Sorte della partecipazione dei vecchi soci in caso di ristrutturazione di società insolventi*
Luciano Panzani, già Presidente della Corte d’Appello di Roma
31 Gennaio 2014
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Sommario:
A questa disciplina, che non presuppone ancora l’apertura del concorso, che segue alla dichiarazione di fallimento o all’ammissione della società alla procedura di concordato preventivo, corrisponde il rilievo della dottrina che la società insolvente è ormai, dal punto di vista economico, nella disponibilità dei creditori perché all’insolvenza corrisponde l’esaurimento del capitale di rischio, e dunque la prosecuzione dell’attività può avvenire soltanto con il consenso della maggioranza dei creditori [2]. Da questo punto di vista la procedura concorsuale, è stato osservato, produce coattivamente il trasferimento del controllo dell’impresa ai soggetti, i creditori, che loro malgrado hanno fornito il nuovo capitale di rischio, e crea un’organizzazione attraverso la quale i creditori-controllanti possono esercitare i poteri che spettano agli investitori [3]. L’obiettivo, nel momento in cui si verifica l’insolvenza ed anzi già quando è in atto una situazione di crisi, è costituito dalla massimizzazione del valore dell’impresa in funzione del soddisfacimento dei creditori. Tale obiettivo deve essere perseguito dagli amministratori nel momento in cui si verifichi la perdita o la riduzione oltre al terzo del capitale sociale, dai liquidatori e dagli organi della procedura concorsuale, anche quando sia disposto l’esercizio provvisorio o si abbia prosecuzione dell’impresa in caso di concordato preventivo. L’art. 2486 c.c. nello stabilire che dal momento in cui si verifica una causa di scioglimento gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, non vieta il compimento di nuove operazioni, ma impone una logica di gestione prudenziale diretta proprio a garantire il miglior soddisfacimento dei creditori sociali. Anche l’art. 2487 c.c. nel prevedere che l’assemblea, convocata dagli amministratori o in loro difetto dal tribunale, deve stabilire i criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione e deve deliberare in ordine agli «atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa, ivi compreso il suo esercizio provvisorio, anche di singoli rami, in funzione del migliore realizzo», non detta criteri sostanzialmente diversi. Tanto gli amministratori che i sindaci si trovano di fronte, nel caso di crisi dell’impresa, ad una situazione delicata perché qualunque tentativo di risanamento implica la necessità di continuare l’attività per mantenere intatto il valore dell’azienda e la capacità produttiva, ma la prosecuzione dell’attività può essere fonte di danno per i creditori e può contrastare con la disciplina di diritto societario, che prevede precisi obblighi, tanto a carico degli amministratori che dei sindaci in caso di riduzione oltre il terzo o di perdita del capitale sociale. Ai sensi dell’art. 2485 c.c. gli amministratori debbono accertare senza indugio il verificarsi di una causa di scioglimento e provvedere perché venga convocata l’assemblea per la nomina dei liquidatori. Sono personalmente responsabili in caso di ritardo od omissione del danno subito dalla società, dai soci, dai creditori sociali e dai terzi. Ai sensi dell’art. 2486 c.c. al verificarsi di una causa di scioglimento gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. È ben vero che con tale formula il legislatore ha ritenuto di innovare rispetto alla disciplina dettata dal vecchio art. 2479 c.c., che rendeva gli amministratori responsabili in ogni caso di compimento di nuove operazioni, recependo l’interpretazione evolutiva della norma che era stata data dalla giurisprudenza. L’elaborazione giurisprudenziale aveva chiarito, vigente l’art. 2449, che per nuove operazioni dovevano intendersi non già qualsiasi nuovo atto, ma quelli non finalizzati alla liquidazione della società, non necessari quindi per portare a compimento un’attività intrapresa, preordinati al conseguimento di nuovi utili [4]. In sostanza dovevano devono considerarsi “nuove” tutte le operazioni comportanti l’avvio di azioni speculative, l’assunzione di rischi nuovi ed il conseguimento di utili; al contrario, non rientravano in tale categoria le attività economiche connesse a precedenti operazioni in corso e che ne costituivano il necessario sviluppo; le attività economiche destinate ad assicurare la conservazione del patrimonio sociale; le operazioni dirette a preparare, attuare o rendere più proficua la liquidazione [5]. La nuova disciplina, come risulta anche dalla Relazione governativa, non fa più riferimento alle nuove operazioni, ma prevede una responsabilità degli amministratori “per atti od omissioni compiuti in violazione” del mutato regime di gestione sociale conseguente al verificarsi di una causa di scioglimento della società e ciò tanto nell’ipotesi in cui gli amministratori pongano in essere atti non finalizzati alla “conservazione dell’impresa e del valore del patrimonio sociale” quanto nel caso che si astengano da un’attività di gestione che tali finalità renderebbero necessaria.
Rispetto alle conclusioni cui era pervenuta la giurisprudenza, la nuova formula utilizzata dal legislatore ha portata sostanzialmente identica. Gli amministratori possono compiere nuove operazioni purché dirette a conservare l’integrità ed il valore del patrimonio sociale e dunque possono completare il ciclo produttivo, trasformando in prodotto finito i semilavorati od anche possono stipulare nuovi contratti di vendita e compiere atti diretti a mantenere in efficienza gli impianti, per garantire la cessione dell’azienda alle migliori condizioni di mercato, ovvero il mantenimento dell’avviamento e del marchio. Entro certi limiti, pertanto, almeno nella fase iniziale delle trattative con i creditori, la conservazione del valore dell’azienda può essere compatibile sia con la conservazione in vista della ristrutturazione che con la liquidazione.
Sono dunque evidenti le difficoltà che sussistono nell’individuare i limiti della condotta doverosa. Mentre una volta avviata una procedura conservativa dell’impresa, sia essa il piano attestato, l’accordo di ristrutturazione ovvero il concordato preventivo, si potrà affermare che la finalizzazione della condotta gestionale alla conservazione dell’impresa e del valore del patrimonio sociale potrà essere verificata alla luce del piano proposto ed approvato dai creditori, prima di tale momento è indubbio che le difficoltà che s’incontrano per stabilire se un determinato investimento sia atto doveroso, conservativo del valore dell’azienda, ovvero un atto illegittimo, perché esula dalle dette finalità conservative, sono certamente maggiori. Ancora va sottolineato che soltanto il concordato preventivo in continuità ex art. 186 bis, consente di derogare alle regole stringenti di tutela dell’integrità del capitale sociale e permette quindi di proseguire l’attività senza altri vincoli che non siano quelli imposti dal piano. Piani attestati e accordi di ristrutturazione, pur prevedendo un piano, e consentendo una deroga, in caso di fallimento, alla disciplina della revocatoria ed un’attenuazione della responsabilità penale grazie alla previsione dell’art. 217 bis L. fall., impongono comunque di adottare soluzioni che pongano rimedio alla perdita del capitale sociale od alla sua riduzione oltre il terzo, in difetto di che la condotta degli amministratori incontra comunque i limiti previsti dall’art. 2486 c.c..
Va sottolineato a questo proposito che la ragione della differenza di disciplina tra concordato preventivo in continuità e accordi di ristrutturazione o piani attestati sta nel fatto che soltanto nel primo caso alle norme stringenti previste per il caso di perdita del capitale oltre il terzo si sostituiscono i vincoli derivanti dall’assoggettamento dell’imprenditore ai controlli previsti dalla disciplina concordataria, mentre sia nel caso degli accordi che dei piani attestati l’imprenditore conserva intatto il potere di gestione. E va anche osservato che in realtà il debitore concordatario sino all’omologazione del concordato è libero di porre in essere soltanto gli atti di ordinaria amministrazione, sì che la ristrutturazione dell’impresa prevista dal piano dovrà essere attuata all’esito dell’omologazione ovvero in esecuzione di specifici provvedimenti autorizzativi di volta in volta emanati dal tribunale [6]. Si possono ancora formulare due rilievi. Il primo riguarda la tendenza, emersa a livello internazionale, nelle discussioni dirette ad introdurre nella disciplina dell’insolvenza transfrontaliera una normativa relativa al gruppo insolvente, a recepire la tesi, di derivazione americana, secondo la quale in caso di crisi o di insolvenza gli amministratori hanno il dovere di massimizzare il valore dell’impresa nell’interesse dei creditori. In questo senso è andato il dibattito in seno al Working Group 5 dell’Uncitral nella sessione che si è tenuta a Vienna nel novembre 2011, nel corso della quale si è dibattuta l’opportunità di prevedere delle regole di comportamento degli amministratori disgiunte dalla disciplina di diritto societario, che rimane affare dei singoli Stati sovrani, per distaccarne regole di condotta da applicarsi nell’ipotesi d’insolvenza e da inserire nella legislazione armonizzata che l’Uncitral si propone di far adottare da tutti gli Stati [7]. La giurisprudenza americana e comunque di formazione anglosassone ha affermato in taluni casi che quando una società entra nell’area dell’insolvenza, i doveri degli amministratori si estendono e comprendono anche i creditori, oltre ai soci e la società stessa. In altri casi la giurisprudenza ha considerato gli amministratori come fiduciari che amministrano la società nell’interesse dei creditori. Da entrambi i punti di vista gli amministratori debbono massimizzare il valore delle attività per il pagamento dei creditori. Per quanto la nozione dettata dall’art. 2486 c.c. sia diversa dal concetto di massimizzazione del valore dell’azienda nell’interesse dei creditori, le due nozioni non sono poi troppo distanti, perché la conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale implica una gestione prudenziale e conservativa che tuttavia non impedisce ed anzi obbliga in taluni casi al compimento di nuove operazioni, mentre il principio della massimizzazione del valore dell’azienda, se applicato secondo buona fede, altro pilastro dei doveri degli amministratori secondo il diritto americano, comporta che andranno in ogni caso evitate operazioni di pura sorte o comunque avventurose [8].
La prosecuzione dell’attività d’impresa dopo l’apertura della procedura concorsuale è circondata da cautele in funzione della tutela degli interessi dei creditori. L’esercizio provvisorio nel fallimento, se autorizzato dal Tribunale con la sentenza dichiarativa di fallimento, è subordinato dall’art. 104, comma 1, L. fall. alla circostanza che esso non arrechi pregiudizio ai creditori, oltre che all’ulteriore condizione che dall’interruzione dell’attività possa derivare danno grave. Il legislatore non pone condizioni stringenti nel caso che l’autorizzazione sia data dal giudice delegato, dopo l’apertura della procedura, ma la sua prosecuzione è comunque subordinata al fatto che il comitato dei creditori ne ravvisi l’opportunità. In difetto il giudice delegato ne deve ordinare la cessazione (art. 104, comma 4). Il tribunale ha comunque il potere di far cessare l’esercizio provvisorio in qualsiasi momento ove ne ravvisi l’opportunità (art. 104, comma 6). Per quanto attiene invece all’affitto d’azienda il legislatore circonda di particolari cautele il contenuto del contratto e la scelta dell’affittuario, ma richiede per la stipulazione la semplice condizione che esso sia ritenuto utile ai fini della più proficua vendita dell’azienda o di parti di essa, sempre però che vi sia il parere favorevole del comitato dei creditori, che è obbligatorio e vincolante (cfr. art. 104 bis L. fall.).
Esercizio provvisorio ed affitto d’azienda debbono poi essere disciplinati dal programma di liquidazione e sono quindi subordinati nella loro prosecuzione all’approvazione del programma da parte del comitato dei creditori.
Anche nell’ambito della disciplina del concordato preventivo, dove è certamente prevista la possibiltà che il piano si fondi sulla prosecuzione dell’attività d’impresa, in vari momenti e con riferimento ad operazioni fondamentali per garantire il successo della ristrutturazione, il legislatore richiede non soltanto che l’atto sia autorizzato dal tribunale o dal giudice delegato, ma pone l’ulteriore vincolo che esso sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Così le operazioni di finanziamento previste dall’art. 182 quinquies, che possono essere autorizzate dal tribunale contestualmente o successivamente alla presentazione della domanda di concordato, anche con riserva, od alla domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione (anche nell’ipotesi di cui all’art. 182 bis, comma 6), sono subordinate all’attestazione di un esperto che esse siano funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori. Del pari il pagamento dei debiti pregressi può essere autorizzato, ai sensi dell’art. 182 quinquies, commi 4 e 5, quando oltre a ricorrere le altre condizioni richieste dal legislatore, vi sia l’attestazione dell’esperto che i pagamenti sono funzionali alla miglior soddisfazione dei creditori. Anche nel caso di concordato con continuità aziendale la relazione del professionista deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori (art. 186 bis, comma 2, lett. b).
È stato correttamente osservato in dottrina [9] che l’attestazione dell’esperto non deve soltanto indicare che dalla prosecuzione dell’attività o dal compimento degli atti oggetto di autorizzazione di cui s’è detto non deriva danno ai creditori e dunque che tali atti sono neutri rispetto agli interessi di questi ultimi, ma al contrario che in tal modo si soddisfano i creditori nel modo migliore e quindi che costoro possono ottenere di più di quanto sarebbe possibile con altra soluzione, verosimilmente con la liquidazione dei beni attraverso il fallimento.
A differenza di altri ordinamenti soci ed amministratori non hanno un reale potere interdittivo nel caso d’insolvenza perché, oltre ai già ricordati limiti stabiliti dall’art. 2486 c.c. a carico degli amministratori ove si verifichi una causa di scioglimento della società, in pratica la perdita del capitale sociale, la dichiarazione di fallimento comporta la perdita del potere di gestione dell’impresa e la possibilità per i creditori ed i terzi di rendersi acquirenti dell’azienda sia in sede di liquidazione concorsuale sia attraverso il concordato fallimentare. Per contro, ove non si faccia luogo alla dichiarazione di fallimento, e quindi quando la società sia soltanto in stato di crisi o comunque nessuno chieda il fallimento, le iniziative di composizione della crisi d’impresa, siano esse dirette alla ristrutturazione o alla liquidazione, rimangono nella disponibilità degli amministratori e dei soci della società in crisi. Il piano attestato, l’accordo di ristrutturazione, il concordato preventivo possono essere promossi soltanto dall’imprenditore. È questo un limite della disciplina legislativa che trova corrispondenza in precisi vincoli costituzionali, diretti alla salvaguardia della proprietà individuale e della libertà d’impresa, che possono venir meno soltanto quando l’intervenuto accertamento dello stato d’insolvenza comporti l’affermazione della supremazia dei diritti dei creditori.
Il primo rilievo in proposito è che i soci, o meglio gli amministratori da essi espressi, possono approfittare dell’asimmetria informativa di cui beneficiano rispetto ai creditori, perché la difficile situazione della società può non essere ancora nota ai terzi, per ritardare l’accesso alla procedura nella speranza di salvare la società senza perdere il controllo. Se pertanto si vuole favorire l’emersione anticipata della crisi, che unanimemente si riconosce essere la condizione indispensabile per il successo del tentativo di ristrutturazione, diventa inevitabile riconoscere qualche vantaggio agli amministratori ed ai soci, perché altrimenti costoro non saranno incentivati a chiedere l’apertura della procedura concorsuale. Soci ed amministratori inoltre debbono poter collaborare con i creditori mettendo a disposizione il patrimonio di conoscenze sulla situazione dell’impresa di cui sono depositari. Anche in questo caso non basta sancire l’obbligo di collaborazione a carico degli amministratori, perché tale obbligo rischia di restare lettera morta. Occorre che alla collaborazione segua un riconoscimento anche eventualmente sotto forma di una limitazione di responsabilità in ordine ai fatti pregressi. Ed in taluni casi l’unico soggetto in grado di subentra re nell’attività della società decotta sono di nuovo i vecchi soci ed amministratori, che conoscono il mercato e la situazione effettiva e che possono dar vita ad una nuova impresa, ad una nuova società, con vantaggio dei creditori che diversamente non ricaverebbero nulla dalla liquidazione.
Del resto il legislatore ha mostrato di prendere atto di questa situazione almeno in alcune situazioni. L’art. 2467 c.c. ha sancito, per le sole società a responsabilità limitata, il principio per cui i finanziamenti effettuati dai soci a favore della società che formalmente si presentano come capitale di credito, ma che nella sostanza economica costituiscono parte del capitale proprio, debbono essere postergati a quelli degli altri creditori [11]. Ove poi il credito del socio sia stato oggetto di rimborso nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, esso deve essere restituito [12]. L’art. 2497 quinquies, anch’esso introdotto dalla riforma societaria, estende l’applicazione dell’art. 2467 ai gruppi di società, con riguardo ai finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti, direttamente o indirettamente, per il tramite di altri soggetti ad essa sottoposti. Il legislatore non ha previsto una norma analoga all’art. 2467 per quanto concerne le s.p.a. Di qui il quesito se tale norma sia espressione di un principio più generale, come sembra suggerire l’estensione di tale disciplina alla società che esercita attività di direzione e coordinamento nel caso di gruppi, o se invece queste regole, in ragione del carattere personalistico della società a responsabilità limitata, accentuato dalla riforma societaria, debbano ritenersi di stretta interpretazione e non possano essere estese alla s.p.a., neppure nel caso in cui essa non sia aperta, non faccia cioè ricorso al mercato del capitale di rischio [13]. La prima interpretazione sembra più ragionevole, ma ciò che preme qui rilevare è che il legislatore, dopo aver correttamente affermato che il socio che gode del beneficio della responsabilità limitata non può, in caso d’insolvenza o di difficoltà della società, ottenere il rimborso del capitale investito prima che siano interamente soddisfatti i creditori, e dopo aver esteso tale principio ai casi in cui il finanziamento effettuato ha in sostanza natura di conferimento, onde evitare che tramite l’artifizio di una diversa qualificazione dell’erogazione del denaro il socio possa ottenere una deroga al principio stesso, ha poi introdotto una sostanziale deroga alla regola così solennemente affermata. L’art. 182 quater L. fall., nel testo introdotto dal D.L. n. 48/2010, ha infatti previsto la prededuzione, nei limiti dell’80% del credito, per i finanziamenti effettuati dai soci in esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione omologato. Nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. n. 134/2012, la prededuzione è riconosciuta ai finanziamenti dei soci non soltanto nell’ipotesi già indicata, ma anche nel caso di finanziamenti erogati in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione, a condizione che i finanziamenti siano previsti dal piano o dall’accordo e purché la prededuzione sia espressamente disposta dal tribunale in sede di ammissione al concordato preventivo ovvero quando l’accordo sia omologato. Di per se stesso il riconoscimento della prededuzione nelle ipotesi ora viste è ragionevole perché in difetto i soci non avrebbero alcun incentivo ad intervenire con finanza nuova per il risanamento dell’impresa. E il finanziamento beneficia della prededuzione perché esso viene a realizzare un risultato utile anche per i creditori, che diversamente avrebbero meno speranze sul buon esito del piano di concordato o dell’accordo e dunque, verosimilmente, non beneficerebbero delle migliori condizioni offerte. Da questo punto di vista è pienamente comprensibile che il legislatore abbia aggiunto, con la L. 7 agosto 2012, n. 134, che la disciplina più favorevole si applica anche quando il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione dell’accordo di ristrutturazione o del concordato preventivo, vale a dire quando si tratti di un terzo che interviene assumendo una partecipazione nella società in vista della sua ristrutturazione [14]. Può tuttavia osservarsi che difficilmente i vecchi soci si risolveranno a finanziare la società, nella certezza di perdere almeno il 20% della somma erogata per il quale non beneficiano della prededuzione e continua a valere la disciplina della postergazione [15], oltre all’esclusione dal diritto di voto per l’intero credito, anche per la parte che non beneficia della prededuzione, ove da tale erogazione non si ripromettano un vantaggio, vantaggio che evidentemente non può consistere soltanto nel risanamento dell’impresa nell’interesse dei terzi creditori, ma deve essere anche un interesse proprio.
In sede di redazione della riforma della disciplina concorsuale nel 2006, il legislatore ha modificato l’art. 124 L. fall. prevedendo che la proposta di concordato fallimentare possa essere presentata anche dal fallito, da società cui egli partecipi o da società sottoposte a comune controllo, ma soltanto dopo il decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento, purché non siano trascorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo [16]. Il termine di un anno si contrappone alla più liberale disciplina prevista per i creditori ed i terzi, che possono proporre il concordato anche prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo, purché sia stata tenuta la contabilità ed i dati risultanti da essa e le altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori da sottoporre all’approvazione del giudice delegato. La ragione di tale diversa previsione sta nel fatto che il legislatore, con una norma che è sostanzialmente rimasta inefficace, intendeva rendere contendibile l’azienda fallita dopo il fallimento, incentivando il debitore a proporre una soluzione della crisi d’impresa prima che si aprisse la procedura. L’idea teneva conto che la maggior parte delle imprese in Italia sono piccole imprese, in cui la famiglia proprietaria esercita sia il controllo sia la direzione. Aveva senso incentivare queste famiglie ad intervenire per non perdere il controllo. La mancanza di un mercato finanziario interessato ad intervenire nella ristrutturazione delle imprese in crisi, anche in ragione della modestia delle dimensioni, e la difficoltà a convincere gli imprenditori a non considerare le soluzioni giudiziarie alla crisi come l’ultima spiaggia, ha però impedito che l’incentivo potesse funzionare in modo efficace. Va poi aggiunto che la presentazione di un concordato non liquidatorio, diretto alla ristrutturazione ed alla conservazione dell’impresa, ad un anno di distanza dalla dichiarazione di fallimento, si presenta alquanto problematica perché a quel momento difficilmente l’impresa avrà concrete prospettive di recupero.
In conclusione in caso di fallimento di società il mantenimento del controllo da parte dei soci di maggioranza rimane improbabile. La sua realizzazione richiederebbe infatti la presentazione di un piano di concordato, nell’ambito di un concordato fallimentare, che per le ragioni ora dette si presenta difficile, se non impossibile. Per altro verso la chiusura del fallimento con il rientro in bonis della società fallita, dopo l’integrale soddisfacimento dei creditori, è quasi un’ipotesi di scuola, che si verifica talvolta per effetto di vicende particolari [17], ma che ha un’incidenza statistica trascurabile.
È dunque evidente che le possibilità di mantenimento del controllo da parte dei vecchi soci si giocano tutte attraverso le procedure di composizione concordata della crisi d’impresa. I piani attestati e gli accordi di ristrutturazione sono certamente il terreno elettivo per questo tipo di soluzioni. I primi non pongono condizioni di sorta. È sufficiente infatti che il piano sia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria e l’equilibrio della situazione finanziaria, a condizione che ne sia certificata la fattibilità. È pacifico che non deve essere assicurato il rispetto della par condicio creditorum e neppure che i creditori debbano essere interamente pagati, a condizione naturalmente che essi aderiscano all’eventuale proposta del debitore di pagamento parziale. Per definizione il piano attestato non comporta mutamenti nella direzione della società e tantomeno lo spossessamento del debitore. In sostanza il mantenimento del controllo da parte dei soci della società debitrice è rimesso al volere dei creditori, chiamati ad accettare il piano di ristrutturazione [18]. Conclusioni analoghe valgono nel caso degli accordi di ristrutturazione. Anche in questo caso, infatti, l’apertura della procedura, anche quando il debitore si avvalga della facoltà di chiedere la sospensione delle azioni esecutive ai sensi dell’art. 182 bis, comma 6, L. fall. non comporta spossessamento del debitore. I soci di controllo mantengono dunque la direzione della società attraverso gli amministratori espressi dall’assemblea. L’accordo con i creditori non comporta rispetto del principio della par condicio, ma soltanto l’obbligo di pagare integralmente i creditori estranei, ancorché non alla scadenza originariamente prevista. Se vi è l’assenso dei creditori, pertanto, i soci di controllo possono addivenire ad un accordo con i creditori che consenta loro di procedere alla ristrutturazione ed al risanamento dell’impresa, mantenendo il controllo della società.
Piani attestati ed accordi di ristrutturazione, per quanto si è detto, non consentono soltanto ai vecchi soci di mantenere il controllo della società in crisi, ma anche di assicurarsi che non soltanto in caso di ristrutturazione, ma anche di liquidazione, una parte del ricavato dalla liquidazione stessa possa andare a loro, ovviamente con il consenso dei creditori, non necessariamente di tutti i creditori, ma di quei creditori che per l’entità dei loro crediti sono in grado di assicurare l’approvazione della proposta di piano attestato o di accordo, purché nel secondo caso gli eventuali creditori dissenzienti od estranei possano venire integralmente soddisfatti.
Il discorso si fa più complesso per quanto riguarda il concordato preventivo, che peraltro in molti casi, prima di tutto quando i creditori sono numerosi o quando è necessario bloccare le azioni esecutive mentre sono pendenti le trattative, rappresenta l’unica prospettiva concreta. Prima della riforma delle procedure concorsuali dottrina e giurisprudenza distinguevano tra concordato con garanzia e concordato con cessione dei beni. Nel primo, si diceva, le attività potevano rimanere in capo alla società concordataria, che rimaneva libera di disporne come riteneva, fatti salvi i vincoli derivanti dalla pendenza della procedura quanto allo spossessamento attenuato ad essa conseguente e alla necessità di autorizzazione degli atti di straordinaria amministrazione. Si affermava invece che nel caso di concordato con cessione dei beni, sarebbe stata illegittima la clausola con cui la società concordataria intendesse pattuire la cessione ai creditori di una parte soltanto dei propri beni. Ciò perché l’art. 160, comma 2, n. 2, L. fall. prevedeva che il debitore dovesse offrire ai creditori «la cessione di tutti i beni esistenti nel suo patrimonio alla data della proposta di concordato, tranne quelli indicati dall’art. 46». La società concordataria non poteva pertanto proporre un concordato con cessione dei beni ai creditori trattenendone una parte il cui ricavato o il cui utilizzo, tramite lo schermo societario, andasse poi a vantaggio dei vecchi soci.
Il discorso sembra essere sostanzialmente mutato dopo la riforma del 2006, perché l’art. 160 nuovo testo prevede ora che il piano di concordato può prevedere «la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito».
Come si ricava dalla disciplina dettata dall’art. 186 bis per il concordato con continuità aziendale, ma come era evidente anche prima che questa norma venisse introdotta dall’art. 33, D.L. n. 83/2012 convertito in L. n. 134/2012, la proposta di concordato può prevedere la prosecuzione dell’impresa attraverso un’attività di ristrutturazione, i cui utili insieme alle eventuali dismissioni ed all’apporto di finanza nuova siano destinati al soddisfacimento dei creditori. In questa logica si colloca anche l’affitto d’azienda, sia esso o meno sussumibile nel paradigma normativo del concordato con continuità [19]. Nessuno dubita pertanto che la proposta di concordato, ove sia prevista la prosecuzione dell’attività, possa prevedere che una parte degli assets non debba essere destinata al soddisfacimento dei creditori e vada invece utilizzata per la prosecuzione dell’attività. Se il risanamento andrà a buon fine, i vecchi soci potranno garantirsi il mantenimento del controllo della società, salvi i diversi accordi che essi abbiano raggiunto sul punto con i creditori o con i terzi.
La giurisprudenza ritiene invece in generale che nel caso di concordato con cessione dei beni, ancorché oggi la lettera dell’art. 160 non preveda più che la cessione debba essere integrale, ugualmente sia inammissibile (altro e diverso discorso ovviamente riguarda la convenienza la cui valutazione è rimessa ai creditori tramite il voto) una proposta che non preveda la cessione integrale di tutti i beni ai creditori. Gli argomenti posti a fondamento di tale tesi poggiano sulla disciplina della cessione dei beni disciplinata dagli artt. 1977 e ss. c.c. e sul disposto dell’art. 2740 c.c. Il dibattito sulle caratteristiche comuni e sulle differenze tra il contratto di cessione dei beni e il concordato con cessio bonorum è risalente [20]. Uno dei rilievi tradizionali, valido sino alla riforma del 2006, è che la cessione dei beni può riguardare anche una parte soltanto dei beni che il debitore incarica i creditori di liquidare ai fini di ripartirne poi tra di loro il ricavato. Come si è visto, invece, nella vecchia disciplina ante 2006 il concordato con cessio bonorum doveva necessariamente riguardare tutti i beni del debitore concordatario. Tuttavia, l’art. 1984 c.c. prevede, in conformità alla tradizione romanistica ed al diritto comune, che il debitore sia liberato verso i creditori soltanto nei limiti di quanto hanno ricevuto, salvo patto contrario. Se ne ricava quindi, in tesi, che ove la liberazione del debitore sia invece totale, come avviene nel concordato, essa deve comportare la cessione di tutti i beni. Va peraltro sottolineato che l’art. 1984 stabilisce in realtà che, sia che oggetto della cessione siano stati tutti i beni del debitore sia soltanto una parte, essa è idonea a liberare i creditori soltanto nei limiti di quanto essi hanno ricevuto. La norma pertanto stabilisce un principio, comunque derogabile, che è ben diverso da quello vigente in materia di concordato in forza del quale la falcidia concordataria opera per la differenza rispetto alla percentuale promessa ovvero all’ammontare ricavabile dalla cessione dei beni.
Ulteriore argomento a fondamento del divieto di cessione parziale dei beni è stato tratto dall’art. 2740 c.c. in forza del quale il debitore risponde delle obbligazioni con tutti i propri beni [21]. La cessione parziale violerebbe tale principio né rileverebbe il consenso espresso dai creditori attraverso il voto, efficace nei confronti dell’intero ceto creditorio, perché il diritto a soddisfarsi sull’intero patrimonio del debitore potrebbe essere derogato, in forza della norma citata, soltanto in caso di espressa previsione della legge, previsione che, a differenza di quanto previsto per il concordato di continuità aziendale dall’art. 186 bis, nel caso di specie non sussiste. Il voto favorevole della maggioranza dei creditori sarebbe irrilevante perché resterebbero pregiudicati gli interessi della minoranza.
Il principio è stato affermato in un caso di concordato di gruppo in cui parte dell’attivo di alcune società era destinato a soddisfare i creditori di altre società e veniva quindi violato il principio dell’autonomia delle masse attive e passive delle singole società. A prescindere da tale, peraltro fondamentale, circostanza, non pare che le conclusioni raggiunte possano essere condivise, perché esse paiono fondarsi su un’evidente petizione di principio. Se è vero, infatti, che l’art. 2740 c.c. stabilisce che il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, salvo i casi stabiliti dalla legge, in cui sono ammesse le limitazioni di responsabilità, va osservato che, come si è visto, l’efficacia esdebitatoria del concordato, al di fuori dei casi di cessio bonorum, non è in discussione. Essa è infatti chiaramente sancita dall’art. 184 L. fall. senza che la norma ponga distinzione alcuna in relazione al contenuto della proposta di concordato [22]. Già prima della riforma non era dubbio che nel concordato con garanzia l’effetto esdebitatorio si determinava senza che il patrimonio del debitore concordatario rimanesse assoggettato all’azione esecutiva dei creditori. Sotto questo punto di vista la disciplina dettata dall’art. 186 bis, non costituisce una deroga ulteriore al disposto dell’art. 2740, ma una conferma del principio già affermato in generale dalla disciplina del concordato, principio che sarebbe valso, prima della riforma anche per la cessio bonorum, se l’art. 160, comma 2, n. 2 non avesse previsto la cessione di tutti i beni. La deroga al disposto dell’art. 2740 c.c. è infatti insita nello stesso meccanismo esdebitatorio proprio del concordato per cui i creditori, a fronte della percentuale promessa o dei beni ceduti, rinunciano al maggior credito. Si afferma che la deroga alla disciplina prevista dall’art. 2740 sussiste, per espressa previsione del legislatore nell’art. 186 bis, soltanto quando vi sia prosecuzione dell’attività d’impresa e dunque, pare di capire, a fronte di un interesse meritevole di tutela. Ma così non è. Già prima della riforma, come si è visto, non si dubitava che il concordato di garanzia consentisse al debitore di conservare il proprio patrimonio. Va aggiunto che al legislatore era assolutamente indifferente la sorte di tale patrimonio, a condizione che il debitore adempisse l’obbligazione assunta con la proposta di concordato.
Non vi sono dunque elementi, una volta venuta meno nel testo dell’art. 160 L. fall. la previsione della cessione di tutti i beni, e divenuta tale cessione soltanto una delle tante modalità in cui si può articolare la proposta di concordato, per ritenere che essa debba riguardare tutti i beni del debitore. Il concordato preventivo costituisce in sé una deroga al principio dettato dall’art. 2740 c.c., rappresentando lo stesso meccanismo della falcidia, un’eccezione al generale disposto della norma.
Va poi aggiunto che la necessità di tenere distinte le varie masse nell’ambito di un concordato di gruppo, non impedisce di destinare una parte dell’attivo a favore del concordato di altra società, ove il contenuto della proposta di cessione parziale dei beni sia accettato dalla maggioranza dei creditori. Né rileva che la minoranza ne resti pregiudicata, posto che alla stessa rimane a disposizione lo strumento di tutela rappresentato dal cram down ex art. 180, comma 4, L. fall. e quindi essa potrà opporsi con successo all’omologazione ove il credito da essa vantato possa risultare soddisfatto dal concordato in misura inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili. Anche sotto questo profilo si può rilevare che il limite della proposta concordataria non è rappresentato dal fatto che vengano messi a disposizione dei creditori tutti i beni facenti parte del patrimonio del debitore, ma dalla diversa circostanza che non emerga che la soluzione proposta è meno favorevole di quella altrimenti ottenibile, vale a dire o tramite una diversa proposta concordataria o tramite la liquidazione dei beni nell’ambito della procedura concorsuale. Va subito aggiunto peraltro che, ove il concordato abbia natura liquidatoria, nella maggior parte dei casi la messa a disposizione dei creditori di una parte soltanto dell’attivo porterà ad un risultato meno favorevole di una liquidazione, in sede concordataria o fallimentare, che comprenda invece l’intera massa attiva [23].
Come si è detto, al di fuori dell’ipotesi controversa del concordato con cessione dei beni, nel concordato con continuità aziendale è certamente possibile devolvere una parte delle attività, anche rilevante, anche l’intero attivo, al finanziamento della prosecuzione dell’attività d’impresa, ove la proposta di concordato preveda che i creditori vengano soddisfatti altrimenti, ad esempio tramite gli utili generati dalla prosecuzione dell’attività ovvero tramite la conversione del capitale di credito in capitale di rischio. Tale soluzione è certamente possibile nei casi in cui, come è avvenuto nella vicenda Parmalat, la struttura industriale della società in crisi sia sana ed in grado di generare utili, mentre il passivo accumulato si riferisca soprattutto al debito finanziario. In tale ipotesi, liberando la società per mezzo del concordato del passivo accumulato, eventualmente tramite la costituzione di una newco in cui saranno conferite le attività e di cui i creditori sono destinati a divenire azionisti per mezzo del conferimento dei loro crediti, è possibile sciogliere il nodo finanziario che impedisce il risanamento dell’impresa. Nulla vieta in tale ipotesi, al di fuori delle valutazioni sulla convenienza economica, che i soci mantengano in parte la partecipazione di cui erano titolari e dunque il controllo. Si potrà dire che tale ipotesi appare improbabile ed è certamente vero perché in genere i creditori non avranno motivo di fare un siffatto “regalo” ai vecchi soci. Ma si può immaginare che in particolari casi i creditori possano essere disponibili ad una soluzione di questo tipo, quando ad esempio la conservazione della partecipazione da parte dei vecchi soci possa essere la condizione per l’immissione di finanza nuova indispensabile per la ristrutturazione.
L’art. 186 bis consente la prosecuzione dell’attività nonostante la perdita del capitale sociale purché la società presenti domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, anche con riserva ex art. 161, comma 6, L. fall. È stato recentemente osservato [24] che è possibile deliberare una proposta di fusione o scissione, che s’inserisca nell’ambito di un piano di concordato, ad esempio perché si prevede di far confluire un ramo d’azienda nella società scissa attribuendone le azioni ai creditori a soddisfacimento dei loro crediti, senza dover sottoporre la delibera all’autorizzazione del tribunale fallimentare, a condizione che la fusione o scissione sia condizionata all’omologazione del concordato. In generale le operazioni straordinarie sul capitale, eccezion fatta per la trasformazione in ragione del disposto dell’art. 2499 [25] c.c., non richiedono autorizzazione del tribunale ove siano condizionate all’omologazione della proposta, dovendo altrimenti essere autorizzate dallo stesso tribunale ove non sia ancora intervenuta l’ammissione alla procedura ed altrimenti dal giudice delegato ex art. 167 L. fall. [26] In tutti questi casi le operazioni straordinarie che vengano deliberate dalla società possono riservare ai vecchi soci il mantenimento della loro partecipazione, in tutto o in parte, e quindi del controllo, fermo restando ovviamente il giudizio dei creditori tramite il voto sulla convenienza dell’operazione.
Note: