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Trib. Ferrara, 28 maggio 2024, Pres Giusberti, Est. Ghedini

CONCORDATO PREVENTIVO - Crediti erariali contestati - Necessaria trattazione nel piano - Ragioni.

Postilla a cura di Giulio Andreani , Dottore commercialista e consulente fiscale in Milano

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In tema di concordato preventivo, i debiti erariali contestati vanno obbligatoriamente trattati nel piano, sebbene l’accantonamento non sia previsto da una norma ad hoc. Ciò in quanto la pendenza stessa di un contenzioso postula che ai creditori sia fornita una informazione il più possibile completa della situazione debitoria non stabilizzata, che di per sé influenza le previsioni di soddisfacimento formulate con la proposta di concordato tanto da postulare l’appostazione di un fondo rischi corrispondente alla quota di credito di presumibile riconoscimento in esito a ciascun singolo giudizio. Il Tribunale, dal canto suo, deve poter vagliare la regolarità della procedura anche con riferimento alla verosimile, credibile e motivata previsione della incidenza delle liti pendenti sulla tenuta del piano.

Massima Ufficiale
Riproduzione riservata

artt. 84 e ss. CCII  

POSTILLA

La sorte e gli effetti delle liti fiscali nel concordato preventivo

di Giulio Andreani, Dottore commercialista e consulente fiscale in Milano

2 Luglio 2024

Commento al decreto 28 maggio 2024 del Tribunale di Ferrara

1. Premessa 
Nelle norme del Codice della crisi che disciplinano il concordato preventivo non si rinvengono disposizioni relative al trattamento dei crediti dell’Amministrazione finanziaria contestati dall’impresa proponente, fatto salvo quanto stabilito, relativamente alla generalità dei crediti, dall’art. 108, comma 1, e dall’art. 112, ultimo comma, ai sensi dei quali: 1) il giudice delegato può ammettere provvisoriamente, in tutto o in parte, i crediti contestati ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze, senza che ciò pregiudichi le pronunce definitive sulla sussistenza dei crediti stessi; 2) le somme spettanti ai creditori contestati, condizionali o irreperibili sono depositate nei modi stabiliti dal tribunale, che fissa altresì le condizioni e le modalità per lo svincolo. 
La dottrina e la giurisprudenza hanno tuttavia elaborato una serie di principi che consentono un’affidabile ricostruzione della disciplina che regola il trattamento di detti crediti. 

2. La sentenza del Tribunale di Ferrara
Un provvedimento che merita di essere segnalato a tale riguardo è quello pronunciato dal Tribunale di Ferrara (Presidente Giusberti, Giudice relatore Ghedini e Giudice a latere Perri) il 28 maggio 2024, con il quale, attraverso un’analisi completa e approfondita della fattispecie, viene fornito un chiaro quadro della disciplina applicabile a fini del trattamento delle pendenze tributarie nel concordato preventivo. I principi affermati dal Tribunale estense sono i seguenti:
1. A fronte di debiti contestati, a prescindere da quale sia la loro natura, il debitore che voglia perseguire la via concordataria non può evitare di trattare la questione nel proprio piano; infatti, “è vero che l’accantonamento, in assenza di norma specifica (norma che esiste con riguardo ai crediti fiscali già a ruolo), non è obbligatorio nel concordato, ma la presenza di crediti contestati e in relazione ai quali pende un contenzioso, va ovviamente fatta oggetto di trattazione nella proposta, prima di tutto al fine di fornire ai creditori una informazione il più possibile completa della situazione debitoria, sia pure non stabilizzata”. Non è obbligatorio prevedere la soddisfazione dei crediti contestati, ma è necessario fornire un quadro informativo completo circa la situazione debitoria complessiva con riguardo alle conseguenze, sulle prospettive di soddisfacimento dei crediti, dell’esito infausto dei giudizi. (Cass. n. 15414/2018; Cass. n. 5689/2017; Cass. n. 13284/2012).
2. La presenza di un passivo instabile falsa le previsioni di soddisfacimento formulate con la proposta di concordato. Pertanto, come ha del pari affermato la Corte di Cassazione, “il debitore dovrà formulare, ed argomentare, la propria ipotesi sui possibili esiti del giudizio e appostare un fondo rischi corrispondente alla quota di credito di presumibile riconoscimento in esito al giudizio: un accantonamento pari alla percentuale di pagamento che la proposta prevede essere applicata a creditori omogenei di pari grado. Concluso il giudizio (assai verosimilmente dopo l’omologa) il credito accertato definitivamente costituirà la base su cui operare la falcidia concordataria quale prevista in proposta per crediti di pari rango: le modalità devono essere indicate in piano, ben potendosi ipotizzare il soddisfacimento del creditore nella misura falcidiata applicata al credito accertato (Cass. 27489/2006).”
3. Il Tribunale deve vagliare la regolarità della procedura e con essa ovviamente il rispetto delle norme, tra le quali una verosimile, credibile e motivata previsione della incidenza delle liti pendenti sulla tenuta del piano. Non è escluso, anzi è doveroso, che il debitore alleghi pareri di legali e di esperti e analizzi compiutamente le caratteristiche del giudizio pendente, motivando il giudizio che si formula sul suo esito. Il quantum dell’accantonamento a fondo rischi può essere quindi anche inferiore al valore del credito contestato, se le argomentazioni che hanno condotto alla prognosi formulata siano state, a giudizio del Tribunale, ragionevoli e prudenti.
4. Nel caso in cui i crediti oggetto di giudizio siano crediti erariali la questione si declina peraltro in maniera più peculiare, sia stante la tipicità del giudizio tributario, sia avuto riguardo alla natura dei crediti e del soggetto che ne è titolare. Se il debitore vuole pagare in maniera falcidiata il Fisco non può far altro che ricorrere all’istituto della transazione fiscale. L’art. 1, comma 81, L. n. 232/2016 ha abolito la disposizione contenuta nel precedente comma 5 dell’art. 182 ter L. fall. (ai sensi della quale l’omologazione del concordato comportava la cessazione delle liti tributarie pendenti) e non ha introdotto ulteriori disposizioni volte a disciplinare, in deroga all’art. 176 L. fall. e all’art. 108 del Codice della crisi, gli effetti processuali di una proposta di concordato preventivo avente ad oggetto anche i crediti tributari in contenzioso. Si rispande, pertanto, l’operatività della regola generale dettata da tali articoli. e il trattamento dei crediti tributari viene ricondotto a quello degli altri creditori concorsuali, rispetto ai quali i contenziosi pendenti proseguono sino alla decisione che statuisce definitivamente nel merito.
5. La proposta di transazione fiscale, infatti, non preclude al debitore di proseguire il contenzioso instaurato innanzi al giudice tributario, potendo egli scegliere di accettare il debito risultante da atti non definitivi, provvedendo a soddisfarlo in moneta concordataria, oppure di proseguire il contenzioso, per soddisfare nella medesima moneta, l’importo che risulterà dovuto all’esito del giudizio, ferma restando la necessità del relativo accantonamento. A queste conclusioni è pervenuta, con la Circolare n. 16/E del 23 luglio 2018, anche l’Agenzia delle Entrate, la quale ha tra l’altro riconosciuto che, a seguito dell’omologazione del concordato, il trattamento previsto dalla domanda di concordato è riconosciuto ai crediti tributari recati da atti impositivi impugnati dal contribuente, indipendentemente dal voto favorevole o contrario dell’Amministrazione finanziaria: ciò poiché i crediti oggetto di contenzioso pendente, benché incerti, sono crediti anteriori all’apertura della procedura e non possono che essere soddisfatti nella misura riconosciuta al relativo creditore in sede di concordato, a pena di una inammissibile violazione della par condicio creditorum.
6. Pertanto, per elaborare la propria proposta di transazione fiscale il debitore può scegliere due strade: 1) prima consolidare il debito fiscale oggetto del contenzioso tributario a mezzo degli istituti propri del processo tributario, ovvero l’accertamento con adesione o la conciliazione giudiziale, definendo il relativo debito in una cifra determinata e non più soggetta all’alea del giudizio; successivamente il monte debiti così consolidato può essere oggetto di proposta ex art. 88 del Codice della crisi, nei modi e nei limiti previsti dalla legge, con pagamento falcidiato; 2) alternativamente, scegliere di coltivare il contenzioso tributario e di proporre comunque il pagamento falcidiato dei crediti fiscali con la transazione fiscale. Si tratta di un piano di alta complessità che presuppone peraltro che vi sia liquidità sufficiente a garantire i necessari accantonamenti, la cui misura, come già rilevato, è strettamente legata alla prognosi di esito del giudizio. 
7. Ai fini della determinazione dell’importo oggetto di accantonamento la valutazione del debitore è identica a quella che deve eseguire l’imprenditore in sede di redazione del bilancio, in base ai criteri sanciti dal principio contabile OIC 31 con riferimento al trattamento delle passività potenziali, che prescrive l’obbligo di stanziare un fondo con riferimento ai rischi il cui concreto avverarsi sia giudicato probabile (e non solo possibile e tanto meno remoto) e a condizione che l’onere da esso discendente sia misurabile. 
8. La fattibilità del piano presuppone che si tenga adeguatamente conto del rischio di soccombenza. Su questa valutazione deve poi impegnarsi l’attestatore valutando ed attestando la bontà delle previsioni del debitore e la congruità della misura dell’accantonamento. 
9. La natura fiscale del credito contestato comporta tuttavia la necessità di tener conto della norma speciale contenuta nell’art. 90 del D.P.R. n. 602/1973, in forza della quale, se il debitore è ammesso al concordato preventivo, l’agente della riscossione compie, sulla base del ruolo, ogni attività necessaria ai fini dell’inserimento del credito nell’elenco dei crediti della procedura e, inoltre, “se sulle somme iscritte a ruolo sorgono contestazioni, il credito è comunque inserito in via provvisoria nell’elenco ai fini previsti agli artt. 176, comma 1, e 181, comma 3, primo periodo del Regio Decreto n. 267/1942” (come sancito in linea generale dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 13 gennaio 2017, n. 758, in presenza di sentenza di annullamento dell’avviso di accertamento pronunciato in giudizio di merito, ancorché non passata in giudicato, l’ente impositore ha peraltro l’obbligo di agire in conformità alla statuizione giudiziale). 
Nel caso oggetto del provvedimento del Tribunale di Ferrara l’impresa che aveva presentato la proposta di concordato (i cui debiti tributari in contenzioso ammontavano a circa 64 milioni) era stata destinataria di cartelle di pagamento recanti iscrizioni a ruolo per circa 45 milioni di euro. Pertanto, in base ai suddetti principi, l’impresa debitrice avrebbe dovuto eseguire un accantonamento di pari ammontare, giusta il disposto del citato art. 90 del D.P.R. n. 602/1973, ma tale accantonamento non era evidentemente possibile, essendo detta somma pari a quasi il doppio della massa attiva che la stessa debitrice aveva indicato in € 23.884.520. Inoltre, con la proposta di transazione fiscale presentata il debitore si era limitato a esporre un debito di € 15.500.542, relativamente al quale aveva offerto all’Erario un soddisfacimento di € 9.700.000, con degradazione in via chirografaria della differenza di € 5.800.542, da soddisfarsi nella percentuale del 26,76%. Nessuna spiegazione era stata peraltro fornita circa il motivo per cui, a fronte di un ammontare di 64 milioni di euro di debiti contestati, nella proposta di transazione fosse stato esposto un debito tributario di soli 15.500.542 euro. 
Per tali motivi (nonché per altre ragioni che non attengono al tema qui trattato) il Tribunale di Ferrara ha rilevato l’inammissibilità della proposta di concordato presentata dall’impresa debitrice e ha conseguentemente revocato il decreto di apertura della procedura ex art. 106 del Codice. 
I principi affermati dal Tribunale estense, essendo fondati su una rigorosa ricostruzione della disciplina che - anche per i motivi di seguito esposti - ben difficilmente potrà essere messa in discussione, costituiscono un sicuro punto di riferimento per chiunque debba occuparsi, a vario titolo, del trattamento dei crediti tributari contestati nel concordato preventivo. 

3. La natura “precaria” dei provvedimenti adottati dal giudice delegato ai fini dell’ammissione al voto e la rilevanza dei crediti contestati
La natura “precaria” dei provvedimenti adottati dal giudice delegato ai fini dell’ammissione al voto discende direttamente dall’enunciato dell’art. 108 del Codice della crisi (di seguito anche solo ”Codice”) ed è stata rimarcata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 30456 del 21 novembre 2019, con la quale è stato testualmente affermato quanto segue: “Nell’ambito della procedura concordataria, a differenza di quanto avviene in altre procedure concorsuali, la verifica dei crediti non è funzionale alla selezione delle posizioni concorrenti ai fini della partecipazione al riparto dell’attivo, ma, ben diversamente, alla mera individuazione dei crediti aventi diritto al voto e da tenere in conto ai fini del calcolo delle maggioranze, come rende palese il disposto della L. Fall., art. 176”. I giudici di legittimità hanno perciò rilevato che le statuizioni adottate dal Tribunale al riguardo possono (anche) essere superate da una diversa decisione dello stesso in sede di omologa, dovendosi escludere che l’ammissione del credito contestato ai fini delle operazioni di voto segni il termine ultimo per ogni ulteriore statuizione in merito; ciò perché “l’assetto normativo dell’istituto caratterizza espressamente tale disposizione come provvisoria e chiama il Tribunale - al pari del giudice dell’impugnazione sulla decisione di quest’ultimo - a rinnovare la verifica ai fini del controllo del regolare sviluppo dell’iter procedurale. L’attività demandata al giudice delegato alla procedura rispetto all’ammissione al voto si risolve quindi in un mero accertamento ricognitivo, in senso favorevole o sfavorevole, privo di incidenza su diritti soggettivi, precario e prodromico all’ulteriore sviluppo della procedura, nel corso della quale la parte eventualmente pregiudicata (sia essa il creditore escluso o il debitore che abbia visto disattese le proprie contestazioni sull'ammissione al voto del creditore) potrà far valere le proprie doglianze in merito alla decisione che ha segnato in maniera rilevante le sorti del concordato (il primo tramite l’opposizione, se il suo voto ha assunto rilievo ai fini dell’omologa, il secondo tramite le impugnazioni esperibili avverso la statuizione assunta a conclusione del giudizio)[1].
Il creditore che voglia far valere le proprie pretese per importi diversi da quelli (in tutto o in parte) riconosciuti dal debitore può dunque far accertare in via ordinaria, nei confronti di quest’ultimo, il proprio credito e il privilegio che lo assiste, indipendentemente dall’ammissione o meno al voto con riguardo al credito oggetto di contestazione. In particolare, ove il potere di determinare l’an ed il quantum del credito sia rimesso al giudice tributario, anche agli effetti del concordato preventivo assume rilevanza unicamente la determinazione devoluta a quella sede (cfr. Cass., 13 giugno 2018, n. 15414).
Posto che i “crediti contestati” non sono soltanto quelli la cui sussistenza, entità o rango siano stati messi in discussione dal creditore nella proposta, in merito alle operazioni di voto o in sede di omologazione, ma anche quelli che sono oggetto di separati giudizi di cognizione, l’esito della procedura di concordato preventivo risulta inevitabilmente incerto in presenza di crediti contestati di importo potenzialmente “decisivo”, ovverosia di ammontare tale da escludere, in caso di definitiva conferma della loro sussistenza, qualsiasi possibilità di soddisfazione per taluni creditori e comportare così l’inammissibilità della proposta concordataria.
Occorre inoltre considerare che il giudizio di accertamento di un credito tributario contestato può richiedere tempi più ampi (tenuto conto anche delle inevitabili fasi di impugnazione) di quelli corrispondenti alla durata della procedura di concordato preventivo. Ne discende che, in molti casi, il concordato è destinato a essere omologato senza che, alla data di omologa, sia intervenuta una sentenza passata in giudicato che statuisca in modo incontrovertibile l’entità del credito oggetto di contestazione: tale situazione non condiziona più di tanto l’esito della procedura se l’ammontare dei crediti contestati è modesto, ma lo rende assai più incerto nel caso opposto. Si pensi a un concordato in cui l’attivo realizzabile ammonti, come nel caso esaminato dal Tribunale di Ferrara, a circa 23 milioni di euro e le pretese del Fisco per cui pende il giudizio tributario siano pari solo a poche centinaia di migliaia di euro, a fronte di debiti complessivi per circa 90 milioni: vista la modestia dell’importo in contenzioso, che l’esito sia o meno favorevole all’impresa debitrice ben poco influisce sulla fattibilità del concordato e nessun ostacolo sussisterà circa la capacità di prevedere un accantonamento nel piano di risanamento. Se il Fisco risulterà soccombente, la somma risparmiata potrà essere ripartita fa gli altri creditori incrementandone le percentuali di soddisfacimento, mentre nel caso opposto l’accantonamento si rivelerà utile per fronteggiare l’onere che discende dal giudizio, provvedendo al pagamento del credito tributario divenuto definitivo. Si pensi, invece, al concordato in cui, seppur ammontando (come nel caso precedente) l’attivo realizzabile a circa 23 milioni di euro, le pretese del Fisco per cui pende il giudizio tributario siano pari, come nel caso esaminato dal Tribunale di Ferrara, a 64 milioni di euro e l’importo dei debiti chirografari ammonti a 24 milioni (sussistendo inoltre spese prededucibili di 2 milioni): in questa diversa circostanza è evidente che, atteso il peso della posta fiscale in gioco, la fattibilità del concordato dipende dall’esito del contenzioso tributario, perché in caso di soccombenza dell’Amministrazione finanziaria i crediti chirografari potrebbero essere soddisfatti quasi in integralmente, mentre nel caso opposto non potrebbero essere soddisfatti in alcuna misura e il piano di concordato risulterebbe inattuabile (effetti intermedi sarebbero ovviamente prodotti da una soccombenza parziale).
Ne discende, da un lato, la necessità che il piano di concordato preveda un accantonamento congruo e, dall’altro lato, quella di eliminare l’alea del giudizio, ogniqualvolta gli effetti che ne derivano siano così rilevanti, al fine di attribuire stabilità alla proposta concordataria, che altrimenti ne sarebbe priva.
Come si è già rilevato, l’art. 112 del Codice della crisi stabilisce che “Le somme spettanti ai creditori contestati, condizionali o irreperibili sono depositate nei modi stabiliti dal tribunale, che fissa altresì le condizioni e le modalità per lo svincolo”, così imponendo al Tribunale una valutazione ulteriore (rispetto a quella concernente l’ammissione al voto), al precipuo scopo di tutelare gli interessi dei creditori titolari dei crediti contestati. Le disposizioni di tale norma sono integrate, per quanto attiene ai crediti tributari, dall’art. 90, comma 2, del D.P.R. n. 602/1973, ai sensi del quale, “Se sulle somme iscritte a ruolo sorgono contestazioni, il credito è comunque inserito in via provvisoria nell’elenco ai fini previsti agli articoli 176, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267” (ora art. 108, comma 1, n.d.a.). 
Così stando le cose, le decisioni da adottare in presenza di un contenzioso tributario pendente al momento della presentazione della proposta concordataria richiedono l’analisi di molteplici profili, quali: 
a) la sussistenza o meno dell’obbligo di inserire il credito contestato nel piano concordatario e i criteri di stima del relativo ammontare; 
b) l’attestazione del piano di concordato in presenza di un contenzioso pendente “decisivo”; 
c) la valutazione di fattibilità del piano di concordato da parte del Tribunale in presenza di un contenzioso pendente “decisivo”; 
d) la funzione di “cauzione” dell’accantonamento imposto dall’art. 112, ultimo comma; 
e) la disciplina dell’accantonamento per i crediti fiscali in contenzioso alla luce dell’articolo 90 del D.P.R. n. 602/1973; 
f) l’eliminazione dell’alea discendente dal giudizio tributario in presenza di contestazioni rilevanti. 

4. Sull’obbligo di inserire il credito contestato nel piano concordatario e sui criteri di stima del relativo ammontare e l’attestazione del professionista indipendente
Nella disciplina della liquidazione giudiziale trovano spazio le disposizioni che indicano l’ammontare, le modalità o le regole applicative dell’accantonamento di somme contestate. Infatti, l’art. 227 del Codice prevede che in sede di riparto parziale venga eseguito obbligatoriamente un accantonamento generico pari ad almeno il 20% delle somme da ripartire, mentre l’art. 232 stabilisce che in sede di riparto finale, se il giudizio relativo al credito contestato non è ancora concluso, la somma accantonata è depositata nei modi stabiliti dal giudice delegato, affinché, ove si renda dovuta, possa essere versata ai creditori cui spetta o fatta oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori. Diversamente è a dirsi per il concordato preventivo, con riguardo al quale le norme sopra citate non si ritengono applicabili in via analogica, come statuito da recente giurisprudenza di merito[2], la quale ha rimarcato che “non esiste un obbligo di disporre un accantonamento ai sensi degli articoli 113 ultimo comma e 117 comma 3 l. fall. (ora art. 232, n.d.a.) nel riparto finale di un concordato [omissis][3].
Sul tema si è altresì espressa (seppur in termini generali) la Corte di Cassazione con la sentenza 26 luglio 2012, n. 13284, con cui l’ipotesi di escludere a priori dalla procedura “i creditori presunti” è stata giudicata “priva di qualunque consistenza, non solo perché pregiudica gli interessi di coloro che non dispongono ancora dell’accertamento definitivo dei loro diritti, ma perché falsa le previsioni del piano di soddisfo dei crediti certi e non consente agli ammessi al voto di esprimere, valutazioni prognostiche corrette, in difetto della conoscenza dell’area completa delle passività, comprese quelle sub iudice, in ordine alle quali, in luogo di essere ignorata, la classe avrebbe dovuto essere predisposta, con l’analisi e la prospettazione delle eventualità di successo delle contestazioni e la indicazione della misura del soddisfo e lasciata così al voto dell’adunanza dei creditori”.
Con la suddetta pronuncia, dunque, i giudici di legittimità non hanno imposto al debitore di prevedere necessariamente la soddisfazione dei crediti contestati, ma di tenerne conto nella domanda, al fine di fornire una corretta e preventiva informazione al ceto creditorio “certo” circa la complessiva esposizione debitoria e con riguardo alla possibile ricaduta dell’esito sfavorevole del contenzioso sul trattamento riservato ai crediti privilegiati e chirografari, nonché per consentirgli di esprimere valutazioni prognostiche corrette e di atteggiarsi in modo pienamente informato circa il proprio voto (si vedano anche Cass. 13 giugno 2018, n. 15414; Cass. 7 marzo 2017, n. 5689; Cass. 26 luglio 2012, n. 13284). I crediti in contenzioso, la cui sussistenza è da reputarsi probabile, devono necessariamente trovare copertura nell’attivo concordatario.
Pertanto, il debitore deve innanzitutto informare il ceto creditorio sulla esistenza di crediti contestati, partendo dall’ammontare complessivo della pretesa creditoria, esprimendo il proprio giudizio circa la (totale o parziale) infondatezza della stessa e, infine, inserendo nel piano concordatario un apposito “fondo rischi” con riferimento alla quota di tale pretesa suscettibile di presumibile accoglimento da parte del giudice competente, con indicazione – in caso di suddivisione in classi – della classe omogenea rispetto al credito contestato oppure creandone una ad hoc (si veda in tal senso la citata sentenza n. 13284/2012). All’atto della definitiva conclusione del giudizio, “la quantificazione dell’importo originariamente dovuto, contenuto nella sentenza che lo conclude, costituisce la base su cui deve operarsi la c.d. falcidia concordataria” (così Cass. 22 dicembre 2006, n. 27489).
L’eventuale decisione di inserire nel piano concordatario un apposito fondo rischi richiede dunque una stima relativa all’an e al quantum debeatur che è in effetti, come ha affermato il Tribunale di Ferrara, analoga a quella che il debitore è ordinariamente tenuto a effettuare in sede di redazione del bilancio d’esercizio[4], ovverosia in base ai criteri sanciti dal principio contabile OIC 31 avente a oggetto il trattamento delle passività potenziali, che - si rammenta - prescrivono l’obbligo di stanziare un fondo con riferimento ai rischi il cui concreto avverarsi sia giudicato probabile (e non solo possibile e tanto meno remoto) e a condizione che l’onere da essi discendente sia misurabile.
In virtù della sua peculiare finalità, la stima deve tenere altresì conto dei:
(i) principi regolanti gli obblighi informativi in tema di concordato;
(ii) principi di attestazione a cui il professionista attestatore si deve uniformare e ai quali il debitore si deve conseguentemente attenere.
Con riferimento al punto sub (i), in dottrina è stato infatti rilevato che la stima e la informativa concernente il fondo rischi deve riflettere le diverse finalità (rispetto al bilancio d’esercizio) della relazione ex articolo 161, comma 2, lett. a), L. fall. (ora di cui all’art. 84, comma 5), la quale ha la funzione di illustrare quali sono le possibilità di soddisfazione a prescindere dall’attuazione del piano. Pertanto, la stessa deve illustrare tutti gli elementi che possono incidere su tale soddisfacimento, con la conseguenza che, per quanto difficilmente determinabili, essa dovrà contenere anche la stima degli effetti economici di passività potenziali seppur remote.
Con riferimento al punto sub (ii), l’attestatore è tenuto alla verifica della quantificazione operata nel ricorso, con particolare riguardo anche alla stima degli interessi e delle sanzioni, nonché all’eventuale previsione circa l’esito dei contenziosi in essere. In particolare, i Principi di attestazione dei piani di risanamento approvati con delibera del CNDCEC del 16 dicembre 2020 e aggiornati nel mese di maggio del 2024 statuiscono quanto segue: a) con la transazione fiscale non si verifica alcun effetto di consolidamento del debito tributario oggetto di contenzioso e si applica quindi la regola generale prevista dall’art. 108 del Codice; b) compito dell’attestatore è quello di verificare che il debitore abbia dato evidenza nella proposta di transazione dei crediti oggetto di contestazione e che ne sia stato previsto il soddisfacimento in considerazione del probabile esito del giudizio, anche sulla base delle pronunce intervenute negli eventuali precedenti gradi di giudizio e dei pareri rilasciati dai consulenti fiscali dell’impresa debitrice. 
Si tratta di un complesso esercizio di valutazione della bontà delle pretese creditorie, finalizzato a verificare la correttezza dell’appostamento del fondo rischi da parte del debitore. 

5. La valutazione di fattibilità del piano di concordato da parte del Tribunale in presenza di un contenzioso pendente “decisivo”
I criteri che guidano il giudizio di fattibilità del piano da parte del Tribunale, ai fini dell’ammissione alla procedura, sono sostanzialmente i medesimi che governano la stima operata dal debitore e dall’attestatore, ancorché applicati nella prospettiva e secondo l’apprezzamento del Tribunale. Come correttamente rilevato in dottrina, in occasione della valutazione della capacità dell’attivo disponibile a soddisfare il passivo concordatario “la ‘fattibilità’ e lo scrutinio dell’incidenza dei contenziosi sulla stessa sono questioni che si pongono, infatti, in una fase anteriore a quella del decreto di omologazione del concordato che deve disporre in merito ai modi di deposito delle somme spettanti ai creditori contestati”; del resto, se si è giunti alla fase di omologazione, è proprio “perché il tribunale avrà scrutinato a monte, favorevolmente, l’esistenza di tutte le condizioni di regolarità della procedura, tra le quali quella dell’incidenza dei contenziosi pendenti sulla ‘fattibilità’ del piano, e ciò sulla base proprio di quel potere di valutazione sommaria incidentale di cui si parla nell’ordinanza; valutazione che ben potrà sovvertire, purché adeguatamente motivata, l’opinione dell’attestatore a riguardo[5].
Il giudizio in ordine agli effetti generati - sul trattamento dei crediti – da un’eventuale conclusione sfavorevole del contenzioso, rispetto alle valutazioni operate dal debitore, attiene alla cosiddetta “fattibilità economica” del concordato preventivo, risolvendosi in una prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini ivi prospettati “rimessa alla valutazione dei creditori quali diretti interessati, una volta assicurata la corretta trasmissione dei dati ed acquisite le indicazioni del commissario giudiziale, nell’esercizio delle funzioni di controllo e di consulenza da lui svolte nella veste di ausiliario del giudice” (così Cass., SS.UU., 23 gennaio 2013, n. 1521).
La fattibilità del concordato, dunque, risulta in astratto compatibile anche con lo stanziamento di un fondo rischi inferiore al petitum oggetto di contenzioso, laddove il Tribunale giudichi prudenti e ragionevoli i criteri adottati nella determinazione del relativo ammontare, in forza dei poteri istruttori attribuitigli dai già citati articoli 108 e 112 del Codice. 

6. La funzione di “cauzione” dell’accantonamento
L’accantonamento di cui all’articolo 112 svolge così una funzione di “cauzione” rapportata all’ammontare oggetto di deposito. Infatti, una volta determinato l’importo da accantonare e da depositare secondo i dettami del Tribunale, lo stesso è oggetto di liberazione qualora si giunga ad una pronuncia definitiva in relazione ai contenziosi pendenti.
Viceversa, qualora, in esito alla pronuncia definitiva, l’ammontare accantonato non si rivelasse sufficiente, ciò potrebbe dar luogo ad ipotesi, successive all’omologa, di risoluzione del concordato. Infatti, appostando una somma inferiore alle pretese creditorie, il debitore si espone al rischio (rischio che tuttavia non dovrebbe poter essere corso), condiviso con i creditori nell’ambito della procedura, che, in caso di soccombenza nel giudizio di contestazione del credito, il concordato risulti inattuabile e sia oggetto di risoluzione.
Per quanto concerne i criteri da adottare nella quantificazione degli accantonamenti da disporre in sede di omologazione, appare utile aggiungere a quanto già esposto ciò che è stato testualmente affermato dalla Cassazione con la più volte citata sentenza n. 15414/2018: “il tribunale, nell’omologare il concordato, ha il potere di disporre e di quantificare gli accantonamenti, ma anche di non prescriverli, ove reputi, all’esito di una valutazione di natura incidentale, che il credito o i crediti contestati non siano esistenti: e che, ove si reputasse, al contrario, la necessità di disporre sempre e comunque l’accantonamento, le conseguenze sarebbero inaccettabili, poiché qualunque pretesa di un qualsivoglia soggetto, anche la più sconclusionata, potrebbe paralizzare l’omologazione di un concordato. La teorica latenza di cause di prelazione o di crediti, tutt’altro che certi, ma anzi condizionati alla emissione di una sentenza di accertamento definitiva, non obbliga quindi - di regola - gli organi della procedura ad accantonare risorse nella previsione di un eventuale riconoscimento del credito disconosciuto[6].
Nella medesima pronuncia si rileva tuttavia che, se “ciò è ordinariamente vero, non tiene però conto della norma speciale sopra richiamata e della giurisdizione tributaria, cui sono devolute le relative controversie (cfr., ex multis, Cass., sez. un., 7 maggio 2010, n. 11082; Cass., sez. un., 5 agosto 2009, n. 17943)”, per le ragioni esposte nel successivo paragrafo. 

7. L’articolo 90 del D.P.R. n. 602/1973
Fermo il quadro normativo dottrinale e giurisprudenziale sopra delineato, infatti, la circostanza che il credito contestato oggetto di contenziosi abbia natura fiscale comporta la necessità di prendere in considerazione la disposizione recata dall’articolo 90 D.P.R. n. 602/1973. Tale norma, al comma 1, prevede che, se il debitore è ammesso al concordato preventivo, il concessionario compie, sulla base del ruolo[7], ogni attività necessaria ai fini dell’inserimento del credito nell’elenco dei crediti della procedura, e, al comma 2, che “se sulle somme iscritte a ruolo sorgono contestazioni, il credito è comunque inserito in via provvisoria nell’elenco ai fini previsti agli articoli 176, primo comma, e 181, terzo comma, primo periodo del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267[8].
Al riguardo, sempre nella citata sentenza n. 15414/2018, la Cassazione ha affermato che, “in presenza di crediti tributari oggetto di contestazione, per effetto della norma speciale di cui all’articolo 90 D.P.R. n. 602 del 1973 il suindicato accantonamento è obbligatorio essendo rimesso al Tribunale esclusivamente il potere di determinarne le relative modalità”.
Tale interpretazione parte dal presupposto che l’articolo 90 sia norma speciale rispetto alle norme che regolano la crisi d’impresa e che la libera facoltà del Tribunale di quantificare l’accantonamento o di escluderlo venga meno a fronte di crediti contestati di natura fiscale. Dalla prescrizione di inserire nell’elenco dei creditori ai fini del voto (ex articolo 108 del Codice) i crediti fiscali contestati “iscritti a ruolo”, la Corte di Cassazione fa quindi discendere l’obbligatorio accantonamento dello stesso importo iscritto. 
Nel caso in cui l’iscrizione a ruolo operata in pendenza di giudizio venga successivamente “travolta”, a seguito dell’annullamento dell’atto impositivo disposto dal giudice tributario di primo e/o di secondo grado, seppur non in via definitiva, ovvero dalla Corte di Cassazione, il ruolo viene “rimosso”, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria non ha più un titolo (valido) per pretendere il pagamento delle suddette somme e viene quindi meno il presupposto dell’accantonamento speciale discendente dal citato art. 90. 
Dalla lettura combinata di tale norma e delle disposizioni relative alla riscossione tributaria frazionata in pendenza di giudizio, risulta pertanto che le somme pretese in forza di atti di impositivi impugnati dal contribuente: 
a) se sono iscritte a ruolo, devono essere accantonate per il medesimo importo iscritto a ruolo; 
b) se non sono iscritte a ruolo, perché ad esse non è applicabile la disciplina sulla riscossione provvisoria, o nel caso in cui gli atti di accertamento dai quali tali somme discendono siano stati annullati, anche se in via non definitiva, dal Giudice tributario, non trova applicazione il citato art. 90 e dunque devono essere applicati i principi previsti in via generale in relazione ai crediti contestati (di natura non tributaria). 
Il citato art. 90, come ha precisato l’Agenzia delle Entrate con la direttiva n. 66/2019, è da intendersi applicabile anche agli avvisi di accertamento c.d. esecutivi (o atti “impoesattivi”), per effetto della previsione recata dall’art. 29, comma 1, lett. g) del D.L. 31 maggio 2010, n. 78. 

8. L’eliminazione dell’alea discendente dal giudizio tributario, in particolare in presenza di contestazioni quantitativamente rilevanti
Anteriormente alle modifiche recate dalla Legge n. 232/2016, l’art. 182 ter L. fall. (che all’epoca disciplinava la transazione fiscale) indicava al comma 5, tra gli effetti discendenti dal perfezionamento della transazione presentata nell’ambito del concordato preventivo, la cessazione della materia del contendere nelle liti riguardanti i tributi oggetto della stessa, qualsiasi fosse il grado di giudizio in cui si trovavano, derogando alla previsione contenuta nell’art. 176 L. fall. (oggi trasfusa nell’art. 108 del Codice) più volte richiamata nelle pagine precedenti. L’eliminazione del riferimento alla cessazione delle liti tributare pendenti introdotto con la suddetta legge ha sollevato delicate questioni interpretative, in particolare con riguardo all’eventuale sussistenza di un obbligo (implicito) di definire con l’Agenzia delle Entrate i contenziosi in essere attraverso il ricorso (preliminare o contestuale) ad altri istituti, alla luce della previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 182 ter L. fall. e, ora, nel comma 3 dell’art. 88 del CCII, concernente l’oggetto della certificazione del debito fiscale, che riguardava (e riguarda) anche “l’entità del debito derivante da atti di accertamento, ancorché non definitivi”. Tuttavia, la tesi secondo cui l’inserimento di tali importi nella certificazione del debito fiscale avrebbe costretto il debitore necessariamente a definire i contenziosi in essere mediante la proposta transattiva appariva in contrasto con la menzionata abrogazione del comma 5 del citato art. 182-ter disposta con la citata Legge n. 223/2016, poiché tale certificazione rispondeva più semplicemente all’esigenza di “fotografare” la posizione del debitore nei confronti del Fisco, per così dire “certa” e “potenziale”, al fine di una compiuta valutazione della proposta transattiva, anche da parte degli altri creditori e del Tribunale. 
Questa conclusione ha trovato conferma nell’ambito della circolare n. 16/E/2018, con cui, come ha rilevato il Tribunale di Ferrara, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che: 
1) per effetto della modifica introdotta dalla Legge di bilancio 2017 si rende applicabile l’art. 176 L. fall. (ovverosia l’art. 108 del Codice), con la conseguenza che i contenziosi vertenti sulla pretesa tributaria possono proseguire fino alla definitiva conclusione del giudizio; 
2) la proposta di concordato, approvata dai creditori secondo le maggioranze previste, e omologata dal Tribunale, spiega i propri effetti anche sul credito giudizialmente accertato, il quale si rende dovuto per l’importo che deriva dall’applicazione della percentuale di pagamento offerta all’Erario all’ammontare risultante all’esito del giudizio; 
3) il trattamento previsto dalla domanda di concordato è riconosciuto ai crediti tributari in contestazione, indipendentemente dal voto favorevole o contrario dell’Amministrazione finanziaria; 
4) l’inclusione nella proposta di concordato preventivo anche dei crediti tributari in contenzioso risponde allo scopo di consentire l’ammissione dell’Amministrazione finanziaria al voto anche per l’ammontare dei crediti incerti e per rendere noto ai creditori l’intero ammontare dei debiti (certi e incerti) gravanti sulla massa attiva (tali crediti, se e nella misura in cui risulteranno confermati all’esito del giudizio, vanno comunque soddisfatti - come dianzi già riferito - in moneta concordataria, essendo sorti anteriormente all’apertura della procedura). 
Infine, la riformulazione dell’art. 182 ter L. fall. recata dalla Legge n. 223/2016 aveva fatto sorgere un ulteriore dubbio, ovverosia se in presenza di contenziosi tributari pendenti o potenziali il debitore, per ottenere il voto favorevole del Fisco, avesse avuto l’onere di prestare integrale acquiescenza alle pretese della stessa. Poiché, come la stessa Agenzia delle Entrate ha riconosciuto, la disciplina della transazione fiscale inerisce al trattamento dei debiti tributari in senso proprio (e non necessariamente anche alle posizioni qualificabili come mere pretese dell’Amministrazione finanziaria), tale onere non sussiste, spettando unicamente al debitore la scelta se proseguire o meno le liti tributarie in corso (pendenti o potenziali) alla luce del loro possibile esito giudiziale, senza che essa influisca sull’espressione del voto da parte del Fisco[9]
Un volta preso atto del fatto che i giudizi tributari possono proseguire nel corso del concordato, originando un onere pari all’importo che risulterà dovuto all’esito degli stessi ragguagliato alla percentuale di soddisfacimento offerta per i crediti della medesima natura all’Amministrazione finanziaria, il tema che si pone sul piano operativo è quello del rapporto tra l’ammontare di tale onere e l’importo dell’accantonamento che, in base alle regole richiamate nei precedenti paragrafi, deve essere eseguito nel piano concordatario. Riprendendo (seppur con qualche inevitabile semplificazione espositiva) il caso esaminato dal Tribunale di Ferrara, si consideri un concordato in cui l’attivo realizzabile ammonti a circa 23 milioni di euro, le pretese del Fisco per cui pende il giudizio tributario siano pari a 64 milioni di euro (di cui 44 milioni iscritti a ruolo), l’importo dei debiti chirografari ammonti a 24 milioni, debbano essere inoltre sostenute spese prededucibili per circa 2 milioni) e l’accantonamento da eseguire (in base alle suddette regole) in relazione ai giudizi tributari pendenti sia quindi pari a 44 milioni o comunque ecceda l’importo di 21 milioni (23 di attivo al netto delle spese prededucibili): data questa situazione di fatto, è evidente che la prosecuzione del contenzioso tributario, ancorché giuridicamente percorribile sulla scorta delle disposizioni e dei principi poc’anzi richiamati, è in concreto impedita dall’impossibilità di eseguire in misura congrua il predetto accantonamento, poiché, risultando tale accantonamento superiore all’attivo disponibile, mancano le risorse a tal fine necessarie. Né il piano concordatario può essere fondato sull’assunzione di un esito certamente e integralmente (o prevalentemente) favorevole dei giudizi pendenti, escludendo (o riducendo oltre ragionevolezza) in tal modo la necessità dell’accantonamento: sia perché anche in tal caso non verrebbe comunque superato il disposto dell’art. 90 del D.P.P. n. 602/1973, che impone l’accantonamento per un importo pari a quello delle somme iscritte a ruolo, sia perché un piano siffatto sarebbe privo della stabilità di cui necessita per poter essere diligentemente attestato e ritenuto fattibile, essendo irrealistico assumere con certezza l’esito favorevole di un giudizio. 
In simili circostanze si rende dunque necessario definire le liti fiscali, eliminando i descritti effetti della pendenza dei giudizi, e questo risultato può essere conseguito attraverso due distinti percorsi, giacché, come ha affermato la stessa Agenzia delle Entrate, l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale, cioè gli istituti deflattivi del contenzioso ordinariamente utilizzabili dal contribuente, da un lato, e la transazione fiscale, dall’altro lato, possono convivere e coordinarsi nell’ambito del concordato preventivo, sebbene si tratti di istituti che hanno diversa natura e assolvano a diverse funzioni. I due percorsi sono i seguenti: 
a) la definizione del credito contestato dal Fisco ha luogo mediante l’accertamento con adesione (ove i giudizi non siano stati ancora radicati) o (qualora siano già pendenti) mediante la conciliazione giudiziale nel corso della procedura. In questo caso si applicano le norme che disciplinano tali istituti, la rideterminazione dell’importo dovuto ha natura novativa e il relativo pagamento può essere eseguito dall’impresa debitrice, con le dovute autorizzazioni, nei termini previsti dalle leggi che disciplinano detti istituti (peraltro con la possibilità di concordarne una deroga con l’Agenzia delle Entrate); 
b) la definizione del credito contestato dal Fisco ha luogo direttamente per effetto della transazione fiscale proposta dall’impresa debitrice all’Agenzia delle Entrate (senza ricorso ai menzionati istituti deflattivi del contenzioso), il che può avvenire secondo almeno due diversi criteri: (i) riconoscendo la debenza di un importo pari a quello della pretesa tributaria, seppur da soddisfare in moneta concordataria, ove occorra anche prevedendo una dilazione di pagamento più ampia di quella prevista dalle ordinarie disposizioni che regolamentano gli istituti deflattivi del contenzioso. In caso di diniego del Fisco, una proposta di transazione fiscale siffatta può essere oggetto di omologazione forzosa, ove ne sussistano i relativi presupposti, perché, sebbene venga previsto il pagamento dell’importo oggetto della pretesa solo in percentuale, essa comporta il riconoscimento del credito, che da contestato diviene certo in virtù della proposta e dell’omologazione del concordato, e pertanto non si differenzia più da quello certo ab origine; (ii) prevedendo la debenza di un importo inferiore a quello della pretesa tributaria, da soddisfare anch’esso in moneta concordataria, cona possibilità di prevederne una dilazione di pagamento più ampia di quella prevista dalle ordinarie disposizioni che regolamentano gli istituti deflattivi del contenzioso. In caso di diniego del Fisco, tuttavia, una proposta di transazione fiscale siffatta non potrebbe essere oggetto di omologazione forzosa, perché comporta una riduzione della pretesa originaria sulla quale, in assenza dell’adesione dell’Amministrazione finanziaria, il Giudice fallimentare non può pronunciarsi per difetto di giurisdizione: questo secondo percorso richiede pertanto tale adesione. In entrambi i casi l’omologazione del concordato cui è connessa la transazione fiscale non produce effetto novativo e genera l’estinzione dei giudizi pendenti. 
Qualora invece - lo si precisa solo per completezza - la definizione del credito contestato dal Fisco sia stata perfezionata prima dell’avvio delle trattative concernenti la presentazione della proposta di transazione fiscale, mediante un istituto deflattivo del contenzioso, e l’impresa debitrice non abbia provveduto all’integrale pagamento delle somme da esso discendenti, è da ritenersi che tale situazione vada ricondotta a quella tipica costituita dal mancato pagamento, da parte del contribuente, di un debito definito e quindi certo, ancorché derivante - in questa ipotesi - ab origine da un accertamento e non dall’omesso versamento di somme pacificamente dovute. Conseguentemente tale debito può essere oggetto di falcidia e rinegoziazione, circa i tempi di pagamento, al pari degli altri crediti fiscali rimasti insoluti, ferma restando, da un lato, l’insorgenza delle sanzioni che si rendono dovute a causa del mancato adempimento delle obbligazioni assunte dal contribuente mediante l’accertamento con adesione, la mediazione o la conciliazione giudiziale e, dall’altro lato, l’opportuna valutazione dell’Amministrazione finanziaria circa la convenienza della proposta di transazione fiscale, in considerazione della riduzione della originaria pretesa prodotta una prima volta dall’istituto deflattivo e quella generata, una seconda volta, dalla falcidia del debito definito prevista da tale proposta. 
Un’ultima considerazione. Non v’è chi non veda come, ove l’iscrizione a ruolo non corrisponda all’andamento del contenzioso ma derivi da un ruolo straordinario che prescinde da tale andamento, il disposto del più volte citato art. 90 del D.P.R. n. 602/1973 possa generare la necessità di eseguire accantonamenti sproporzionati rispetto a quelli che possono essere ritenuti congrui in base al principio contabile OIC 31 e proprio per questo motivo in sede di elaborazione della Legge Delega avente a oggetto la revisione del sistema tributario ne era stata prospettata la modifica; tuttavia tale ipotesi è stata abbandonata, tant’è che la Legge n. 111/2023, contenente la predetta delega, non ha previsto al riguardo alcun principio direttivo. 



Riferimenti normativi
[1] In senso del tutto analogo si veda inter alia Cass. Civ., sez. I, 5 marzo 2020 n. 6197; Cass. 8 gennaio 2019, n. 208; Cass. 21 dicembre 2018, n. 33345; Cass. 24 maggio 2018, n. 12965; Cass. 25 settembre 2014 n. 20298; Cass. 24 settembre 2012, n. 16187; Cass. 14 febbraio 2002 n. 2104; Cass 22 settembre 2000, n. 12545.
[2] Corte d’Appello Bologna 27 settembre 2017 e Tribunale Modena 20 settembre 2017.
[3] A favore dell’applicazione analogica di dette norme si esprime, invece, G. D’Attorre, Gli accantonamenti nei piani di riparto concordatari, in “Il Fallimento”, n. 11/2018, p. 1323 e ss.
[4] Cfr. L. Boggio, Opposizione all’omologazione dei creditori silenti e trattamento dei crediti contestato nel piano e nella relazione ex art. 161 l. fall., in “Il Fallimento”, n. 5/2013, p. 578.
[5] Così testualmente G. La Croce, Crediti contenziosi, accantonamenti e fattibilità del piano di concordato, in “Il Fallimento”, n. 1/2019, p. 58.
[6] Viceversa, secondo G. La Croce, cit., pp. 60-62, in base all’attuale formulazione del comma 6 dell’art. 180 (che, a differenza del previgente comma 3 dell’art. 181, non contiene più il riferimento alla determinazione delle somme da vincolare) il tribunale non avrebbe alcun potere discrezionale con riguardo alla quantificazione dell’accantonamento, che quindi, a prescindere dalla fondatezza o meno della pretesa sottostante, dovrebbe essere obbligatoriamente stanziato in misura ad essa corrispondente.
[7] Il ruolo è, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. n. 602/1973, l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’ufficio ai fini della riscossione. L’iscrizione a ruolo, pertanto, costituisce il titolo in ragione del quale l’Amministrazione Finanziaria può pretendere dal contribuente le somme di cui è debitrice ed eseguire azioni finalizzate alla riscossione delle stesse, compresi gli atti esecutivi. A partire dagli atti notificati a partire dal 1° ottobre 2011, tuttavia, il titolo esecutivo ai fini della riscossione è costituito dall’avviso di accertamento, il quale, acquisisce i contenuti tipici del precetto una volta decorsi i termini, nello stesso indicati, entro i quali il pagamento, intimato con lo stesso avviso, deve essere adempiuto. L’iscrizione a ruolo può essere operata a titolo provvisorio o a titolo definitivo: quando le somme iscritte a ruolo discendono da atti di accertamento notificati dall’ufficio ma non ancora definitivi, il ruolo è a titolo provvisorio, ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 602/1973; ai sensi dell’art. 14 del citato D.P.R. n. 602/1973, invece, l’iscrizione a ruolo è a titolo definitivo, quando ha ad oggetto somme liquidate in base ad accertamenti definitivi (perché non impugnati o perché confermati da una sentenza passata in giudicato) o discendenti da omessi versamenti di imposte liquidate in base alla dichiarazione presentata dal contribuente. Nell’ipotesi in cui l’ufficio ritenga vi sia un fondato pericolo per la riscossione (tale rischio viene ravvisato in caso di fallimento e può essere ravvisato in pendenza di concordato), il successivo art. 15-bis consente l’iscrizione delle somme a ruolo straordinario in misura pari all’intera pretesa (imposte, interessi e sanzioni). Nelle more della definizione del giudizio tributario trova altresì applicazione l’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992 (“Pagamento del tributo in pendenza di giudizio”), a norma del quale, nel caso in cui sia prevista la riscossione frazionata dell’imposta, l’ufficio ha la possibilità di iscrivere a ruolo le maggiori imposte dovute in base all’atto di accertamento in misura diversa in considerazione dell’andamento del giudizio.
[8] Il previgente comma 3 dell’art. 181 attribuiva espressamente al Tribunale il potere di determinare l’accantonamento, mentre l’attuale comma 6 dell’art. 180, in cui come detto è stata trasfusa la relativa disposizione, non esclude i poteri istruttori del Tribunale in merito all’accantonamento.
[9]L’Agenzia delle Entrate ha però al riguardo evidenziato che potrebbe essere chiesto al debitore di accantonare prudenzialmente un importo pari alla percentuale di soddisfacimento del credito contestato, offerta nella proposta di concordato. In tal senso si veda anche F. Paparella, cit., pagg. 335 e 336.

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