Essere in mutande è un modo colorito per descrivere una crisi, una realtà in cui si annaspa, una situazione in cui ci si sente disorientati se non frustrati.
Essere in mutandae, alla latina, con il dittongo, si pronuncia allo stesso modo, ma ha un senso ben differente: significa essere in cambiamento. Tutti vogliono cambiamenti, ma chi è davvero disposto a cambiare?
Serve il coraggio del camaleonte che “per conoscere il suo vero colore deve posarsi sul vuoto” (A. Jodorowsky). La pandemia ha creato questo vuoto. Il rischio è disperdersi su “cosa” o “come”, mentre la sfida vera è la ricerca di WOW come “Ways Of Working” e “Ways Of Worlding”, world-building, costruzione di visione del mondo, architetti e artigiani di una nuova realtà, anzi, per vantare l’italianità, di un nuovo umanesimo e rinascimento.
Nella gestione di società se mantengo il focus solo sul controllo di efficacia e reddito o nella crisi di impresa se mantengo il focus solo sul controllo delle perdite e dei debiti posso rispolverare il principio che “il lavoro Nobilita l’uomo”, ma arriverò a un crack strutturale non comprendendo la vera rivoluzione dello smart-working, che è quella non del dipendente, ma del vertice a cui si pensa troppo poco: lo smart-capo, lo smart-gestore/controllore, innescando il principio che il lavoro Mobilita l’uomo. Per dirla in modo simpatico e provocatorio: tutti sono capaci a contare quanti semi ci sono in una mela, ma chi può dire quante mele ci sono in un seme?
Per stare nel solco latino, la radice di intelligente-smart è “intus legere”, capacità di leggere dentro i cambiamenti. Non è “facile”. Urge rivedere quindi non solo i modi ma la logica: guidare persone che non incontri più, affidare non compiti ma traguardi, misurare non ore ma idee, ricalibrare spazi non utilizzati, rideterminare organigrammi rivelatisi inappropriati in home-working, ridefinire l’essenza delle esternalizzazioni e non solo la loro quantità, investire nel digitale non come lifting ma come elemento strutturale. Va riformulata la griglia di verifica: il livello di propositività, la capacità di adattabilità, l’autocoscienza delle qualità, la sincerità sui limiti, la rete di collaborazioni, la limpidezza di tattica e strategia, la capacità di confronto valoriale “effettivo” sul risultato e “affettivo” verso l’azienda.
La pandemia secondo me è stata un’era glaciale. Il Covid ha freezato tutto: ha congelato la società, i rapporti, il lavoro, la scuola, la finanza. Ogni era glaciale però causa una evoluzione della specie dell’uomo.
Insegna Darwin: “Non è la specie più forte a sopravvivere ma quella che risponde meglio al cambiamento”. Chi pensa di “riprendere” da dove si era, è già morto. Chi pensa invece di “ricominciare” in modo nuovo, sopravvive. Chi pensa di “riprendere” si augura meno problemi, chi pensa di “ricominciare” si augura maggiori competenze.
Si parla tanto di economia circolare, ma ci siamo mai chiesti quale è la “mia” sostenibilità? Cosa ne faccio delle scorie che mi inquinano dentro i passaggi fiscali o normativi che intasano le giornate e non riesco a smaltire? Anche un lavoro di ufficio rientra nella definizione di Green Economy fornita da United Nations Environment Programme: un modello di sviluppo basato su un miglioramento in grado di garantire sia una significativa riduzione dei rischi, sia una risposta alla scarsità dei beni, non basandosi esclusivamente sulla resa economica, bensì sull’applicazione di sistemi che producano, con l’utilizzo consapevole delle risorse, un benessere individuale e una maggiore inclusività sociale. Quindi c’è bisogno di recuperare una visione della realtà in 3D, in profondità, evitando l’appiattimento su orizzontale e verticale, su ascisse e ordinate, su entrate e uscita. Ha ragione Papa Francesco: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla” accontentandosi con operazioni di rifacimento facciate (o loghi) con green-washing mascherato da etichettamento ESG.
Il criterio della sostenibilità come stile e metro di misura chiede specifici indicatori (KPI Key Performance Indicators) che aprano sistemi chiari e condivisi. Provo a proporli con un’immagine, perché sono convinto che nessuno ha una soluzione, ma tutti abbiamo una strada (cfr wow ways of…) coscienti che strade dritte e facili non hanno mai prodotto piloti esperti. 4 sono gli elementi: il fondo, il guardrail, la segnaletica, la direzione.
1. Il fondo stradale condiziona il “come” si guida, i gesti sono gli stessi, ma lo stile e le modalità variano. 6 sono i fattori determinanti: la situazione fattuale (la strada), la situazione meteorologica (le condizioni del periodo), la situazione personale (come guidi e con chi sei), la situazione delle opportunità (con che macchina sei), la situazione del carico (vuoto, bilanciamento, sovrappeso, fuori misura), la situazione delle incognite (incidenti, traffico, esigenze inaspettate). Il fondo stradale consegna un primo criterio: la professionalità, come coraggio di alzare l’asticella.
2. Il guardrail proprio mentre blocca e impone una direzione (come tutte le norme e le leggi che de-limitano) tutela dal pericolo. Proprio dove è netto (come in autostrada) permette di andare più veloce. Lo puoi spostare andandoci contro pian piano, ma dipende da come tieni la tua macchina. Chiede buon senso, senso della misura tra mezzi e fine, senso dell’eccezione: quindi il secondo criterio è la “compliance”.
3. La segnaletica aiuta a individuare il percorso preferenziale (non le scorciatoie) quando ci sono problemi, intoppi, blocchi. Offre 3 istanze: essere specifici (specializzazione), essere propositivi (aggiornamento), essere presenti (personalizzazione). La priorità è la situazione e non solo il ricavo o il guasto da riparare. Il terzo criterio è la strategia al posto della tattica: si può decidere di perdere delle battaglie per vincere una guerra.
4. La direzione è l’elemento discriminante, altrimenti si è venditori porta a porta con lo stesso giro fisso continuo o peggio si è vagabondi, come denuncia Kierkegaard: “La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani”. Il quarto criterio è quindi la consapevolezza: non solo so rispondere al mio cliente e lo faccio nel modo migliore, ma ho il coraggio di “risponderne”. Non è solo il rischio del risarcimento danni, ma la scelta tra benessere e essere bene. La letteratura americana di settore distingue: “do well, do good, be well”: fare bene, farlo bene, scegliere il bene. Gli africani, che sono più concreti, invece dicono: “Dio veglia sul tuo gregge, ma tu abbi cura di affidarlo a un pastore capace”.
Nel mio ultimo libro che si intitola “Ribellarsi” (Mondadori 2021) ho voluto lanciare la provocazione: ribellarsi è aver voglia di ritornare al bello, di essere di nuovo belli, ri-belli appunto. Fidarsi è bene, ribellarsi è meglio, attraverso una ecologia integrale (sociale, economica, fiscale, legislativa, culturale, relazionale). Insomma una “EGO-logia” come investimento su di sé, sulla propria brand individuality. Mi ribello, dunque sono. Nel libro precedente “Se ne ride chi abita i cieli” (Mondadori 2019), l’incontro-scontro tra un abate e un manager faceva emerge la necessità di un punto di vista “terzo”. Un antico proverbio dice: “Ogni problema ha 3 soluzioni: la mia, la tua e quella giusta”. Non basta cercare altro, serve un oltre.
Abbiamo di fronte a noi una “call to action”, un punto discriminante tra scelta e rimbalzo: è la sfida coraggiosa di essere agenti omeopatici di nuove Ways Of Working ma soprattutto di Ways Of Worlding (world-building), cioè di WOW come logica, come criterio di misura, come stile. Vi auguro di essere la goccia che fa traboccare il vaso, perché proprio in quel “di più”, apparentemente piccolo, è nascosta la forza di ogni più bel cambiamento, soprattutto nella situazione attuale in cui siamo in mutandae, ma alla latina!