Commento
L’interruzione del processo per intervenuto fallimento di una delle parti ex art. 43, comma 3, L. fall.
Alessandra Migliorino, Giudice nel Tribunale di Pisa
23 Luglio 2021
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Visualizza: Cass., Sez. Un., 7 maggio 2021, n. 12154, Pres. Spirito, Est. Ferro
Sommario:
In particolare, nei recenti ârrets della Corte di Cassazione si legge che il termine per la riassunzione coincide con il momento in cui la controparte del fallito acquisisce “conoscenza legale” dell’intervenuto fallimento; permane invece un dubbio su quali siano, in concreto, gli atti o i fatti idonei a determinare tale forma di conoscenza[1].
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n. 12154 del 7 maggio 2021[2], sono intervenute sulla questione, elaborando il seguente principio di diritto: “In caso di apertura del fallimento, l’interruzione del processo è automatica ai sensi dell’art. 43, comma 3, l. fall., ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall. per le domande di credito, decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti e al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall’ufficio giudiziario”.
La vicenda traeva origine dall’azione intrapresa da una società al fine di ottenere la restituzione di quanto versato ad un istituto di credito a titolo di interessi usurari e anatocistici; la domanda veniva accolta e l’istituto convenuto condannato alla restituzione di quanto indebitamente percepito. Proposto appello da parte della banca, il giudizio di impugnazione si interrompeva a causa del sopravvenuto fallimento della società appellata. A questo punto, l’istituto di credito appellante riassumeva il giudizio; nondimeno, la curatela del fallimento, nel costituirsi, eccepiva l’estinzione del processo assumendo che la banca non si fosse attivata tempestivamente per la riassunzione, atteso l’infruttuoso decorso del termine di sei mesi tra la comunicazione inviata ai sensi dell’art. 92 l. fall. (ed in ogni caso tra la presentazione, da parte della società creditrice, della domanda di ammissione al passivo) e il deposito del ricorso in riassunzione. La Corte di Appello accoglieva l’eccezione della curatela e dichiarava pertanto estinto il giudizio dinanzi a sé pendente; la banca proponeva quindi ricorso per cassazione avverso detta pronuncia.
Per ciò che in questa sede interessa, la banca si doleva del fatto che la Corte d’Appello avesse dichiarato l’estinzione del giudizio di secondo grado individuando, quale momento in cui l’istituto di credito avrebbe avuto “conoscenza legale” dell’evento interruttivo, la comunicazione dell’avviso ex art. 92 l. fall. da parte del curatore del fallimento (del 3 maggio 2014), anziché la dichiarazione di interruzione (intervenuta il successivo 9 dicembre 2014); e trattandosi di riassunzione avvenuta in data 29 aprile 2015, se il giudice del merito avesse fatto decorrere il termine semestrale dalla dichiarazione giudiziale dell’evento interruttivo, il giudizio di seconde cure non sarebbe stato dichiarato estinto.
Tali i fatti di causa, la questione di massima di particolare importanza aveva ad oggetto l’individuazione dei fatti o degli atti idonei a determinare la decorrenza del dies a quo per la riassunzione/prosecuzione del giudizio interrotto per intervenuto fallimento di una delle parti, alla luce delle numerose pronunce di legittimità, sovente difformi nelle conclusioni.
Nonostante la decisione della causa esigesse l’individuazione di quali atti o fatti fossero idonei a determinare in capo alla parte non colpita dal fallimento la decorrenza del termine di riassunzione del processo interrotto, le Sezioni Unite sono state chiamate a definire anche gli atti o i fatti che determinano in capo al curatore del fallimento la decorrenza del termine per riassumere il giudizio interrotto.
Prima di esaminare funditus gli approdi in tema di “conoscenza legale” dell’evento interruttivo, è opportuno ricostruire sinteticamente il quadro normativo di riferimento.
Come noto, la perdita dell’amministrazione del patrimonio discendente dalla sentenza dichiarativa di fallimento comporta conseguenze coerenti anche sul piano processuale: infatti, con riguardo “ai rapporti di diritto patrimoniale del fallito”, il soggetto che lo subisce perde la capacità di stare in giudizio e, correlativamente, la legitimatio ad processum nasce in capo al curatore (art. 43, comma 1, l. fall.). La perdita della gestione dei rapporti processuali implica che l’intervento del fallito resti circoscritto unicamente ai giudizi relativi ai rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento in cui vi siano “questioni dalle quali può dipendere un’imputazione per bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge”.
Prima della riforma di cui al D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, il fallimento determinava una causa di interruzione del processo alla quale si applicava la disciplina di cui all’art. 300, commi 1, 2 e 4 c.p.c. Pertanto: a) con riguardo alla parte fallita dopo la costituzione in giudizio a mezzo procuratore, l’interruzione si verificava solo se e quando detto procuratore lo avesse dichiarato in udienza o lo avesse notificato alle altre parti; b) con riferimento alla parte dichiarata fallita dopo la dichiarazione della sua contumacia, l’interruzione si verificava solo laddove l’evento interruttivo fosse stato notificato (dalla curatela del fallimento o anche dal soggetto fallito[3]) o fosse stato certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti o atti di cui all’art. 292 c.p.c.
In tale contesto, la dichiarazione di interruzione del processo da parte del giudice – seppure doveva essere emessa anche d’ufficio previa verifica, ex actis, della ricorrenza dei relativi presupposti – spiegava efficacia meramente ricognitiva di un effetto già prodottosi[4]; e in assenza di qualsiasi riferimento, nella disciplina processualistica, alla dichiarazione giudiziale di interruzione, non si poteva ritenere che il termine per la riassunzione (art. 305 c.p.c.) decorresse dalla dichiarazione di interruzione da parte del giudice.
Del resto, gli atti e i fatti di cui all’art. 300, commi 1, 2 e 4, c.p.c., in quanto caratterizzati da “struttura partecipativa”, determinavano in capo alle parti onerate della riassunzione anche la conoscenza legale dell’effetto interruttivo, talché la dichiarazione giudiziale di interruzione non aveva alcun rilievo neppure sotto tale profilo.
La situazione è mutata radicalmente con l’introduzione del comma 3 nell’art. 43 l. fall. (ad opera dell’art. 41, comma 1, del D. Lgs. n. 5/2006)[5], dal momento che – all’esito dell’innesto normativo – l’apertura del fallimento determina, ipso iure, l’interruzione del giudizio in corso, rendendo irrilevante, ai fini della produzione dell’effetto interruttivo, gli atti e i fatti di cui al menzionato art. 300 c.p.c.
Pertanto, nell’attuale regime, la disciplina di riferimento si rinviene negli artt. 299, 300, comma 3, e 301 c.p.c., concernenti gli eventi che producono l’automatica interruzione del giudizio, oltre che nell’art. 305 c.p.c. (relativamente alle conseguenze della mancata prosecuzione o riassunzione del processo).
Stabilito che, oggi, la dichiarazione di fallimento costituisce il presupposto di fatto per l’interruzione automatica del giudizio in cui è parte il soggetto fallito, è necessario indagare quando un fatto o un atto sia idoneo a determinare la conoscenza qualificata dell’evento interruttivo in capo alla parte interessata alla riassunzione/prosecuzione del processo, soprattutto al fine di individuare il dies a quo di decorrenza del termine perentorio per la riattivazione del giudizio.
Il problema sorge poiché l’art. 305 c.p.c.[6], nel prevedere che “il processo deve essere proseguito o riassunto entro il termine perentorio di tre mesi dall’interruzione, altrimenti si estingue”, non distingue, ai fini della tempestiva riassunzione, tra le ipotesi di interruzione automatica del giudizio, di cui al novellato art. 43 l. fall., e i casi di interruzione mediata da un atto di parte, di cui all’art. 300, commi 1, 2 e 4 c.p.c.; pertanto, come rilevato dalla Corte costituzionale[7], la sua applicazione letterale rischierebbe di condurre a risultati confliggenti con l’art. 24 Cost. laddove non fosse adeguatamente valorizzata l’effettiva conoscenza, da parte del soggetto interessato, dell’evento processuale determinante.
Ne è prova il fatto che la Consulta, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 305 c.p.c. nella parte in cui faceva decorrere il termine per la riassunzione del processo, ad opera della parte non fallita, dalla dichiarazione di fallimento ex art. 43, comma 3, l. fall., anziché dalla data di “effettiva conoscenza” dell’evento interruttivo, nel 2010[8] ha richiamato l’orientamento di legittimità[9] secondo il quale il termine per la riassunzione del processo decorre non già dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui la parte interessata alla riassunzione abbia avuto “conoscenza in forma legale” dell’evento stesso[10].
Sull’interpretazione dell’art. 305 c.p.c., la Corte costituzionale era già intervenuta, a più riprese, dichiarandone dapprima l’illegittimità nella parte in cui faceva decorrere il termine per la riassunzione/prosecuzione del processo dalla verificazione di uno degli eventi di cui all’art. 301 c.p.c., senza considerare che si trattava di un evento del quale la parte, senza sua colpa, poteva non conoscere affatto o non conoscere tempestivamente[11], e poi nella parte in cui disponeva che il termine perentorio per la riassunzione del processo, interrotto ai sensi dell’art. 299 c.p.c., decorreva dall’interruzione, e non dalla data in cui le parti ne avevano avuto formale conoscenza[12].
Se le decisioni richiamate sono motivate dall’“esigenza primaria di tutelare la parte colpita dall’evento” ed altresì “la parte cui il fatto non si riferisce”, la Suprema Corte non è sempre stata univoca nel definire le “forme di produzione” di quella conoscenza legale cui anche la Corte costituzionale, nella successiva ord. n. 261/2010, ha fatto espresso rinvio[13].
In tema di “fonti di produzione” della conoscenza legale si registrano infatti diversi indirizzi ermeneutici, tutti ripercorsi dalle Sezioni Unite nella recente sentenza n. 12154/2021, i quali non concordano: - sulla definizione delle forme di produzione in capo alle parti del processo interrotto; - sulla nozione di “parte” (il soggetto che sta in giudizio o il suo difensore); - sulla necessità che le forme di produzione della conoscenza dell’evento interruttivo debbano realizzarsi all’interno del processo o possano, al contrario, rinvenirsi anche all’esterno di esso.
Un primo orientamento, in senso restrittivo, ha ritenuto atti idonei a procurare la “conoscenza legale” dell’evento interruttivo, in capo alla parte interessata alla riassunzione/prosecuzione del giudizio, solo gli atti formali e processualmente documentabili quali la dichiarazione, notificazione o certificazione dell’evento stesso, non essendo sufficiente la conoscenza acquisita aliunde.[14] Si tratta – a ben vedere – di atti a struttura partecipativa, costitutivi dell’effetto interruttivo ai sensi dell’art. 300 c.p.c., idonei a determinare la conoscenza formale dell’evento interruttivo all’interno del processo, con esclusione, ad esempio, della notifica personale alla parte che sia munita di difensore[15].
Per altro indirizzo, occorre che la parte interessata abbia conoscenza legale non solo dell’evento interruttivo, ma anche dello specifico giudizio sul quale detto evento è destinato ad operare[16], non essendo sufficiente “l’acquisizione della notizia ricevuta dal patrocinatore officiato dal giudice delegato”[17].
Di contro, un terzo orientamento ha reputato decisiva l’ordinanza di interruzione pronunciata in udienza, ascrivendole la portata di mezzo di conoscenza legale[18]; tuttavia, poiché la curatela, interessata alla prosecuzione del giudizio, in quanto soggetto terzo rispetto al processo interrotto, non potrebbe essere considerata a conoscenza dell’evento interruttivo dichiarato dal giudice, si legge in altre pronunce che l’organo della procedura deve anche essere reso edotto dello specifico processo sul quale ha inciso l’evento interruttivo[19].
In altri casi, in ossequio al principio di simmetria, tali principi sono stati estesi anche alla parte sulla quale non ha inciso il fallimento, il cui procuratore deve essere notiziato sia dell’evento interruttivo, sia dello specifico processo interrotto [20].
Infine, un quinto indirizzo, tendendo alla conoscenza “effettiva” dell’evento interruttivo, ha affermato che possa dirsi esistente la conoscenza legale dell’evento anche in capo alla parte personalmente, e non al suo procuratore[21]; e tale conoscenza può dirsi del pari sussistente laddove al procuratore, che difende la parte nel giudizio interrotto, sia stata inviata la comunicazione ex art. 92 l. fall., con il riferimento specifico alla lite pendente[22], ovvero qualora al curatore sia stata indirizzata la comunicazione contenente una domanda di ammissione al passivo, munita di tutti i riferimenti utili per individuare il giudizio pendente interrotto[23].
In tale ottica, i giudici di legittimità hanno elaborato un’interpretazione funzionale della nozione di “conoscenza legale”, valorizzando, accanto all’“effettiva” conoscenza dell’evento interruttivo, anche il contenuto delle forme di produzione di tale conoscenza, tenuto conto del contesto processuale in cui l’evento si realizza.
In particolare, la Corte ha ritenuto di aderire al terzo indirizzo giurisprudenziale (in ordine di analisi), che collega l’onere di riassunzione (o prosecuzione) del processo interrotto alla dichiarazione giudiziale d’interruzione per intervenuto fallimento della parte[25]; tale atto, si legge in motivazione, “riunisce le qualità istituzionali della fonte privilegiata (il soggetto emittente) alla certezza dell’inerenza del fallimento esattamente al processo su cui quello incide (affermata proprio dal giudice che ne è singolarmente investito)”, così rispondendo in modo soddisfacente alle esigenze di tutte le parti coinvolte nella vicenda processuale.
La predetta dichiarazione giudiziale integra la forma di produzione della conoscenza dell’evento interruttivo più congrua, sia perché considera la peculiare posizione processuale del curatore fallimentare (del tutto differente da quella delle altre parti processuali), sia perché si mostra in sintonia con l’esigenza, sottesa alla disciplina dettata, per il futuro[26], dall’art. 143, comma 3, c.c.i., di assicurare alle parti certezza e diritto di difesa.
Con riferimento al primo profilo, i giudici di legittimità appaiono consapevoli del fatto che gli atti di cui all’art. 300 c.p.c. sono tipici atti di natura processuale, compiuti all’interno del processo di cui è parte il soggetto dichiarato fallito, non il curatore del fallimento, e che l’organo della procedura, in quanto soggetto terzo ed estraneo al processo, non può essere destinatario di atti idonei ad innescare la decorrenza del termine per la prosecuzione del giudizio. Inoltre, l’art. 43, comma 3, l. fall., configurando la dichiarazione di fallimento quale causa interruttiva automatica del giudizio in cui è parte il fallito, ha reso di fatto inopponibile alla curatela ogni atto processuale compiuto dopo la sentenza dichiarativa di fallimento, con la conseguenza che gli atti partecipativi di cui all’art. 300 c.p.c. non sono in grado di fondare, in capo al curatore, l’onere di attivarsi tempestivamente per la prosecuzione del giudizio.
Per tali ragioni, per il curatore il problema che si pone non è tanto la conoscenza del fallimento, quanto piuttosto sapere della pendenza del processo interrotto, del quale il fallito è parte.
Ad avviso delle Sezioni Unite, l’orientamento che meglio risponde a questa incertezza processuale è quello che àncora il dies a quo della prosecuzione/riassunzione alla conoscenza dell’ordinanza dichiarativa dell’interruzione: tale atto è infatti l’unico idoneo a produrre, in capo alle parti del processo non colpite dall’evento interruttivo, la conoscenza del medesimo evento sin dalla pronuncia in udienza, ed è al contempo in grado di assicurarne la conoscenza in capo al curatore, al quale viene comunicato a cura della cancelleria ex art. 176, comma 2, c.p.c., o, in alternativa, notificato da una delle parti non colpite dall’evento.
Inoltre, argomentano i giudici di legittimità, la soluzione si pone in linea di continuità con le innovazioni contenute nel D. Lgs. n. 14/2019, espressamente richiamate in motivazione: fermo restando che l’art. 143 del c.c.i. non ha efficacia retroattiva e che neppure può essere utilizzato in sede interpretativa come argomento per sostenere la decorrenza del termine perentorio di riassunzione/prosecuzione[27], è certo che la dichiarazione giudiziale dell’interruzione, pur conservando natura ricognitiva, sarà l’unico fatto a poter determinare la conoscenza dell’evento interruttivo in capo alle parti non colpite dall’evento.
Note: