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Saggio

Obblighi e responsabilità nella rilevazione tempestiva della perdita di continuità aziendale ai sensi del CCII*

Enrico Ginevra, Ordinario di Diritto Commerciale nell'Università degli Studi Bergamo

22 Luglio 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’A. si sofferma sulla spinosa tematica degli assetti organizzativi, indagandone gli obblighi specifici e i corollari in punto di responsabilità.
Riproduzione riservata
1 . Introduzione
La materia degli assetti organizzativi dell’impresa e del relativo dovere da parte dell’imprenditore collettivo è divenuta in pochi anni uno dei cardini della governance societaria. E questo soprattutto nella prospettiva della disciplina della crisi, data l’importanza del dovere in questione in relazione all’obiettivo di prevedere tempestivamente la crisi e porvi rimedio. 
Le previsioni normative succedutesi al riguardo – e qui centralmente quelle previste nel CCII - sollevano un’esigenza di chiarimento e precisazione, nella loro novità e complessità, da un duplice punto di vista. Occorre cioè che i precetti vengano con esattezza puntualizzati e delimitati sia per fare in modo che possano “funzionare”, ossia che si raggiunga lo scopo di legge di salvaguardare la continuità, sia per evitare che il tentativo di raggiungere quello scopo non produca il grave riflesso negativo di mortificare un elemento vitale dell’attività imprenditoriale, quale quello dell’assunzione del rischio d’impresa 
Insomma, le norme sull’imposizione del dovere di adeguatezza degli assetti funzionali alla rilevazione della crisi, da un lato non devono essere vuote parole, dall’altro non devono essere ostacoli alla capacità e alla disponibilità dell’imprenditore a farsi attore di sviluppo, bensì guida allo stesso fine. 
2 . Gli assetti tipici per la rilevazione della crisi e la relativa cadenza temporale
Il primo profilo ci porta subito alla specificità della sede, nell’ambito della quale oggi trattiamo il tema in questione 
Nel CCII l’art. 3, comma 2, si focalizza sulla tempestiva rilevazione della crisi d’impresa, mentre, come sappiamo, l’art. 2086 c.c. dispone l’obbligo di adeguatezza “anche” in funzione di tale obiettivo. Se dunque qui di “rilevazione” dobbiamo parlare, delle varie categorie di assetti considerati dalla norma generale viene ora in rilievo essenzialmente quello contabile. 
Ma che cosa significa tale precetto del comma 2, in termini operativi? Come noto, rispetto a un siffatto quesito viene in soccorso di operatori e interpreti il comma 3, che tipizza la fattispecie nei contenuti, precisando che dai documenti dell’impresa devono potersi trarre: eventuali squilibri di tipo patrimoniale o di tipo economico-finanziario (lett. a); la possibilità di pagamento alle scadenze dei debiti, almeno in un orizzonte annuale (lett. b); i dati con i quali poter elaborare la lista di controllo particolareggiata e il test di risanabilità (lett. c).
Si tratta di documenti per vero, per la maggioranza di essi, non nuovi e ormai comuni alla prassi contabile, specie delle società di dimensioni consistenti. Si tratta di elaborare periodicamente un bilancio, un piano finanziario e accertarsi che nella contabilità siano presenti i dati della lett. c. Certamente più impegnativo - e dunque si tratta del principale elemento di novità – è il piano di cassa “rolling”, ossia il documento che mostri la continua capacità di pagamento dei debiti nell’orizzonte annuale. 
Un punto però non chiarito nella norma attiene al profilo temporale che regola l’obbligo di confezionamento documentale in parola. Con quale cadenza vanno approntati i citati documenti? È sufficiente avere riguardo alla scadenza annuale del bilancio o le nuove norme impongono altra periodicità? 
In ordine a tali quesiti, sono individuabili due dati normativi. Il primo, guardando alla s.p.a., è l’art. 2381 c.c., in tema di regolazione degli incarichi interni al consiglio di amministrazione, il quale, come noto, prevede una cadenza semestrale per l’attività di reporting dell’amministratore delegato al plenum. È lecito dunque chiedersi se nel resoconto sul generale andamento della gestione vada inserito l’esito della verifica in ordine all’esclusione di scenari di non continuità, qui in discussione. 
Un secondo ausilio è oggi fornito dal quarto comma dell’art. 3 CCII, il quale tipizza una serie di segnali “per la previsione di cui al comma 3”, ossia per la “verifica della sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale”. Pare corretto ritenere che tali segnali, nel rappresentare elementi che certificano la possibile esistenza di uno squilibrio rilevante ai sensi del comma 3 CCII, là dove non concorrano senz’altro a denunciare l’emersione della crisi (o l’insolvenza) segnino l’ingresso dell’impresa in una twilight zone, la quale implica l’esigenza di un’alterazione del normale quadro di reporting contabile: nel senso appunto di esigere una verifica della situazione dell’impresa molto più frequente di quanto accade nel periodo della sua fisiologia. 
Verifica più frequente non significa però “continuativa”. Lo si ricava a contrario dalla circostanza che un monitoraggio continuativo è uno dei requisiti la cui presenza è da verificare nella lista di controllo particolareggiata prevista nella lett c) dell’art. 3, comma 3, CCII, la quale però è espressamente previsto vada utilizzata solo allorché occorra formare un piano di risanamento (in caso di composizione negoziata). Prima di quel momento, la lettera citata impone solo che l’organizzazione d’impresa deve consentire di ricavare le informazioni per l’utilizzo (eventuale e futuro) della lista di controllo: ossia avere un’organizzazione amministrativa capace, alla bisogna, di redigere la documentazione contabile di quel monitoraggio continuativo a cui si è fatto prima riferimento. 
Tutto questo vale se si concorda su un assunto, che mi pare per la verità difficilmente discutibile nell’incastro normativo generato dai commi in esame. E cioè che, come già accennato, i “segnali” tipicamente elencati nell’art. 3, comma 4, CCII non sono di per sé evidenze di crisi. Questa, come stabilisce in termini netti l’art. 2 CCII, è situazione integrata unicamente dalla prospettica incapacità di pagare i debiti annuali. Ciò significa che è rappresentabile una situazione in cui vi sia “squilibrio” (ex art. 3, comma 3, lett. a) ma non crisi: appunto una twilight zone, la quale non fa scattare senz’altro l’obbligo dell’impresa di attivarsi per l’adozione di strumenti di regolazione. In una tale ipotesi si chiede all’imprenditore al più di valutare l’opportunità del ricorso alla composizione negoziale, che richiede unicamente l’accertamento di una situazione di probabilità di crisi (art. 12 CCII): ossia di una “probabilità di una probabilità”. 
3 . I documenti di rilevazione della crisi e la soluzione prospettica degli squilibri dell’impresa
Sorgono un paio di interrogativi: 
i) Nella twilight zone, ai fini dell’assolvimento dei doveri di diligenza e correttezza degli amministratori di una s.p.a., è sufficiente operare una verifica dei documenti “fisiologici” dell’impresa, quali prima ricordati, sebbene con maggiore frequenza rispetto a quanto deriverebbe dalle ordinarie cadenze imposte dall’art 2381, o bisogna pretendere qualcosa in più dall’organo di gestione? E cioè in particolare deve ritenersi che gli amministratori siano tenuti ad elaborare piani e/o strategie finalizzati alla disattivazione dei “segnali” e dunque al superamento degli squilibri di cui all’art. 3, comma 3, lett. A, monitorandone in qualche modo l’attuazione? 
ii) Quali sono i rapporti tra la twilight zone “tipica” e la “probabilità di crisi” dell’art. 12? Quest’ultima è qualcosa di diverso e ha la stessa rilevanza “attivante” l’accelerazione degli obblighi di rilevazione della crisi o è una situazione magari solo parzialmente coincidente con lo squilibrio e di per sé non implicante uguali conseguenze?
3.1 . Assetti e rimozione dei “segnali”
Una volta appurato che l’impresa si trovi in situazione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, anche là dove questa non integri ancora la fattispecie di crisi non pare dubbio che sorga un dovere di rimozione dello squilibrio medesimo. Lo si ricava anzitutto dalla regola generale degli assetti organizzativi di cui all’art. 2086 c.c., ai sensi del quale l’impresa collettiva deve avere un’organizzazione aziendale in generale adeguata non solo alla rilevazione della crisi ma prima ancora al fisiologico svolgimento dell’attività. E ciò può affermarsi solo là dove consti l’adozione di un modello aziendale il quale sul piano patrimoniale ed economico-finanziario possa dirsi equilibrato. In più, nella medesima direzione non può non leggersi l’art. 4, comma 2, lett. b), CCII, il quale fa gravare sul debitore il dovere generale di “assumere tempestivamente le iniziative idonee alla individuazione delle soluzioni per il superamento delle condizioni di cui all’art. 12, comma 1”, ossia la ricorrenza di una “probabilità di crisi”. 
Insomma, se emergono i “segnali” di cui all’art. 3, comma 4, CCII, pure nell’ipotesi in cui l’esito del budget di tesoreria annuale superi il test imposto dalla nozione di crisi, occorre che dai provvedimenti adottati e/o dai documenti approntati emerga una prospettiva di ripristino di una situazione di equilibrio dell’impresa. Questo non significa necessariamente ipotizzare che gli amministratori debbano senz’altro ricorrere alla composizione negoziata o a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza; e nemmeno deve senz’altro pretendersi che le situazioni oggetto dei “segnali” vengano subito risolte, anche solo elaborando un piano industriale pluriennale con un orizzonte temporale pari, ad es., al riassorbimento dei debiti oggetto di concreta segnalazione. Occorre però che chi governa l’impresa sia in condizioni di prevedere e rendicontare, sulla base di un dato programma (il quale può anche consistere nella mera continuazione dell’attività, ove gli squilibri sono stati determinati da eventi esogeni straordinari, destinati a rientrare) adeguatamente documentato, che lo squilibrio è destinato a ristabilirsi: ad es, individuando i dati dai quali si ricavi la ragionevolezza del futuro riassorbimento dei debiti segnalati.
Va peraltro evidenziato il riferimento normativo alla circostanza che dato rilevante al fine dell’emersione della crisi è lo squilibrio patrimoniale. Si tratta infatti certamente di un argomento che fornisce un sostegno in più all’argomento secondo cui la disciplina degli assetti impone di riconsiderare l’idea dell’esistenza di un nesso tra capitale reale - o patrimonio netto – e oggetto sociale: sebbene questo nesso vada appunto inteso non quale condizione per la costituzione dell’ente ma quale oggetto dell’obbligo di cura e valutazione degli amministratori. 
3.2 . Assetti e probabilità della crisi
La probabilità di crisi di cui all’art. 12 sembra un fatto che scorre parallelo rispetto ai dati della twilight zone, e dunque del tutto indipendente dall’esistenza dei segnali di crisi più o meno qualificati. È chiaro, più precisamente, che un segnale può incidere nel giudizio di probabilità di crisi, che però ritengo per lo più attenga a una anticipazione della previsione di tesoreria presupposta dall’art. 2 CCII: si ha cioè probabilità di crisi quando i flussi di cassa non documentano ancora una inadeguatezza alla copertura dei debiti annuali ma è ragionevole che lo faranno nel prossimo futuro in mancanza di interventi sull’organizzazione d’impresa. 
Al riguardo, pare lecito affermare che il legislatore si sia rappresentato la possibilità che l’imprenditore possa ricorrere alla composizione negoziata là dove ricorrano tre diverse situazioni: i) una conduzione ancora non problematica ma non redditizia, al punto da far prefigurare una futura (o prossima) crisi; ii) una situazione di crisi; iii) l’insolvenza. I segnali di cui all’art. 3 teoricamente riguardano le prime due fattispecie, sebbene siano certo compatibili con la terza (ma a quel punto non sono più segnali, bensì co-elementi). Tuttavia, trattandosi appunto di “segnali”, non può certo escludersi la possibilità che essi concretamente rappresentino falsi positivi e non vi sia alcuna “probabilità di crisi” da affrontare 
Deve peraltro evidenziarsi che, nell’approfondimento dei segnali, sul fronte dell’obbligo di attivazione altra è la posizione degli amministratori allorché in concreto emerga una mera probabilità di crisi rispetto all’ipotesi in cui questa risulti già in corso o ci si trovi addirittura in una situazione di insolvenza. Infatti, come risulta chiaramente dall’art. 21 CCII, i vincoli all’azione dell’imprenditore mutano nei tre casi, posti vincoli alla gestione sostenibile nel secondo e al rispetto del prevalente interesse dei creditori nel terzo. Il che potrebbe anche far prospettare un diverso grado di discrezionalità degli amministratori nell’individuazione dello strumento di regolazione della crisi realmente adeguato al caso concreto. Peraltro, va notato incidentalmente che lo strumento della composizione negoziata, alla prova dei fatti, sta funzionando male in situazioni di crisi avanzata: tanto che viene da chiedersi se non dovrebbe riservarsi, de iure condendo, solo a situazioni di pre-crisi: affinché possa rappresentare uno strumento di effettiva garanzia di risanamento, magari ove accompagnato da un sistema di incentivi per l’imprenditore.
4 . Inadempimento e responsabilità
Fissati gli elementi che integrano l’oggetto dell’obbligo di assetti nella (pre)crisi, bisogna capire cosa succede in caso di inadempimento: ossia precisare i presupposti della responsabilità degli organi sociali in tale materia, in termini di precisazione degli elementi dell’illecito e del danno.
4.1 . Gli assetti inadeguati e il problema della business judgement rule
La questione più delicata è quella se l’amministratore è responsabile per la circostanza di avere sì istituito degli assetti, ma questi si siano rivelati ex post inadeguati a impedire o a prevedere tempestivamente la crisi. 
Tra i commenti all’obbligo di assetti, sia quelli occasionati dall’art. 2381 sia quelli più recenti sollecitati dall’art. 2086, prevale nettamente l’opinione secondo cui la determinazione degli assetti sia soggetta a business judgement rule e quindi nel merito non sindacabile. Io mi sono invece espresso in favore della tesi minoritaria, che ritiene non applicabile tale regola alla nostra fattispecie. 
Il punto non è risolvibile con una qualche esegesi dei nuovi testi normativi oggi disponibili ma richiede prese di posizioni in termini sistematici qui non replicabili. In estrema sintesi, può dirsi che la scelta nell’alternativa tracciata dipende dalla circostanza che l’obbligo di assetti - e più a monte l’obbligo di corretta amministrazione - sia riconducibile al generale dovere di diligenza o piuttosto non sia manifestazione di un dovere di conservazione dell’integrità della società assunto anche nell’interesse dei terzi creditori e assimilabile ai doveri di cui fa menzione l’art. 2394 c.c. 
Mi sono già espresso in favore di questa seconda opinione già in via generale. Ciò premesso, mi sembra, però, che in relazione agli assetti contabili pre-crisi il problema quasi non si ponga, perché il combinato disposto degli artt. 3 e 4 CCII rende i relativi obblighi assimilabili a doveri specifici di protezione patrimoniale: cosicché si profila lo scenario di discorrere di comportamenti per i quali agli organi sociali spetta una scelta del tutto limitata e comunque con l’esercizio di una discrezionalità tecnica e non “politica”. Ed è chiaro che quanto più si riterrà sindacabile il comportamento dell’amministratore nella definizione degli assetti, tanto più si potrà ritenere tale condotta passibile di integrare gravi irregolarità rilevanti ex art. 2409 c.c. anche in ipotesi diverse da quella “estrema”, e dunque difficilmente rinvenibile nella pratica, della mancata istituzione degli assetti stessi.
4.2 . Il danno da assetti inadeguati
Altro punto critico è quello della precisazione del danno da assetti. E il problema qui riguarda essenzialmente la sua quantificazione, essendo di evidente difficile prova il nesso causale tra l’inadempimento e la perdita sofferta dalla continuazione dell’attività. È chiaro che il problema si potrebbe risolvere là dove si ritenesse applicabile, per il caso di mancata rilevazione della (pre)crisi, l’art. 2486, il quale però come noto subordina il danno da continuazione dell’attività sociale (con incremento del passivo) al verificarsi di una causa di scioglimento. Qui dovrebbe dunque valutarsi se la fattispecie dell’attività in condizioni di non continuità possa farsi rientrare in quella dell’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale: ma è evidente il dubbio di forzatura del sistema e dunque la necessità di percorrere altri sentieri interpretativi più articolati, in questa sede non prospettabile.
5 . Il problema degli assetti societari
Ho lasciato per ultimo un tema che riguarda più gli assetti organizzativi e dunque la fisiologia, piuttosto che la patologia della pre-crisi. Mi riferisco all’interrogativo se tra le regole organizzative che formano oggetto dell’obbligo di adeguatezza rientrino pure gli assetti c.d. societari: e dunque il sistema di amministrazione e controllo; l’articolazione del consiglio per deleghe; il regolamento parti correlate; l’adozione del capitale sociale. 
Nonostante la tesi affermativa sia molto diffusa, io sono invece decisamente orientato in senso contrario, in quanto ritengo che l’opinione maggioritaria riposi fondamentalmente su un malinteso. A parte, infatti, la banale immediata considerazione che l’amministratore delegato non potrebbe essere responsabile di avere adeguatamente curato l’assegnazione delle deleghe, pena un circolo vizioso, o che il consiglio di amministrazione non potrebbe mai essere responsabile di una non assegnazione di deleghe espressamente non autorizzata dall’assemblea o dallo statuto, reputo che l’approccio qui criticato sia collegato a una errata ricostruzione della ratio della regola degli assetti. Come ho cercato di spiegare in altra occasione, tale previsione si spiega a mio modesto giudizio in coerenza con il moderno passaggio nell’ordinamento da una logica “proprietaria” a una “di attività” (che potrebbe forse definirsi “possessoria”), e la conseguente insufficienza dell’affidamento della protezione delle aspettative dei creditori (al rientro della società dalle proprie esposizioni) al controllo degli amministratori operato dai soci (i cd agency rights). Il tema è quello di assicurare che la governance sia improntata alla sostenibilità finanziaria dell’impresa, in modo che il pregiudizio alle ragioni dei creditori, piuttosto che inutilmente sanzionato ex post, sia impedito a monte. Una tale tecnica è stata poi di recente utilizzata nella moderna disciplina concorsuale – sia europea che interna - per soddisfare l’esigenza di adeguata salvaguardia dei complessi produttivi in funzione del relativo risanamento. 
Rispetto a tale esigenza, altra diversa questione è quella della funzionalità della sostenibilità dell’impresa a un’istanza di garanzia legale della stabilità del mercato, sottesa come noto ad es. alle discipline della vigilanza bancaria, a cui assimilerei regole delle società quotate quali la previsione dei codici di autodisciplina (che in effetti adottano una regola di necessità di assetti societari, sottoposta alla generale previsione del comply or explain). In queste ultime materie, per ragioni, diciamo, di ordine pubblico economico – e non di mera conciliazione tra utilità individuale e sociale - le norme di legge sono suscettibili di condizionare a monte la libertà di iniziativa economica all’adozione di un codice organizzativo: cosicché i privati non possono del tutto realizzare una certa impresa – o collocarla in un dato mercato - se non adottando codici organizzativi che si rivelino adeguati già sul piano della selezione delle risorse di capitale e dell’articolazione della governance. E’ chiaro ora che una simile opzione non è imposta - e direi per fortuna - nel generale ambito dell’impresa, dove il privato rimane libero di svolgere la propria iniziativa economica definendone liberamente le coordinate, mentre spetta ai suoi fiduciari attuarla con gli strumenti d’impresa a quella adeguata, anche eventualmente dimensionando l’attività in coerenza con le contenute risorse ad essa destinata. Se l’amministratore riterrà l’organizzazione societaria non coerente con l’impresa affidatagli, potrà comunque proporre i cambiamenti che riterrà opportuni e in mancanza ne farà dichiarare lo scioglimento o si dimetterà. 
Ne va, del resto, come accennavo in principio di trattazione, del principio della libera iniziativa imprenditoriale, intesa non tanto come piena libertà civile (che sarebbe eccessivo), quanto come legittimazione alla costruzione di vicende economicamente rilevanti, fondate sul generale riconoscimento della insostituibilità dello spirito creativo del privato. V’è un termine oltre il quale la delimitazione del rischio deve fermarsi e l’imprenditore muoversi libero di configurare i termini del proprio investimento e dell’attrazione fiduciaria di quello altrui. Altrimenti, mentre si cerca di prevenire la crisi, si impediscono competizione e sviluppo, tagliando le radici a quella economia che si sta tentando di salvare.
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  • 5. portabilità: spostare, copiare o trasferire i dati dai database delle Società a terzi. Questo vale solo per i dati forniti dall’interessato per l’esecuzione di un contratto o per i quali è stato fornito consenso e espresso e il trattamento viene eseguito con mezzi automatizzati;
  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

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