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Saggio

Requisito oggettivo e soggettivo nel Codice della Crisi: qualche osservazione critica su definizioni e assenze*

Simonetta Ronco, Professore aggregato di diritto commerciale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Genova

28 Agosto 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Questo contributo vuole portare l’attenzione degli studiosi su alcune parti dei primi due articoli del Codice della Crisi e dell’Insolvenza, con particolare riferimento sia al concetto di crisi e al suo rapporto con il contesto definitorio del presupposto oggettivo antecedentemente alla riforma, sia ad alcune definizioni che sono presenti o mancanti all’interno del tessuto normativo. Si tratta di nodi interpretativi che fanno sorgere qualche dubbio sull’esistenza di un effettivo coordinamento tra norme e sulla conformità delle definizioni fornite dal Legislatore del CCII a concetti giuridici ormai consolidati nella tradizione giuscommercialistica italiana.

This contribution aims to bring the attention of scholars to some parts of the first two articles of the Code of Crisis and Insolvency, with particular reference both to the concept of crisis and its relationship with the definitional context of the objective assumption previously to the reform, and to some definitions that are present or missing within the regulatory fabric. These are interpretative issues that raise some doubts about the existence of coordination between rules and the conformity of the definitions provided by the CCII legislator with legal concepts now consolidated in the Italian commercial law tradition.
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1 . Introduzione
La nuova disciplina contenuta nel Codice della Crisi e dell’insolvenza [1] è considerata da molti espressione di una riforma che da un lato tende a proporre un approccio nuovo alla crisi e all’insolvenza del debitore inteso in senso generale, e dall’altro dovrebbe portare a un cambiamento di mentalità degli imprenditori, indirizzandoli verso una maggiore attenzione e consapevolezza della situazione endogena della propria impresa, al fine di cogliere con anticipo segnali di malessere ed evitare così il dissesto e la dissoluzione dell’attività [2]. Con la riforma del 2019, infatti, buona parte delle disposizioni che contribuivano ad accentuare il connotato afflittivo del fallimento ha definitivamente ceduto il posto a strumenti di soluzione della crisi che mirano a conservare il valore residuo dell’impresa, laddove ancora esista, e a tutelare le varie posizioni soggettive coinvolte, sostituendo la tecnica dell’eliminazione dal mercato con quella della conservazione dei fattori produttivi sani se non addirittura con quella del risanamento.
È sicuramente troppo presto per compiere una valutazione dell’efficacia e dell’efficienza delle norme contenute nel codice della crisi, ma è tuttavia possibile fare alcune osservazioni che, nel caso specifico di questo contributo, riguardano alcuni punti dei primi due articoli del testo normativo. Infatti, nonostante la legge delega alla riforma [3] esprimesse, tra l’altro, la raccomandazione di riformulare le  disposizioni  già esistenti che  avevano  originato  contrasti interpretativi, al fine di favorirne il superamento, (dando pertanto per scontato che le nuove disposizioni dovevano essere prive di qualsiasi criticità sotto il medesimo profilo), a una prima lettura degli articoli che aprono il CCII, l’interprete si trova di fronte ad alcuni nodi che attengono sia al coordinamento tra norme del CCII e del Codice Civile, sia alla conformità delle definizioni fornite dal Legislatore del CCII a concetti giuridici ormai consolidati nella tradizione giuscommercialistica italiana. 
E benché una parte della dottrina convenga sulla ineluttabilità della progressiva perdita di coerenza sistematica dell’ordinamento giuridico, non più così saldamente ancorato al perno del Codice Civile, ma frammentato e suddiviso in ambiti settoriali dotati di una propria specificità e di una propria logica (non sempre del tutto coincidente con quella di altri settori), tale presa di coscienza non vale, ad avviso di chi scrive, a risolvere i dubbi, nella misura in cui di quei concetti non si provveda a fornire (almeno) una definizione, appunto, settoriale, posto che i principi generali e le definizioni sono fondamentali, sia per la funzione ordinante che sono destinati a svolgere nel settore disciplinare in cui operano, sia perché agevolano il confronto con analoghi principi vigenti in altri settori dell’ordinamento, e facilitano un più armonico dialogo e un miglior coordinamento tra quei diversi settori. Ed è altrettanto indubbio che, laddove il legislatore speciale non fornisca nel testo stesso la definizione di determinati termini, l’interprete è autorizzato a rifarsi a concetti già esistenti in altri testi normativi di pari, se non di superiore, autorità [4]. Pare così opportuno ricordare l’autorevole opinione di uno studioso che, già ottant’anni fa sosteneva che una struttura economica, seppure variamente articolata, deve comunque presentare una caratteristica di unitarietà e che, nel quadro di un dato sistema economico, l’ordinamento giuridico costituisce un elemento strutturale essenziale [5].
2 . Crisi e insolvenza tra vecchia e nuova disciplina
È da osservare preliminarmente che, a differenza che nella Legge Fallimentare, ove si procedeva immediatamente a delimitare l’ambito di applicazione soggettiva delle due principali procedure in essa contenute, ossia il fallimento e il concordato preventivo, indicando quali soggetti potevano essere sottoposti a tali procedure (art. 1), e poco più avanti (art. 5) quali ne erano i presupposti oggettivi, il Codice della Crisi e dell’Insolvenza tende a fornire in prima battuta criteri generali di applicazione e interpretazione della disciplina, senza specificare quali strumenti sono destinati alle diverse categorie di debitori. Si tratta, sicuramente, di un modus operandi mutuato dalla più recente prassi di normazione sovranazionale, che pare aver trovato accoglimento anche nei testi normativi nazionali, ed è ormai diventato usuale presentare, nell’incipit di una legge, una serie di definizioni dei concetti che verranno successivamente utilizzati in tutto il testo normativo (quasi che, per ogni legge che entra in vigore, ci possa essere una differente interpretazione di un certo concetto giuridico). Ma, a ben vedere, nel caso del CCII questa prassi ha giocato a favore di una situazione non del tutto chiara relativamente al pensiero razionale del “chi è cosa” e del “chi può fare cosa”. Gli esempi potrebbero essere molti, ma non è questa la sede per trattarli tutti compiutamente.
Entrando nel tema dei requisiti oggettivi per la sottoposizione del debitore alla disciplina del CCII, la volontà del Legislatore del 2019 di introdurre una distinzione netta tra il concetto di crisi e quello di insolvenza, proprio al fine di un differente trattamento dell’una e dell’altra condizione, è il risultato di un percorso evolutivo che ha attraversato diversi decenni, percorso teso a ricondurre a sistema due condizioni differenti, una delle quali (la crisi) era estranea in termini definitori espliciti, alla struttura della vecchia legge fallimentare e ha dato luogo ad accesi (e comprensibili) dibattiti fin dalla sua prima introduzione. L’inserimento nella legge fallimentare della definizione di crisi, è infatti recente, e ha determinato l’evidenziarsi di una dicotomia tra visione “giuridico-personalistica” e visione “economico-aziendalistica” che può creare qualche incertezza[6]. Si ricordi che la formulazione del vecchio art. 160 L. fall., non prevedeva definizioni del concetto di crisi, ma stabiliva che per stato di crisi doveva intendersi anche quello di insolvenza. Il legislatore del CCII, invece, ha scelto di fornire una nozione autonoma di crisi, definita in origine come “lo stato di difficoltà economico-finan­ziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”, e, successivamente, come “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”.
Questo intervento, se almeno in parte ha soddisfatto richieste da più parte avanzate, dall’altro ha creato una certa anomalia: infatti, se il concetto di stato di insolvenza (che grazie al perfetto coordinamento temporale e “filosofico” di Codice civile e legge fallimentare si presenta come unitario per tutti i rapporti obbligatori di origine legale e contrattuale), fa riferimento all’impossibilità del debitore (quindi del soggetto) a far fronte regolarmente (quanto a modi e tempi) alle proprie obbligazioni per un tempo indeterminato e quindi presumibilmente in modo definitivo, il concetto di crisi (frutto dell’utilizzo del linguaggio economico per definire una categoria giuridica), fa riferimento a una situazione di difficoltà strutturale dell’impresa (quindi dell’attività organizzata), espressa in termini prettamente aziendalistici e con tempistiche precise (dodici mesi). Da un lato, quindi, abbiamo una definizione (quella di insolvenza) che, come è giusto e fisiologico che sia in ambito giuridico, lascia spazio ad essere integrata, di volta in volta, con elementi di fatto tratti dai casi concreti; dall’altro lato abbiamo una definizione (quella di crisi) che lascia pochissimo spazio all’interpretazione casistica e finisce in qualche modo per complicare l’applicazione delle successive disposizioni. 
Ora, in considerazione del fatto che il Legislatore del CCII ha voluto (a mio avviso correttamente) mantenere ferma la definizione di stato di insolvenza contenuta nell’art. 5 della Legge Fallimentare, era su questa che occorreva poi modulare la definizione di stato di crisi, per mantenere omogenei i parametri interpretativi (ossia lo stato del debitore e le forme di manifestazione). Sarebbe stato quindi più corretto far precedere la definizione di stato di insolvenza a quella di crisi e definire quest’ultima come “Lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’impossibilità di far fronte regolarmente alla obbligazioni nei successivi dodici mesi”.  
Ad abundatiam, vorrei sottolineare un aspetto che molti studiosi, e forse anche il legislatore del CCII, hanno voluto superare, forse nella convinzione che tutto ciò che appartiene al passato è da dimenticare: nella Legge Fallimentare del 1942, oltre allo stato di insolvenza, indicato quale presupposto per la sottoposizione dell’imprenditore a fallimento e a concordato preventivo (ricordiamo che la versione originaria dell’art. 160 L. fall. non richiedeva per la sottoposizione a concordato preventivo lo stato di crisi, ma solo lo stato di insolvenza), esisteva anche un’altra condizione, che costituiva il requisito oggettivo per la sottoposizione dell’imprenditore alla disciplina dell’Amministrazione Controllata, procedura venuta meno nel 2006 a seguito della prima riforma organica della legge fallimentare. L’amministrazione controllata era infatti prevista per le imprese che si trovavano in una situazione di “temporanea difficoltà di adempiere alle proprie obbligazioni”, ed era finalizzata al conseguimento del risanamento dell’impresa, tramite il superamento della situazione di difficoltà e il soddisfacimento delle ragioni creditorie. L’elemento che doveva caratterizzare tale istituto era, quindi, la temporaneità della situazione di crisi, dalla quale derivava l’impossibilità (priva di un carattere definitivo), di soddisfare i crediti dei terzi.  Il debitore, con la domanda di ammissione alla procedura, doveva presentare un piano di risanamento per il recupero della situazione di difficoltà dell’impresa. Tale piano non poteva però concretizzarsi nella mera dismissione dei rami dell’azienda, operazione che doveva inserirsi in un più ampio procedimento di risanamento volto alla salvezza dell’impresa. La previsione di comprovate possibilità di risanamento era requisito funzionale a evitare l’utilizzo di tale strumento solo quale anticamera del fallimento e, quindi, a soli fini dilatori rispetto a tale evento. Il Tribunale competente si pronunciava con decreto di accoglimento o rigetto. Ai fini dell’accoglimento, il Tribunale doveva accertare la possibilità di superamento della crisi sulla base del piano proposto dall’imprenditore e della documentazione contabile prodotta. In caso di accoglimento della domanda, veniva nominato un Giudice delegato, designato un Commissario giudiziale e convocati i creditori che dovevano pronunciarsi sulla proposta di risanamento formulata dal debitore. Il Giudice delegato, accertato il raggiungimento della maggioranza per l’approvazione del piano, provvedeva con decreto a nominare il comitato dei creditori. In caso di rigetto della domanda, il Tribunale dichiarava contestualmente il fallimento della società stessa, sussistendone i presupposti.
Tralasciando gli ulteriori aspetti della procedura, possiamo quindi constatare che la dicotomia tra insolvenza (incapacità definitiva) e crisi (incapacità temporanea) era già implicitamente esistente nella primigenia formulazione della legge fallimentare e che, dopo tutto, la filosofia di base è la medesima. Quello che si è complicato, invece, è l’attuale meccanismo di individuazione delle differenze tra i due concetti, che si dibattono tra concetti astratti e analisi prospettiche, tra sintomi e indicatori, laddove, la semplice constatazione della temporaneità della difficoltà a far fronte alle obbligazioni con mezzi regolari, e la prospettiva di un superamento di tale temporanea difficoltà (che va poi contestualizzata attraverso l’analisi del caso specifico), con un piano di risanamento/ristrutturazione, avrebbe potuto essere allineata a quella della vecchia amministrazione controllata. Anche perché, osservandoli un po' più da vicino, i sintomi della crisi che vengono attualmente considerati sono sostanzialmente: i ritardi nei pagamenti reiterati e significativi (difficoltà di adempiere); la mancanza di prospettive di continuità aziendale (mancanza di regolarità) e la non sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi (temporaneità), che unite insieme formano né più né meno che la definizione del requisito per l’ammissione all’amministrazione controllata.
3 . Il debitore “Consumatore”: qualche dubbio interpretativo
Volendo, poi, compiere alcune osservazioni anche sull’ambito di applicazione soggettiva del CCII, un primo punto critico riguarda il concetto di “Debitore”, menzionato all’art. 1 del CCII. La norma, a questo proposito, elenca i soggetti che possono essere considerati debitori ai fini della sua applicazione.
Si tratta di:
a. Consumatore
b. Professionista
c. Imprenditore che eserciti, anche non a fini di lucro, attività commerciale, artigiana o agricola, operando come:
1. Persona fisica
2. Persona giuridica
3. Altro ente collettivo
4. Gruppo di imprese
5. Società pubblica (ad esclusione dello Stato e degli enti pubblici).
Con riferimento alla prima tipologia di debitore, ossia il “Consumatore”, si ricordi che la legge 3/2012 lo definiva come “Il debitore persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”. Nell’art. 2, comma 1, lettera e), il legislatore del CCII, pare aver aderito maggiormente alla definizione rinvenibile nel Codice del Consumo, apportando però alcune modifiche. Infatti, mentre il Codice del consumo si riferisce al consumatore come al “Soggetto persona fisica che agisce, compiendo atti di disposizione del suo patrimonio, per scopi estranei a una qualsiasi attività imprenditoriale o professionale, ivi compreso anche il socio di una società di cui ai Capi III, IV e VI del titolo V del Codice civile, con esclusivo riguardo ai debiti estranei all’attività esercitata dalla società”, il CCII parla di “Persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigiana o professionale eventualmente svolta, anche se socia di una delle società appartenenti ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, per i debiti estranei a quelli sociali”[7]. 
Ora, salta subito agli occhi come in questa definizione, si menzionino separatamente concetti che invece sono genere e specie. È convinzione praticamente unanime, infatti, che l’attività commerciale e quella artigiana non siano che tipologie di esercizio dell’attività imprenditoriale e quindi non ha senso menzionarle separatamente dall’attività imprenditoriale generale. Ma dalla medesima definizione emerge un altro aspetto: sempre con riferimento al consumatore, il legislatore ha utilizzato un criterio distintivo diverso da quelli utilizzati per individuare le altre tipologie di debitore. Il consumatore, infatti, non è tale per il tipo di attività che svolge, ma per il tipo di scopo evidenziato dal singolo contratto produttivo del debito o dei debiti che provocano lo stato di crisi. Dunque, non rileva tanto l’attività esercitata dal debitore, quanto la natura del debito contratto. La qualifica di consumatore, quindi spetta a qualunque soggetto persona fisica, che svolga una qualunque professione o attività di impresa, che concluda un contratto al fine di appagare un bisogno di consumo che non ha direttamente a che fare con la sua attività professionale o imprenditoriale, ma che attiene alla soddisfazione di esigenze della vita personale e/o familiare [8].
L’elemento positivo che emerge da questa definizione è che con essa vengono sostanzialmente chiariti alcuni dubbi relativi da un lato alla possibilità di accedere alle procedure di sovraindebitamento da parte di coloro che sono assoggettabili a liquidazione giudiziale per estensione, in quanto soci illimitatamente responsabili di società liquidabili; dall’altro alla possibilità del sovraindebitato di presentare una proposta di definizione dei soli debiti non professionali o imprenditoriali [9]. In quale misura sia, poi, possibile tenere separati, sotto il profilo della incidenza degli stessi sulle rispettive attività, i debiti derivanti da attività consumeristica da quelli derivanti da attività professionale o imprenditoriale, è di difficile valutazione, soprattutto nel caso di imprenditore individuale, il cui patrimonio personale è totalmente vincolato, al pari di quello dell’impresa, dalla esistenza di una responsabilità illimitata nei confronti dei creditori della medesima. Tanto che, in una eventuale procedura liquidatoria, gli atti di disposizione patrimoniale dell’imprenditore (e del socio illimitatamente responsabile), anche quelli di natura consumeristica, sono considerati dannosi per le garanzie dei creditori, nella prospettiva della loro soddisfazione a fronte di un patrimonio imprenditoriale incapiente, e pertanto possono venire sottoposti ad azione revocatoria da parte del curatore. Con l’eventuale conseguenza che l’imprenditore, come consumatore può accordarsi con i creditori per una sistemazione della situazione debitoria, ma in caso di una successiva liquidazione giudiziale, costoro potranno essere fatti oggetto di un’azione revocatoria per i pagamenti ricevuti [10].
4 . Professionista e società tra professionisti
Un altro soggetto cui può essere applicata (in parte) la disciplina del CCII è il “Professionista” e anche sulla delimitazione di tale concetto possono sorgere dubbi. 
Parlare di professionista tout court presenta infatti una certa ambiguità ai fini della applicazione delle norme del CCII sia sotto il profilo definitorio (cosa si intende per professionista), sia sotto il profilo delle modalità di esercizio della professione (in forma individuale o in forma collettiva) e, di conseguenza, del tipo di procedura eventualmente applicabile perché si possa risolvere una situazione di crisi o di insolvenza di tali soggetti.
Dal primo punto di vista, è noto che l’art. 2082 del Codice civile prevede una definizione dell’imprenditore che fa leva sulla professionalità intesa come quella caratteristica dell’attività economica che la rende principale o prevalente rispetto alle restanti attività del soggetto. E, allora, se la professionalità è certamente una caratteristica (anche) dell’imprenditore, tenendo conto che, tradizionalmente, il nostro Legislatore ha sempre voluto tenere separate le caratteristiche del lavoro autonomo da quelle dell’impresa, ci si domanda se non sarebbe stato opportuno specificare meglio, e fornire una definizione, nell’art. 2 del CCII, del concetto di professionista indicato nell’art. 1 (cosa che invece non è stata fatta).
Dunque, sarebbe stato utile specificare che il “Professionista” di cui all’art. 1 del CCII è il professionista “intellettuale”, ossia colui che svolge un lavoro autonomo al fine della prestazione di un servizio di carattere intellettuale[11]. Nella maggior parte dei casi si tratta di professioni intellettuali “regolamentate”: come è noto, in materia di professioni regolamentate la normativa di riferimento è costituita dal D.P.R. 7 agosto 2012 n. 137, emanato in attuazione delle previsioni del D.L. n. 138/2011[12].  Il D.P.R. disciplina gli aspetti più problematici e rilevanti, indicando i soggetti rientranti nella definizione di professione regolamentata, regolando l’accesso e l’esercizio delle attività professionali protette e disponendo in materia di pubblicità, di tirocini e di formazione continua. Tuttavia, la nozione di professionista derivante dalla normativa di cui sopra non coincide con quella contenuta nel Codice del Consumo. Nello specifico, l’art. 18, comma I, lett. n) del Codice del consumo e l’art 1 del D.P.R. propongono definizioni differenti del concetto giuridico di professionista, creando qualche problema in relazione a quale normativa riferirsi nel caso concreto. L’articolo 1 del D.P.R. definisce le professioni regolamentate nel senso che la professione regolamentata è l'attività o l'insieme delle attività, riservate o meno, il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizione in ordini o collegi, quando l'iscrizione è subordinata al possesso di qualifiche professionali o all'accertamento delle specifiche professionalità. Il tratto saliente è dunque quello della necessità di una formazione specifica per esercitare un insieme di attività. Si osserva inoltre che il regolamento prevede una riserva di attività esclusivamente prevista dalla legge. Il codice del Consumo, invece, all’art. 18, definisce il professionista come “qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali, agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista”.
Vista la parziale mancanza di coordinamento tra le due disposizioni, si potrebbe semplicemente riconoscere la sussistenza concorrente di entrambi i disposti di legge sulla base del presupposto che l’ambito di applicazione delle due normative è parzialmente diverso, in quanto nell’un caso si tratta specificamente delle professioni regolamentate, mentre nell’altra il professionista è, ai fini della difesa del consumatore, definito in modo generico e accomunato all’imprenditore.
Ma, per fornire una qualche precisazione ulteriore rispetto all’accezione di “professionista” utilizzata dal legislatore del CCII, potrebbe essere utile fare, di nuovo, riferimento a quanto previsto dal Codice civile. Come è noto, il capo II, titolo III, libro V, del Codice, intitolato alle professioni intellettuali, disciplina quelle attività autonome tradizionalmente definite con la formula “professioni liberali”. Nel capo secondo non è, tuttavia, possibile rinvenire alcun tipo di definizione dell’espressione suddetta. I confini e il contenuto tipico dell’espressione devono essere, di conseguenza, tratti dalla considerazione del fenomeno nell’ordinamento giuridico, evidenziandone i connotati più rilevanti[13]. 
Secondo l’opinione dominante, professionista intellettuale è colui che svolge un’attività qualificata dalla presenza di due requisiti: professionalità e intellettualità. Il requisito della professionalità denota il profilo della stabilità, continuità e sistematicità dell’esercizio dell’attività ed è comune anche all’attività imprenditoriale. L’altro elemento caratterizzante è l’intellettualità, intesa come espressione dello sforzo intellettuale del soggetto: l’elemento qualificante dell’opera intellettuale deve essere identificato nella natura intellettuale della prestazione, determinata dalla necessità di scovare la soluzione di un problema. È vero, d’altro canto, che un momento intellettuale esiste, praticamente, in tutte le attività lavorative. Di conseguenza, la componente intellettuale collegata all’esercizio di una professione che si vuole qualificare come intellettuale, dovrà possedere due requisiti aggiuntivi: la sua prevalenza rispetto alle altre componenti dell’attività e il non essere soltanto una componente necessaria dell’attività stessa (come, per esempio, le conoscenze indispensabili per fornire una determinata prestazione) ma, piuttosto, il risultato della prestazione offerta al cliente (ad esempio: il parere e le memorie dell’avvocato o il progetto di architetti e ingegneri). In conclusione, la disciplina delle professioni intellettuali si applica qualora si sia in presenza di prestazioni a risultato prevalentemente intellettuale che siano anche caratterizzate da professionalità.
Il discorso potrebbe mutare in caso di svolgimento dell’attività professionale in forma di società tra professionisti (s.t.p.) in quanto, ad esempio nel caso di una società tra avvocati che presti assistenza legale, i soci-professionisti potrebbero porre in essere una vera e propria organizzazione di mezzi strumentali, economici e umani, destinata a operare indefinitamente nel tempo, a prescindere dalle modificazioni interne nella composizione del gruppo e destinata a essere l’elemento aggregante della clientela.  Tuttavia, è importante tenere presente che, nonostante la consistenza dimensionale e la rilevante posizione funzionale assunta nel processo produttivo dall’organizzazione, nel caso di svolgimento di una attività professionale in forma di s.t.p., l’elemento personale (costituito dall’attività intellettuale svolta dai singoli professionisti-soci) non deve mai perdere il suo ruolo fondamentale. In riferimento a tale intricata questione, appare condivisibile la posizione di chi propone di scomporre lo statuto del professionista e differenziarlo in ragione dell’organizzazione, con la conseguenza che l’equiparazione delle professioni regolamentate all’impresa non si porrebbe in via generale, ma soltanto nel caso di realtà professionali molto complesse. 
Comunque sia, una caratteristica fondamentale riscontrabile nella disciplina legislativa interna in materia di libere professioni è sempre stata quella del non assoggettamento del professionista singolo a procedure concorsuali e del solo eventuale assoggettamento a tali procedure di società tra professionisti che presentino determinati requisiti. La legge n. 183/2011, il cui art. 10, comma 3, consentiva la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V del Codice civile, non conteneva alcuna previsione sulla crisi della s.t.p., ma nemmeno escludeva espressamente la stessa dal fallimento. Facendo leva sulle clausole dell’atto costitutivo relative all’esclusività dell’oggetto sociale (che non può comprendere attività economiche di natura imprenditoriale), si è sempre esclusa in via interpretativa la soggezione della s.t.p. alla legge fallimentare [14]. 
A questo punto, è possibile sollevare un ulteriore dubbio legato alla formulazione dell’art. 1 del CCII, relativo all’ambito di applicazione del Codice. Esso afferma che la normativa in oggetto si applica alle situazioni di crisi o insolvenza del debitore “sia esso consumatore o professionista, ovvero imprenditore che eserciti anche non a fini di lucro, un’attività commerciale, artigiana o agricola, operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo, gruppo di imprese o società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti pubblici”. Così formulata, la nozione di debitore sembra voler distinguere tra tre categorie, due delle quali farebbero riferimento solo a persone fisiche (consumatore e professionista), in quanto non si rinvengono ulteriori specificazioni relativamente alla forma giuridica di esistenza di tali due soggetti, e una terza invece, separata dalle precedenti da “ovvero”, che può configurarsi in tanti modi diversi, operando sia come persona fisica che come persona giuridica o altro ente collettivo. 
E, allora, se parliamo di “professionisti” ai fini dell’applicazione del CCII, parliamo solo di professionista persona fisica? Visto che la norma non fa esplicito riferimento al concetto di s.t.p., ciò vuol dire che il legislatore ha voluto comprendere questa ultima fattispecie nella nozione di imprenditore? Leggendo il prosieguo dell’articolato parrebbe di no, nel senso che, successivamente, nell’art. 2, comma 1, lettera c), parlando di sovraindebitamento, il CCII dice che è lo stato di crisi o insolvenza del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start-up innovative e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale, o altre procedure liquidatorie, facendo quindi pensare anche a soggetti quali il condominio (come forma di esercizio collettivo di un’attività consumeristica), o, appunto, la s.t.p (come forma di esercizio collettivo di un’attività professionale); e nell’art. dell’art. 65 CCII, si stabilisce che possono proporre soluzioni della crisi da sovraindebitamento i debitori di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), di cui si è appena detto.
Tuttavia, qualche dubbio sulla liquidabilità giudiziale della s.t.p. potrebbe comunque essere sollevato, soprattutto in casi dove la rilevanza dell’organizzazione sia particolarmente spiccata. Pertanto, per scongiurare la eventualità che la s.t.p. venga attratta nell’ambito applicativo dello statuto dell’imprenditore commerciale, occorre evitare che l’attività professionale costituisca elemento di un’attività organizzata da altri secondo logiche di impresa, o che in essa vengano svolte attività economiche di natura imprenditoriale accanto a quella professionale. In tale duplice prospettiva, oltre alla limitazione dell’oggetto sociale all’esercizio dell’attività professionale, sarebbe quanto meno opportuno riservare la gestione della s.t.p. ai soci professionisti. In conclusione, de jure condendo, e considerata la poca chiarezza definitoria del CCII, dovrebbe proporsi una modifica finalizzata a escludere espressamente la s.t.p. dalla soggezione alla liquidazione giudiziale come disciplinata nel Codice della crisi, esplicitando, al contempo, la sua attrazione alla disciplina degli istituti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio di cui al CCII.
5 . Ma l’artigiano è un tertium genus?
Un ulteriore aspetto problematico della formulazione dell’art. 1 del CCII attiene all’individuazione delle tipologie di attività svolte dal debitore quando si tratta di imprenditore. La norma parla di tre tipi di attività: commerciale, artigiana e agricola. 
Sulla correttezza di questa tripartizione, di nuovo, possono sorgere dei dubbi. Nel nostro ordinamento, l’attività di impresa è stata circoscritta, fin dall’entrata in vigore del Codice civile del 1942, a due categorie: l’impresa agricola e l’impresa commerciale. L’attività artigiana è menzionata nell’art. 2083 del c.c., che riguarda il piccolo imprenditore, quindi non con riferimento all’oggetto dell’attività ma con riferimento a quella modalità di esercizio dell’impresa (commerciale o agricola) caratterizzata da basso investimento di capitali e netta prevalenza del lavoro dell’imprenditore e dei suoi familiari o soci sul capitale e sul lavoro dipendente. Pertanto, sarebbe forse stato più corretto non considerare l’artigianalità come tipo ma come modo di esercizio dell’attività di impresa.
Sotto il profilo della rilevanza sociale, è certamente innegabile che i lavoratori artigiani abbiano costituito una componente fondamentale delle forze democratiche che hanno realizzato il processo di unificazione nazionale. Sociologicamente, la categoria degli artigiani ha avuto una vitalità molto estesa nel tempo: dapprima in rapporto alla diffusione e persistenza dell’artigianato tradizionale (anche dopo l’inizio del processo d’industrializzazione); in seguito, attraverso particolari fenomeni di specializzazione produttiva su scala territoriale a piccola dimensione aziendale, che possono essere visti come un antecedente storico dei Distretti. Ed è altrettanto innegabile che l’artigianato, nel corso di queste trasformazioni, non abbia rappresentato semplicemente un settore produttivo arcaico e destinato a una inevitabile sparizione, ma abbia costituito un settore che tenta di adeguarsi, di trasformarsi, interagendo in vari modi con il tessuto industriale che si va formando, divenendo soggetto/oggetto di politiche specifiche. 
Attualmente, esistono due modelli generalmente accolti di definizione dei mestieri artigiani: il primo, tipico della legislazione italiana, tende a unificare qualitativamente l’artigiano col piccolo imprenditore industriale, ponendo poi dei limiti quantitativi per l’iscrizione all’albo delle imprese artigiane. Si stabilisce, in pratica, che tutte le imprese di piccole dimensioni, con un certo numero di addetti, si possono considerare artigiane.  Il secondo modello, in uso in altri Paesi europei e tipico del sistema tedesco, definisce invece l’artigianato tipologicamente, mediante elenchi di mestieri artigiani, e non pone limiti quantitativi alle imprese artigiane.
La nozione di impresa artigiana costruita legislativamente nel nostro sistema giuridico scaturisce da un percorso evolutivo nel quale si apprezza sia la sedimentazione, nel tempo, di ripetuti interventi riformatori, tanto nella legislazione generale come in quella specialistica, sia la sovrapposizione di fonti normative vuoi di grado costituzionale, vuoi di grado primario - di emanazione nazionale e regionale - vuoi di grado secondario. E, a seguito di questo processo di sedimentazione, non sempre coerente internamente, si è prodotto anche un effetto di “scolorimento” del concetto di artigiano, a partire dal disegno codicistico, poi nel passaggio alla legge quadro sull'artigianato del 25 luglio 1956, n. 860, e poi ancora nel passaggio alla legge quadro 8 agosto 1985, n. 443 oggi in vigore (con gli ammodernamenti intervenuti nel 1997 (L. 20 maggio 1997, n. 133) e nel 2001 (L. 5 marzo 2001, n. 57). Del resto, il dibattito sulla legge del 1956 della quale fu relatore Aldo Moro, si protrasse per quasi tutto il trentennio di vigenza, e ha senza dubbio inciso pesantemente sull’evoluzione del concetto di artigiano. Esso ha progressivamente perduto i tratti originari, espressi dalla natura «artistica o usuale» dei beni prodotti, dall'esclusione delle lavorazioni automatizzate, dall'attitudine a farsi estrinsecazione delle sole capacità e delle abilità personali del suo titolare[15]. 
Quello che ormai da molto tempo è stato chiarito, è che l’imprenditore qualificabile come “artigiano” non può essere assoggettato a procedura di liquidazione fallimentare. La tormentata relazione tra il concetto di piccolo imprenditore espresso dall’art. 2083 c.c. e quello di imprenditore assoggettabile a fallimento di cui al vecchio art. 1 L. fall. aveva infatti origini lontane. Considerando che la legge fallimentare, dal momento della sua entrata in vigore e fino alla prima riforma organica del 2005-2007 non aveva subito modifiche ma solo aggiustamenti o mutilazioni dovuti all’intervento della Corte costituzionale, si può dire che le discussioni sull’applicazione del primo articolo della legge fallimentare sia durato parecchi decenni. E anche se fu da più parti affermato che con la riforma si sarebbe finalmente risolta l’annosa questione relativa al rapporto tra art. 1 L. fall. e artt. 2083 e 2221 c.c. e che, addirittura quest’ultimo poteva essere considerato come implicitamente abrogato, la delicatezza del tema è ancora viva. 
Venendo alla problematica che ci interessa maggiormente, ossia la definizione del concetto di artigiano che il legislatore del CCII ha voluto fornire, occorre intanto dare per scontato che la natura imprenditoriale dell’attività artigiana può fondarsi sul riscontro della sussistenza di ogni presupposto contenuto nella definizione dell'art. 2082 c.c.,  ivi compresi quegli elementi anche minimi di etero organizzazione, ossia di coordinamento tra mezzi di produzione, idonei a tenerla distinta dalla fattispecie del lavoratore autonomo auto-organizzato, ossia pianificatore del solo agire proprio (art. 2222 c.c.). Sulla commercialità dell'impresa artigiana, poi, è noto che la lettura di gran lunga più accreditata in letteratura supera l'ostacolo del difetto del requisito della «industrialità» prescritto in generale per le imprese commerciali dall'art. 2195 c.c., rilevando che tale requisito interferisce con le modalità (e quindi eventualmente le dimensioni), e non già con l'oggetto dell'attività, così che non resterebbe spazio alcuno per la ricostruzione di un tertium genus atipico di impresa oltre a quella agricola e a quella commerciale. 
Da notare, a sostegno di questa interpretazione, che l’attuale formulazione dell’art. 1 CCII è stata modificata rispetto a quella originariamente contenuta nell’art. 1 del D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, nel senso che da una originaria quadripartizione dell’attività imprenditoriale (commerciale, industriale, artigiana e agricola), si è passati all’attuale tripartizione (commerciale, artigiana o agricola), facendo intendere che per il legislatore l’attività industriale non è che una forma di esercizio (di grandi dimensioni) dell’attività commerciale, così come tradizionalmente affermato dalle interpretazioni del binomio artt. 2082-2195 c.c.  E, pertanto, nella medesima aderenza al dettato codicistico, sarebbe stato più corretto classificare l’attività artigiana nel quadro dell'impresa in generale, e dell'impresa commerciale in particolare. Si farebbe a questo punto determinante, ai fini dell’applicazione dell’uno piuttosto che dell’altro strumento previsti dal CCII, il profilo dimensionale. Appare abbastanza chiaro, del resto, che, nell’ottica di un mutato atteggiamento del legislatore nei confronti della soluzione della crisi, risulta in qualche modo irrilevante, e persino fuorviante, distinguere a seconda di criteri che in qualche modo interferirebbero con la logica prescelta.
6 . La storia (in)finita della crisi dell’imprenditore agricolo
Nell’accostarci, infine, alle disposizioni che il Codice della crisi del 2019 prevede per l’imprenditore agricolo, e soffermandoci nuovamente sui primi due articoli del Testo normativo, possiamo osservare quanto segue.
Nell’art. 1, laddove si fa riferimento all’ambito soggettivo di applicazione del codice, si menziona l’imprenditore agricolo tout court facendo quindi riferimento sia all’esercizio dell’impresa agricola in forma individuale che a quella in forma collettiva.  E fin qui nulla quaestio: già dal 2011, e in particolare con l’emanazione del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito con modificazioni in L. 15 luglio 2011 n. 111, era stato chiaro che il legislatore riteneva indispensabile approntare degli strumenti di risoluzione della crisi anche per l’impresa agricola che, fino a quel momento, era stata esclusa da qualsiasi possibilità di soluzione concordataria[16]. L’art. 23, comma 43, consentiva infatti agli imprenditori agricoli in stato di crisi o di insolvenza di accedere agli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti dall’art. 182 bis L. fall. Del resto, la dottrina agraristica e quella commercialistica in frequenti occasioni si erano espresse, benché non unanimemente, a favore dell’estensione della procedura fallimentare anche all’impresa agricola[17], come già avvenuto in Francia, dove è stato messo a punto un sistema legislativo fallimentare adeguato alle specificità del settore agricolo.
E anche la Suprema Corte ha in più occasioni richiesto un rigoroso accertamento in ordine alla sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 2135 c.c. con particolare riferimento al collegamento funzionale dell’impresa con il fondo, attribuendo la qualifica di impresa commerciale assoggettabile al fallimento tutte le volte in cui tale collegamento non aveva alcuna incidenza sul ciclo produttivo ed il fondo era stato di fatto degradato a mero bene fungibile[18]
Soffermandoci brevemente sul contesto normativo nel quale ci si muove, l’art. 2135 c.c., come modificato dal D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228 (Orientamento e modernizzazione del settore agricolo) indica i criteri oggettivi per l’individuazione della pertinenza alla nozione espressa dalla norma delle attività agricole principali (la coltivazione del fondo, la selvicoltura e l’allevamento di animali), nonché di quelle connesse. Con riguardo alle attività agricole principali, dal punto di vista giuridico, gli elementi caratterizzanti l’attività agricola sono il “ciclo biologico”, da intendersi come il complesso di attività dirette al mantenimento o all’evoluzione di una specie vegetale o animale, e “l’utilizzo del fondo”, quale strumento, effettivo o solamente potenziale, per l’esercizio di tali attività. La centralità del collegamento diretto con il fondo, caratteristica della versione precedente dell’art. 2135 c.c., è stata sostituita dalla “cura” e dallo “sviluppo del ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso”, di una specie vegetale o animale. Attività, queste ultime, che non richiedono necessariamente l’utilizzo diretto del fondo, del bosco, delle acque dolci, salmastre o marine, essendo invece sufficiente solo una potenzialità in tal senso. 
La definizione di imprenditore agricolo risultante dall’art. 2135 c.c., risulta dunque significativamente mutata rispetto al passato, favorendone la multifunzionalità, nel senso che consente di ricomprendere tra le attività di imprenditoria agricola anche quelle connesse alle principali, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti “prevalentemente” dalla coltivazione o dall’allevamento, nonché quelle produttive di beni o servizi ottenuti utilizzando “prevalentemente” attrezzature o risorse dell’azienda, normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata. 
Detta multifunzionalità è divenuta ormai la scelta strategica intrapresa da molte aziende agricole che, a vario livello, svolgono diverse attività per rispondere agli effetti negativi - primi fra tutti la bassa redditività e la perdita di autonomia nei confronti del mercato - derivanti da un sistema orientato prevalentemente alla produzione di beni materiali (beni primari / beni alimentari e fibre). Per le imprese agricole la multifunzionalità rappresenta una “nuova” modalità di organizzazione dei fattori produttivi (risorse interne) e di interazione con le risorse esterne (il territorio), finalizzata al perseguimento di obiettivi economici, ambientali e sociali nel medio e lungo periodo. Vista in un’ottica più generale, la multifunzionalità rappresenta una linea strategica fondamentale nel processo di sviluppo del settore agricolo e del mondo rurale. Il ruolo dell’agricoltura, infatti, ormai da diversi anni non è più riconducibile esclusivamente alla sua funzione di produzione di beni di prima necessità, ma si amplia attraverso il riconoscimento e lo svolgimento di altre funzioni di tipo ambientale, sociale, paesaggistico, storico-culturale, etc.
Scendendo un po’ più nel dettaglio, la nozione di imprenditore agricolo prevista dall’art. 2135 c.c. comma 1, si collega in primo luogo a quelle che vengono considerate attività agricole principali, ossia la coltivazione del fondo; la selvicoltura; l’allevamento di animali. Ai sensi del successivo comma 2, la coltivazione del fondo è l’attività diretta alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso della specie vegetale, che utilizza o può utilizzare il fondo. Riferendosi la norma alle attività che utilizzano o “possono” utilizzare il fondo (si pensi, ad esempio, alle coltivazioni in serra) se ne può concludere che sono attività agricole anche quelle che sviluppano colture che non utilizzano necessariamente il fondo come campo aperto per l’esercizio dell’attività di produzione. Ciò che rileva infatti è che la coltivazione, pur essendo “fuori terra”, riguarda colture che potrebbero essere realizzate anche in terra, e dunque sussiste un collegamento potenziale con il terreno[19]. Ne deriva l’inclusione tra le attività agricole delle colture in serra, della funghicoltura e della vivaistica, potendo la “coltivazione” riguardare l’essere vegetale tanto “nel suo intero ciclo biologico, quanto in una parte essenziale dello stesso”.
L’attività selvicolturale consiste nella cura e nello sviluppo del ciclo biologico del bosco. Tale attività si caratterizza per la particolarità del suo oggetto, costituito dal bosco, che dà il legname, ma anche servizi per la collettività definiti ambientali: la tutela e la conformazione del paesaggio, l’equilibrio idrogeologico, la qualità e la purezza dell’aria, la saldezza del suolo, etc. Ne deriva che l’attività di impresa agricola di tipo selvicolturale consiste nella produzione e nella commercializzazione del legno e dei derivati del bosco (pigne, pinoli, resina, ecc.) nonché nella produzione dei servizi c.d. ambientali; in particolare, l’alienazione di prodotti del bosco rientra tre le attività agricole, nello specifico tra le attività di “selvicoltura”, qualora sia conseguenza della normale attività boschiva, essendo ritenuta attività commerciale nel caso in cui avvenga in presenza di altre operazioni aventi una propria rilevanza[20].
L’attività di allevamento, nella precedente formulazione dell’art. 2135 c.c., faceva riferimento al solo allevamento di “bestiame” (ossia di bovini, equini, caprini, suini e ovini) e non al termine “animali”, che ricomprende ogni tipologia[21]. 
Il termine bestiame designava, in coerenza con l’impianto generale di politica del diritto dell’impresa agricola, le sole specie animali legate al fondo. Venuto meno il collegamento necessario tra l’attività agricola e il fondo, risulta che è attività agricola l’allevamento che si risolve nella cura di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso. La dottrina prevalente esclude invece dall’impresa di allevamento agricolo le attività di allevamento di animali carnivori, come gatti, visoni, cincillà e volpi, nonché di scimmie, pitoni e altri animali esotici, mentre con riguardo all’inquadramento giuridico delle imprese di allevamento di cavalli da corsa non vi è un orientamento comune.[22]
La cura e lo sviluppo dei cicli biologici di carattere animale possono essere attuati mediante l’utilizzazione delle acque dolci, salmastre o marine e in questo caso si parla dell’attività di allevamento di pesci, mitili, ostriche, molluschi e crostacei, attività definita come “acquacoltura”. Le imprese di acquacoltura sono state equiparate all’imprenditore ittico (ex art. 3, comma 3 D.Lgs. n. 100/2005), a sua volta equiparato all’imprenditore agricolo ex art. 4, comma 4, D.Lgs. 9 gennaio 2012 n. 4. 
Le attività agricole per connessione, previste sempre dall’art. 2135 c.c., sono sottoposte alla disciplina dell’impresa agricola solo in quanto, appunto, “connesse” a un’attività essenzialmente agricola; infatti, tali attività, se svolte in forma autonoma, senza cioè alcun nesso con l’attività agricola, dovrebbero essere fatte rientrare nell’ambito dell’art. 2195 c.c., costituendo imprese commerciali per espressa previsione normativa. 
Le imprese agricole per connessione devono essere svolte dallo stesso soggetto che esercita l’attività principale, e possono distinguersi in attività di produzione di prodotti agricoli e attività di prestazione di servizi. Nella prima categoria rientrano le attività di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali. La sostituzione del criterio della normalità, desumibile dalla precedente formulazione, con quello della prevalenza, riferito all’origine dei prodotti oggetto dell’attività connessa, implica che l’imprenditore agricolo può svolgere le suddette attività utilizzando prodotti che siano in prevalenza ottenuti mediante la propria attività produttiva agricola (dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali)[23]. 
Sono inoltre connesse anche le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda “normalmente” impiegate nell’attività agricola esercitata. L’uso del criterio della normalità si riferisce, in tale contesto, non all’attività in sé, bensì all’uso prevalente di mezzi aziendali normalmente impiegati nell’attività agricola esercitata. 
Il comma 3 dell’art. 2135 c.c. nel testo modificato dal D.Lgs. n. 228/2001, individua espressamente tra le attività agricole di servizi, le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge. Con riguardo alla valorizzazione del territorio, la norma si riferisce alle offerte di beni ambientali e servizi per la valorizzazione del territorio che l’agricoltura può produrre avvalendosi degli strumenti introdotti dal legislatore nell’art. 14, comma 3, D.Lgs. 18 maggio 2001 n. 228 (contratti di collaborazione con la p.a.) e nell’art. 15 (convenzioni con la p.a.)[24]. 
Discorso a parte merita l’attività di agriturismo. L’inquadramento dell’attività agrituristica (già disciplinata prima con la legge n. 730/1985, poi con il D.Lgs. n. 228/2001 ed interamente regolamentata di nuovo con la più recente legge n. 96 del 2006), nell’ambito dell’attività imprenditoriale agricola, come confermato dalla giurisprudenza, «è subordinato alla condizione che l’utilizzazione dell’azienda agricola al fine di agriturismo sia caratterizzata da un rapporto di complementarità rispetto all’attività di coltivazione del fondo, di silvicoltura e di allevamento del bestiame, che deve comunque rimanere principale». 
La già menzionata seconda Legge Quadro sull’agriturismo del 2006 stabilisce nuovi e meno restrittivi limiti all’attività di ristorazione, così definendola: “Somministrare pasti e bevande costituiti prevalentemente da prodotti propri e da prodotti di aziende agricole della zona, ivi compresi i prodotti a carattere alcoolico e superalcoolico”. Dunque, fra gli ingredienti prevalenti dei pasti, destinati agli ospiti dell’azienda agrituristica, rientrano, oltre i prodotti propri, anche i prodotti di altre aziende agricole, purché della zona, dove la definizione della zona s’intende rinviata alla competenza legislativa regionale. 
La norma esplicita inoltre l’obbligo, per Regioni e Province Autonome, di definire “criteri per la valutazione del rapporto di connessione delle attività agrituristiche rispetto alle attività agricole che devono rimanere prevalenti”, specificando a tal proposito un “particolare riferimento al tempo di lavoro necessario all’esercizio delle stesse attività”. In sostanza stabilisce che il lavoro dell’azienda agricola deve essere dedicato principalmente all’attività primaria. In concreto, questa disposizione è stata applicata da Regioni e Province Autonome istituendo tabelle convenzionali dei tempi di lavoro mediamente necessari per lo svolgimento delle diverse attività di coltivazione, allevamento di animali e silvicoltura e analoghe tabelle relative alla prestazione dei diversi servizi agrituristici. In base alle attività agricole e agrituristiche effettivamente svolte, la somma dei tempi di lavoro propriamente agricolo deve essere superiore alla somma dei tempi di lavoro agrituristico.
Tornando alle disposizioni contenute attualmente nel CCII, qualche perplessità può nascere dalla formulazione dell’art. 2, comma 1, lettera c), laddove si definisce il concetto di “sovraindebitamento”: si delinea qui, come già accennato in precedenza, lo stato di crisi o di insolvenza di tutte quelle categorie di debitori che non possono essere sottoposti a procedura liquidatoria di qualunque genere. La formulazione lessicale della norma (“lo stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell'imprenditore minore, dell'imprenditore agricolo, delle start-up innovative di cui al decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza”), separa sintatticamente l’imprenditore minore (che pertanto verrebbe a indicare l’imprenditore commerciale minore) e l’imprenditore agricolo, e sembra voler indicare che il sovraindebitamento si applica a quest’ultimo sia che sia individuale che collettivo (perché non è presente alcuna specificazione in proposito), sia che sia minore o no (perché l’imprenditore minore è già menzionato). Dunque, se ne inferisce che l’impresa agricola (individuale, collettiva, piccola, media, o grande), è tuttora sottratta alle procedure liquidatorie, nonostante da più parti si fosse auspicata una parificazione totale tra impresa agricola e commerciale sotto il profilo del trattamento della crisi, e viene sottoposta solo alle procedure di sovraindebitamento, sottraendo così per l’ennesima volta tutto il comparto dell’agricoltura alla liquidazione giudiziale, così come la legge fallimentare ha del resto sempre fatto[25].

Note:

[1] 
D.Lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019, che ha sostituito in toto la legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267), già più volte modificato. 
[2] 
Molti testi di commento al nuovo CCII. A titolo esemplificativo, si vedano AA.VV., Le crisi di impresa e del consumatore dopo il D.L. n. 118/2021, V. Zanichelli, 2021; S. Della Rocca, F. Grieco, Il nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza. Analisi e commento, Seconda Ed., Cedam, 2022; F. Santangeli, Il Codice della crisi e dell’insolvenza, Giuffrè, 2023.
[3] 
La legge 19 ottobre 2017 n. 155.
[4] 
Si v. a questo proposito, M. Fabiani, Il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza tra definizioni, principi generali e qualche omissione, in Foro.it., 2019, I, 162.
[5] 
L. Reiser, Il compito del diritto privato, Giuffrè, 1990. Si v. anche, a questo proposito, F. Denozza, Norme, principi e clausole generali nel diritto commerciale. Un’analisi funzionale, in Orizzonti del diritto commerciale. 2013, 2, http://www.rivistaodc.eu/principi-clausole-generali-commerciale-analisi-funzionale.
[6] 
Bene ha osservato S. Fortunato, in Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, in il Diritto fallimentare e delle società commerciali”, 2021,I, 3 ss. che “Da più parti viene segnalato il mutamento di paradigma che nell’attuale ordinamento delle crisi (genericamente intese) del debitore si viene realizzando: la nozione di insolvenza nasce pur sempre nell’ambito delle concezioni patrimonialistiche del rapporto debito-credito e con l’abbandono delle concezioni puramente soggettive, in cui il rapporto viveva soprattutto nel vincolo individuale che legava il debitore al creditore. La nozione di crisi è invece tributaria delle scienze economiche-aziendalistiche ed è legata all’impresa, in quanto attività economica. Sull’evoluzione del rapporto tra crisi e insolvenza, si v. B. Inzitari, Crisi, insolvenza, insolvenza prospettica, allerta: nuovi confini della diligenza del debitore, obblighi di segnalazione e sistema sanzionatorio nel quadro delle misure di prevenzione e risoluzione, in AA.VV., Le crisi di impresa e del consumatore dopo il D.L. n. 118/2021, V. Zanichelli, 2021, cit., 72 ss; M. C. Cardarelli, Insolvenza e stato di crisi tra scienza giuridica e aziendalistica, in Riv. Dir. Fall., 2019, I 11 ss.; S. Ambrosini, Il Codice della Crisi dopo il D.Lgs. n. 83/2022. Brevi appunti su nuovi istituti, nozione di crisi, gestione dell’impresa e concordato preventivo, in Riv. Dir. Fall., 2022, I, 837 ss.
[7] 
Sul concetto di consumatore si v. V. Zanichelli, Uno sguardo sull’aggiornamento della disciplina del sovraindebitamento, in AA.VV., op.cit., 921 ss. 
[8] 
È importante sottolineare che, sebbene non esplicitamente menzionati, i casi di squilibrio patrimoniale che possono interessare un consumatore nell’accezione di cui si è detto sopra, sono spesso quelli derivanti dall’assunzione di obbligazioni nell’interesse del nucleo familiare. Non a caso, già prima dell’introduzione della nostra disciplina sulla crisi da sovraindebitamento, diversi Paesi europei avevano introdotto strumenti normativi per tentare di fronteggiare le situazioni di difficoltà economica delle famiglie e permettere a queste ultime di riprendere un ruolo nell’economia nazionale dopo aver superato le proprie esposizioni debitorie.
[9] 
Si v. in proposito, F. Michelotti, I soci illimitatamente responsabili e le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, in Fall. 2020, 315; C. Trentini, Ammissibilità delle procedure collegate ex art. 182 bis L. fall. di società di persone e di accordi di sovraindebitamento dei soci illimitatamente responsabili, in Il Fall. 2020, 413; F. Pasquariello, L’accesso del socio alle procedure di sovraindebitamento: una grave lacuna normativa, in Il Fall. 2017, 198. 
[10] 
Ugualmente, può suscitare dubbi l’attribuzione della qualifica di consumatore al socio di una società in difficoltà che stipuli una fideiussione a favore della stessa, per il debito da essa derivante. In questo senso, allora, ciò che, secondo l’opinione della maggioranza della dottrina che finora si è espressa in proposito, si deve valutare, è la possibilità di comprendere all’interno della nuova procedura di ristrutturazione dei debiti del consumatore anche il debito c.d. promiscuo, ossia derivante da obbligazioni aventi sia carattere personale o familiare sia derivanti da attività imprenditoriale o professionale. In tali casi, peraltro, la possibilità di qualificare un soggetto come consumatore e non come imprenditore o professionista, dovrebbe avvenire in base al criterio di prevalenza dei debiti assunti, appunto in veste di mero consumatore.
[11] 
Occorre tuttavia anche tenere in considerazione il fatto che, ai fini dell’interpretazione della normativa sulla concorrenza e in particolare del diritto antitrust, sia a livello europeo che nazionale l’attività svolta dalle organizzazioni di professionisti intellettuali viene considerata alla pari con quella svolta dalle organizzazioni degli imprenditori, grazie ad una accezione allargata del concetto di impresa. Infatti, una delle più discusse e irrisolte questioni giuridiche avente rilevanza in ambito europeo e all’interno di ciascuno Stato membro riguarda il livello di influenza che il diritto della concorrenza dovrebbe avere nello specifico settore delle professioni regolamentate. In proposito, da tempo illustre dottrina ha avvertito la necessità di individuare un bilanciamento tra l’affermazione anche per i professionisti intellettuali dei principi concorrenziali, in termini in parte assimilabili a quelli concernenti le imprese in senso proprio, e i valori, a volte anche di rilievo costituzionale, che nelle professioni possono rilevare. Sulla professione intellettuale in generale e sulla società di professionisti in particolare si v. A. Testa, Associazioni tra professionisti, società di professionisti, e tra avvocati, WK, 2023; G. Schiano di Pepe, Le società fra professionisti, Giuffrè, 1977.
[12] 
La legge n. 247/2012, invece, a quasi 80 anni dalla legge professionale del 1933, ha dettato una nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense che mira ad innovare un quadro normativo che, negli anni, non è stato mai oggetto di un sistematico intervento riformatore.
[13] 
Così v. G. Giacobbe, voce Professioni intellettuali, in Enciclopedia del diritto, XXXVI.
[14] 
L’unico precedente della giurisprudenza reso sull’argomento si conforma a tale orientamento, escludendo dall’ambito applicativo della lege fallimentare la STP. IL Tribunale di Forlì, con decreto del 25 maggio 2017, https://www.ilcaso.it/sentenze/ultime/17538 ha rigettato il ricorso per la dichiarazione di fallimento presentato dai creditori di una STP costituita in forma di s.r.l. e messa in liquidazione volontaria dai soci ai sensi dell’art. 2484, comma 1, n. 3, c.c. e ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. b) della legge n. 183/2011. Il giudice rammenta che, ai sensi dell’art. 1 L. fall., sono soggetti al fallimento gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale e che abbiano superato le soglie di cui all’art. 1, comma 2, L. fall. Nel caso in rassegna, pur sussistendo il superamento dei parametri previsti nel secondo comma dell’art. 1 L. fall., il Tribunale precisa che “… non né possibile ritenere sussistente per la società la qualità di imprenditore e l’esercizio di un’attività commerciale, necessari ai fini dell’assoggettabilità al fallimento”. Pertanto, in relazione alla assoggettabilità alle procedure concorsuali e al fallimento di una STP da parte della legge n. 183/2011, conformemente all’orientamento della più autorevole dottrina, la STP costituita per l’esercizio in via esclusiva di una o più attività professionali e che abbia effettivamente svolto – sempre in via esclusiva – tale attività non può essere assimilata alle altre società commerciali, non esercitando un’attività commerciale e non rivestendo la qualità di imprenditore. La STP, pertanto, non è assoggettabile a fallimento”.
[15] 
A. Dalmartello, La nuova legge sull’impresa artigiana e la nozione di piccola impresa, in JUS, 1957, 496 ss; P. Spada, La riforma dell’artigianato, in Giur. Comm., 1981, I, 260 ss.; P. Spada., Imprenditore e impresa artigiana tra Codice civile e legge speciale, in Giur. comm., 1987, I, 710; M. Bione, La nuova definizione di impresa artigiana, in Giur. comm., 1987, I, 709.
[16] 
Occorre del resto ricordare che gran parte della dottrina ha sempre criticato la totale esenzione dalle procedure concorsuali dell’impresa agricola, evidenziando che la modernizzazione dell’agricoltura dovrebbe portare alla sempre più marcata assimilazione dell’imprenditore agricolo non piccolo a quello commerciale, posto che le indubbie specificità dell’impresa agricola (stagionalità della produzione, deperibilità delle merci, ridotta elasticità dei meccanismi dell’offerta, particolarità delle modalità di vendita) non giustificherebbero in toto un così ampio ventaglio di privilegi e agevolazioni (si pensi ai benefici fiscali e previdenziali, alla normativa in tema di lavoro, al favore nel credito agrario o nelle prelazioni e così via). E, anche alla luce di queste osservazioni, la Commissione Trevisanato, insediata nel 2002, aveva previsto l’applicabilità anche all’imprenditore agricolo delle procedure concorsuali ivi previste. Infatti, nella relazione generale sul progetto di riforma si legge che “alcune esenzioni non appaiono più giustificabili, come quella relativa all’imprenditore agricolo; altre, come quella relativa al piccolo imprenditore, hanno finito per creare complessi problemi definitori tali da ridurre notevolmente ogni ipotizzato beneficio deflattivo che esse avrebbero dovuto comportare” (par. 1) e che “ogni imprenditore, piccolo o grande che sia, esercente un’impresa commerciale o agricola, deve poter contare sulla protezione derivante dall’apertura di una procedura che gli consenta di offrire ai creditori una soluzione alla crisi per essi più favorevole della liquidazione concorsuale. Secondo G. Oppo, Materia agricola e «forma» commerciale, in Scritti in onore di Francesco Carnelutti, Padova, 1950, 1 e 4, le attività connesse delle imprese agricole non si esauriscono nelle attività di alienazione e trasformazione dei prodotti agricoli, ma vanno estese a tutta una serie di ulteriori attività, che per la loro peculiarità non sono annoverate nell’art. 2135 c.c. e che quindi mostrano in cosa questa «forma» di impresa pur essendo commerciale, abbia un «oggetto» non commerciale. Le attività agricole connesse rientrano a pieno titolo nella produzione dei beni naturali e per questo motivo non rappresentano un’iniziativa economica indipendente: queste, infatti, sono tecnicamente legate a doppio filo alla produzione delle piante e degli animali. Su questo punto si veda Genovese, Le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli esercitate dall’impresa nella società cooperativa, in Riv. dir. agr., 1995, I, 3; C. Ferrante, Le attività di trasformazione e di alienazione dei prodotti agricoli come attività connesse e come oggetto di imprese commerciali, in Riv. dir. agr., 1962, I, 290.
[17] 
In R. Alessi – G. Pisciotta, L’impresa agricola, Milano, 2010, 281, si asserisce che «l’impresa agricola [è] oramai collocata nell’area della commercialità e non può sottrarsi alle procedure concorsuali se non in quanto piccolo imprenditore o in quanto previsto dalle leggi speciali».
[18] 
Cass. 17.12. 2002, n. 17251; Minutoli, Il “nuovo” imprenditore agricolo tra non fallibilità e privilegio del coltivatore diretto, in Il Fall., 2003, p. 1157. Le problematiche connesse alla dilatazione dell’art. 2135 c.c. hanno persino portato il Tribunale di Torre Annunziata a sollevare, con ordinanza 20.01.2011, la questione di costituzionalità dell’art. 1 L. fall. con riferimento all’art. 3 Cost. nella parte in cui esclude gli imprenditori agricoli e quelli ad essi equiparati dalla assoggettabilità alla dichiarazione di fallimento. Secondo il Tribunale remittente sarebbe ormai venuta meno la ragione di distinguere la posizione dell’imprenditore agricolo rispetto a quello commerciale, in quanto ormai vi è la possibilità di svolgere un’attività agricola anche senza l’utilizzazione del fondo, dato che questo può “assurgere a mero strumento di conservazione delle piante”, e l’attività agricola può essere ormai “limitata ad una sola fase necessaria del ciclo animale e vegetale”. 
[19] 
La giurisprudenza di legittimità intervenuta sull’interpretazione dell’art. 2135 c.c. continua a decidere secondo il consolidato orientamento restrittivo nelle ipotesi in cui la norma applicabile ratione temporis sia l’art. 2135 nella sua versione originaria, sostenendo che «nella nozione di impresa agricola, quale si desume dall’art. 2135 c.c., rientra l’esercizio dell’attività diretta alla coltivazione del fondo che sia svolta con la terra o sulla terra e purché l’organizzazione aziendale ruoti attorno al “fattore terra”, nonché l’attività connessa a tale coltivazione, la quale si inserisca nel consueto e ben delimitato ciclo dell’economia agricola, ad integrazione della suddetta attività». Cfr. Cass. civ. sez. I, 24 marzo 2011, n. 6853 in Il Fall., 11, 2011, 1365.
[20] 
V. Cass. civ., 21 febbraio 1985, n. 1571, in Informazione Previd., 1985, 937, che ritiene che il concetto di silvicoltura si collochi nello schema del ciclo della produzione agraria, mentre la vendita di alberi coltivati nel fondo oppure il taglio periodico del bosco, per ricavarne legna, costituiscono un’operazione agricola diretta all’alienazione dei prodotti del suolo. La stessa cosa non può dirsi per la trasformazione del legname estratto dai boschi, la quale conferisce al prodotto agricolo un diverso contenuto economico. Rientrano tra le attività selvicolturali le attività lavorative connesse all’impianto ed allo sfruttamento dei boschi sulla cui natura agricola si è espressa in senso positivo la giurisprudenza. Anche l’attività volta alla tutela per patrimonio boschivo ed in particolare l’attività di vigilanza contro il pericolo di incendi rientra, secondo un orientamento giurisprudenziale, nel concetto di selvicoltura. L’art. 2, D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 227 equipara i termini bosco, foresta e selva, escludendo dalla definizione di bosco, di foresta o di selva gli impianti d’arboricoltura da legno. Si distingue, pertanto, dall’attività di selvicoltura l’arboricoltura da legno definita dall’art. 2, comma 5, D. Lgs. 18 maggio 2001, n. 227 come «la coltivazione di alberi, in terreni» originariamente «non boscati, finalizzata esclusivamente alla produzione di legno e biomassa» e «reversibile al termine del ciclo colturale», riconducendo questo genere di attività all’interno dell’agricoltura in senso stretto, ovvero della coltivazione del fondo; Cfr. anche T. Cagliari 18 febbraio 1995, Riv. Dir. Agr., 1997, IV, 309 con nota di M. Cossu, secondo cui l’elemento essenziale dell’individuazione dell’impresa forestale consiste in quel complesso di attività che consentono l’utilizzazione produttiva del bosco attraverso la sua conservazione o addirittura il suo incremento, per cui l’insieme di operazioni relative alla semplice messa a dimora di una specie a rapido accrescimento, alla vendita del legno in piedi o al taglio finale per la produzione di legname non rientra in questo ambito. Cfr. anche Cass. civ., sez. III, 03 maggio 1991, n. 4850 secondo cui «un’azienda agraria ben può essere organizzata per la produzione di beni diversi da quelli che possono essere ottenuti dalla coltivazione di terreni seminativi e così può sussistere senza perdere i suoi caratteri distintivi, anche se non comprenda terreni adatti o destinati alla semina, ma solo terreni boscosi, come nel caso di specie (cfr. in termini Cass. 17 ottobre 1984, n. 5242)»; Cass. civ., sez. lav., 26 novembre 2007, n. 24582 secondo cui «non può dubitarsi che l’attività volta alla tutela per patrimonio boschivo, nella specie con la vigilanza contro il pericolo di incendi, debba rientrare nel concetto di selvicoltura». 
[21] 
La modifica apportata al primo comma dell’art. 2135 c.c., con la sostituzione di “allevamento di bestiame” con “allevamento di animali”, è da intendersi nel senso di «non vincolare l’attività di allevamento ad un rapporto di complementarità e di necessità con il fondo» superando l’interpretazione restrittiva della giurisprudenza (v. Cass. civ., sez I, 23 luglio 1997, n. 6911, in Diritto e Giurisprudenza agraria e dell’ambiente, 1998, 378 in cui si afferma che l’attività agricola, per essere considerata agricola, deve essere in collegamento funzionale con il fondo). Cfr. G. Galloni, Nuove linee di orientamento e di modernizzazione dell’agricoltura in Diritto e Giurisprudenza agraria e dell’ambiente, 2001, 492 ss. 31 Cfr. V. Buonocore, L’imprenditore in generale in Manuale di diritto commerciale, 2016, 7-54. Cfr. anche T.A.R. Veneto Venezia, sez II, 7 ottobre 2008, n. 03133, secondo cui «significativa è la sostituzione del termine “bestiame”, ricompreso nella precedente lettura dell’articolo 2135, con il nuovo termine “animali”, che ha inteso superare le restrittive interpretazioni giurisprudenziali in materia e riconoscere a varie tipologie di allevamento il presupposto per la qualificazione di attività imprenditoriale nel settore dell’agricoltura, indipendentemente dalla presenza o meno di un fondo. Ne consegue che, oltre ai tradizionali allevamenti connessi a un fondo (allevamenti da carne, da lavoro, da latte e da lana) vengono ricompresi nell’attività imprenditoriale agricola una serie di allevamenti quali avicoltura, apicoltura, bachicoltura, ecc. non necessariamente correlati alla titolarità o meno di un fondo da parte dell’imprenditore [...] Tuttavia la peculiarità del caso concreto è data, come visto, dalla particolare natura dell’imprenditore, posto che la legge quadro sull’apicultura, L. 24 dicembre 2004, n. 13, all’art. 2 prevede che “La conduzione zootecnica delle api, denominata “apicoltura”, è considerata a tutti gli effetti attività agricola ai sensi dell’articolo 2135 del codice civile, anche se non correlata necessariamente alla gestione del terreno”». Con riguardo all’apicultura, ai sensi dell’art. 3, co. 2 della L. 24 dicembre 2004, n. 13 «È imprenditore apistico chiunque detiene e conduce alveari ai sensi dell’articolo 2135 del Codice civile».
[22] 
Sebbene secondo l’orientamento giurisprudenziale l’allevamento di cavalli da corsa avrebbe natura commerciale e non agraria. Cfr. Trib. Brescia 6 dicembre 2002 con nota di T. Bagliulo, in Dir. Fall. 2003, 6, 959, in cui si afferma che è da ritenere quale fulcro della nuova disposizione codicistica l’elemento indicato come la “cura e lo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso”, in maniera quindi indipendente oramai da una relazione con il fondo o con l’accettazione del c.d. rischio merceologico: una attività non piccola che non sia svolta nell’ambito di tale ciclo non potrà quindi ritenersi agricola, bensì commerciale. 
[23] 
Cfr. Cass. civ., sez. I, 24 marzo 2011, n. 6853 secondo la quale «ha, invece, carattere commerciale o industriale ed è, quindi, soggetta al fallimento, se esercitata sotto forma d’impresa grande e media, quell’attività che, oltre ad essere idonea a soddisfare esigenze connesse alla produzione agricola, risponda, allo stesso tempo, ad altri scopi commerciali o industriali e realizzi utilità del tutto indipendenti dall’impresa agricola o comunque prevalenti rispetto ad essa (conformi, Cass. 150/66; Cass. 17251/02; Cass. 10527/98) sicché, occorre attribuire rilevanza alla finalità od utilità prevalente di siffatta attività, per stabilire se essa debba o meno qualificarsi connessa, complementare o accessoria alla coltivazione della terra (conformi Cass. 3010/78; Cass. 1946/80). In altri termini, è qualificabile come attività agricola essenziale quella che costituisce forma di sfruttamento del fattore terra, sia pure con l’ausilio delle moderne tecnologie, mentre diventa attività commerciale quando questo collegamento viene meno del tutto. V. a questo proposito Cons. Stato sez. IV, 16 febbraio 2010, n. 885 che afferma che l’attività connessa dell’imprenditore agricolo di cui all’art. 2135 c.c. deve restare collegata all’attività dal medesimo esercitata in via principale mediante un vincolo di strumentalità o complementarietà funzionale, in assenza del quale essa non rientra nell’esercizio normale dell’agricoltura ed assume, invece, il carattere prevalente od esclusivo dell’attività commerciale o industriale; in ogni caso, allorquando l’attività, della cui connessione con un’attività propriamente agricola si discute, abbia in concreto dimensioni tali, anche nell’ambito della medesima impresa, che la rendono principale rispetto a quella agricola, deve escludersi il carattere agricolo dell’attività stessa.
[24] 
Con riguardo alla valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale prevista dall’art. 2135 c.c. l’orientamento giurisprudenziale ha ritenuto estranee all’attività agricola, la realizzazione e gestione di villaggi turistici, la costruzione, gestione, locazione e vendita di appartamenti, bungalows, alberghi e sale di convegni, le quali non sono neanche riconducibili al concetto di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale come previsto dalla normativa.
[25] 
Sul risanamento delle imprese agricole si veda il documento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, Linee guida per il risanamento delle imprese agricole, a cura del Tavolo di Lavoro sul sovraindebitamento delle aziende agricole, febbraio 2021.

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