Saggio
L’istituto dell’Esdebitazione dalla Insolvenzordnung al nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza*
Simonetta Ronco, Professore aggregato di diritto commerciale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Genova
21 Luglio 2025
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Sommario:
2 . L’istituto dell’esdebitazione nell’ordinamento tedesco
3 . Dalla Restschuldbefreiung alla Esdebitazione: primi cenni di confronto. Il requisito soggettivo
4 . Il requisito del soddisfacimento minimo dei creditori
5 . L’esdebitazione nel nuovo Codice della Crisi
6 . L'iter della procedura per il beneficio dell'esdebitazione per il debitore incapiente
7 . L’esdebitazione nella nuova disciplina della liquidazione giudiziale
In attuazione di una prima fase di riforma, il Bundestag tedesco aveva emanato la Gesetz zur Erleichterung der Sanierung von Unternehmen legge pensata per facilitare ulteriormente la ristrutturazione di imprese (ESUG), entrata in vigore il 1 gennaio 2013. Una seconda fase di riforma del diritto fallimentare approdata all’esame del Bundestag ha avuto come risultato la legge sulla riduzione del debito residuo e il rafforzamento dei diritti dei creditori. Una terza fase della riforma del diritto fallimentare ha come sua principale espressione un disegno di legge che intende creare nuove regole per far fronte alle insolvenze del gruppo. Infine, in attuazione della Direttiva Insolvency, l’Ins.O. è stata ulteriormente modificata dalla legge del 7 maggio 2021.
Vale la pena di ricordare che la disciplina entrata in vigore con la InsolvenzOrdnung aveva abrogato la legge fallimentare propriamente detta (KonkursOrdnung) e la legge sul concordato preventivo (VergleichsOrdnung), prevedendo però al proprio interno entrambi gli istituti, sebbene in parte modificati e conformi a una nuova filosofia di base, quella (ormai comune a molti ordinamenti occidentali) del salvataggio e del conseguente risanamento dell’impresa, piuttosto che la sua immediata eliminazione dal mercato, filosofia mutuata a sua volta dall’ordinamento statunitense.
Le novità introdotte a suo tempo dalla InsolvenzOrdnung furono molte, per lo più caratterizzate dall’intento di non smantellare l’impresa in crisi e, per quanto atteneva soprattutto alle società, di non arrivare a una loro inevitabile cancellazione dal registro delle imprese. Prima della riforma, la legge consentiva, è vero, il passaggio dalla procedura di fallimento a quella di accordo con i creditori, ma in realtà si verificava più frequentemente il fenomeno inverso e la regola era il vero e proprio fallimento in caso di assenza di liquidità o di eccessivo indebitamento o ancora di indegnità al credito (Kreditunwerdigkeit). Il risanamento, insomma, costituiva l’eccezione, anche perché non favorito dagli altri istituti disciplinati.
La novità più importante della nuova InsolvenzOrdnung fu, come è noto, l’introduzione dell’istituto dell’Insolvenzplan, un accordo tra debitore e creditori volto da un lato a salvare l’impresa e, dall’altro, a lasciare più libertà e autonomia ai creditori, nel tentativo di soddisfare al meglio le loro esigenze[3]. Infatti, un principio fondamentale nel quadro delle procedure concorsuali tedesche, oltre al principio della parità di trattamento dei creditori, è quello della Gläubigerautonomie (autonomia dei creditori). I creditori hanno a disposizione ampi diritti per partecipare alla definizione delle procedure concorsuali, soprattutto per quanto riguarda le modalità di liquidazione della massa patrimoniale del debitore. I creditori decidono anche in merito alla forma concreta delle procedure concorsuali, dal momento che, oltre alla procedura "standard", la legge sulle procedure concorsuali apre la possibilità ai creditori privilegiati e chirografari di esercitare la loro autonomia attraverso la stesura di un piano di insolvenza che si discosta dalle disposizioni della legge sulle procedure concorsuali, inteso a definire la liquidazione della massa fallimentare, la distribuzione alle parti interessate, il corso della procedura concorsuale e la responsabilità del debitore in seguito alla conclusione della procedura stessa.
Il piano di insolvenza è particolarmente importante nel caso della ristrutturazione di un'impresa, sebbene possa fornire anche un quadro di riferimento per la liquidazione dell'impresa. È per questo che la legge consentì alle parti di derogare, sotto il profilo del contenuto, ai vincoli altrimenti fissati, condizionando il loro comportamento solo dal punto di vista procedurale. Senza approfondire eccessivamente questo aspetto della legge, vale la pena di ricordare che le soluzioni che la nuova disciplina introdusse erano, alternativamente, la libera e volontaria liquidazione dell’impresa, immediatamente o dopo un periodo di proseguimento dell’attività; il trasferimento oneroso della stessa a un terzo con un contratto di compravendita; la prosecuzione dell’attività da parte del medesimo debitore con conseguente pagamento dei debiti con gli utili realizzati.
Ma nella nuova legge l’Insolvenzplan non era l’unico strumento volto al salvataggio dell’impresa. Un’altra importante novità introdotta con la riforma del 1999 fu quella della liberazione del debitore dai debiti residui dopo la chiusura della procedura fallimentare, grazie allo strumento della Restschuldbefreiung. La disciplina previgente ammetteva, ma solo per le persone fisiche, la totale liberazione dalla parte delle obbligazioni che, nonostante il fallimento, non erano state adempiute, liberazione che si poteva realizzare una volta terminata la procedura fallimentare e avvenuta la cancellazione dal registro delle imprese. Questo beneficio non era invece previsto per la società che, chiusa la procedura fallimentare, rimaneva debitore a tutti gli effetti, per il residuo ammontare[4].
Volendo svolgere qualche breve approfondimento sulla disciplina positiva della Restschuldbefreiung contenuta nella Ins.O., un primo aspetto da evidenziare può essere collegato con il principio espresso dal § 1 della legge stessa. Posto che lo scopo primario di una procedura concorsuale è quello del pagamento dei debiti del soggetto sottoposto alla stessa procedura, di tipo liquidatorio o risanatorio che sia, la formulazione del § 1 si chiude con un’affermazione importante: «Ai debitori viene data la possibilità di liberarsi dei loro debiti rimanenti ». Da notare è che tale affermazione di principio non è stata inserita nella nostra legge fallimentare riformata, né tantomeno nel codice della crisi, segno questo, forse, di una certa diffidente cautela del legislatore italiano nell’introdurre uno strumento nuovo, di cui non si conoscevano appieno le potenzialità e che, fin dall’inizio ha dato luogo ad alcuni problemi applicativi e interpretativi, di cui si dirà in seguito. Tuttavia risulta chiaro che la disciplina dettata dal nostro legislatore per modellare l’istituto della esdebitazione si inserisce nel filone dell’approccio adottato anche da altri Paesi europei, tra cui, appunto, la Germania (oltre all’Austria e alla Francia) che consiste nel prevedere la cancellazione dei debiti previa valutazione da parte del giudice di requisiti di meritevolezza del debitore.
Tornando alla legge tedesca, essa è stata una delle prime in Europa a introdurre sistemi di Fresh start a favore del fallito: al termine della procedura di insolvenza, ossia con il concludersi del procedimento liquidatorio, l’imprenditore può presentare richiesta di liberazione dai debiti residui, e tale beneficio gli viene concesso dopo non meno di sei anni dalla conclusione della procedura. La Restschuldbefreiung si fonda su una dichiarazione del debitore, il quale si impegna a cedere a un fiduciario nominato dal Tribunale i suoi futuri guadagni o i redditi sostitutivi per un periodo di sei anni. Durante questo lasso di tempo, il debitore viene sottoposto a un costante controllo da parte degli organi giudiziari, per verificare la correttezza del suo comportamento e la fruttuosità dell’attività iniziata o ripresa. I creditori possono opporsi alla richiesta di Restschuldbefreiung se il debitore ha tenuto un comportamento scorretto, operando in mala fede durante l’intera procedura di fallimento, oppure se nell’ultimo anno ha compiuto atti pregiudizievoli per i creditori, oppure, ancora, se il Restschuldbefreiungsverfahren (ossia il procedimento di esdebitazione) ha già avuto luogo per lo stesso debitore o è già stato chiesto e rifiutato nei dieci anni precedenti.
Durante gli anni di attesa, il debitore è tenuto a svolgere un lavoro adeguatamente retribuito e, se non lo ha, deve adoperarsi per trovarlo. Se invece svolge un’attività autonoma, egli deve con i pagamenti al fiduciario porre i creditori nella stessa situazione in cui si sarebbero trovati se egli avesse svolto un’adeguata corrispondente attività di lavoro subordinato. Il debitore ha inoltre l’obbligo di informare l’amministratore fiduciario dell’eventuale cambio di residenza o di occupazione, nonché di eventuali eredità ricevute (che deve obbligatoriamente accettare almeno per il 50%) o comunque di donazioni di cui si trovi a beneficiare. Nel caso in cui le elargizioni e le eredità vengano rifiutate, la procedura di Restschuldbefreiung cessa automaticamente.
Il tema del requisito soggettivo era stato fatto oggetto di dibattito soprattutto alla luce di una discriminazione evidente tra imprenditore persona fisica e soci illimitatamente responsabili di una società, visto che questi ultimi sarebbero stati esclusi dalla applicazione del beneficio della esdebitazione. Proprio a proposito della natura giuridica del debitore, però, una importante evoluzione principalmente giurisprudenziale ha portato a riconsiderare e modificare le disposizioni originarie.
Nella giurisprudenza di merito tra i primi a sollevare il problema era stato il Tribunale di Udine, che con decisione del 13 gennaio 2012[5], si era soffermato proprio su questo tema. Nella fattispecie, alcuni creditori avevano fatto opposizione all’ammissione all’esdebitazione richiesta dal loro debitore (socio fallito di una società di persone composta da due soci), sostenendo che, siccome il socio non è considerato imprenditore, non avrebbe dovuto essere ammesso a tale beneficio. In risposta all’eccezione mossa dai creditori, i Giudici avevano osservato che il Legislatore fallimentare, nel fare riferimento al «fallito persona fisica» non può aver voluto prendere in considerazione soltanto gli imprenditori individuali dichiarati falliti, ma deve, necessariamente, aver voluto comprendere anche i soci delle società di persone, i quali falliscono se e in quanto illimitatamente responsabili, e non in quanto imprenditori. Se il Legislatore avesse voluto diversamente disporre, avevano concluso, avrebbe utilizzato la diversa espressione «imprenditore dichiarato fallito».
Sotto questo punto di vista, la disciplina è stata oggetto di una significativa revisione alla luce della L. delega 19 ottobre 2017, n. 155, la quale all’art. 8, comma 1, lett. c) ha stabilito che il Governo preveda “anche per le società l’ammissione al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, previo riscontro dei presupposti di meritevolezza in capo agli amministratori e, nel caso di società di persone, in capo ai soci”. Dunque, la novità introdotta dal CCII è quella di realizzare un ampliamento applicativo, in quanto si supera la distinzione tra persone fisiche e persone giuridiche, sul presupposto per cui, se la procedura può estendersi ai soci (persone fisiche) di persone giuridiche, non vi è ragione per non ammettere direttamente anche queste ultime al beneficio della liberazione dai debiti residui. In particolare, l’art. 278 CCII sancisce che può accedere all’istituto dell’esdebitazione il ‘debitore’, così come definito dall’art. 1 CCII., norma che include la persona giuridica. L’art. 278 CCII, rimandando alla definizione di ‘debitore’ ex art. 1 CCII, prevede che può avvalersi dell’esdebitazione anche il fallito persona giuridica, diversamente da quanto prevedeva l’art. 142 L. fall., che, come si è detto, limitava l’accesso all’esdebitazione al solo fallito persona fisica. Inoltre, l’art. 278 CCII sancisce che, nell’ambito dell’esdebitazione della persona giuridica, le condizioni ostative ex art. 280 CCII, non devono sussistere nei confronti dei seguenti soggetti societari: i soci illimitatamente responsabili ed i legali rappresentanti.
Sotto questo aspetto, l’Ins.O tedesca non prevede esplicitamente una percentuale minima per il pagamento che deve essere effettuato a beneficio dei creditori durante la procedura. Il § 290, infatti, stabilisce soltanto che il debitore non deve essere stato condannato per bancarotta o reati simili; non deve aver compiuto nei tre anni precedenti all’apertura del fallimento atti fraudolenti diretti all’ottenimento di credito; non deve essere stato, nei dieci anni precedenti ammesso ad una altra Restsschuldbefreiung; non deve essere stato, nell’anno anteriore al fallimento colpevole di atti di occultamento di voci patrimoniali attive o di dissimulazione di passività inesistenti o aggravato l’insolvenza; non deve aver violato gli obblighi di informazione e collaborazione prescritti nei suoi confronti dalla legge fallimentare e non deve, nella domanda di apertura del fallimento o nell’elenco consegnato immediatamente dopo, aver fornito dati falsi o incompleti relativamente al suo patrimonio o ai creditori e alle loro pretese. La mancanza dell’indicazione del requisito del pagamento parziale dei debiti è però temperato dal fatto che il debitore trasferisce al fiduciario una parte consistente dei propri guadagni che viene posta a garanzia della buona condotta.
Nel nostro ordinamento, uno dei primi casi in cui fu affrontato tale problema è quello del già citato Tribunale di Udine. Nella fattispecie, risultava che, in sede di riparto finale, erano stati integralmente soddisfatti i creditori privilegiati della società e quelli particolari di un socio, mentre non avevano avuto, neppure in parte, quanto di loro spettanza, i creditori particolari dell’altro socio. Il Tribunale, percorrendo una impostazione già accolta dalla Corte di Cassazione a sezioni unite nella prima fondamentale pronuncia su questo tema[6], ha affermato che il beneficio dell’inesigibilità dei debiti residui da parte dei creditori concorsuali non soddisfatti richiede che vi sia stato almeno un pagamento parziale, «dovendosi intendere realizzata tale condizione, in un’interpretazione costituzionalmente orientata e coerente con il favor per l’istituto già formulato dalla legge delegante, anche quando taluni di essi non siano stati pagati affatto, essendo sufficiente che con i riparti, almeno per una parte dei debiti esistenti, oggettivamente intesi, sia consentita al giudice di merito, secondo il suo prudente apprezzamento, una valutazione comparativa di tale consistenza rispetto a quanto complessivamente dovuto».
Ma, se nella fattispecie appena ricordata i soci della società avevano ottenuto l’esdebitazione, non altrettanto era accaduto al socio di una società in accomandita semplice, in un altro caso, trattato dal Tribunale di Mantova[7]. Dalla relazione depositata dal curatore, era emerso che all’attivo della società non era stato acquisito alcun bene, per cui nessun creditore sociale era stato soddisfatto, mentre aveva trovato soddisfazione nella misura del 30% il creditore ipotecario del socio accomandatario. Il Tribunale di Mantova, nella pronuncia, aveva escluso la possibilità di esdebitazione, considerando che per «creditori concorsuali, ai sensi dell’art. 142 L. fall., debbono intendersi i creditori della società, posto che il fallimento del socio è solo la conseguenza del fallimento dell’ente, e quindi il beneficio può concedersi a fronte del pagamento almeno in parte di quei debiti che del fallimento sono stati la causa, senza che assuma significatività il soddisfo, in tutto o in parte, dei creditori particolari del socio».
Nell’ordinamento italiano come già accennato, si è sviluppato negli anni un vivace dibattito intorno a quanto stabilito dall’art. 142 L. fall. e in particolare al comma 2 che così recitava: «l’esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali»[8].
La giurisprudenza che aveva affrontato l’argomento, si era presto schierata su due orientamenti opposti. Secondo una prima opinione, perché il beneficio fosse concedibile sarebbe stato sufficiente che una parte dei creditori ammessi al passivo, ossia almeno uno di loro, avesse ricevuto un parziale pagamento nella ripartizione dell’attivo fallimentare. Gli argomenti portati a sostegno di questa tesi erano molti, e tutti convincenti. È corretto infatti ritenere che, se è vero che l’istituto dell’esdebitazione è stato concepito come un istituto basato sul favor debitoris, che consente all’imprenditore «onesto ma sfortunato» di avviare una nuova impresa senza il carico dei vecchi debiti, è logico anche ammettere che la normativa deve essere interpretata nel senso che ne permetta la più ampia applicazione. La differenza, semmai, va fatta tra imprenditori meritevoli del «premio» e debitori non meritevoli, e tale differenza dipende prevalentemente, se non esclusivamente, dal comportamento dell’imprenditore e dal suo corretto porsi nei confronti degli organi fallimentari, e non dalla possibilità o meno di pagare in tutto o in parte i creditori. Si può aggiungere che, in considerazione del fatto che la legge delega ha previsto l’esdebitazione come «liberazione del debitore persona fisica dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti», non è corretto fare poi distinzioni tra creditori non soddisfatti totalmente o parzialmente.
In proposito, la Corte d’Appello di Ancona, in una pronuncia del 12 dicembre 2008[9], aveva sostenuto che «se l’istituto deve essere ancorato alla meritevolezza del debitore fallito, non si vede quale distinzione, una volta ottenuta l’attestazione della ricorrenza delle condizioni di cui al comma 1 dell’art. 142 L. fall., possa farsi con riferimento alla entità dell’attivo ripartito, dal momento che tale situazione di ripartizione, con percentuali più o meno consistenti, discende da fattori del tutto indifferenti rispetto alle condizioni di meritevolezza». E del resto, fattori assolutamente contingenti quali il numero dei creditori piuttosto che l’esistenza di cause di privilegio, non hanno, ad avviso di chi scrive, nulla a che fare con la meritevolezza del debitore, che ben può essere degno di ottenere il favore dell’esdebitazione anche se i creditori sono molti e l’attivo poco. Analogo ragionamento, corredato di argomentazioni condivisibili è alla base della sentenza del Tribunale di Taranto del 22 ottobre 2008[10]. Nella pronuncia i Giudici si sono soffermati in primo luogo sulla mutata filosofia di base della procedura fallimentare, «che ha oggi come scopo principale quello di giungere in tempi ragionevoli a una sistemazione complessiva della vicenda “insolvenza”, sistemazione che, comunque si strutturi, dovrebbe consentire al debitore una ripresa dell’iniziativa imprenditoriale, non penalizzando così il sistema delle imprese sotto il profilo della competitività». E in questa direzione, sottolinea il Tribunale di Taranto, si pone anche l’istituto dell’esdebitazione, che deve consentire all’imprenditore persona fisica di avviare una nuova impresa, senza il carico dei vecchi debiti e che, così come configurato dalla legge delega, non prevede come condizione necessaria che le obbligazioni di rango privilegiato vengano adempiute in tutto o in parte, oppure che i creditori chirografari conseguano soltanto una percentuale minima di quanto loro spettante. Ciononostante, non si può negare che la formulazione dell’art. 142, comma 2, L. fall. dimostrasse una certa ambiguità, difficilmente risolvibile se non grazie al criterio della volontà del Legislatore. Su queste basi è possibile anche spiegare l’espressione «neppure in parte» contenuta nell’art. 142, comma 2, della vecchia legge fallimentare. In proposito il Tribunale di Piacenza[11] aveva ritenuto che la suddetta espressione non potesse riferirsi soltanto alla parte di credito soddisfatto, ma anche al numero dei creditori che ricevono parte del loro credito, secondo l’ordine di legge, con la conseguenza che anche il pagamento parziale di un solo creditore (privilegiato o chirografario), potrà integrare la condizione per ottenere l’esdebitazione. È senz’altro evidente, precisa il Tribunale, che se si aderisse alla teoria secondo cui la locuzione «neppure in parte» è riferita al numero dei creditori (facendone derivare che tutti i creditori devono essere pagati almeno parzialmente), in caso di presenza di creditori privilegiati e chirografari, si renderebbe necessario il pagamento integrale dei creditori privilegiati, per avere anche quello parziale dei chirografari. È, questa, una soluzione che costringerebbe il debitore al pagamento integrale di una categoria di creditori e parziale di un’altra, con effetti diversi da quelli presumibilmente voluti dal Legislatore.
Ma, se quella illustrata dalle sentenze sopra riportate, appariva subito l’ipotesi più accreditata, non mancarono opinioni discordi, sia in dottrina che in giurisprudenza. Il Tribunale di Rovigo, ad esempio, nel decreto del 22 gennaio 2009[12], aveva sostenuto che il beneficio dell’esdebitazione può essere concesso soltanto ove, alla cessazione della procedura fallimentare, tutti i creditori ammessi al passivo (privilegiati e chirografari) risultino parzialmente pagati, ancorché in misura minima. Il Giudice veneto aveva compiuto un’analisi del dettato dell’art. 142, comma 2, L. fall., concludendo che il Legislatore sembrava aver voluto riferirsi non già al numero dei creditori che ricevono qualcosa, bensì alla quota di soddisfacimento, nel senso che tutti devono essere stati almeno in parte soddisfatti in sede di riparto. «Una conferma a tale impostazione», si aggiunge nella pronuncia dei Giudici veneti, «si trae dal comma 1 dell’art. 143 L. fall., secondo il quale il Tribunale dichiara inesigibili i debiti non soddisfatti integralmente. La predetta locuzione necessariamente presuppone che tali debiti siano stati soddisfatti parzialmente e debbano essere tutti quelli aventi titolo al soddisfacimento, giacché, diversamente argomentando, dovrebbe giungersi ad affermare che la pronuncia riguardi solo, tra i debiti che debbono essere soddisfatti nel fallimento, quelli non soddisfatti integralmente e non anche quelli per nulla soddisfatti, ciò che costituirebbe una evidente incongruità, ove si ricordi che, a mente del comma 1 dell’art. 142, la pronunzia deve comunque riguardare tutti i debiti residui».
Anche il Tribunale di Ancona si era espresso in modo conforme. Con un decreto del 18 giugno 2008[13] ha precisato che la posizione accolta trova conforto «non solo nel dato letterale della norma richiamata, che appare fare riferimento a un pagamento parziale (pur senza limiti minimi, a differenza di quanto previsto originariamente nei disegni di legge della commissione di riforma, ove era richiesta una specifica percentuale di soddisfacimento dei chirografari) di tutti i creditori concorsuali, prededucibili, privilegiati e chirografari, come risultanti dal decreto di ripartizione finale dell’attivo, ma anche da una interpretazione sistematica del complesso delle disposizioni dettate in tema di esdebitazione, atteso che l’art. 143, comma 1, L. fall., aggiunge significativamente che il Tribunale, in presenza dei requisiti di cui all’art. 142, provvede a dichiarare inesigibili i debiti non soddisfatti “integralmente”, avendo in caso contrario il legislatore dovuto prevedere semplicemente una dichiarazione di inesigibilità dei debiti non soddisfatti, senza alcuna ulteriore aggiunta dell’avverbio integralmente»[14].
Da una così vivace contrapposizione era scaturita una situazione di incertezza nel panorama applicativo dell’esdebitazione, essendo evidente che, a seconda dell’adesione del giudicante all’una o all’altra corrente di opinione, il risultato poteva essere molto diverso. Una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[15] si rese così necessaria, e l’occasione nacque con un’ordinanza di rimessione della Prima Sezione[16]. I fatti da cui era scaturita la sentenza delle Sezioni Unite riguardavano il socio accomandatario di una società, il quale, dichiarato fallito nel 1994, aveva fatto ricorso al Tribunale per ottenere l’esdebitazione. Il Tribunale adito gli aveva concesso il beneficio, ma il decreto era stato impugnato dai creditori davanti alla Corte d’Appello di Firenze, che aveva riformato quanto stabilito in primo grado, decidendo che, nel caso di specie, l’esdebitazione non poteva essere concessa, per carenza del requisito oggettivo, dal momento che non erano stati minimamente soddisfatti i creditori chirografari. Il fallito aveva deciso, allora, di ricorrere in Cassazione, lamentando la violazione dell’art. 12 delle Preleggi, e degli artt. 142, 143 e 144, L. fall. In sostanza, egli affermava che la Corte d’Appello aveva ristretto in modo ingiustificato il campo di applicazione dell’esdebitazione, limitandolo ai soli casi (rarissimi) di fallimento chiuso con il pagamento di tutti i creditori privilegiati e, in una certa percentuale, anche dei chirografari. Al quesito interpretativo formulato dalla Prima Sezione della Cassazione, le Sezioni Unite avevano risposto con una pronuncia che fornisce un quadro complessivo dell’istituto dell’esdebitazione, ponendo prima di tutto in rilievo l’equivocità delle norme relative, che non consentivano di ricostruire con la certezza necessaria la volontà del Legislatore[17].
La Corte, nelle molte pagine di motivazione, aveva compiuto un’analisi articolata e approfondita della genesi e della ratio della disciplina dell’esdebitazione.
Dopo aver sottolineato che «compito dell’interprete è proprio quello di stabilire il punto di equilibrio all’interno del complesso delle norme», in modo tale da evitare uno sbilanciamento del sistema a danno dei creditori, e allo stesso tempo in modo da raggiungere l’intento di favorire il fallito nella ripresa di una nuova attività, la Cassazione aveva chiamato in causa il Giudice di merito: «sarà dunque compito del giudice del merito con il suo prudente apprezzamento accertare quando la consistenza dei riparti realizzati consenta di affermare che l’entità dei versamenti effettuati, valutati comparativamente rispetto a quanto complessivamente dovuto, costituisca quella “parzialità dei pagamenti” richiesta per il riconoscimento del beneficio, sul quale vi è controversia». L’esercizio del dovere conferito al Giudice del merito di verificare l’esistenza delle condizioni necessarie per la declaratoria di inesigibilità dei crediti residui, sempre nell’ottica del favor nei confronti del fallito e della volontà assolutamente non restrittiva del Legislatore nel disciplinare l’istituto dell’esdebitazione, può dunque valere come strumento di politica del diritto, teso ad ottenere un bilanciamento fra le contrastanti esigenze di un tempestivo ritorno sul mercato da parte del debitore e del soddisfacimento dei suoi creditori.
Successivamente, e sempre nella vigenza della legge fallimentare, la Corte di Cassazione ha avuto più volte occasione di pronunziarsi su questa specifica tematica, ribadendo sostanzialmente la sua posizione. Tra le altre, nell’ordinanza n. 7550 del 27 marzo 2018 ha affermato che “l’art. 142, comma 2, legge fallim. deve essere interpretato nel senso che il beneficio dell’esdebitazione deve essere concesso, ferma restando la presenza delle condizioni di cui al primo comma, in presenza di un requisito oggettivo costituito dalla soddisfazione dei crediti in una percentuale non irrisoria e di un requisito soggettivo la cui valutazione è riservata al tribunale ed è fondata sull’esame dei comportamenti collaborativi del debitore”. Sul concetto di irrisorietà del soddisfacimento dei creditori si è poi espressa nuovamente la Cassazione con l’ordinanza n. 15246 del 2022. A riguardo la Suprema Corte ha affermato che “la definizione di soddisfacimento irrisorio - che giustifica il rigetto della richiesta di esdebitazione – resta parametrata a percentuali minime e in effetti tali da considerarsi irrilevanti, per modo da poter essere ritenuta dal giudice del merito solo ove il concreto soddisfacimento, tenuto conto di tutte le risultanze della procedura non sia tale da rappresentare il concetto neppure parzialmente….(omissis)… Non può affermarsi – così genericamente, come fatto dalla Corte territoriale – (ha evidenziato la S.C.), che sia irrisoria, in rapporto al passivo nel suo complesso, la percentuale di soddisfacimento dei crediti privilegiati del 13,89 %. A una simile percentuale, infatti, non è pertinente associare in sé e per sé il concetto di completa irrisorietà, neppure in base alla presa a parametro dell'intero passivo[18].
Altro aspetto degno di nota, già nella vigenza della legge fallimentare è quello della compatibilità dell’esdebitazione con i debiti fiscali. Su questo tema, occorre ricordare che la Corte di cassazione, con l'ordinanza di rimessione 1° luglio 2015, n. 13542, ha chiesto alla Corte di giustizia di valutare "se l'articolo 4, paragrafo 3, TUE e gli articoli 2 e 22 della sesta direttiva 77/388 (...) devono essere interpretati nel senso che essi ostano all'applicazione, in materia di imposta sul valore aggiunto, di una disposizione nazionale che prevede l'estinzione dei debiti nascenti dall'IVA in favore dei soggetti ammessi alla procedura di esdebitazione disciplinata dal R.D. n. 267 del 1942, articoli 142 e 143" e "se l'inderogabilità dell'IVA, da ultimo sottolineata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 225 del 25 luglio 2014, possa cedere o meno a fronte di un accertamento giudiziale di incapienza della procedura fallimentare, e di meritorietà dell'imprenditore fallito". I giudici comunitari, con la pronuncia del 16 marzo 2017, resa nella causa C-493/15, hanno rilevato che:
2. la procedura di esdebitazione, nell'ambito delle finalità e dei limiti soggettivi fissati dalla normativa nazionale, si connota per la necessità di un rigoroso esame, condotto, con riferimento al caso concreto, da un organo giurisdizionale;
3. ad ulteriore tutela degli interessi comunitari, l'istituto in esame consente alle competenti autorità nazionali, in presenza di un credito IVA, tanto di inoltrare al giudice incaricato il proprio parere sulla domanda del debitore interessato quanto di proporre ricorso contro l'eventuale pronuncia che dichiari inesigibile la parte non soddisfatta del suddetto credito, introducendo un doppio grado di giurisdizione.
Note: