La modificazione del rapporto contrattuale, per adattarlo alle sopravvenienze, è regolata dal diritto italiano solo con riguardo ad alcuni contratti tipici[20].
Per quanto riguarda la disciplina del contratto in generale, è a tutt’oggi controversa la configurabilità di analoghi rimedi a preservazione dell'equilibrio sinallagmatico[21]; sono inoltre discussi anche i limiti entro i quali possano considerarsi valide eventuali clausole contrattuali di rinegoziazione[22], reputate nondimeno pur sempre nulle se formulate in termini vaghi e generici[23].
Torna attuale la proposta di configurare un obbligo di rinegoziazione sulla base del principio generale di buona fede[24], seguendo così le indicazioni di una parte della dottrina tedesca[25].
Com'era inevitabile, questa tesi è stata ribadita con forza a seguito della crisi economico-sociale procurata dall'epidemia di Covid-19[26].
Indubbiamente, quella di rimeditare, sotto la cappa del virus, la teoria dell'inesigibilità della prestazione a termini del canone di correttezza nell'esecuzione del rapporto obbligatorio, da suggestione diventa quasi impellenza perché può servire ad escludere che siano pretese prestazioni che potrebbero essere realizzate solo con mezzi non connaturati al contenuto dell'obbligazione[27].
A tal proposito si è vibrato un risaputo scetticismo, obiettandosi che l'ormeggio a un parametro vago e indefinito come quello della buona fede farebbe aumentare l'incertezza giuridica, vanificando le aspettative contrattuali delle parti contraenti. La resistenza è stata di recente rafforzata[28].
In realtà, una clausola generale, prima avvertita come elemento di opacità nella purezza codicistica, sembra aver espresso via via potenzialità vitali, assicurando dimensione concreta ad enunciati costituzionali solidaristici e consentendo al Giudice di varcare lo steccato dell'autonomia contrattuale, integrando e persino correggendo le pattuizioni che vi si ponessero in contrasto.
In questa direzione il leading case è di matrice arbitrale, essendo rappresentato da un lodo del 15 luglio 2004, pronunciato da un collegio presieduto da Guido Alpa[29], in un caso concernente la compravendita di un pacchetto azionario. Nell’occasione si è incardinato sulla buona fede contrattuale integrativa il fondamento di un obbligo di rinegoziazione del contratto, per avvenuta alterazione dell’equilibrio delle posizioni delle parti.
Già in precedenza, peraltro, la nomofilachia aveva, pur senza addentrarsi nel campo minato della rinegoziazione, creato attorno ad esso un solido recinto, insistendo sulla “funzione integrativa” della buona fede, che nel momento esecutivo “concorre a determinare il comportamento dovuto”, al di là di quanto sia stato espressamente stabilito nel regolamento contrattuale[30].
È di pochi anni successiva l’affermazione della buona fede in senso oggettivo come strumento che contribuisce a definire nel caso concreto la regola iuris[31].
In seguito, le aperture sul fronte della correttezza sono ancor più marcate: il relativo obbligo diventa autonomo, costituzionalizzato, espressione di un generale principio di solidarietà sociale[32], tale da imporre, a ciascuna delle parti del rapporto, il dovere di agire in guisa da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di previsioni di legge espressi[33].
Il criterio della buona fede si traduce per il Giudice in strumento di controllo modificativo od integrativo dello statuto negoziale, in funzione di garanzia dell’equilibrio giusto tra opposti interessi[34].
Su un versante contiguo la buona fede diviene barriera di contrasto dell’abuso del diritto, in grado di sterilizzare l’esercizio esorbitante delle prerogative del suo titolare ogni qualvolta la patologia del rapporto possa “essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato”[35].
Certo, la giurisprudenza che si è occupata del problema relativo alla sussistenza o meno di un obbligo di modificare il contratto non è approdata ad un’impostazione sistematica cristallizzata[36].
Eppure l’esigenza di rinegoziazione è gradualmente affiorata in alcune pronunce della Suprema Corte[37]. Si allude, soprattutto, a quell’indirizzo che è giunto a ravvisare nella buona fede la regola di governo della discrezionalità nell'esecuzione del contratto: essa assicura che detta fase si realizzi in armonia con quanto emerge dalla ricostruzione dell'operazione economica che le parti avevano inteso porre in essere, filtrata attraverso uno standard di normalità sociale e, quindi, di ragionevolezza[38].
In linea più generale, nel panorama interpretativo, il dovere di correttezza diviene limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva contrattualmente attribuita, conformandola in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla sua fisionomia apparente, per modo che l'ossequio alla legalità formale non venga mai a tradursi in sacrificio della giustizia sostanziale tanto da disattendere il dovere (inderogabile) di solidarietà costituzionalizzato (art. 2 Cost.). Quest’ultimo, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientarne l'interpretazione (art. 1366 c.c.) e l'esecuzione (art. 1375 c.c.), nel rispetto del principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio del proprio[39].
È la portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto d’impresa ex art. 1375 c.c. ad assumere quindi un’inedita centralità, postulando la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute[40]. La correttezza è suscettibile di assolvere, nel contesto delle turbolenze imponderabili del mercato, la funzione di salvaguardare il rapporto economico sottostante alla convenzione nel rispetto della pianificazione negoziale.
Il contemperamento tra istanze creditorie e debitorie relative alle prestazioni temporaneamente inesigibili perché finanziariamente divenute esorbitanti va intrapreso attraverso il ricorso alla rinegoziazione[41]. Impellenza, questa, che si pone con riferimento a tutte le prestazioni che si inseriscono nell’ambito di scambi contrassegnati da stagnazioni e rallentamenti gestionali o da aumenti smisurati dei costi di produzione o approvvigionamento di materie e servizi.
Il venir meno dei flussi di cassa è un’infezione diffusa, la cui panacea non è la cesura del vincolo negoziale, ma la sospensione, postergazione, riduzione delle obbligazioni che vi sono annesse.
La buona fede ha oramai un sostrato robusto, tanto da divenire basilare al cospetto della sopravvenienza impensabile e dei suoi scompensi, potendo giovare a tenere a galla pattuizioni dell’impresa altrimenti destinate a naufragare nella pretesa di ascrizione del rischio dell'imponderabile su una sola delle parti, in spregio alla cifra cooperativa del rapporto.
Non è casuale che il criterio della buona fede, la cui smisurata elasticità sovente si stigmatizza, riaffiori con forza pure nel contesto del recente progetto di riforma del codice civile italiano, di cui all'art. 1, lettera i), D.D.L. delega n. 1151 del 2019, che ha autorizzato, non a caso, il Governo a “prevedere il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l'adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti”[42].
Forse, però, detta norma, pure opportuna, non è indispensabile[43]. Il Covid parrebbe condurre all’apertura di una breccia nella formalistica lettura della regola del contratto avente “forza di legge” tra le parti incastonata nell’art. 1372 c.c. La pandemia mette in luce come il principio di vincolatività dell’accordo non si presti ad essere assolutizzato, suggerendo di per sé un contemperamento con l'altro principio del rebus sic stantibus, qualora per effetto di accadimenti successivi alla stipulazione del negozio o ignoti al momento di questa o, ancora, estranei alla sfera di controllo delle imprese, l'equilibrio del rapporto si mostri sostanzialmente mozzato o snaturato.
Non può tralasciarsi quanto il problema delle sopravvenienze sperequative del contratto sia particolarmente avvertito a livello di contrattazione internazionale, la cui prassi da tempo conosce le clausole di adeguamento c.d. di hardship, locuzione che richiama un ventaglio di circostanze che, sopravvenute alla conclusione del contratto, ne alterano l'originario equilibrio e ne rendono difficoltosa l'esecuzione. Per questa eventualità, la hardship clause appronta specifici rimedi: per un verso, la sospensione dell'esecuzione del contratto; per altro verso, la rinegoziazione, che sovente s’atteggia a soluzione ottimale. La ratio dell'inserimento nel contratto delle clausole in questione è così sensibilmente avvertita che non s’è mai realmente nemmeno posto il problema della loro validità[44].
Peraltro, l'assenza di una disciplina convenzionale del rischio da sopravvenienza, sulla falsariga ora adombrata, non può, né deve essere letta quale tacita allocazione del rischio stesso perché si farebbe dire al contratto qualcosa in più di quanto ha espresso. Non vi è, in altri termini, spazio per congetturare un consenso ipotetico delle imprese al funzionamento anche sofisticato del mercato e delle sue istituzioni; i contraenti, infatti, ignorano i rischi che non possono pronosticare, men che meno controllare a costi accettabili.
L’art. 1467 c.c. è sicuramente un’espressione di inadeguatezza degli strumenti preordinati alla soluzione della problematica delle sopravvenienze, dal momento che riconosce la possibilità di richiedere la revisione del contratto divenuto iniquo solo alla parte che in teoria avrebbe meno interesse al riequilibrio in quanto da esso avvantaggiata. Ciononostante, sempre la norma in parola è dimostrativa di come l'ordinamento privilegi la conservazione del contratto mediante revisione, rispetto alla caducazione del rapporto. Non è accidentale, infatti, che la richiesta di riconduzione ad equità del contratto abbia l'effetto di vanificare la domanda di risoluzione eventualmente proposta dalla parte onerata dalle sopravvenienze.
La preferenza accordata alla revisione e, dunque, anche alla rinegoziazione quale rimedio ottimale, in grado di realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, trova conferma nella disciplina speciale delle fattispecie contrattuali necessariamente o funzionalmente influenzate dal fattore tempo. Il codice civile offre svariati esempi sul tema[45].
Infine, non può passare inosservata l’attenzione sovranazionale per le sopravvenienze e la circostanza che la rinegoziazione figuri come realtà sedimentata, tanto da far apparire le remore interne come un affresco storiografico. Risaltano i Principi Unidroit (Principles of International Commercial Law), che al concretizzarsi di circostanze suscettibili di alterare l'equilibrio del rapporto contrattuale (c.d. hardship), riconoscono alla parte svantaggiata il diritto di domandare la rinegoziazione del contratto, nell’ottica del ripristino dell'originario equilibrio. Vengono, poi, in rilievo i c.d. PECL (Principles of European Contract Law), che contemplano, oltre all’obbligo di rinegoziare, anche il potere del Giudice di condannare al risarcimento del danno la parte che rifiuti di farlo o lo faccia in spregio della correttezza e buona fede.
In auge si pone anche il c.d. il “Codice europeo dei contratti”, che in caso di sopravvenienze invasive del sinallagma contrattuale, consente al Giudice di modificare o risolvere il contratto nel suo complesso o nelle parti ineseguite e finanche di ordinare le restituzioni dovute e condannare al risarcimento del danno.
È, poi, la volta del Draft Code of Conduct on Transnational Corporations, elaborato dalla Commission on Transnational Corporations costituita presso l'Economic and Social Council dell'ONU, che radica in capo alle parti un obbligo di revisione o di rinegoziazione del contratto secondo buona fede in presenza di sopravvenienze e a prescindere dall'esistenza o meno di apposite clausole.