L’accordo transattivo ha a oggetto il pagamento parziale e/o dilazionato di tutti i debiti tributari, inclusi quelli relativi ai tributi e non solo gli importi dovuti a titolo di sanzioni e interessi, che - come si è visto - anteriormente alle modifiche apportate dal decreto correttivo erano i soli di cui l’art. 25 bis, commi da 1 a 3, del Codice della crisi consentiva la riduzione. L’accordo non può invece riguardare i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, poiché lo prevede espressamente il suddetto comma 2 bis.
Sin dall’approvazione del correttivo in prima lettura da parte del Consiglio dei Ministri, questa disposizione ha generato un vivace, ancorché ingiustificato, dibattito sull’ampiezza di tale esclusione e in particolare sulla possibilità di falcidiare anche l’iva, sul presupposto che costituisca una risorsa propria dell’Unione europea.
In base alla decisione UE- Euratom 2020/2053 del Consiglio dell’Unione europea del 14 dicembre 2020 sono da considerare risorse proprie dell’Unione le entrate provenienti:
- dalle risorse proprie tradizionali costituite da prelievi, premi, importi supplementari compensativi, importi o elementi aggiuntivi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati da parte delle istituzioni dell’Unione sugli scambi con paesi terzi, dazi doganali sui prodotti che rientrano nell’ambito di applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nonché contributi e altri dazi previsti nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero;
- dall’applicazione di un’aliquota di prelievo dello 0,30 per cento per tutti gli Stati membri al gettito iva totale riscosso per tutte le forniture imponibili diviso per l’aliquota iva media ponderata calcolata per l’anno civile pertinente (la base imponibile da prendere in considerazione non può superare per ciascun Stato il 50% del reddito nazionale lordo);
- dall’applicazione di un’aliquota uniforme di prelievo sul peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati generati in ciascun Stato membro. L’aliquota uniforme di prelievo è pari a 0,80 euro per chilogrammo, salvo eventuale riduzione forfettaria;
- dall’applicazione di un’aliquota uniforme di prelievo, da determinare nel quadro della procedura di bilancio, tenuto conto di tutte le altre entrate, alla somma del reddito nazionale lordo di tutti gli altri Stati membri.
Si deve pertanto escludere che tra le risorse proprie dell’Unione europea rientri l’iva, che deve essere conseguentemente considerata falcidiabile al pari delle altre imposte.
Tuttavia, poiché la norma esclude espressamente dal suddetto accordo “i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea”, come si è ricordato, questa affermazione è stata messa in discussione da alcuni commentatori; tant’è che le commissioni Giustizia del Senato e della Camera dei deputati, con i pareri rilasciati sul decreto correttivo rispettivamente il 6 e il 7 agosto 2024, avevano ritenuto di dover suggerire al Governo di valutare l’inclusione dell’iva tra i tributi che possono essere oggetto del suddetto accordo, secondo il principio di non disparità di trattamento già riconosciuto dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. 29 novembre 2019, n. 245), prevedendo eventualmente la redazione di “un’attestazione, sulla base dell'accertamento svolto da un esperto indipendente, che il debito IVA non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di fallimento, secondo quanto indicato anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza Corte di Giustizia 7 aprile 2016 - Causa C-546/14”. L’obiettivo indicato dalle commissioni parlamentari, costituito dall’applicazione dell’accordo anche ai debiti relativi all’iva, era da condividere, ma è errato il presupposto del suggerimento delle due commissioni parlamentari, e cioè che il novellato art. 23, comma 2 bis escludesse l’iva dal campo di applicazione dell’accordo. Che si tratti di un presupposto errato è attestato dai lavori preparatori del provvedimento, nel corso dei quali era stata, sì, richiesta dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli l’esclusione dall’accordo, oltre che delle risorse proprie tradizionali dell’Unione europea, anche dell’iva, ma tale previsione non ha poi avuto seguito e nel testo del decreto non compare più la parola “iva” inserita in una bozza di tale provvedimento a seguito di tale richiesta. Lo attesta, inoltre, il fatto che in base alla decisione del Consiglio dell’Unione europea sopra richiamata questo tributo non rientra tra le risorse proprie dell’Unione europea. È vero – come si è esposto – che sono considerate tali le entrate provenienti dall’applicazione di una percentuale minima al gettito iva calcolato secondo specifici criteri; tuttavia, ciò non significa - come il Tribunale di Milano ha chiarito sin dal 2008 - che questa imposta costituisca di per sé una risorsa propria dell’Unione e, a tutto concedere, rappresentando essa solo la base di commisurazione del prelievo destinato a finanziare l’Unione europea, e può, semmai, essere considerata tale solo nella minima parte corrispondente alla suddetta percentuale dello 0,30 per cento (la risoluzione 29 marzo 2007 adottata dal Parlamento Europeo identificava l’iva incassata da ciascuno Stato membro, appunto, come parametro di contribuzione, ovverosia quale mera “base matematica per il calcolo dei contributi nazionali”).
Il problema dunque non sussisteva, ma la circostanza che le commissioni parlamentari (non un qualsiasi commentatore) avessero suggerito una modifica del citato comma 2 bis dell’art. 23, allo scopo di consentire che anche l’iva possa essere falcidiata, ha rischiato di generare (e di confermare) interpretazioni errate.
Tale suggerimento, infatti, avrebbe potuto indurre a pensare che, poiché tale modifica è stata ritenuta necessaria, ve ne fosse bisogno; con la conseguenza che, in assenza dell’introduzione di alcuna modifica, l’iva avrebbe potuto essere considerata non falcidiabile nella composizione negoziata. Ciò è tanto vero che, a seguito del suddetto suggerimento delle Commissioni Giustizia, in una delle ultime bozze della relazione illustrativa del correttivo si leggeva quanto segue: “Sulla possibilità di riduzione dell’iva tramite l’incarico conferito a un esperto indipendente si ritiene che la nomina di un altro professionista renderebbe costosa ed eccessivamente complessa l’intera negoziazione. L’esclusione dell’iva nella composizione negoziata inoltre deriva dal fatto che l’imprenditore che vi accede non sempre e necessariamente si trova in uno stato di insolvenza (non pare quindi applicabile l’interpretazione data alla richiamata sentenza della Corte di Giustizia UE del 7 aprile 2016, C-546%14).”.
Le considerazioni contenute in tale bozza di relazione illustrativa erano da ritenersi ancor più fuori luogo del suggerimento che le aveva generate, per i seguenti motivi:
i) innanzitutto, perché la norma, indipendentemente da quanto affermato nella relazione, non consente di affermare l’esclusione dell’iva dal campo dei tributi che possono essere oggetto dell’accordo di cui trattasi, da cui sono escluse sole le risorse proprie dell’Unione Europea, atteso il disposto della già citata UE- Euratom 2020/2053 del Consiglio dell’Unione europea del 14 dicembre 2020 sopra esposto, in base al quale, l’iva costituisce risorsa propria dell’Unione solo per lo 0,30% del gettito;
ii) in secondo luogo, perché ciò che avrebbe dovuto attestare il professionista indipendente, di cui le due Commissioni parlamentari avevano suggerito la nomina, già rientra in ciò che il professionista indipendente indicato dal comma 2 bis dell’art. 23 deve attestare con riguardo alla generalità dei crediti dell’Amministrazione finanziaria: la convenienza dell’accordo per le agenzie fiscali rispetto alla liquidazione giudiziale. È infatti evidente che, se tale convenienza sussiste significa che il debito IVA non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di liquidazione giudiziale, perché in caso contrario l’accordo non sarebbe conveniente;
iii) inoltre, perché è ancor più evidente che, per quanto onerosa potesse essere la redazione di un’ulteriore attestazione, l’onere rappresentato dal suo costo sarebbe sempre necessariamente minore del vantaggio che il debitore trae dalla riduzione dell’iva consentita dall’accordo (essendo essa necessariamente un multiplo di tale costo);
iv) infine, perché, sebbene sia vero che l’imprenditore che accede alla composizione negoziata non sempre è insolvente, nel qual caso la falcidia dell’iva potrebbe non essere indispensabile ai fini del risanamento aziendale, non vi è dubbio che può anche esserlo e in questa ipotesi la falcidia può certamente rivelarsi utile per riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa insolvente. Tuttavia, l’iva non può costituire risorsa propria dell’Unione a seconda della gravità della situazione del debitore. Ne deriverebbe un doppio regime: uno da applicare in caso di insolvenza e l’altro in assenza di insolvenza, che – oltre a essere illogico – non è previsto da alcuna norma. Poiché il cram down è escluso, saranno le agenzie fiscali a verificare di volta in volta qual è lo stralcio necessario per consentire il risanamento aziendale, a seconda della gravità dello stato di crisi del debitore;
v) infine, non è dato comprendere per quale ragione, quando l’imprenditore non versa in uno stato di insolvenza, non potrebbe falcidiare l’iva nonostante possa pacificamente falcidiare il debito originato dall’omesso pagamento di ritenute operate e non versate; si tratta, infatti, di inadempimenti la cui natura sul piano della condotta del debitore, che nella sostanza trattiene somme non sue (o non integralmente non sue nel caso dell’iva, il che rende ancor più evidente la contraddizione), non differisce.
Se il legislatore avesse voluto escludere la possibilità di concordare la falcidia dell’iva nella composizione negoziata, avrebbe potuto - e dovuto - stabilirlo con poche semplici parole, ma non lo ha fatto. Anzi, come si è già rilevato, nel corso dei lavori, per quel che ciò può rilevare sul piano interpretativo in assenza di documenti pubblici, la parola “iva” era stata inclusa nella norma per escluderne la possibilità di riduzione mediante l’accordo, ma poi è stata cancellata. Ciò posto, rinvenire la suddetta infalcidiabilità nella disposizione che vieta la riduzione dei debiti relativi alle risorse proprie dell’Unione Europea significa far dire al legislatore, non solo ciò che non ha detto, ma addirittura ciò che è evidente che non ha voluto dire, considerato tale eventualità, pur essendo stata presa in considerazione, a seguito di specifica richiesta di un’agenzia fiscale, è stata esclusa.
Può essere utile ricordare al riguardo che l’art. 182 ter della legge fallimentare, nella sua versione originaria, escludeva la possibilità di soddisfare solo parzialmente - mediante la transazione fiscale - i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea e già allora era stata molto dibattuta l’appartenenza dell’iva alla categoria dei “tributi costituenti risorse proprie dell’Unione”[1]; tant’è che per disporne l’infalcidiabilità, che evidentemente la predetta previsione non consentiva, il comma 1 dell’art. 182 ter venne modificato con il D.L. 29 novembre 2008, n. 185, prevedendo che con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, la proposta potesse “prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento”. Con il successivo D.L. 30 maggio 2010, n. 78 il medesimo divieto fu esteso alle ritenute alla fonte operate e non versate. L’esclusione introdotta da queste norme riguardava quindi non tutti i debiti discendenti dal mancato versamento dei tributi, ma solo quelli originati dalla percezione e dall’omesso pagamento, da parte del debitore, di somme che da altri soggetti gli erano state versate o che a carico di altri soggetti questi aveva prelevato, affinché fossero dallo stesso riversate all’Erario (senza alcuna detrazione nel caso delle ritenute o previa detrazione dell’iva assolta sugli acquisti di beni e servizi relativamente a questo secondo tributo). Il presupposto dell’esclusione della falcidia del debito inerente all’’iva risiedeva dunque, al pari di quella inerente alle ritenute, non nella sua asserita appartenenza alle risorse proprie dell’Unione, bensì nel fatto che il mancato versamento di questo tributo è diverso da quello relativo alle altre imposte, poiché ha a oggetto somme che il contribuente non versa nonostante le abbia ricevute da terzi – o le abbia trattenuto a carico di terzi – proprio allo specifico scopo di versarle all’Erario, svolgendo sostanzialmente il ruolo di “esattore” (non a caso tali omessi versamenti costituiscono reato, al di sopra di certe soglie quantitative a differenza di quelli relativi ad altri tributi ove regolarmente dichiarati).
Successivamente, con la sentenza della Corte di Giustizia UE 7 aprile 2016, causa C-546/14, è stato chiarito che la liberazione del debitore dal pagamento di un tributo rientrante tra le risorse proprie dell’Unione Europea, generata dalla conclusione di una procedura concorsuale in cui è appurata la sua irrecuperabilità, non integra una rinuncia indiscriminata alla sua riscossione (che è invece vietata). Infatti, lo Stato, nel subire l’esdebitazione derivante da detta procedura, non rinuncia ad alcunché né tantomeno appoggia un piano di risanamento sotto il profilo finanziario, ma soggiace alla stessa sorte cui soggiacciono tutti gli altri creditori nel ricevere un grado di soddisfazione comunque superiore a quello ottenibile rispetto all’ipotesi alternativa della mera liquidazione dell’impresa debitrice, in ragione dell’acclarato stato di insolvenza in cui essa versa. Per dirla con le parole utilizzate dalla Corte costituzionale (sentenza 29 novembre 2019, n. 245, concernente la falcidiabilità dell’IVA nella procedura di sovraindebitamento), in base alle norme che regolano la transazione fiscale (nonché in base alle norme in tema di crisi da sovraindebitamento) “la pretesa alla soddisfazione integrale del credito munito di prelazione, anche di natura tributaria, può recedere sull’altare della minor convenienza della alternativa liquidatoria del relativo patrimonio di riferimento …. Trasferendo le precedenti argomentazioni allo specifico settore delle pretese tributarie, non può non rimarcarsi, inoltre, che, in questo ambito, la possibilità di operare la falcidia, compensata dalla maggiore soddisfazione garantita rispetto alla alternativa liquidatoria, costituisce diretta espressione dei canoni di economicità ed efficienza ai quali deve conformarsi, ai sensi dell’art. 97 Cost., l’azione di esazione della PA. La possibilità di prospettare un pagamento anche parziale dell’obbligazione tributaria, pur se assistita da prelazione, a fronte della grave situazione debitoria del proponente, non adeguatamente supportata da un patrimonio tale da assicurare l’effettività della riscossione anche coattiva della relativa pretesa, garantisce il male minore, sia per il privato debitore, sia per l’amministrazione finanziaria”. In altri termini, sulla base della normativa in vigore dal 1° gennaio 2017 la falcidiabilità deve ritenersi consentita, nelle procedure concorsuali con finalità esdebitatorie, in via generale sia per i tributi di esclusiva rilevanza interna, sia per i tributi costituenti risorse dell’Unione Europea. Infine, com’è noto, con la Legge di bilancio 2017, che modificò ulteriormente l’art. 182-ter della legge fallimentare, venne poi esclusa qualsiasi limitazione alla falcidia dei tributi oggetto della transazione fiscale, senza distinzione alcuna.
Anche alla luce di tale evoluzione della legislazione nel tempo, ciò che rileva ai fini di cui trattasi è che: i) da un lato non sussiste alcun ostacolo, né costituzionale né unionale, a prevedere la falcidia dell’iva nel contesto degli istituti che disciplinano le crisi aziendali; ii) dall’altro lato, il legislatore ben può escludere tale falcidia, come nell’ambito della composizione negoziata l’ha esclusa relativamente ai debiti contributivi. Tuttavia, se per ragioni di opportunità intende farlo, deve prevederlo espressamente con un’apposita disposizione; infatti, non rientrando l’iva tra le risorse proprie dell’Unione europea, il divieto di riduzione di questo tributo non può discendere da quello eventualmente stabilito relativamente a dette risorse.
Fortunatamente, il testo definitivo della relazione illustrativa del Correttivo-ter ha opportunamente risolto la querelle, rappresentando che: 1) “l’esclusione inserita nella norma riguarda solo i tributi costituenti risorse dell’Unione europea e dunque non riguarda l’IVA”; 2) pertanto il dettato normativo “consente il raggiungimento di un accordo anche per la decurtazione o il pagamento dilazionato di tale imposta”.
Del resto, i debiti tributari delle imprese in crisi derivano generalmente dall’omesso versamento delle ritenute e dell’iva: pertanto, se fosse stata esclusa la possibilità di ridurre anche il debito inerente a questa imposta, il problema che l’introduzione dell’accordo sui debiti tributari nella composizione negoziata si prefiggeva di risolvere sarebbe stato risolto solo a metà.
Rimangono invece non falcidiabili, e non può neppure esserne dilazionato il pagamento (se non nei termini ordinari), i debiti verso gli enti previdenziali e assicurativi, i quali hanno mostrato ben poca disponibilità verso l’accordo di cui trattasi. Si tratta, tuttavia, di un’esclusione priva di giustificazione, poiché non si comprende per quale motivo i tributi (il cui pagamento è dovuto in base a uno dei principi costituzionali di maggior rango) possono essere falcidiati e i contributi previdenziali (ferma restando la loro assoluta utilità e tenuto conto dal grado di privilegio da cui sono assistiti) non potrebbero esserlo; così come non si comprende per quale motivo i contributi potrebbero essere falcidiati nell’ambito di altri istituti, e in alcuni di essi anche forzosamente, mentre non potrebbero esserlo in alcun modo, neppure escludendo il cram down, nella composizione negoziata. A questa ingiustificata disomogeneità di trattamento sarebbe quindi opportuno porre rimedio.
Non possono essere inoltre oggetto dell’accordo i crediti relativi ai tributi di cui sono titolari gli enti pubblici territoriali (comuni, province e regioni). La loro esclusione non deriva però dalla volontà del legislatore di escluderne la falcidiabilità, bensì dalla mancanza del tempo necessario per completare i necessari confronti con le parti interessate entro il termine di definitiva approvazione del decreto correttivo, che doveva essere necessariamente approvato entro il 13 settembre 2024, pena la decadenza della delega legislativa. L’introduzione della possibilità di falcidiare nella composizione negoziata i tributi di cui sono titolari comuni, province e regioni è peraltro espressamente stabilita da uno dei principi direttivi previsti dall’art. 9, comma 1, lett. a), della Legge n. 111/2023 (legge delega per la revisione del sistema tributario). Si tratta quindi di una misura che potrà essere introdotta mediante il decreto delegato sulla fiscalità della crisi attuativo dei predetti principi. Tuttavia, tale delega riguarda solo la transazione dei tributi locali nella composizione negoziata e non anche negli altri istituti disciplinati dal Codice della crisi (quali l’accordo di ristrutturazione dei debiti, il PRO, ecc.), il che rende necessari ulteriori provvedimenti, per evitare, relativamente alle medesime imposte, trattamenti differenziati privi di giustificazione. Per colmare la suddetta lacuna quanto meno nella composizione negoziata mediante il decreto correttivo, le commissioni Giustizia del Senato e della Camera dei deputati hanno suggerito al Governo di estendere il campo di applicazione di tale accordo anche ai tributi locali, ma detta inclusione non ha avuto luogo, anche in considerazione del fatto che il decreto correttivo non è attuativo della legge delega relativa alla riforma fiscale.