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Saggio

Obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi del periodo d’imposta anteriore all’apertura del fallimento secondo la Suprema Corte*

Marco Rubino, Dottore commercialista in Milano

6 Luglio 2021

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.

Visualizza: Cass., Sez. 5, 2 marzo 2021, n. 5623, Pres. Sorrentino, Est. Fracanzani

Il presente contributo commenta, criticandola, la recente ordinanza della Suprema Corte del 2 marzo 2021, n. 5623, in cui ha stabilito che spetta al curatore presentare la dichiarazione dei redditi del periodo d’imposta antecedente quello in corso alla dichiarazione di fallimento se a tale data sono ancora aperti i termini per la presentazione. In realtà, si tenterà di dimostrare come, sulla base di considerazioni giuridiche nonché di ragioni di ordine pratico,  un simile obbligo debba incombere sul fallito il quale, pur avendo subito lo spossessamento per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, non perde il suo status di contribuente, con la conseguenza che egli potrà validamente porre in essere tutti gli adempimenti richiesti dalle norme fiscali, ivi incluso quello di presentare la dichiarazione dei redditi per il periodo d’imposta antecedente a quello in essere alla data della sentenza di fallimento.
Riproduzione riservata
1 . Introduzione
Con l’ordinanza del 2 marzo 2021, n. 5623, la V Sezione della Corte di Cassazione ha stabilito che l'obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi grava, anche ove non sia stato prodotto reddito in quell'anno di imposta, sul legale rappresentante per le persone giuridiche e sul curatore per il fallimento, competendo tale adempimento a colui che sia al governo della persona giuridica al momento della scadenza del termine per adempiere[1]. 
Il recente arresto dei giudici di legittimità suscita alcune perplessità non tanto perché tenta di desumere, con un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, un obbligo tributario in capo al curatore non esplicitamente previsto dalla norma, ma perché, nel farlo, sembra voler far rivivere (per lo meno sotto il profilo degli obblighi tributari) l’antica tesi che vedeva nel curatore il rappresentante o il sostituto del fallito[2].
Per comprendere adeguatamente i termini della questione sarà bene tuttavia effettuare preliminarmente un breve riepilogo degli adempimenti dichiarativi che incombono sul curatore, espressamente previsti dalle norme tributarie[3].
2 . Gli obblighi dichiarativi espressamente previsti dalle norme tributarie
Per quanto riguarda l’IVA, il primo comma dell’art. 8 del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, prevede un obbligo generico in capo a tutti i soggetti d’imposta di presentare annualmente la dichiarazione riguardante le operazioni attive e passive rilevanti ai fini IVA.
La norma si applica dunque anche alle imprese fallite e, conseguentemente, il curatore dovrà provvedere, per ciascun anno di durata della procedura, a presentare la dichiarazione annuale IVA relativa alle operazioni attive e passive relative all’attività di liquidazione del patrimonio fallimentare
Il quarto comma del medesimo articolo, precisa tuttavia che, per quanto riguarda l’anno in cui è intervenuto il fallimento, il curatore deve ricomprendere nella dichiarazione annuale, non solo le operazioni rilevanti ai fini IVA da lui effettuate dopo la sentenza dichiarativa di fallimento, ma anche quelle effettuate dal fallito nel segmento temporale ricompreso tra l’inizio dell’anno e l’apertura della procedura stessa[4] [5]. 
Il curatore, inoltre, è tenuto a presentare anche la dichiarazione relativa all’anno precedente a quello in cui è intervenuta la sentenza di fallimento sempre che, alla data di apertura della procedura, i termini di presentazione non siano ancora scaduti e che non vi abbia già provveduto il fallito.
In tema di IVA, dunque, la normativa tributaria prevede esplicitamente che il curatore debba farsi carico non solo degli obblighi dichiarativi relativi alle operazioni poste in essere dalla curatela, ma anche di quelli relativi alle operazioni effettuate dalla società in bonis, con riferimento sia alla frazione d’anno antecedente la dichiarazione di fallimento, sia all’anno precedente (in quest’ultimo caso, a condizione, però, che i termini non siano già scaduti e che non vi abbia già provveduto il fallito).
Per quanto riguarda le imposte sui redditi, viceversa, il primo comma dell’art. 1 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, dispone, in generale, che ogni soggetto passivo dichiari annualmente i redditi posseduti anche se non ne consegue alcun debito d’imposta
La norma generale, tuttavia, trova un’eccezione per quanto riguarda le imprese sottoposte a procedura concorsuale.
L’art. 5, comma 4, del citato D.P.R. n. 322 del 1998, prevede infatti che il curatore, durante la procedura, in deroga all’obbligo di presentazione annuale, debba presentare solo due dichiarazioni: la c.d. “dichiarazione iniziale”, relativa al periodo che va dall’inizio dell’esercizio alla data dell’apertura della procedura, e la c.d. “dichiarazione finale” relativa a tutto il periodo di durata della procedura (c.d. “maxi-periodo”). 
La ratio che sta alla base di queste due dichiarazioni riguarda la differente modalità di determinazione della base imponibile per i due periodi.
Mentre infatti per il periodo prefallimentare la base imponibile viene calcolata secondo gli ordinari criteri di determinazione del reddito d’impresa (sicché, di fatto, la dichiarazione iniziale differisce da quella degli esercizi precedenti solamente per la minor durata del periodo preso a riferimento), per il periodo di durata della procedura il reddito imponibile viene determinato come differenza tra il residuo attivo al termine della procedura ed il netto patrimoniale esistente all’apertura del fallimento (art. 183, co. 3, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, c.d. TUIR). 
A parte tali adempimenti, per quanto riguarda le imposte sui redditi non esiste alcuna norma che preveda esplicitamente l’obbligo in capo al curatore di presentare la dichiarazione dell’esercizio chiuso anteriormente a quello in corso alla data di apertura del fallimento.
3 . Obblighi dichiarativi desumibili dall’ordinamento il recente arresto della Suprema Corte
Posto che, come si è visto, le norme tributarie non prevedono esplicitamente l’obbligo in capo al curatore di presentare la dichiarazione dei redditi della società fallita per il periodo d’imposta concluso precedentemente a quello in corso alla data di fallimento, ci si domanda se l’esistenza di tale obbligo non possa essere desunta dai principi generali dell’ordinamento tributario.
Proprio a tale quesito hanno ritenuto di dare risposta positiva i giudici di legittimità nell’ordinanza in commento.
Il caso esaminato dagli ermellini prende le mosse da un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate nei confronti della curatela conseguente all’omessa presentazione da parte di quest’ultima della dichiarazione dei redditi della società fallita relativa all’anno antecedente la dichiarazione di fallimento.
Avverso tale avviso proponeva ricorso la curatela negando l’esistenza dell’obbligo contestato, non essendo previsto da alcuna norma specifica.
Il ricorso, rigettato dal giudice di prossimità, trovava favorevole accoglimento in sede di appello.
Contro tale decisione promuoveva ricorso per cassazione l’Avvocatura generale dello Stato argomentando che il fatto che tale obbligo sia espressamente previsto dall’art. 8, comma 4, D.P.R. n. 322 del 1998, solo ai fini I.V.A. non autorizza a ritenere che esista un vuoto normativo per quanto concerne le imposte sui redditi. Dovendosi a contraris ritenere che, viceversa, non esiste alcuna norma che affranchi il curatore fallimentare dal presentare la dichiarazione dei redditi[6].
La Corte ha ritenuto il motivo fondato e meritevole di accoglimento in ragione di una lettura sistematica e “costituzionalmente adeguata” dell’ordinamento. L’art. 1 del D.P.R. n. 600 del 1973, pone il dovere di presentare la dichiarazione in capo alla generalità dei contribuenti, anche quando non abbiano prodotto reddito nel periodo d’imposta considerato. Per le persone giuridiche il dovere si intende in capo al legale rappresentante mentre in caso di fallimento il dovere incombe sul curatore “che ne prende la guida al momento della pubblicazione della sentenza che dichiara lo stato di decozione”. Secondo i giudici di legittimità, dunque, “non vi può essere soluzione di continuità nella conduzione d’impresa, almeno ai fini fiscali (che qui interessano), sicché il curatore si trova nella posizione di potere/dovere propria dell’imprenditore, seppur senza l’alea che quello caratterizza, bensì con i limiti propri che la legge prevede a garanzia dei creditori, tra cui quel creditore privilegiato che è lo Stato”. Da ciò la Corte conclude che, se al fallito non può essere imputata la mancata presentazione della dichiarazione prima della sua scadenza “al curatore compete presentare la dichiarazione la cui scadenza sia successiva alla sua nomina nell’ufficio” in quanto “questo adempimento incombe – per la citata generale disposizione di legge – in capo a chi sia al governo della persona giuridica al momento della scadenza del termine per adempiere”.
A sostegno delle proprie motivazioni i giudici si richiamano inoltre ad un precedente conforme reso in sede penale (Cass., Sez. III Pen., 19 novembre 2011, n. 1549). 
4 . Il recente arresto e le precedenti pronunce della stessa Corte: revirement o svista?
La pronuncia appena illustrata non persuade sotto diversi punti di vista a partire proprio dal precedente asseritamente conforme richiamato nell’ordinanza.
Infatti, la sentenza n. 1549/2011, affrontando anch’essa, seppure in sede penale, il medesimo tema, conclude affermando che, mentre spetta al curatore la presentazione della dichiarazione dei redditi del segmento temporale che va all’inizio del periodo d’imposta alla data della sentenza di fallimento, incombe viceversa sul fallito l’obbligo di presentare le dichiarazioni dei redditi dei periodi d’imposta anteriori a quello in corso alla data del fallimento. La pronuncia a sua volta si richiama nella motivazione ad una precedente sentenza della stessa sezione (Cass. pen., Sez. III, 27 ottobre 1995, n. 299) la quale aveva argomentato che “in materia di fallimento, la soggettività passiva nel rapporto tributario permane nei confronti del fallito, il quale dopo la dichiarazione di fallimento perde solo la disponibilità dei suoi beni nonché la capacità processuale e quella di amministrare il suo patrimonio”. Conseguentemente, conclude la corte penale “resta in capo al fallito l’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi relativamente ai periodi di imposta anteriori alla sentenza di fallimento, mentre relativamente ai periodi d’imposta successivi è il curatore fallimentare che, ai sensi dell’art. 10, comma 4, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è obbligato a presentare la dichiarazione dei redditi per l’intervallo di tempo compreso tra l’inizio del periodo di imposta e la dichiarazione di fallimento”[7].
Il fatto che la Sez. V Civile della Corte nell’ordinanza in commento si limiti a richiamare un precedente palesemente in contrasto con la tesi sostenuta, senza peraltro aggiungere alcuna argomentazione che faccia presumere un ripensamento del precedente orientamento, fa legittimamente pensare di trovarsi di fronte ad una semplice svista.
5 . Critica al ruolo del curatore quale sostituto o rappresentante del fallito
L’iter argomentativo dell’ordinanza può essere così schematizzato: poiché ai sensi dell’art. 1 del D.P.R. n. 600 del 1973 l’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi incombe sulla generalità dei contribuenti e poiché per le persone giuridiche tale adempimenti spetta al legale rappresentante, allora in caso di fallimento l’obbligo in discorso incombe sul curatore quale soggetto che “prende la guida [dell’impresa fallita] al momento della pubblicazione della sentenza che dichiara lo stato di decozione”. Secondo la Corte, infatti, il curatore “almeno ai fini fiscali” si troverebbe “nella posizione di potere/dovere propria dell’imprenditore, seppur senza l’alea che quello caratterizza, bensì con i limiti propri che la legge prevede a garanzia dei creditori”.
Dunque, secondo tale ricostruzione, con la sentenza dichiarativa di fallimento il curatore subentrerebbe nella medesima posizione dell’imprenditore fallito senza tuttavia assumere il rischio di impresa, ovvero proprio quella caratteristica che distingue l’imprenditore da altre categorie di soggetti economici (ad es. lavoratori subordinati, prestatori d’opera, ecc.)
Questa argomentazione sembra richiamare l’antica concezione del curatore come sostituto o rappresentante del fallito
La tesi, sostenuta dalla dottrina più risalente, è stata da tempo abbandonata. Dopo un iniziale dibattito che contrapponeva, da un lato chi riteneva di scorgere nel curatore il rappresentante ovvero il sostituto del fallito e, dall’altro, chi viceversa gli assegnava un ruolo di rappresentanza del ceto creditorio[8], la dottrina si è infine orientata nel considerare il curatore un “incaricato giudiziario con posizione autonoma che si pone a fianco del giudice”[9]. 
In altri termini, come è stato osservato da attenta dottrina: “il curatore (nella cui complessa figura predominano gli aspetti di organo intestato di una pubblica funzione nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, sotto la vigilanza della autorità giudiziaria e per la realizzazione dei fini che sono propri della procedura concorsuale) svolge un’attività distinta da quella del fallito, … Egli, quindi, quale organo di giustizia, svolge una funzione pubblicistica per la realizzazione dei fini propri del fallimento, funzionale nella quale egli non rappresenta né il fallito, né la massa dei creditori, ma che esplica in forza di un potere originario che gli spetta ex lege; da ciò la conseguenza che il curatore non può identificarsi con il fallito e nell’esercizio delle sue funzioni è pubblico ufficiale”[10]. 
A sostegno di tale conclusione è stato infatti osservato[11] che le azioni revocatorie nel fallimento non spettano al fallito, ma solo dal curatore, il quale, dunque, quando promuove l’azione non lo fa in sostituzione del fallito. Inoltre, il presunto ruolo del curatore come sostituto del fallito contrasta con il fatto che, nel reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento questi è contraddittore del fallito e che il fallito può intervenire a fianco o contro il curatore nei giudizi da cui può dipendere una imputazione di bancarotta a suo carico[12] [13].
La concezione del curatore quale organo di giustizia che, in quanto tale non si presenta come mero sostituto o rappresentante del fallito, è stata fatta propria sia dalla giurisprudenza di merito[14] sia da quella di legittimità[15].
A tale riguardo, si segnala una pronuncia particolarmente interessante per la questione che ci occupa, proprio con riferimento alle conseguenze che la Corte trae dall’assunto che il curatore “non deriva le sue funzioni da quelle del debitore insolvente, quasi che diventasse un rappresentante legale di lui.”. Secondo Cass., Sez. I, 28 ottobre 1980, n. 5777, infatti, “i compiti del curatore del fallimento vanno, quindi, desunti esclusivamente dalla legge e non è possibile ritenere che egli, al di fuori delle strette incombenze dell'Ufficio, sia tenuto a ‘curare’ l'esecuzione di obblighi non rispettati dall'imprenditore poi fallito”[16] [17].
6 . Il paventato vuoto normativo: sua soluzione
Se dunque dottrina e giurisprudenza si sono da tempo orientare a negare la natura di sostituto o rappresentante del fallito in capo al curatore, occorre ora interrogarsi perché la Suprema Corte nel suo recente arresto abbia voluto rispolverare quello che sembrava essere un concetto ormai superato.
Secondo chi scrive la ragione di ciò può essere identificata dell’erronea convinzione che, una volta dichiarato il fallimento, il curatore sia l’unico soggetto legittimato a compiere atti in nome e per conto della società fallita, ivi compresa la presentazione delle dichiarazioni d’imposta dei periodi anteriori all’apertura della procedura.
Tale conclusione, tuttavia, muove dall’assunto che lo spossessamento che colpisce il fallito ex art. 42 l.fall., così come la perdita della capacità processuale ex art. 43 l. fall., determinino l’impossibilità per quest’ultimo a presentare le dichiarazioni fiscali dei periodi d’imposta conclusi prima della dichiarazione di fallimento[18].
In realtà, come è stato efficacemente osservato da attenta dottrina[19], lo spossessamento fallimentare non determina né la perdita della capacità giuridica né la perdita della capacità negoziale della persona fisica fallita e neppure fa venir meno il suo status di contribuente, con la conseguenza che la persona fisica fallita può validamente porre in essere tutti gli adempimenti richiesti dalle norme fiscali[20], al pari degli amministratori della società fallita i quali, come noto, rimangono in carica anche durante la procedura fallimentare, sia pure con poteri limitati agli ambiti non interessati dallo spossessamento.  
Al di là dei necessari fondamenti giuridici esistono inoltre ragioni di praticità e di buon senso che suggeriscono di porre in capo al fallito l’onere di presentare la dichiarazione dei redditi del periodo d’imposta antecedente l’apertura del fallimento, anziché in capo al curatore.
Occorre infatti considerare che il curatore, all’indomani della sua nomina, non conosce praticamente nulla delle vicende che hanno interessato il fallito prima dell’apertura della procedura e che, anche dopo le prime indagini, spesso la sua conoscenza dei fatti antecedenti rimane parziale. Chi viceversa ha una miglior conoscenza della situazione è senz’altro il fallito e i professionisti che lo hanno assistito: sono loro, infatti, che conservano la memoria storica degli eventi che hanno interessato l’impresa prima del fallimento. È chiaro, dunque, che costoro saranno maggiormente facilitati nel predisporre la dichiarazione dei redditi del periodo prefallimentare, rispetto ad un curatore che di tale periodo ha una conoscenza imperfetta.
Sul grado di conoscenza del curatore gioca anche l’elemento temporale. In tema di IVA, la norma che obbliga il curatore a presentare la dichiarazione dell’anno antecedente a quello di apertura della procedura prevede anche che, in deroga ai termini ordinari la presentazione della dichiarazione debba avvenire entro il termine di quattro mesi dalla nomina ovvero entro i termini ordinari se questi scadono dopo i quattro mesi. Ciò significa dunque che, in ogni caso, il curatore ha a disposizione come minimo quattro mesi di tempo per cercare di reperire la documentazione e le informazioni che gli occorrono per redigere la dichiarazione. Diversamente, l’assenza di una norma analoga per quanto riguarda le imposte sui redditi costringerebbe il curatore, ove si ritenesse essere obbligato a presentare la dichiarazione dell’anno precedente, di farlo entro i termini ordinari. Si immagini allora il caso limite di un curatore che venisse nominato il giorno primo o addirittura il giorno stesso della scadenza del termine: egli si troverebbe nell’incresciosa situazione di dover in un sol giorno redigere la dichiarazione di un intero periodo d’imposta senza praticamente conoscere nulla. Tale incongruenza stride ancora di più se solo si considera che, come si è visto, per quanto riguarda le operazioni compiute dall’impresa fallita nel lasso temporale che va dall’inizio del periodo d’imposta in corso alla data di fallimento a quest’ultima data egli avrebbe viceversa a disposizione più di nove mesi[21]. 
Non pare poi che affidare la predisposizione della dichiarazione in discorso al fallito presenti particolari controindicazioni. 
Anzitutto, è ovvio che, qualora dalla dichiarazione predisposta dal fallito dovesse emergere un debito d’imposta quest’ultimo dovrà comunque essere accertato secondo l’ordinario procedimento di verifica dei crediti previsto dagli artt. 92 ss l.fall., sicché non vi è il rischio di un depauperamento automatico della procedura nel caso in cui il debito d’imposta calcolato dal fallito sia stato, per errore o per dolo, determinato in misura superiore al dovuto.
Non si vede nemmeno nessun problema a consentire al fallito e ai suoi professionisti la consultazione delle scritture contabili e dei documenti necessari per la predisposizione della dichiarazione[22]. Invero la questione di una possibile alterazione delle scritture contabili se non addirittura il trafugamento delle stesse poteva porsi un tempo quando i libri contabili venivano tenuti in unico esemplare su registri bollati. Oggi, l’archiviazione sostitutiva informatica dei documenti, così come l’obbligo di fatturazione elettronica, rende possibile estrarre un numero indefinito di copie senza alterarne il contenuto.
7 . Conclusioni
A parere di chi scrive, dunque, la decisione in commento si presenta come il frutto, da una parte del timore dell’esistenza di un vuoto normativo, da colmare con un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata e, dall’altro, di un equivoco che vede nel curatore fallimentare l’unico soggetto legittimato a presentare le dichiarazioni dei redditi della fallita. In realtà, come si è tentato di dimostrare, non esiste alcun vuoto normativo, solo che si riconosca al fallito la piena legittimazione a presentare la dichiarazione dei redditi del periodo d’imposta anteriore a quello in corso alla data di fallimento, anche qualora i termini di presentazione scadano successivamente all’apertura della procedura.
Negare questa possibilità in capo al fallito presuppone di postulare una sua completa sostituzione da parte del curatore, quando in realtà, quest’ultimo, non fa altro che gestire un patrimonio altrui per conto dell’autorità giudiziaria che lo ha nominato.
Né, pare, si possa ragionevolmente sostenere – come ha fatto la corte – che non vi sia soluzione di continuità nella conduzione dell’impresa posto che, viceversa, la soluzione di continuità è evidente. Il passaggio dalla situazione in bonis al fallimento non si traduce in un semplice cambio di governace (come potrebbe capitare nell’ipotesi di sostituzione, anche giudiziale, degli amministratori), ma determina viceversa una cesura tra l’impresa in esercizio e la liquidazione giudiziale del suo patrimonio. Cambiano dunque non solo i soggetti, ma anche le finalità della gestione: al management impegnato nell’esercizio dell’impresa finalizzato alla realizzazione di un risultato economico, si sostituisce un soggetto di nomina giudiziale (il curatore) il cui compito consiste nel liquidare il patrimonio aziendale allo scopo di soddisfare i creditori sociali secondo regole procedurali strettamente codificate. 
Tale differente finalità è stata riconosciuta dallo stesso legislatore tributario il quale, infatti, ha previsto che l’imposta sui redditi venga determinata non secondo i normali parametri previsti per le imprese in funzionamento ma come differenza patrimoniale tra l’eventuale residuo attivo esistente alla chiusura della procedura e il patrimonio netto esistente alla data di apertura della stessa. 
In conclusione, dunque, si auspica che la decisione in commento rappresenti un incidente di percorso e non l’inizio di un nuovo orientamento che potrebbe essere foriero di confusione tra gli operatori del settore.

Note:

[1] 
Massima ufficiale reperibile, insieme al testo integrale dell’ordinanza, in questo portale. Per un sunto della pronuncia v. anche STASI, Osservatorio tributario, in Fall., 2021, p. 726.
[2] 
Nel prosieguo della trattazione, per semplicità, si userà spesso il termine “fallito” in senso lato, intendendo con esso non solo il fallito persona fisica, ma anche la persona giuridica fallita, nonché l’organo di gestione della stessa. 
[3] 
Il riferimento è alla sola IVA e alle imposte sui redditi. Infatti, benché gli adempimenti dichiarativi che incombono sul curatore possano riguardare anche altre tipologie di imposte (ad es. l’IMU in caso di immobili acquisiti all’attivo fallimentare oppure l’IRAP in caso di esercizio provvisorio), è indubbio che la questione di maggior interesse si pone per quanto riguarda l’IVA e le imposte sui redditi.
[4] 
Tale previsione è coerente con il disposto del primo comma dell’art. 74-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in forza del quale per le operazioni effettuate anteriormente alla dichiarazione di fallimento, gli obblighi di fatturazione e registrazione, sempreché i relativi termini non siano ancora scaduti, devono essere adempiuti dal curatore. Inoltre, per tali operazioni il curatore deve presentare, in via telematica ed entro quattro mesi dalla nomina, apposita dichiarazione al competente ufficio dell’Agenzia delle entrate ai fini dell’eventuale insinuazione al passivo della procedura concorsuale (c.d. “Modello 74 bis”). 
[5] 
Dal punto di vista operativo la dichiarazione annuale è unica ma, come precisano le istruzioni ai modelli ministeriali, deve essere composta da due moduli: il primo, per le operazioni registrate nella parte di anno solare anteriore alla dichiarazione di fallimento e il secondo per le operazioni registrate successivamente a tale data.
[6] 
L’argomentazione dell’Ufficio è la medesima svolta da una delle pronunce di merito più risalenti. C. T. 2° grado di Roma, Sez. X, 20 ottobre 1981, n. 2213, in Boll. trib., 1982, I, p. 163, sostiene infatti che la curatela fallimentare, quale amministratrice dei beni del fallito, è obbligata a presentare la dichiarazione dei redditi se in pendenza del termine di presentazione il contribuite è stato dichiarato fallito, in quanto l’obbligo prescritto dall’art. 10 del D.P.R. n. 600 del 1973 non esclude quello di adempiere, in pendenza dei termini, le obbligazioni già facenti carico al fallito. Il provvedimento, commentato da TESAURO, ibidem, è stato criticato in quanto l’art. 10 del D.P.R. n. 600/1973 (nella versione vigente all’epoca della pronuncia) impone al curatore l’obbligo di presentare la dichiarazione relativa al periodo che va dall’inizio del periodo d’imposta alla dichiarazione di fallimento, mentre nessun obbligo gli è imposto per le dichiarazioni relative ai periodi di imposta già conclusi alla data della sentenza dichiarativa di fallimento. Argomenta infatti l’A. che “La norma non va interpretata in relazione agli obblighi «non esclusi», ma in relazione agli obblighi che impone, perché ogni altro obbligo non imposto è per ciò stesso escluso”.
[7] 
Sul punto si era pronunciato in senso analogo anche il giudice penale di primo grado (cfr. G.I.P. Trib. Bologna, 19 settembre 1991, in Boll. trib., 1992, I, p. 633).
[8] 
I termini del dibattito sono riportati da BRIGHENTI, La non responsabilità penaltributaria del curatore fallimentare, in Rass. trib., 1990, I, p. 495.
[9] 
In questo senso FERRARA, voce Curatore del fallimento, in Enc. Dir., p. 513, citata in BRIGHENTI, Cit., p. 495.
[10] 
In questo senso QUATRARO – D’AMORA, Il curatore fallimentare, Milano, 1999, Tomo I, p. 531. Dello stesso avviso anche APICE, Adempimenti fiscali del curatore fallimentare, Roma, 1986, p. 2, che osserva come “il curatore non assume compiti gestionali, ma fa scelte di programma economico-aziendali, non corre i rischi connessi all’attività. Egli ha solo compiti liquidatori nell’ambito di un munus pubblico e non svolge un’attività economica”.
[11] 
Cfr. QUATRARO – D’AMORA, Cit., p. 540. In senso analogo si veda anche MAZZOCCA, Gli organi: il giudice delegato, il curatore ed il comitato dei creditori, in Le procedure concorsuali. Il fallimento, trattato diretto da Ragusa Maggiore – Costa, Vol. I, Torino, 1997, p. 340.
[12] 
Il ruolo di terzietà del curatore rispetto al fallito si può osservare anche in sede di verifica dei crediti dove si ritiene che, proprio poiché egli non assume la posizione di sostituto o di successore del debitore fallito, al medesimo non sono opponibili né i documenti sforniti di data certa ai sensi dell'art. 2704 c.c. né le risultanze delle scritture contabili ritualmente tenute ex art. 2710 c.c. (sul punto cfr. Trib. Messina, sez. II, 10 aprile 2015, n. 880, in banca dati Dejure).
[13] 
Tra i molti che in dottrina hanno sostenuto che il curatore non possa essere considerato né rappresentante del fallito né della massa dei creditori si segnalano, oltre agli Autori sopra citati, i seguenti autorevoli commentatori: LO CASCIO, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 1998, p. 116 e Creditori «in» e creditori «out», in Giur. Comm., 1978, II, p. 338; SATTA, Diritto fallimentare, Padova, 1974, p. 96; FERRARA, Curatore del fallimento, in Enc. del diritto, Milano, 1962, Vol. XI, p. 511; CELORIA – PAJARDI, Commentario alla legge fallimentare, Milano-Messina, Vol. I, 1960, p. 223.
[14] 
A riguardo si segnalano App. Bologna 10 giugno 1978, in Dir. Fall., 1978, II, p. 435 ss., con nota di BRONZINI, Domanda di ammissione al passivo fondata su cambiale; Trib. Napoli 28 febbraio 1976, in Dir. Fall., 1976, II, p. 444 ss.; Trib. Napoli 3 marzo 1975, in Dir. Fall., 1975, II, p. 454 ss.; Trib. Napoli 13 febbraio 1973, in Dir. Fall., II, p. 714 ss.
[15] 
A riguardo si vedano Cass., Sez. I civ., 22 dicembre 1994, n. 11047, in Boll. trib., 1995, p. 1679; Cass. 5 aprile 1974, n. 955, in Dir. Fall., 1975, II, p. 39 ss.; reperibile anche in Giur. Comm., 1974, 255 ss.; Cass. 6 maggio 1966, n. 1154, in Dir. Fall., 1966, II, p. 474 ss.
[16] 
In tal senso Cass., Sez. I, 28 ottobre 1980, n. 5777, in Rass. trib., 1981, II, p. 360 ss., con nota di PIETRANTONIO.
[17] 
In senso analogo si è espressa in epoca più recente anche Cass. 20 marzo 1993, in Boll. trib., 1994, p. 719, nonché la giurisprudenza tributaria là dove ad es. ha affermato che il curatore non può essere fatto oggetto di invito a comparire da parte dell’Amministrazione finanziaria in quanto, per la sua qualifica di pubblico ufficiale e ausiliario del giudice, non può essere considerato né un rappresentante né un sostituto del contribuente (Così C.T.P. Modena, Sez II, 3 marzo 1999, n. 225, in Boll. trib., 1999, p. 592 s. Sul punto si veda anche C.T.C. 17 maggio 1985, n. 2119, in Boll. trib., 1995, p. 1600.).
[18] 
Questa la tesi sposata dall’Amministrazione finanziaria dapprima con la Circ. 7 novembre 1988, n. 5, e successivamente ribadita con la Ris. 2 febbraio 2007, n. 8. A onor del vero, nella circolare del 1988 la soluzione era presentata dalla stessa Amministrazione in termini tutt’altro che perentori nella misura in cui si legge che l’obbligo di presentazione della dichiarazione in commento “dovrebbe [corsivo aggiunto] fare carico al curatore”, salvo poche righe oltre riferire che “la Direzione Generale ha trasmesso al Comitato Tecnico per l’attuazione della riforma tributaria il parere fornito dall’Avvocatura Generale dello Stato in merito alla questione dell’individuazione del soggetto tenuto alla presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta anteriore a quello in corso alla data della dichiarazione del fallimento, quando non vi abbia già provveduto il contribuente fallito”, a riprova del fatto, secondo chi scrive, che la stessa Amministrazione non pare pienamente persuasa dell’interpretazione fornita.
[19] 
In tal senso STASI, Obblighi fiscali del curatore, in Fall., 2007, p. 1115; ripreso dallo stesso A. anche in Il fallimento nel diritto tributario, in Codice commentato del fallimento diretto da Lo Cascio, Milano, 2015, p. 2603 e in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, trattato diretto da Cagnasso – Panzani, Torino, 2016, Tomo III, p. 4453.
[20] 
In senso analogo si veda il parere reso in Boll. trib., 1990, I, p. 397, secondo cui il fallito non è un interdetto e la sua incapacità processuale, così come la perdita di amministrazione e di disponibilità del suo patrimonio non gli impediscono di adempiere a quegli obblighi che la legge gli impone e che restano al di fuori delle predette situazioni. Egli può dunque presentare le dichiarazioni dei redditi riferite ai periodi di imposta già chiusi alla data di fallimento, mentre non può versare le relative imposte. 
[21] 
Sul punto si veda STASI, Obblighi fiscali del curatore, cit., secondo cui questa disparità di trattamento potrebbe costituire violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.
[22] 
Anzi, come correttamente osservato da STASI, Obblighi fiscali del curatore, cit., occorre tenere in debito conto che, l’art. 86, co. 2, l. fall. conferisce al fallito la facoltà di richiedere al curatore l’esibizione delle scritture contabili e dunque anche di tutti i documenti necessari a redigere la dichiarazione.

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