Come sappiano, l’originaria versione del Codice della Crisi e dell’insolvenza[14] prevedeva un sistema di allerta rimesso non solo all’iniziativa dell’imprenditore ma anche alla segnalazione da parte di soggetti qualificati.
Sebbene il sistema di allerta previsto nella formulazione originaria del Codice della Crisi e dell’insolvenza non sia mai entrato in vigore, è parere degli autori effettuare un breve e limitato exursus sulla tematica approfondendo i principi ispiratori della norma.
Ma andiamo per ordine.
Nella versione del Codice - mai entrata in vigore -, l’art. 13, CCII, rubricato “Indicatori della crisi” riempiva di contenuti gli “strumenti di allerta” previsti dall’art. 12, CCII il quale - rubricato “Nozione, effetti e ambito di applicazione” - disponeva che gli strumenti di allerta fossero costituiti da obblighi di segnalazione posti a carico del revisore contabile e della società di revisione (art. 14) e dei creditori pubblici qualificati, ovvero Agenzia delle entrate, Istituto nazionale della previdenza sociale e Agente della riscossione (art. 15), finalizzati alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione. Per espressa previsione normativa, tali obblighi non si sostituivano a quelli organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile, ma rappresentavano comunque l’evidente responsabilizzazione dei terzi, rispetto all’emersione anticipata della crisi del debitore. Alcuni creditori (c.d. qualificati) venivano, quindi, onerati (o onorati) di attivare la procedura di allerta in esito alla quale si sarebbe potuta aprire la Composizione Assistita della Crisi.
Sebbene la normativa non si applicasse a tutti gli imprenditori[15], la sua (potenziale) portata apparve da subito di straordinario impatto, perché allargava la platea dei soggetti licenziati a prevenire la crisi, conferendo loro strumenti per la sua precoce emersione.
L’art. 13, il introduceva il concetto di “sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi”, oltre alle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione fosse inferiore a sei mesi, quantomeno per i sei mesi successivi. A tal fine, la norma definiva “indici significativi” quelli in grado di misurare “la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi”.
Operativamente, la normativa mai entrata in vigore prevedeva quali indicatori di crisi, i ritardi nei pagamenti reiterati e significativi, di cui all’art. 24, ovvero:
a) debiti per retribuzioni scaduti da almeno sessanta giorni per un ammontare pari ad oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni;
b) debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni per un ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti;
c) il superamento, nell’ultimo bilancio approvato, o comunque per oltre tre mesi, degli indici elaborati (ai sensi dell’articolo 13, commi 2) dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili (di seguito, per brevità, CNDCEC).
Il comma 3 dell’art. 13 prevedeva, infine, che, qualora l’impresa che non avesse ritenuto adeguati, in considerazione delle proprie caratteristiche, gli indici elaborati dal CNDCEC, ne avrebbe dovuto specificare le ragioni nella nota integrativa al bilancio di esercizio e indicare, nella medesima nota, gli indici idonei a far ragionevolmente presumere la sussistenza del suo stato di crisi. L’adeguatezza di tali indici rispetto alle specificità dell’impresa avrebbe dovuto essere attestata da un professionista indipendente, la cui relazione - allegata alla nota integrativa al bilancio di esercizio - ne avrebbe costituito parte integrante, producendo i suoi effetti per l’esercizio successivo.
Fonte: Crisi d’impresa - Gli indici di allerta. Documento CNDCEC[16]
Diligentemente, il CNDCEC ha ottemperato alla previsione normativa, predisponendo degli indicatori della crisi, ben rappresentanti da un processo logico di indagine che, partendo dalla verifica sul patrimonio netto, prevede alternativamente la determinazione del c.d. Debt Service Coverage Ratio (brevemente anche “DSCR”) o di appositi indici settoriali, questi ultimi soggetti a periodico aggiornamento[17] (Figura 1).
Il punto di partenza di questa indagine era, quindi, rappresentato dalla verifica se il patrimonio netto (PN) fosse stato o meno positivo. Nel caso di PN negativo, si poteva già presumere uno stato di ragionevole crisi. L’assunto sembrerebbe banale, ma dobbiamo ricordare che il 5,5% delle PMI che avevano presentato almeno uno dei bilanci nel triennio 2017-2018-2019 mostravano un PN negativo[18].
Accertato che il patrimonio netto fosse positivo, l’imprenditore avrebbe dovuto determinare l’indice Debit Service Coverage Ratio.
Già noto al mondo bancario, che lo ha impiegato (o avrebbe dovuto) ai fini del merito creditizio, il DSCR è dato dal rapporto tra il flusso di cassa prodotto dalla gestione caratteristica al netto delle imposte sul reddito d’esercizio e il flusso finanziario per il pagamento degli interessi passivi, nonché della quota capitale dei finanziamenti nel periodo considerato.
Ove il rapporto fosse maggiore di 1, il flusso di cassa risulterebbe sufficiente alla copertura degli impegni finanziari e non emergerebbero ragionevoli presunzioni dello stato di crisi[19].
Tuttavia, nello scenario in cui l’imprenditore non lo avesse ritenuto attendibile o – più probabilmente – non fosse stato in grado di determinarlo, si sarebbero applicati gli indici settoriali di seguito descritti (Tabella 1).
Tab. 1 - Indici settoriali
A parere degli autori, sebbene la normativa attuale abbia superato l’impostazione di un sistema di allerta basato su indicatori di bilancio predeterminati, si ritiene che il calcolo ed il costante monitoraggio di tali indicatori possa rappresentare un efficace strumento di controllo del proprio stato di salute e di allerta anticipata rispetto a situazioni di crisi.
Il quadro si completava nell’art. 15 rubricato “Obbligo di segnalazione di creditori pubblici qualificati”, il quale prevedeva l’obbligo di avvisare il debitore quando venivano superati determinati importi da parte di: a) Agenzia delle Entrate[20]; b) Istituto Nazionale della Previdenza Sociale[21]; c) Agenzia Entrate - Riscossioni[22].
Esula dagli obiettivi del presente lavoro confrontare il contenuto del vigente art. 25 novies, CCII rubricato “Segnalazione dei creditori pubblici qualificati”, rispetto al mai entrato in vigore art. 15, ma appare utile ricordare che sia venuto meno il contenuto “obbligatorio” e (soprattutto) le conseguenze per l’inattività, ovvero l’inefficacia del titolo di prelazione spettante sui crediti dei quali sono titolari per i primi due e l’inopponibilità del credito per spese ed oneri di riscossione per il terzo.