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L’esercizio dell’impresa e la liquidazione dell’attivo nella Liquidazione Giudiziale*

Sido Bonfatti, Professore di Diritto della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza nell’Università di Modena e Reggio Emilia, già Ordinario di Diritto Commerciale nel medesimo Ateneo

2 Luglio 2025

*Il contributo costituisce la Relazione tenuta al Convegno “Il patrimonio del debitore al servizio dei creditori”, organizzato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Ravenna, tenutosi a Milano Marittima nei giorni del 6 e 7 giugno 2025. Esso è pubblicato nel “Commentario al Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza”, 2025, diretto da S. Bonfatti, e coordinato da G. Falcone.
L’A. si sofferma sulle regole che governano l’esercizio dell’impresa del debitore e la liquidazione dell’attivo nel CCII.
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1 . La disciplina dell’esercizio dell’impresa nell’ambito della liquidazione giudiziale e della liquidazione dell’attivo concorsuale. Uno sguardo d’insieme
Le riforme della legge fallimentare, succedutesi a far tempo dal 2005 ed oggi culminate nell’entrata in vigore del CCII, hanno modificato profondamente la disciplina della liquidazione delle attività facenti capo all’impresa “fallita”, come presupposto per la ripartizione del ricavato tra i creditori, e conseguente soddisfacimento – per quanto consentito – delle loro pretese: laddove non hanno inciso altrettanto significativamente sulla disciplina dell’eventuale continuazione dell’esercizio dell’impresa, che è rimasta una ipotesi marginale. 
Il legislatore ha mirato a conseguire i seguenti, principali obiettivi: 
a) una maggiore “trasparenza” delle operazioni di liquidazione; 
b) una maggiore “efficienza” delle attività di liquidazione, ricercando un migliore dosaggio tra la perdurante esigenza di garantire la correttezza dei comportamenti degli Organi della procedura e quella di consentire loro di operare con la necessaria tempestività e flessibilità; 
c) una maggiore “efficacia” delle attività di liquidazione attraverso la creazione delle condizioni atte ad evitare, per quanto possibile, la dispersione dei valori organizzativi e di avviamento insiti in una impresa operante sul mercato, nonché ad attenuare – come effetto riflesso, ma tutt’altro che privo di rilievo – l’impatto della “crisi” d’impresa sul contesto dei rapporti (“l’indotto”) che ad essa fanno capo. 
Questo accenno alla molteplicità di effetti conseguenti alla conservazione dell’organizzazione (e dello stesso funzionamento) dell’impresa in “crisi” – idonei tanto ad assicurare una maggiore valorizzazione del suo patrimonio in funzione di un migliore soddisfacimento delle pretese dei suoi creditori; quanto ad attenuare le conseguenze dell’impatto della “crisi” d’impresa sull’ambiente economico e sociale nel quale essa operava – mette in luce una distinzione tra le categorie incise dal dissesto dell’imprenditore, che in talune circostanze può evolvere in una vera e propria contrapposizione: i soggetti miranti principalmente (se non esclusivamente) alla tutela del “rapporto di credito” – dove l’interesse è rivolto alla creazione delle condizioni per il miglior soddisfacimento delle pretese pecuniarie “pregresse”, quale che sia il futuro al quale deve andare incontro l’impresa in crisi –; ed i soggetti miranti anche (se non, talvolta, soprattutto) alla tutela del “rapporto commerciale” o contrattuale – dove l’interesse è rivolto (anche, o soprattutto) alla creazione delle condizioni in base alle quali l’impresa in crisi possa continuare l’esercizio dell’attività economica (in un contesto “risanato”), e con esso la prosecuzione del rapporto commerciale (di fornitura; di approvvigionamento; di lavoro) con il creditore –. 
L’approccio riservato dal legislatore alla regolamentazione del rapporto tra la esigenza di soddisfacimento dei creditori dell’imprenditore insolvente in tempi accettabili, ed il tentativo di mantenere i possibili valori insiti nell’impresa ancora in funzionamento, è espresso in modo inequivoco dalla norma di esordio (art. 211 CCII), secondo la quale “l’apertura della liquidazione giudiziale non determina [di per sé] la cessazione dell’attività d’impresa [quando ricorrano le condizioni di cui ai commi 2 e 3]”. 
Le condizioni poste alla continuazione dell’esercizio dell’impresa (“o dei singoli rami d’azienda”) sono così declinate: 
(i) per l’ipotesi di disposizione della continuazione dell’esercizio dell’impresa contestualmente all’apertura della liquidazione giudiziale – quindi ad opera del Tribunale, che tale procedura dichiara con sentenza –, occorre che ricorra la condizione della sussistenza della previsione che “la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori” (laddove la corrispondente disposizione dell’art. 104, comma 1, L. fall. aggiungeva la ulteriore condizione della valutazione che dalla interruzione dell’attività d’impresa non potesse derivare “un danno grave”); 
(ii) per l’ipotesi di disposizione della continuazione [rectius: della ripresa] dell’esercizio dell’impresa successivamente all’apertura della liquidazione giudiziale – quindi ad opera del Giudice Delegato – sono sufficienti – stando alla lettura della legge: art. 211, comma 3, CCII – le condizioni “soggettive” del parere favorevole del Curatore (che anzi deve rivestire il ruolo di proponente la ripresa dell’attività di impresa) e del Comitato dei creditori. 
La continuazione dell’esercizio dell’impresa (o di singoli rami di essa) può poi avvenire: (i) mediante la continuazione (o la ripresa) della attività da parte del curatore; (ii) mediante la conclusione di un contratto di affitto d’azienda; (iii) mediante la conclusione di un contratto di vendita; (iv) mediante la conclusione di una operazione di conferimento in altra società. 
2 . Profili problematici dei rapporti tra gli Organi della procedura
La disciplina dei rapporti tra gli Organi della procedura in materia di liquidazione dell’attivo concorsuale origina diversi scenari problematici: 
a) inerzia del Curatore. Di fronte ad un (ritenuto) ingiustificato ritardo, potrebbe essere ipotizzato in astratto il ricorso da parte del Comitato dei creditori allo strumento del reclamo ex art. 133 CCII, previsto anche in ipotesi di “omissioni del curatore”: ma in concreto, nel caso di specie, non sarebbe agevole individuare quale provvedimento giudiziale possa essere pronunciato sul reclamo, dovendosi escludere l’applicabilità della richiamata disposizione, nella parte nella quale prevede che se il reclamo è accolto il Curatore deve conformarsi alla decisione del Giudice Delegato, nel senso che non è ipotizzabile che il Programma di liquidazione – che, come vedremo, deve essere predisposto dal Curatore (art. 213 CCII) – sia predisposto dal Giudice Delegato o dal tribunale in luogo del Curatore inerte. È pertanto da ritenere che nel caso di specie l’unico rimedio adottabile sia quello della revoca del Curatore e della nomina di un altro soggetto; 
b) inerzia del Comitato dei creditori. Il Programma di liquidazione predisposto dal Curatore deve essere approvato dal Comitato dei creditori (art. 213, comma 7, CCII): è pertanto da ritenere che senza tale approvazione esso non possa trovare attuazione. D’altro canto la legge non prevede un termine specifico entro il quale il Comitato dei creditori debba esprimere (in senso positivo o negativo) il proprio giudizio sul Programma. Di fronte alla mancata espressione del parere del Comitato dei creditori, ove ciò rappresenti la conseguenza di una semplice inerzia, è da ritenere che il Curatore possa ricorrere alla disciplina prevista dall’art. 141 CCII (reclamo al Giudice Delegato contro il comportamento – rectius, atteggiamento –) omissivo. Di fronte ad una situazione di “stallo” determinata dalla impossibilità di funzionamento – per qualsiasi causa – del Comitato dei creditori, dovrebbe ritenersi applicabile l’art. 140, comma 4, CCII, secondo il quale “provvede il Giudice Delegato”. È poi da ritenere che contro questo provvedimento autorizzatorio del Giudice Delegato possa essere proposto reclamo ex art. 124 CCIII; 
c) contrasto tra Comitato dei creditori e Curatore. In ipotesi di contrasto tra il Curatore ed il Comitato dei creditori sarà il primo, per lo più, a dovere cedere, modificando il Programma fino a conseguire il consenso dei creditori. Il ricorso da parte del Curatore al reclamo previsto dall’art. 141 CCII (anche) contro i dinieghi del Comitato dei creditori sarà sovente reso impraticabile dalla considerazione che l’impugnazione è consentita soltanto “per violazione di legge”, e non per motivi di merito (in pratica, l’unica ipotesi prospettabile sarà quella nella quale il Curatore possa addurre la presenza di un “conflitto d’interessi” alla base della mancata autorizzazione del Comitato). 
In presenza di un contrasto non composto sul merito dei contenuti (e dei propositi) esposti nel Programma di liquidazione, non pare vi possa essere spazio neppure per un intervento sostitutivo del Giudice Delegato nei confronti di singoli membri del Comitato dei creditori (nel senso, di designare altri membri in luogo dei componenti “ostili”), essendo ciò consentito solo “per … giustificato motivo” – art. 138, comma 1, CCII –, e non apparendo tale un contrasto di valutazioni rispetto al Curatore. 
La descritta empasse sembra superabile – quando ricorrano i relativi presupposti – solo nell’ipotesi nella quale ricorra “l’urgenza” di provvedere, ed in nome di questa il Giudice Delegato ritenga di potere “provvedere” in luogo del Comitato dei creditori (anche, pertanto, difformemente dalla sua volontà), in base a quanto previsto dall’art. 140, comma 4, CCII. Ciò sarebbe del resto coerente con quanto previsto, proprio in materia di attività di liquidazione concorsuale, dall’art. 213, comma 6, CCII, che in caso di urgenza (consistente nel pregiudizio provocabile ai creditori dal ritardo nella esecuzione delle operazioni di realizzo) legittima il Giudice Delegato ad autorizzare la liquidazione di beni anche prima dell’approvazione del Programma di liquidazione, anche senza il parere del Comitato dei creditori (perché si prevede che esso possa non essere stato ancora costituito), o – forse – anche contro il parere in questione (giacché si prevede che, se costituito, il Comitato dei creditori debba essere soltanto “sentito”); 
d) contrasto con il Giudice Delegato. Come detto, il Giudice Delegato può verificare (soltanto) la “conformità” dell’atto di esecuzione del “Programma” a quanto previsto dal Programma stesso, e la legittimità degli atti Programmati: e ciò postula una valutazione di “coerenza logica” alla quale è completamente estraneo un giudizio di convenienza, e finanche di “appropriatezza”, dell’atto di esecuzione del “Programma”. 
3 . La soddisfazione dell’esigenza di una maggiore “trasparenza” delle attività di liquidazione dell’attivo concorsuale. Il “Programma di liquidazione”
Secondo l’art. 213 CCII dopo un breve termine (non oltre 60 giorni) dalla redazione dell’inventario (e comunque non oltre 150 giorni dalla sentenza dichiarativa della apertura) il Curatore deve predisporre un Programma di liquidazione che deve specificare, tra l’altro: 
1) criteri e modalità della liquidazione dei beni immobili; 
2) criteri e modalità della liquidazione degli altri beni e della riscossione dei crediti, con indicazione dei costi e dei presumibili tempi di realizzo; 
3) azioni giudiziali di qualunque natura, e subentro nelle liti pendenti, con i costi per il primo grado di giudizio; 
4) esiti delle liquidazioni già compiute; 
5) atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa; 
6) esercizio dell’impresa del debitore o di singoli rami di essa; 
7) affitto della azienda, ancorché relativo a singoli rami; 
8) modalità di cessione unitaria dell’azienda; 
9) modalità di cessione di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco; 
10) termine entro il quale avrà inizio l’attività di liquidazione dell’attivo; 
11) termine del suo presumibile completamento. 
Di particolare interesse è la previsione (innovativa) secondo la quale il Programma di liquidazione deve dare atto anche delle “azioni giudiziali di qualsiasi natura” che il Curatore intente intraprendere. 
La corrispondente previsione (art. 104 ter, comma 2, lett. c), L. fall.) richiedeva l’inserimento nel Programma di liquidazione delle “azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare e il loro possibile esito”: azioni nelle quali andavano senz’altro ricomprese le variegate azioni di responsabilità promuovibili dal Curatore fallimentare, vuoi con riguardo agli amministratori e sindaci della società fallita; vuoi con riguardo alla eventuale responsabilità della “capogruppo”; vuoi con riguardo alla eventuale responsabilità del socio – di s.r.l. – che avesse deciso od autorizzato il compimento di atti dannosi per la società o per i terzi – art. 2476 comma 7, c.c.-. 
La stessa conclusione si deve formulare per la portata da attribuire, in parte qua, all’art. 213 CCII. 
Oltre a ciò, benché la legge nulla preveda in tal senso, si devono ritenere ricompresi nei contenuti obbligatori del Programma di liquidazione (e per tale via, pertanto, assoggettati al controllo ed alla valutazione del Comitato dei creditori: infra) anche i propositi del Curatore rispetto alle decisioni di subentrare o di non subentrare nei rapporti giuridici pendenti alla data del “fallimento” (diversi dalle “liti pendenti”). 
Sempre secondo l’art. 213, comma 7, CCII, il “Programma” è da sottoporre all’approvazione del Comitato dei creditori. La norma non ripete il dettato della corrispondente disciplina previgente (art. 104 ter L. fall.) secondo la quale il Comitato dei creditori poteva “proporre al Curatore modifiche al Programma presentato”: ma tale legittimazione va ugualmente riconosciuta. 
La previsione del Programma di liquidazione avrebbe dovuto conseguire gli obiettivi della razionalizzazione e della accelerazione delle attività di liquidazione. Come subito osservato in dottrina, peraltro, tali obiettivi sono stati mancati. L’iter che porta all’esecuzione del Programma segue infatti un percorso tortuoso che parte dalla predisposizione del Programma da parte del Curatore (art. 213, comma 1); un secondo passaggio che consiste nella trasmissione del Programma al Giudice Delegato, il quale rilascia una prima autorizzazione semplicemente per sottoporre il Programma al Comitato dei creditori ai fini dell’approvazione (art. 213, comma 7, primo periodo); un terzo passaggio, dato dall’approvazione del Programma da parte del Comitato dei creditori (art. 213, comma 1); un quarto ed ultimo passaggio, nel quale il Giudice Delegato “autorizza i singoli atti liquidatori in quanto conformi al Programma approvato” (art. 213, comma 7, secondo periodo). Un percorso che ovviamente potrebbe anche avere delle battute d’arresto: ben potrebbe infatti il Comitato dei creditori suggerire delle modifiche al Programma presentato, che se accolte costringerebbero il “Curatore a presentare” il nuovo Programma al Giudice Delegato per il (nuovo) rilascio della “prima autorizzazione”. 
Il primo (e più importante) profilo della disciplina dettata per la predisposizione del Programma di liquidazione è rappresentato dalla totale sottrazione sia della predisposizione sia della approvazione del “Programma di liquidazione” al Giudice (Delegato). Chiarito che la responsabilità della redazione e dell’approvazione del Programma è affidata esclusivamente al Curatore ed al Comitato dei creditori (l’autorizzazione del quale sarà soggetta solo al reclamo previsto dall’art. 141 CCII, e dunque esclusivamente “per violazioni di legge”), al Giudice Delegato è attribuita la funzione di “controllo di conformità” degli atti di esecuzione del “Programma” rispetto a quanto previsto dal Curatore ed approvato dai creditori: “il Programma [di liquidazione] è comunicato al Giudice Delegato, il quale “autorizza i singoli atti liquidatori in quanto conformi al Programma approvato (art. 141, comma 7, CCII). 
Si pone qui il problema se oltre alla “conformità” al Programma di liquidazione il Giudice Delegato possa (e quindi debba) accertare anche la legittimità in sé degli atti di esecuzione sottoposti al suo esame: dubbio che dovrebbe essere risolto in senso positivo, vuoi con riguardo alla rilevazione di eventuali vizi c.d. “formali”; vuoi con riguardo alla rilevazione di eventuali vizi c.d. “sostanziali”, come potrebbero essere quelli rappresentati dalla mancata attivazione, prima dell’inserimento dell’atto ipotizzato nel “Programma” predisposto dal Curatore ed approvato dal Comitato dei creditori, delle “procedure competitive” che ai sensi dell’art. 216 CCII devono essere osservate per gli atti di liquidazione dell’attivo. 
La circostanza che il Programma di liquidazione non venga più qualificato, come nella legge fallimentare previgente, un “atto di pianificazione “(art. 104 ter, comma 2, L. fall.); e che il Curatore sia tenuto ad indicare nel Programma “le azioni giudiziali di qualunque natura” oltre che “il subentro nelle liti pendenti” – e non soltanto le possibili cause “risarcitorie, recuperatorie  e revocatorie” –: fa ritenere che il Programma stesso debba essere più analitico e circostanziato di quanto voluto dalla legge fallimentare previgente. Se mai si può notare che mentre per le azioni giudiziali da intraprendere o nelle quali subentrare è richiesta la “indicazione dei costi e dei presumibili tempi di realizzo”, non risulta più espressamente richiesta quella valutazione del “loro possibile esito” che l’art. 104 ter, comma 2, lett. c) L. fall. richiedeva per il Programma di liquidazione predisposto nell’ambito della procedura di fallimento. 
Si deve però ritenere che anche questo aspetto debba essere precisato: così come si deve ritenere che la valutazione del possibile esito delle cause da intraprendere, ovvero nelle quali subentrare, non investa tanto (o solo) l’esito giudiziale prevedibile (che in linea di massima non potrà che essere interessato da un pronostico prevalentemente ottimistico, senza del quale l’azione non dovrebbe essere neppure radicata), quanto piuttosto anche (e forse soprattutto) le concrete aspettative di recupero riposte nelle azioni giudiziali teoricamente proponibili, alla luce dei prevedibili costi di assistenza legale; della rispondenza patrimoniale delle controparti (si pensi alla dubbia opportunità delle azioni recuperatorie proposte nei confronti di soggetti a loro volta sottoposti a liquidazione giudiziale); eccetera. 
Sempre in funzione di assicurare la massima trasparenza possibile alle questioni di liquidazione dell’attivo, il legislatore ne ha successivamente integrato la disciplina, disponendo che “in ogni caso… il curatore effettua la pubblicità prevista dall’articolo 490, primo comma, del codice di procedura civile, almeno trenta giorni prima dell’inizio della procedura competitiva”. 
4 . La soddisfazione della esigenza di una maggiore “efficienza” delle attività di liquidazione. Le modalità delle vendite forzate concorsuali
Le attività di liquidazione degli asset acquisiti nella procedura di liquidazione giudiziale devono essere precedute da “stime” attendibili dei valori presumibilmente ottenibili. La relazione di stima effettuata da esperti nominati dal Curatore deve essere depositata con le modalità telematiche descritte dall’art. 216 CCII. 
Per le vendite forzate concorsuali la norma richiamata dispone che le stesse, insieme agli “altri atti di liquidazione”, siano effettuate “tramite procedure competitive”, anche avvalendosi di soggetti specializzati, “sulla base di stime effettuate … da parte di operatori esperti” (art. 216, comma 2, CCII). Sia per i “soggetti specializzati”, sia per gli “operatori esperti”, è prevista la adozione da parte del Ministero della Giustizia di un regolamento che ne determini i requisiti di “onorabilità e professionalità”. 
Una disciplina particolare è dettata per la liquidazione dei beni immobili. Per essi il Curatore pone in essere almeno tre esperimenti di vendita all’anno. Dopo il terzo esperimento andato deserto il prezzo può essere ribassato fino al limite della metà rispetto a quello dell’ultimo esperimento. 
Il Giudice Delegato può ordinare la liberazione dei beni immobili occupati dal debitore o da terzi in forza di titolo non opponibile al Curatore. Per l’attuazione dell’ordine di liberazione il Giudice Delegato può avvalersi della forza pubblica. Il Curatore può proporre nel Programma di liquidazione che le vendite dei beni mobili, immobili, e mobili registrati vengano effettuate dal Giudice Delegato secondo le disposizioni del Codice di procedura civile in quanto compatibili. 
Le offerte di acquisto non sono efficaci se pervengono oltre il termine stabilito nell’avviso pubblicato dal Curatore sul Portale delle vendite pubbliche o nell’ordinanza di vendita o se l’offerente non presta cauzione nella misura indicata. Le offerte di acquisto sono efficaci anche se inferiori di non oltre un quarto al prezzo stabilito. 
Le vendite e gli atti di liquidazione possono prevedere che il versamento del prezzo abbia luogo ratealmente. 
In linea generale è ancora da notare la previsione della legittimazione del Giudice Delegato a sospendere le vendite qualora ricorrano “gravi e giustificati motivi”, ovvero di accogliere la eventuale istanza del debitore, del Comitato dei creditori o di altri interessati, dirette ad impedire il perfezionamento delle vendite quando il prezzo offerto “risulti notevolmente inferiore a quello ritenuto congruo!. 
Da notare ancora la specifica previsione della cedibilità a terzi, anche al di fuori delle ipotesi di concordato “fallimentare” con l’intervento di un assuntore, dei crediti (o di determinati crediti) della procedura concorsuale (compresi i crediti “di natura fiscale”), nonché delle azioni revocatorie concorsuali, se i relativi giudizi sono già pendenti. Il parallelo con le corrispondenti operazioni previste in caso di concordato “fallimentare” dovrebbe consentire di ammettere anche la cedibilità a terzi delle (sole) “azioni risarcitorie (e) recuperatorie”, già individuate – come è necessario, come detto – nel Programma di liquidazione, la cui approvazione implica l’autorizzazione alla promozione delle azioni stesse. 
Un tema delicato è rappresentato dai possibili rapporti (ovvero delle possibili interferenze) tra la disciplina della liquidazione dell’attivo concorsuale e la disciplina delle vendite forzate individuali nel diritto comune. 
L’art. 216, comma  8, CCII, conferma che alle vendite concorsuali “si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli 569, terzo comma, terzo periodo, 574, primo comma, secondo periodo, 585 e 587, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile”: disposizioni che riguardano, rispettivamente, la facoltà di consentire la rateizzazione del pagamento del prezzo; le condizioni per l’immissione dell’aggiudicatario che non abbia versato l’intero prezzo nel possesso dell’immobile venduto; la decadenza dell’aggiudicatario che non abbia versato anche una sola rata del prezzo entro dieci giorni dalla scadenza del termine. 
L’art. 216, comma 3, CCII, precisa poi che è concessa al Curatore l’opzione di prevedere che le vendite siano effettuate dal Giudice Delegato “secondo le disposizioni del Codice di procedura civile in quanto compatibili”. 
Tale previsione genera perplessità in una pluralità di direzioni. 
Innanzitutto lo sviluppo di prassi “virtuose” nelle procedure di espropriazione forzata individuale affermatesi presso taluni tribunali italiani ha evidenziato quali difetti in materia di “trasparenza” ed in materia di efficienza presentino talune delle modalità “rituali” delle vendite forzate, con speciale riguardo al ricorso alla tecnica dell’incanto. In secondo luogo l’attribuzione esclusiva al Curatore ed al Comitato dei creditori della competenza a provvedere, rispettivamente, alla predisposizione ed all’autorizzazione del Programma di liquidazione, consente a tali organi di imporre all’autorità giudiziaria – in ipotesi – l’adozione delle procedure di espropriazione forzata individuale anche per le vendite concorsuali, non solo prescindendo da valutazioni sulla effettiva maggiore convenienza di tale scelta nel singolo caso di specie, ma anche prescindendo dalla considerazione del possibile impatto della scelta sull’organizzazione dell’ufficio del giudice dell’esecuzione. 
5 . La soddisfazione della esigenza di una maggiore “efficacia” delle attività di liquidazione. Le cessioni cc.dd. “aggregate”
È nozione di comune esperienza che in materia di realizzazione di “attivi” connessi all’esercizio di una attività imprenditoriale è maggiormente conveniente procedere a forme di vendita “aggregate” – l’azienda; rami dell’azienda; insiemi di beni e di rapporti giuridici coordinati per lo svolgimento di una specifica funzione produttiva –, piuttosto che a vendite cc.dd. “atomistiche”. Nel primo caso, infatti, al valore di realizzo dei singoli cespiti che compongono l’aggregato ceduto è possibile sommare il valore “immateriale” costituito dalla preordinazione organizzata allo svolgimento di una attività produttiva già immediatamente avviabile (o proseguibile); e dalla utilizzabilità di relazioni e rapporti già consolidati (“avviamento”). Oltre a ciò, la realizzazione dei patrimoni già facenti capo ad un’impresa per mezzo della cessione di “aggregati”, piuttosto che attraverso il realizzo dei singoli cespiti disaggregati, consente altresì di soddisfare meglio le esigenze di quella categoria di “creditori” che considerano con interesse, oltre che (e talora più che) la entità della percentuale di soddisfacimento delle pretese pregresse, la prospettiva della possibile continuazione dei rapporti commerciali – di varia natura – già in corso con l’impresa in crisi. 
Per le ragioni illustrate l’art. 214 CCII conferma il principio generale, già affermato dall’art. 105 l. fall., per cui “la liquidazione dei singoli beni … è disposta (solo) quando risulta prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori”. 
Per favorire la realizzazione dell’attivo “fallimentare” attraverso le modalità ritenute in astratto più convenienti, il legislatore ha agito su diversi piani. In particolare, si rivelano funzionali (o, certamente, anche funzionali) a favorire il collocamento di asset, piuttosto che la liquidazione “atomistica” dei singoli cespiti inventariati: 
a) la disciplina degli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti giuridici preesistenti; 
b) la disciplina dell’esercizio provvisorio dell’impresa; 
c) la disciplina dell’affitto di azienda; 
d) la disciplina speciale della vendita dell’azienda (e di rami d’azienda, eccetera) nella liquidazione giudiziale. 
6 . Segue. Rapporti pendenti, esercizio provvisorio dell’impresa e affitto d’azienda nella prospettiva della realizzazione di “cessioni aggregate”
La realizzazione dell’attivo concorsuale attraverso la cessione di “aggregati” organizzati (asset) postula la trasferibilità in capo al cessionario anche dei “rapporti d’impresa” che consentano la prosecuzione dell’attività economica esercitata attraverso gli apparati produttivi ceduti. Nel contempo, il perseguimento di tale obiettivo sarebbe favorito dalla possibilità di consentire al cessionario una qualche maggiore libertà di azione nei confronti dei “contraenti ereditati” – cioè le controparti di taluni dei rapporti giuridici che complessivamente considerati è preferibile mantenere in vita piuttosto che sciogliere, ma che in singoli casi di specie potrebbero costituire un ostacolo al subentro del cessionario nello “aggregato” di cui è stata Programmata la cessione –. 
In questa prospettiva acquistano maggiore valore le previsioni rappresentate da: (i) l’abbandono del principio generale dello scioglimento dei rapporti giuridici preesistenti come conseguenza automatica dell’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti di uno dei contraenti (che rappresenterebbero un “sabotaggio” rispetto a qualsiasi tentativo di continuare l’esercizio dell’attività d’impresa): secondo l’art. 211, comma 8, CCII, “durante l’esercizio dell’impresa” (in ipotesi disposto nonostante l’assoggettamento alla liquidazione giudiziale dell’imprenditore – infra –) “i contratti pendenti proseguono …”; (ii) l’adozione del principio generale della sospensione dell’esecuzione dei contratti non compiutamente eseguiti da entrambe le parti, con facoltà di subentro del Curatore (art. 172 CCII); (iii) la previsione di una disciplina speciale concorsuale per talune figure contrattuali di possibile, speciale rilievo nell’ambito di singoli organismi produttivi – l’appalto (art. 186); il leasing (art. 177); i contratti relativi ad immobili ancora da costruire (art. 174); i finanziamenti destinati ad uno specifico affare (art. 176) -. 
Ciò posto, è ancora evidente che la possibilità di avvalersi della prosecuzione dei rapporti già costituiti per l’esercizio di una attività economica – o di una “branca” di essa – rappresenta un presupposto necessario per procedere alla cessione di asset in funzionamento, ma non costituisce la garanzia di riuscirvi rapidamente, anche – se non soprattutto – quando si deve soddisfare pure la esigenza della instaurazione di “procedure competitive” per l’allocazione dell’impresa, o di parti in essa, che impediscono, se pure fosse concretamente possibile, di procedere alla dismissione nella immediatezza. 
Di qui l’opportunità della maggiore valorizzazione dell’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa, che assolve la funzione di impedire l’interruzione dell’esercizio dell’attività economica e di agevolarne il subingresso da parte di terzi cessionari. L’istituto non registra, soprattutto a prima vista, innovazioni radicali, rimanendo caratterizzato da una disciplina improntata a grande prudenza, per la ragione che le obbligazioni assunte dall’impresa “fallita” in corso di esercizio provvisorio sono necessariamente ascrivibili alla procedura, e conseguentemente destinate ad una collocazione in prededuzione (art. 211, comma 8, CCII), con potenziale e grave pregiudizio per i creditori concorrenti. La volontà di consentirne un più frequente utilizzo rispetto al passato è tuttavia facilmente ricavabile dalla esclusione di ogni possibile eccezione al principio generale di prosecuzione dei contratti pendenti, salva specifica ed espressa scelta del Curatore di sospenderne la esecuzione o di scioglierli (art. 211, comma 8, CCII) – donde la necessaria inapplicabilità della norma che consente all’acquirente di beni immobili da costruire di provocare lo scioglimento del contratto in conseguenza dell’assoggettamento a liquidazione giudiziale del venditore: art. 174 CCII –. 
A tale proposito va notato come l’art. 211, comma 8, CCII presenti un contenuto ambiguo, nella parte nella quale precisa che “al momento della cessazione dell’esercizio provvisorio si applicano le disposizioni di cui alla Sezione V del Capo II del Titolo V”, cioè le disposizioni concernenti gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti giuridici preesistenti. È possibile che la norma intenda semplicemente ribadire il principio, già affermato nel comma precedente, secondo il quale “i contratti pendenti proseguono”, e gli effetti normalmente conseguenti alla pronuncia della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale sono differiti alla data della cessazione dell’esercizio provvisorio. Non è peraltro escluso – ma il tema non è stato ancora oggetto di approfondimento – che la norma voglia assoggettare al regime dettato per i rapporti giuridici preesistenti di fronte alla liquidazione giudiziale di uno dei contraenti anche i contratti sorti nel corso dell’esercizio provvisorio, come del resto specificamente previsto per i rapporti pendenti al momento della “retrocessione” alla procedura dell’azienda affittata a terzi – art. 212, comma 6, CCII – (e fermi restando, comunque, peraltro, nel primo caso, gli effetti della espressa attribuzione ai crediti sorti nel corso dell’esercizio provvisorio della collocazione in prededuzione – art. 211, comma 8, CCII –). 
7 . Segue. Affitto d’azienda e “cessioni aggregate”
Se l’istituto dell’esercizio provvisorio si presta bene, come abbiamo visto, a costituire un valido presupposto di successiva allocazione dell’impresa (o di parti di essa) “in funzionamento”, assicurando la prosecuzione dei rapporti giuridici che stanno alla base del suo esercizio – e, nel contempo, consentendo la sospensione o lo scioglimento di quelli che potrebbero produrre effetti, invece, nella direzione contraria –, cionondimeno le problematicità di tale scelta sono evidenti. Non solo, infatti, come detto, l’esercizio provvisorio genera passività necessariamente collocate in prededuzione, e quindi potenzialmente atte a provocare ulteriore deterioramento patrimoniale – dovendosi considerare improbabile che la continuazione dell’esercizio di una impresa “fallita” non generi perdite di conto economico per la prevedibile insufficienza dei ricavi di periodo a fronteggiare i corrispondenti costi –: ma soprattutto è da considerare la circostanza che il Curatore fallimentare non è l’imprenditore (“fallito”): e non è neppure, senza ombra di dubbio, “un” imprenditore, potendo rivestire tale ruolo – e di fatto rivestendolo in via esclusiva – unicamente dei professionisti quali gli avvocati, i dottori commercialisti, eccetera. Per tali ragioni, la prospettiva dell’esercizio provvisorio può rappresentare una pericolosa incognita, dal punto di vista imprenditoriale, che già solo per ciò confina l’utilizzo dell’istituto alle sole situazioni di urgenza per le quali non sia possibile provvedere altrimenti, e comunque per un breve periodo. 
Soccorre allora, in questa prospettiva, l’istituto dell’affitto d’azienda, che venne recepito dal diritto positivo dopo essersi affermato come una soluzione ideata dalla prassi, dalla quale mutua la maggior parte del contenuto oggi trasfuso in norme di legge. Per ciò che ci interessa particolarmente in questa sede segnaliamo che se vanno salutate con indubbio favore la previsione esplicita dell’ammissibilità dell’affitto di azienda (o di singoli rami), anche nell’ipotesi di assoggettamento dell’impresa alla liquidazione giudiziale; nonché l’introduzione di una disciplina che tenta di soddisfare in modo equilibrato tanto le esigenze della procedura (con la previsione di una serie di “garanzie” nei confronti dell’affittuario), quanto le esigenze dell’affittuario (con la ammissione ad inserire nel contratto di affitto una clausola di prelazione per l’acquisto dell’azienda, una volta messa in vendita – art. 212, comma 5, CCII –): per converso l’interesse del potenziale affittuario avrebbe potuto essere maggiormente sollecitato dalle previsioni – non contemplate, e di dubbia applicabilità in via interpretativa –: (i) della estensione anche all’affitto d’azienda (in sede di liquidazione giudiziale) dell’incondizionato principio di prosecuzione dei contratti pendenti, positivamente affermato per l’esercizio provvisorio dell’impresa, sempre in sede concorsuale (supra); (ii) della estensione all’affittuario delle facoltà (di subentro e/o sospensione e/o scioglimento) nei contratti pendenti, alla stregua di quanto riconosciuto al Curatore nei confronti dei rapporti giuridici preesistenti non ancora compiutamente eseguiti alla data dell’apertura della liquidazione giudiziale (supra). 
8 . Le operazioni di “cessione aggregata” nella liquidazione dell’attivo concorsuale: vendita dell’azienda o di rami d’azienda; vendita di beni o rapporti giuridici individuabili “in blocco”; conferimento della azienda o di rami d’azienda in altre società
La nuova disciplina della liquidazione dell’attivo concorsuale privilegia, come si è detto, la realizzazione del patrimonio del debitore attraverso l’esecuzione di operazione di “cessioni aggregate”, aventi ad oggetto l’intera azienda; oppure “rami” dell’azienda, distintamente l’uno rispetto all’altro; oppure ancora “aggregati” di beni, diritti e rapporti giuridici omogenei, “individuabili in blocco”. 
La figura dei “rapporti giuridici individuabili in blocco” è recuperata, principalmente, dalla disciplina delle situazioni di crisi delle imprese bancarie, e vuole alludere a quelle situazioni nelle quali si cedono degli “aggregati” che non possono neppure essere ricondotti alla figura del “ramo” d’azienda – perché insieme ai diritti o ai rapporti ceduti non sono contestualmente trasferite persone, beni materiali, locali od uffici, tali da garantire una autonomia gestionale del complesso di rapporti giuridici ceduto –, ma che sono distinguibili esclusivamente in ragione della loro omogeneità, e della loro riconducibilità, per tale via, ad uno specifico “affare”, o asset – e di cui possono essere esempio la cessione di tutti i mutui in essere presso una banca in crisi in favore di altra banca specializzata nell’erogazione di credito ipotecario; o tutti i contratti di prestito “al consumo” erogati dalla banca in crisi ad altro intermediario finanziario specializzato nella gestione del “credito al consumo”; della cessione di tutti i contratti di locazione finanziaria ad un Istituto di leasing; eccetera –. 
La disciplina della vendita dell’azienda (o di singoli rami di essa) in sede concorsuale prevede talune peculiarità che vanno tenute presente con grande attenzione, e che si spiegano per un verso con la condizione particolare (di “fallito”) in cui versa il cedente (rectius: il titolare dell’azienda che viene ceduta); e per un altro con la volontà di favorire l’utilizzo dell’istituto attraverso la concessione di agevolazioni speciali all’aspirante cessionario. Il tema, peraltro, è molto complesso, ed il legislatore ha posto l’interprete di fronte a numerosi dubbi, oggi ancora irrisolti, ed addirittura non ancora completamente individuati. 
L’art. 214, comma 3, CCII, afferma che in linea di principio (“salva diversa convenzione”) è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento. 
Nei commi successivi la norma prevede poi – con disposizioni puntualmente mutuate dalla disciplina della cessione delle aziende facenti capo ad imprese bancarie – che le cessioni dei crediti inerenti all’azienda siano opponibili ai terzi (ivi compresi i debitori ceduti, salvo il pagamento in buona fede al “cedente”) per il solo fatto dell’iscrizione nel Registro delle Imprese del trasferimento dell’azienda (o del ramo d’azienda), senza necessità della notificazione o dell’accettazione dei debitori ceduti altrimenti richieste; e che le garanzie di ogni tipo già costituite a favore del cedente conservino senz’altro la loro validità anche in favore del cessionario. 
La considerazione della disciplina positiva della cessione d’azienda in sede concorsuale consente in primo luogo di segnalare che nella valutazione del legislatore “la regola”, in materia di “cessioni aggregate” concorsuali, non dovrebbe essere effettivamente costituita dalla vendita dell’azienda o di singoli rami di essa, bensì dalla vendita di “attivi aggregati”, siano essi gli attivi inerenti all’esercizio dell’azienda; gli attivi inerenti all’esercizio di un ramo; od attivi presentanti connotati di omogeneità tali da poterne consentire un trasferimento “in blocco”. 
È questa la conseguenza del principio secondo il quale “salva diversa convenzione è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento”: e si tratta di un principio che solo apparentemente è rivolto a tutelare l’acquirente, rivelandosi invece, ad un esame più attento, come un forte deterrente alla conclusione di operazioni della specie. 
L’assunzione anche di debiti, infatti (cioè di passività), consentirebbe all’acquirente di conseguire due importanti effetti: (i) la “fidelizzazione” dei fornitori (che si troverebbero legati al cessionario dell’azienda non solo per il pagamento delle forniture che fossero richiesti di effettuare in futuro, ma anche per il pagamento di quelle pregresse, accollate al cessionario stesso: dove è evidente che i fornitori non potrebbero interrompere le loro prestazioni a cuor leggero, “inimicandosi” in questo modo il loro nuovo debitore); e soprattutto (ii) il reperimento immediato ed “indolore” dei mezzi finanziari per far fronte al pagamento delle attività acquistate: ove l’acquirente potesse anche accollarsi debiti del “fallito”, infatti, dovrebbe corrispondere alla procedura soltanto il conguaglio netto rappresentato dal maggior valore dell’attivo rispetto al passivo accollato. Non potendosi accollare le passività pregresse, invece, l’acquirente deve corrispondere l’intero valore “lordo” delle attività acquisite, ricercando sul mercato finanziario le risorse necessarie per sostenere l’esborso. Il reperimento di tale sostegno finanziario non è affatto scontato: mentre nell’ipotesi di accollo delle passività pregresse del “fallito”, con il pagamento del solo “netto” patrimoniale, il finanziamento alla acquisizione è già conseguito, per il corrispondente importo, con la assunzione delle relative obbligazioni in detrazione del valore “lordo” delle attività acquisite: obbligazioni che costituiscono bensì passività che devono essere pagate, ma nei tempi (e nei modi) che il cessionario negozierà con i creditori. 
È per tale ragione che un effettivo interesse alla acquisizione di aziende o di rami d’azienda da procedure concorsuali sarà per lo più riservato ai casi nei quali, facendo ricorso a quella che è considerata l’ipotesi di “eccezione”, sia stipulata quella “diversa convenzione” – art. 214, comma 3, CCII –, che prevede e consente l’assunzione da parte del cessionario anche delle passività (in tutto od in parte) facenti capo all’azienda ceduta, e la corresponsione di un “prezzo” ridotto (o di nessun prezzo, se viene assunto un ammontare di passività pari al valore della somma degli “attivi” ceduti e dell’avviamento eventualmente concordato). 
Tale prospettiva pone peraltro di fronte a difficoltà applicative ed interpretative di cui neppure il legislatore del CCII pare essere stato perfettamente consapevole. 
Il primo problema è rappresentato dalla previsione secondo la quale in ipotesi di cessione di “passività” da parte del Curatore è comunque “esclusa…la responsabilità dell’alienante” – art. 214, comma 4 –: il ché produce, a ben vedere, una ipotesi di accollo liberatorio ex lege senza concorso della volontà del “creditore ceduto”, in evidente deroga al disposto dell’art. 1273 c.c. (né vale a ridurre la portata della conclusione l’osservazione che prevedibilmente l’accollante sarà rappresentato da un soggetto maggiormente solvibile del debitore – che è “fallito”! –: sia perché trattasi di una congettura di mero fatto; sia perché anche la congettura sarebbe discutibile, in presenza di crediti privilegiati con prevedibile attitudine ad essere soddisfacentemente collocati sul ricavato dalla liquidazione (… ordinaria) delle attività concorsuali –. 
In secondo luogo, occorre considerare che queste forme di accollo liberatorio di passività concorsuali, equivalgono in tutto e per tutto ad una corrispondente ripartizione dell’attivo. Tanto più in quanto privata della responsabilità solidale del debitore accollato, l’assunzione dei debiti verso gli accollatari da parte del cessionario d’azienda (o del “cessionario di passività”) accollante non può che essere compensata da questi con una corrispondente porzione del valore delle attività trasferitegli: il ché, per la liquidazione giudiziale, ha effetti equivalenti a quelli che sarebbero stati prodotti dall’introito del prezzo (“lordo”) e dal suo immediato utilizzo per l’esecuzione di una ripartizione del ricavato in favore dei creditori accollatari. 
Ciò genera la necessità di prevedere, a monte della operazione prospettata, l’avveramento di due precise e concorrenti condizioni: (i) l’ammissione al passivo, in via definitiva, dei crediti degli accollatari; nonché (ii) la collocazione utile dei crediti degli accollatari, nella graduazione con le pretese degli altri creditori, sull’attivo ripartibile. È tale effetto che spiega la ragione della disposizione (art. 214, u. comma, CCII), secondo la quale “il pagamento del prezzo può essere effettuato mediante accollo di debiti da parte dell’acquirente [dell’azienda; del ramo d’azienda; eccetera] solo se non viene alterata la graduazione dei crediti”. Ciò fa sì che nelle operazioni di “cessioni aggregate” comportanti anche l’assunzione di passività da parte del terzo acquirente/cessionario – le uniche, per le ragioni illustrate, a presentare concretamente effettivi presupposti finanziari di fattibilità –, i debiti accollabili da parte di costui saranno limitati a quelli che avrebbero ricevuto una sicura collocazione sul ricavato, in sede di graduazione delle pretese ammesse al passivo concorsuale: con la conseguenza, in special modo nelle ipotesi di cessioni parziali (ad es., di rami d’azienda), che se si vorrà procedere al trasferimento al cessionario di posizioni debitorie di importo complessivo sufficiente a compensare l’obbligazione di versamento del prezzo, per rispettare la condizione segnalata occorrerà accettare l’idea del trasferimento allo stesso di passività (bensì utilmente collocabili nella gradazione rispetto agli altri creditori, e peraltro) non inerenti all’aggregato produttivo ceduto (per esempio tutte le passività derivanti da lavoro dipendente, presentate anche nei confronti di lavoratori estranei al ramo d’azienda ceduto); mentre se si sarà inteso trasferire al cessionario solamente le passività inerenti agli asset trasferiti, occorrerà prevedere l’accollo delle stesse nei limiti delle percentuali che avrebbero trovato collocazione sul ricavato nell’ambito di una liquidazione (e di un riparto) condotta con modalità “tradizionali”(quindi disponendo un accollo soltanto parziale per i creditori che sarebbero stati soddisfatti, in sede di esecuzione del riparto concorsuale, soltanto in misura ridotta). 
In entrambi i casi è da prevedere che l’operazione di “cessione aggregata” debba essere suddivisa in almeno due fasi: una, fondata su una situazione patrimoniale provvisoria, nella quale si possano accollare al cessionario (con effetto liberatorio per “il fallimento”) le passività già sicuramente collocabili in quella che sarebbe stata la liquidazione concorsuale; e l’altra, fondata su una situazione patrimoniale definitiva, che integri la prima operazione di accollo con una seconda serie di accordi, e che produca, per gli accollatari interessati, gli effetti equivalenti a quelli che sarebbero derivati, per le loro pretese, dalla esecuzione del riparto finale in sede concorsuale. 
L’art. 214, comma 7, CCII, riproducendo (ma contemporaneamente arricchendo) la corrispondente disposizione (art. 105) della previgente legge fallimentare, dispone che il Curatore possa procedere alla liquidazione dell’attivo concorsuale anche “mediante il conferimento in una o più società, eventualmente di nuova costituzione, dell’azienda o di rami d’azienda, ovvero di beni o crediti, con i relativi rapporti contrattuali in corso…”. Tale conferimento è caratterizzato da (i) la esclusione della responsabilità dell’alienante [cioè la procedura] ai sensi dell’art. 2560 c.c. (cioè la perdurante responsabilità per le obbligazioni derivanti da rapporti contrattuali pur ceduti, in solido con il cessionario); e (ii) la possibilità di attribuire a singoli creditori (purché questi vi consentano) a soddisfacimento delle loro pretese (e – ovviamente – “nel rispetto delle cause di prelazione”), le azioni o le quote emesse dalla società conferitaria. 
Non è riprodotta, invece, la disposizione (art. 105, comma 3, L. fall.) che prevedeva che “nell’ambito delle consultazioni sindacali relative al trasferimento d’azienda, il Curatore, l’acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti”. 
Il curatore, infine, può altresì cedere “le azioni risarcitorie, recuperatorie e revocatorie”, se i relativi giudizi sono già pendenti (art. 215). 

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