Il provvedimento dovrebbe essere scontato, ma non lo è, perché urta contro la prassi costante di molti giudici, a dire il vero senza una ragionevole giustificazione, poiché l’art. 23, primo comma, della legge n. 218 del 1952 è in vigore (la tesi della sua pretesa abrogazione è stata sollevata nel giudizio di opposizione, ma non si vede da dove deriverebbe tale esito, come rilevato dal decreto). Di solito, al momento dell’ammissione allo stato passivo dei diritti alla retribuzione lorda si deducono i contributi previdenziali a carico dei lavoratori. La prassi contrasta con il disposto dell’art. 23, primo comma, della legge n. 218 del 1952. Non vi è ragione per cui la norma non sia applicata anche in sede concorsuale e il pregevole decreto induce a una riflessione critica urgente sui criteri seguiti.
Infatti, “posto che, in applicazione dell'art. 23 della legge n. 218 del 1952, il datore di lavoro che non abbia provveduto a eseguire i tempestivi versamenti contributivi dovuti resta obbligato in via esclusiva al loro pagamento anche per la quota a carico del lavoratore, il credito retributivo deve essere calcolato al lordo della quota contributiva in origine a carico del dipendente, che, divenuta parte della retribuzione dovuta, non deve essere detratta per il mancato tempestivo adempimento del datore di lavoro”[1].
Il principio, a dire il vero scontato, è stato enunciato anche a proposito dell’ammissione allo stato passivo del vecchio fallimento, poiché, si è detto, “il lavoratore non può chiedere al datore di lavoro il pagamento in proprio favore dei contributi non versati, salvo che per la quota a suo carico, la quale, infatti, a titolo di sanzione, grava in via definitiva sul datore di lavoro inadempiente quale componente della relativa obbligazione retributiva. In caso di fallimento, il dipendente deve essere ammesso allo stato passivo per le retribuzioni non corrisposte, con collocazione privilegiata a norma dell'art. 2751 bis, n. 1, cod. civ., al netto della quota contributiva gravante sul datore di lavoro e al lordo di quella gravante sul lavoratore medesimo”[2]. Tale criterio è tanto fondato, quanto disatteso nella prassi, sebbene senza alcuna giustificazione, poiché l’art. 23, primo comma, della legge n. 218 del 1952 è di univoca e agevole interpretazione ed esso opera anche in sede di ammissione allo stato passivo, senza alcuna novità addotta dal decreto legislativo n. 14 del 2019.
Anzi, “l'accertamento e la liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo delle ritenute contributive e fiscali, tenuto conto, quanto alle prime, del fatto che la trattenuta della parte di contributi a carico del dipendente è prevista dall'art. 19 della legge n. 218 del 1952 in relazione alla sola retribuzione corrisposta alla scadenza, ai sensi dell'art. 23, comma primo, della medesima legge, e che il datore di lavoro che non abbia provveduto al pagamento dei contributi entro il termine stabilito, salva la prova di fatti a lui non imputabili, è da considerare debitore esclusivo dei contributi stessi, anche per la quota a carico del lavoratore”[3]. Ora, “la trattenuta da parte del datore di lavoro della parte di contributi a carico del lavoratore è prevista dall'art. 19 della legge n. 218 del 1952 in relazione alla sola retribuzione corrisposta alla scadenza. Pertanto, il datore di lavoro che non abbia provveduto al pagamento dei contributi entro il termine stabilito è da considerare loro debitore esclusivo, anche per la quota a carico del lavoratore”[4].
Se mai, si aggiunge, “il criterio sancito dall'art. 23 della legge n. 218 del 1952, secondo il quale, in caso di omissione o adempimento tardivo dell'obbligo contributivo da parte del datore di lavoro, questo ultimo resta tenuto per l'intero, senza diritto di rivalsa nei confronti del lavoratore per la sua quota, ha carattere generale nell'ordinamento previdenziale, in quanto espressione del principio di buona fede”[5] e, a maggiore ragione, vale nei confronti delle procedure concorsuali. In sostanza, il quesito sull’interpretazione dell’art. 23, primo comma, della legge n. 218 del 1952 è stato risolto da tempo, sulla scorta di una piana interpretazione letterale. Non vi è altro da fare se non dare esecuzione al principio in sede di ammissione allo stato passivo delle procedura di liquidazione giudiziale.
[1] V. Cass. 31 ottobre 2017, n. 25956, in Giur. it. rep., 2017.
[2] V. Cass. 17 novembre 2016, n. 23426, in Giur. it. rep., 2016.
[3] V. Trib. Perugia 26 aprile 2016, in Giur. it. rep., 2016.
[4] V. Trib. Firenze 24 febbraio 2016, in Giur. it. rep., 2016.
[5] V. Cass. 17 settembre 2015, n. 18232, in Giur. it. rep., 2015.
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