere alla cessione di un significativo ramo d’azienda: l’infrastruttura di rete primaria necessaria alla trasmissione di telecomunicazioni.
La delibera è impugnata dal principale socio, con censure che investono due profili.
Il primo sta nell’incompetenza dell’organo gestorio all’assunzione della decisione. A sostegno dell’affermazione, l’impugnazione desume dalla vendita dell’infrastruttura una modificazione di fatto dell’oggetto sociale, come tale di competenza dell’organo assembleare.
Il secondo motivo di impugnazione è riconducibile al procedimento di approvazione. Cioè, alla mancata applicazione della disciplina delle operazioni con parti correlate, tale nello specifico da imporre un parere sulla congruità del prezzo da parte del c.d. comitato parti correlate e poi il verosimile coinvolgimento dell’assemblea.
Rigoroso corollario tanto dell’incompetenza dell’organo amministrativo quanto della violazione del regime in materia di parti correlate sarebbe l’inopponibilità e comunque l’inefficacia verso il socio degli atti esecutivi della delibera, non sorretti da una valida decisione anteriore ed estranei all’oggetto sociale; perciò, compiuti contro i limiti all’esercizio del potere rappresentativo. Di qui, la conseguente domanda di accertamento proprio dell’inopponibilità e dell’inefficacia dell’operazione di cessione.
La replica della società convenuta è affidata a diversi argomenti.
In linea pregiudiziale, al difetto della legittimazione del socio all’impugnazione: in primis, per la mancata lesione di un suo diritto da parte della delibera, rilevante secondo la previsione dell’art. 2388, comma 4, c.c.; inoltre, per la legittimazione della sola società rappresentata alla richiesta di accertamento dell’inopponibilità e dell’inefficacia conseguenti alla violazione del potere rappresentativo; infine, per il difetto di interesse ad agire contro una delibera medio tempore già completamente eseguita.
Nel merito, la società convenuta pare contestare sia la necessità della delibera assembleare per la specifica operazione e più in generale per le modifiche di fatto dello statuto sia la ricorrenza in concreto di un’operazione con parti correlate.
Ad arricchire ulteriormente le questioni da risolvere provvede la censura aggiunta dal socio impugnante nel corso del giudizio. L’ulteriore profilo di illegittimità viene fatto dipendere dalla mera astensione dal voto di uno dei consiglieri in conflitto di interessi, senza l’osservanza degli obblighi informativi e argomentativi previsti dall’art. 2391, comma 1 e 2, c.c.
Anche a questo motivo di impugnazione la società replica con questioni pregiudiziali e di merito: la tardività della contestazione, poiché tale da configurare un mutamento della causa petendi; il difetto di legittimazione all’impugnazione, consentita dall’art. 2391, comma 3, c.c. agli altri amministratori oppure al collegio sindacale ma non ai soci; in ogni caso e nel merito, l’insussistenza di una situazione di conflitto.
I principi enunciati dalla sentenza
Il Tribunale di Milano rigetta l’impugnazione, sulla base del difetto di legittimazione e di interesse del socio ad agire.
Contro la censura relativa alla violazione della competenza inderogabile dell’assemblea rileva la mancanza di interesse. A sostegno della conclusione sono richiamate considerazioni di carattere generale. La decisione esclude la costante identificazione dell’interesse ad agire con quello all’eliminazione delle delibere non conformi alla legge oppure allo statuto. O meglio, riconosce in termini generali l’idoneità di un simile interesse a consentire impugnazioni dei soci. Tuttavia, una simile conclusione viene espressamente smentita per le azioni che circoscrivono ad ipotesi specifiche la legittimazione dei soci, inclusa quella di impugnazione delle delibere consiliari, poiché subordinata dall’art. 2388, comma 4, c.c. alla lesione di un diritto soggettivo. A sostegno di simili contestazioni dovrebbe porsi il pregiudizio necessario allo specifico interesse protetto tramite il diritto leso dalla delibera: «l’interesse ad agire si appunta, infatti, sul diritto individuale del socio leso dalla delibera consiliare non conforme nel senso che deve risultare evidente il nesso funzionale tra la pronuncia di annullamento richiesta dal socio e la realizzazione dell’interesse sotteso al diritto leso attraverso la rimozione delle ragioni che lo comprimono». Un simile interesse non sarebbe pregiudicato dalla delibera adottata dal consiglio d’amministrazione. Né risulterebbe la lesione di un diritto del socio rilevante per l’art. 2388, comma 4, c.c. Non quello di voto in assemblea, giudicato insufficiente all’impugnazione, per via del carattere collettivo e non meramente individuale. Neppure quello di recesso, per la mancata allegazione da parte del socio dell’intenzione di esercitare il voto contro la modifica assembleare nell’ipotetica assemblea, in modo da concorrere a una decisione di segno opposta rispetto a quella adottata dal consiglio d’amministrazione o giustificare l’exit del socio.
Contro la contestazione relativa alla violazione della disciplina in materia di parti correlate, il Tribunale esclude invece non l’interesse ma la legittimazione ad agire. A supporto di queste conclusioni sono poste due considerazioni di carattere generale: l’individuazione di un rapporto di specie a genere tra la disciplina delle operazioni con parti correlate e quella delle decisioni assunte in conflitto d’interessi, regolate rispettivamente dagli artt. 2391 bis e 2391 c.c.; l’individuazione in quest’ultima disciplina di un regime dell’invalidità tipico ed eccezionale rispetto a quello delineato dall’art. 2388 c.c. per la generalità delle delibere consiliari, connotato tra le altre cose dalla legittimazione circoscritta agli amministratori non in conflitto e al collegio sindacale. Su queste basi, la sentenza arriva a riconoscere unicamente a tali soggetti e non anche ai soci la legittimazione alla contestazione di decisioni incoerenti al regime delle operazioni con parti correlate.
Infine, quanto alla contestazione aggiunta nella fase di trattazione circa l’inosservanza degli obblighi informativi previsti dall’art. 2391, comma 1 e 2, c.c., la decisione dichiara la tardività e la conseguente inammissibilità della censura. Pur avendo avuto conoscenza del verbale e quindi del concreto svolgimento dell’assemblea solamente nelle more del giudizio, la società avrebbe potuto comunque contestare il mancato assolvimento degli obblighi informativi previsti per l’eventualità del conflitto di interessi dall’art. 2391, comma 1 e 2, c.c.
Brevi considerazioni
I.
La decisione del Tribunale di Milano pare inserirsi nella tendenza verso la sostituzione della sovranità degli amministratori a quella dei soci.
Benché una simile linea di sviluppo risulti ormai conclamata, alcuni degli argomenti a sostegno della decisione sembrano prestare il fianco a qualche considerazione critica.
Per risolvere il problema delle condizioni dell’azione, la pronuncia supera tramite un veloce passaggio le incertezze in merito all’interesse dei soci all’impugnazione di delibere consiliari: «il principio dell’incorporazione dell’interesse ad agire nella legittimazione non vale nell’ambito dell’impugnazione della delibera del consiglio di amministrazione, regolata dall’art. 2388, comma 4, c.c. in modo tale da attribuire la legittimazione generale a proporre la domanda di annullamento della delibera non conforme alla legge e allo statuto solo al collegio sindacale e agli amministratori assenti o dissenzienti e da riconoscerla ai soci limitatamente alle delibere lesive dei loro diritti». Benché si tratti di un passaggio centrale nello svolgimento della motivazione, nessun argomento viene posto a sostegno della conclusione, e quindi della distinzione tra: atti contestabili sulla base del generico interesse alla legittimità delle decisioni assunte; atti contestabili solamente in presenza di un pregiudizio all’interesse protetto tramite la situazione di diritto lesa dalla deliberazione consiliare. Rimane indimostrata l’affermazione secondo cui, pur configurandosi un interesse generale in re ipsa al corretto svolgimento dell’attività sociale, questo non costituirebbe l’interesse dei soci ad agire nelle ipotesi di loro legittimazione meramente eventuale. Le incertezze aumentano se si considera che proprio i requisiti pretesi in simili ipotesi per la legittimazione dei soci configurano un “filtro” di ammissibilità contro le «iniziative di disturbo del socio di minoranza» evocate nella sentenza. Sempre a questo riguardo, rischia poi di risultare artificiosa la distinzione tra la lesione del diritto e il pregiudizio dell’interesse da esso protetto. Anzi, la lesione del primo pare segnaletica proprio del pregiudizio anche al secondo; tanto più in un caso come quello di specie, in cui il diritto e l’interesse evocati dal socio - in primis, quello all’espressione del voto - risultano difficilmente scindibili in concreto.
Allo stesso modo, sempre sul piano dell’interesse suscita perplessità l’affermazione con cui pare adombrarsi un abuso del socio: quella secondo cui l’impugnazione tenderebbe alla realizzazione di un risultato già conseguibile dal socio tramite la richiesta di convocazione dell’assemblea ai sensi degli artt. 2367 c.c. e 125 ter, comma 3, t.u.f. Per considerare proprio la vicenda descritta nella decisione: l’impugnazione finisce per consentire la pronuncia dell’invalidità della delibera e - almeno nella prospettiva del socio - dell’inefficacia degli atti conseguenti, in modo da precludere ulteriori delibere analoghe del consiglio; la convocazione dell’assemblea lascia irrisolto il profilo della competenza, in modo da consentire una decisione dei soci la quale, quand’anche contraria all’operazione, non basterebbe ad impedire il suo compimento da parte degli amministratori persuasi del carattere meramente gestorio.
Infine, un’ultima incertezza investe il ruolo dirimente che viene riconosciuto alla mancata allegazione dell’intenzione di voto contrario in seno all’ipotetica assemblea chiamata all’approvazione dell’operazione (rectius, per la modifica statutaria propedeutica al suo compimento). In prima battuta, una simile intenzione può forse essere desunta proprio dalla contrarietà manifestata dal socio sia in precedenza sia con l’impugnazione. Combinata ad una affermazione poco successiva (quella secondo cui “il diritto di voto è un potere strumentale alla formazione della deliberazione destinato ad esaurire la propria funzione all’interno del procedimento assembleare ed il suo esercizio da parte del socio [...] non gli assicura la realizzazione dell’interesse individuale perseguito”) la premessa pare prospettare il corollario di una sorta di “prova di resistenza”, in modo da consentire la contestazione dell’invalidità della delibera consiliare unicamente al socio capace di “bloccare” l’adozione della medesima decisione (di nuovo, anzi, di quella modificativa dello statuto) in seno all’eventuale riunione assembleare. Benché intenda rispondere a esigenze pratiche non trascurabili, una simile affermazione finisce per imporre una dichiarazione di ipotetico voto contrario non vincolante per il socio che assume l’iniziativa, insieme con una difficile prognosi circa la verosimile decisione che sarebbe assunta dall’assemblea, contestabile con certezza dal solo gruppo di controllo di cui sono verosimilmente espressione gli amministratori in carica.
II.
Questioni diverse e di carattere più generale solleva la seconda questione affrontata nella pronuncia, relativa alla ricostruzione di tre diversi regimi dell’invalidità: quella generale delle delibere consiliari; quella per violazione delle norme sul conflitto di interessi; quella per violazione delle norme in tema di operazioni con parti correlate. l Tribunale di Milano individua un rapporto di “doppia specialità” tra queste discipline: prima, specialità delle regole in tema di invalidità delle decisioni adottate in conflitto di interessi (rectius, in violazione delle regole previste dall’art. 2391 c.c.) rispetto alla disciplina generale dell’art. 2388 c.c.; poi, specialità delle regole in tema di conflitto di interessi e conseguente invalidità rispetto alla disciplina delle operazioni con parti correlate. Dipende da quest’elaborata costruzione la conclusione favorevole all’integrazione delle lacune di quest’ultima disciplina in punto di legittimazione tramite le regole stabilite da quella appena più generale, e quindi dalle norme dettate per il conflitto di interessi e le conseguenti invalidità.
III.
Ultimo tema affrontato nella sentenza è quello relativo all’invalidità per violazione delle norme in tema di conflitto di interessi, lamentata dal socio successivamente all’instaurazione del giudizio. La questione è dichiarata inammissibile dal Tribunale per la tardività della domanda. La medesima soluzione sarebbe stata verosimilmente raggiunta a partire dal profilo della legittimazione; cioè, tramite l’applicazione diretta della disciplina che esclude la legittimazione dei soci all’impugnazione per violazione delle norme sul conflitto di interessi degli amministratori.
Riferimenti normativi
2377 c.c.
2378 c.c.
2388, comma 4, c.c.
2391 c.c.
2391 bis c.c.
2437, comma 1, lett. a), c.c.
100 c.p.c.