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La prova dello stato di insolvenza nel periodo emergenziale

Maria Lucetta Russotto, Professoressa di diritto della gestione e risoluzione della crisi economica presso l'Università di Firenze

1 Aprile 2021

Un’analisi delle crisi economico-finanziarie e delle insolvenze innescate dalla pandemia, che suggerisce l’insufficienza di un approccio meccanicamente incentrato sull’impiego dei parametri normativi usuali, adombrando l’imprescindibilità del ricorso a criteri dinamicamente più consoni alla lettura delle condizioni delle realtà produttive.
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1 . Introduzione
Le MPMI sono arrivate all’evento imprevedibile della pandemia dopo un decennio, iniziato con la grande crisi del 2008, caratterizzato da una ripresa lenta e incompiuta, che aveva consentito di recuperare solo parzialmente i livelli dei conti economici precedenti alla crisi.
Infatti, nonostante nel 2019 i ricavi fossero superiore del 2% rispetto ai livelli del 2007, la redditività era rimasta ampiamente al di sotto, con le PMI che avevano perso il 19,4% del Mol rispetto al 2007 e il ROE che dal 13,9% del 2007 era passato al 10,8% del 2019[1] . 
È ormai chiaro a tutti che una situazione di questo tipo, di fronte a una ripresa che iniziava appena a recuperare le posizioni economiche del decennio precedente, l’emergenza epidemiologica abbia avuto e abbia tuttora implicazioni economiche senza precedenti, sia in termini di natura che di intensità[2] ; e questo nonostante si presuma che la maggior parte delle PMI italiane chiuderà il 2020 in pareggio o con un utile d’esercizio e con indici di redditività mediamente ancora positivi, anche se molto inferiori ai valori del 2019[3] .
Il motivo è facilmente spiegabile: l’estensione della cassa integrazione e gli interventi con garanzie pubbliche per immettere liquidità hanno supportato le MPMI e limitato lo squilibrio finanziario con conseguente contrazione dei costi relativi.
In definitiva la chiusura forzata di molte attività, la ridotta mobilità delle persone, le norme di distanziamento sociale, i massicci interventi pubblici in ambito monetario e fiscale, i cambiamenti indotti nei comportamenti di persone e imprese per effetto del nuovo contesto (pensiamo a esempio il diverso costo del lavoro a distanza) modificano pesantemente le relazioni fra i valori di bilancio, consentendo solo in parte la possibilità di una valutazione delle conseguenze nel breve-medio periodo. È in questo momento che diventa attuale il concetto di insolvenza o non insolvenza prospettica [4].
2 . Lo squilibrio finanziario e la crisi economica
Le vicende economiche nate dai D.P.C.m. di contenimento della pandemia emanati dall’inizio del 2020 a oggi, stanno generando a carico delle imprese un fenomeno di illiquidità a seguito del quale si presume che un numero rilevante delle stesse presenti gli elementi ex art. 15 L. fall. di una posizione debitoria superiore a trentamila euro e una incapacità a breve di far fronte agli impegni contratti.
Una recente pronuncia della Corte di Cassazione[5] stabilisce che “L'accertamento dello stato di insolvenza - che deve essere compiuto con riferimento alla situazione esistente alla data della sentenza dichiarativa di fallimento - rientra nel novero degli accertamenti di fatto di pertinenza del collegio del reclamo ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte…”, quasi a dire che stanti gli elementi dispositivi previsti dalla norma solo l’esistenza di una mancata correttezza giuridica o la presenza di elementi di incoerenza logico-formale possono portare a disattendere la dichiarazione di stato di insolvenza di una impresa. 
Il problema però è che se la valutazione dello stato di insolvenza viene effettuata sullo squilibrio finanziario, si rischia di dichiarare fallimenti di imprese che invece non sono realmente insolventi.
Le discipline aziendalistiche specificano che quasi sempre lo stato di insolvenza è essenzialmente un processo di involuzione progressiva, non necessariamente legato a problemi finanziari che spesso risultano invece essere più la conseguenza che la causa[6].
Di fatto in questo momento in Italia le imprese si trovano nella difficoltà di far fronte agli impegni presi, ma la causa della loro illiquidità non è dato sapere se derivi da ragioni legate alla situazione epidemiologica o invece da problematiche di mancanza di economicità d’impresa. 
Secondo una rilevazione[7] fatta ad agosto 2020 su un campione di 1 milione e 380 mila imprese, quasi il 60% prevedeva di avere problemi di liquidità nei successivi sei mesi a causa della crisi della domanda sul mercato interno sui mercati esteri; la frenata produttiva stava già generando una diffusa incertezza, in particolare sui tempi del recupero, legato anche alle diffuse criticità sui mercati globali. Tanto da far temere a molte imprese di non poter generare i flussi di cassa necessari a garantire l’ordinaria operatività aziendale.
Il problema è quindi quello di riuscire a differenziare le insolvenze vere dalle insolvenze false, l’illiquidità dovuta alle contingenze emergenziali e quella derivante da una crisi economica.
Secondo le teorie aziendalistiche per capirlo è fondamentale studiare l’impresa nelle sue caratteristiche e nelle sue fasi di vita.
L’impresa[8], infatti, è sostanzialmente un sistema formato da diverse componenti le quali devono convivere in stato di armonia per garantirne la sopravvivenza[9].
Il venir meno di questo rapporto armonioso, derivante da un bilanciamento di costi e ricavi in cui i secondi coprono e remunerano i primi in tutte le loro tipologie, può creare delle difficoltà: momentanee, se adeguatamente interpretate; definitive, se ignorate o non sufficientemente affrontate[10]. 
La patologia si evidenzia quindi quando la crisi, partendo da semplici disfunzioni che ne alimentano altre, arriva a un danno cronico per l’impresa in cui alcun intervento può essere utile; potendosi quindi dire che tutto il fenomeno della crisi d’impresa è il risultato di un processo evolutivo di un danno fisiologico che arriva a distruggerne le risorse e che conduce nei casi peggiori alla disgregazione del sistema, attraverso diverse fasi che partono con iniziali inefficienze e squilibri, per passare poi a consistenti perdite economiche e generale peggioramento degli equilibri aziendali, per  terminare con l’insolvenza e il dissesto.
La maggior parte delle teorie aziendalistiche si basa sulla “Teoria di creazione del valore” o E.V.A. - Economic Value Added,  collegando da sempre il concetto di crisi a una riduzione del valore del capitale economico dell’impresa a causa della mancanza di equilibrio economico; il che implica che quando il suddetto valore diventa zero o addirittura negativo, il significato è che l’impresa, con la sua attività, non è più in grado di realizzare l’autogenerazione[11]  nel tempo, che è la sua finalità[12] principale. 
La teoria del valore si basa sul principio che, in condizioni di economia di mercato, l’impresa è considerata sana e sicura la sua continuità quando tramite la gestione ordinaria riesce a far rendere il capitale di più di quanto esso non costi.
L’obiettivo finale dell’impresa, la massimizzazione del valore del suo capitale, coincide con quello della massimizzazione della retribuzione del capitale investito, concetto più evoluto di quello della massimizzazione dei redditi in quanto tiene conto della distribuzione temporale dei diversi risultati economici e del rischio associato agli stessi[13] .
Questo porta a obiettivizzare ogni attività d’impresa, comprese le scelte strategiche, in base al ritorno sulla valorizzazione del capitale; diventando una parte fondamentale del processo di pianificazione aziendale. 
Decadenza e squilibri affrontabili[14] - e quindi reversibili - e non affrontabili - e perciò irreversibili - si manifestano di conseguenza quando l’impresa comincia a veder ridurre la marginalità della produzione. Non sempre tale riduzione si manifesta immediatamente con delle perdite; piuttosto i flussi economici cominciano a decrementare sensibilmente e si assiste alla riduzione del valore del capitale al punto che l’impresa si trova gravata da rischi che prima quasi non considerava. È a questo punto che con l’emersione della situazione di difficoltà l’impresa potrebbe recuperare i giusti valori in quanto il declino è composto da stadi progressivi di incubazione e maturazione nelle fasi dei quali vi è la possibilità di intervenire per evitare il deterioramento delle prestazioni economiche aziendali[15]. La carenza di liquidità non rappresenta a oggi una causa di deterioramento dell’attività economica; si rende quindi opportuno differenziare:
- l’effetto che la difficoltà da illiquidità emergenziale porterà in un’impresa sostanzialmente in grado di produrre ricchezza, in quanto trovasi nella sua fase di vita di crescita-maturità,
- l’effetto che le stesse difficoltà causeranno a un’impresa che già aveva manifestato primi segnali di crisi e che si trova quindi nella fase decrescente della maturità (evidentemente per riuscire a capire quale sia il grado di possibilità di risanamento)
- l’impatto della illiquidità sull’impresa in crisi conclamata in cui però l’imprenditore non ha ancora compiuti passi per il risanamento o la chiusura[16].
L’impresa viene quindi posta al centro della possibilità di essere analizzata da due diversi punti di vista. In un’ottica squisitamente aziendalistica, il sistema impresa viene studiato dalla prospettiva della sua capacità o meno di remunerare il capitale investito e in definitiva di creare ricchezza[17]; da un punto di vista giuridico, la prospettiva di osservazione è quella dalla quale si cerca di verificare la sua capacità di far fronte agli impegni contratti[18].
Se le due prospettive possono e debbono coesistere, quanto ne ricaviamo può però portare a risultati diversi e addirittura anche contrastanti, generanti una serie di consequenzialità che possono condurre a conclusioni non perfettamente corrette e quindi in grado di dare origine a scelte sbagliate; sia per il sistema impresa che per il sistema economico nel quale l’impresa vive.
3 . Lo stato di insolvenza
Contrariamente a quanto le fonti giuridiche hanno sempre sostenuto, per un aziendalista è ben chiaro che l’insolvenza è un valore economico, generato in una impresa in cui vi sia un ristagno dovuto: 
- o dalla contrazione dell’offerta (causata da sbagliate scelte imprenditoriali o da obsolescenza tecnica o di prodotto);
- o da una contrazione della domanda. 
In definitiva le difficoltà nascono sempre da uno squilibrio dovuto all’incapacità dell’impresa di procedere nella sua attività così come ha sempre fatto, generando blocchi in una organizzazione che smette di funzionare in maniera fluida[19]; arrestando quel sistema che precedentemente aveva dimostrato di far crescere il valore dell’impresa e portando a una disgregazione dei suoi equilibri e della sua funzionalità normale[20] .
Tutto questo per affermare che i concetti da cui si parte quando si analizza l’esistenza dello stato di insolvenza[21], sono concetti di carattere economico e non finanziari, contrariamente da quanto erroneamente affermato dai giuristi d’impresa; concetti che nella loro dinamicità sono rimasti invariati fin dai primi studi dell’Amaduzzi e tuttora, nonostante l’evoluzione del mercato nel quale le imprese hanno operato negli ultimi settanta anni, e la contestualizzazione degli studiosi, hanno mantenuto immutato il loro valore. 
Per dimostrare la tesi che l’insolvenza trovi fondamento sulla mancanza di equilibrio economico, la scienza aziendalistica analizza e contrappone le tipologie di sbilanciamento osservabili nell’impresa in: 
• Disequilibrio finanziario ma mantenimento dell’equilibrio economico; si pensi a esempio a un’impresa sostanzialmente sana, in cui i ricavi soddisfino in maniera più che remunerativa i costi, ma che per una errata politica manageriale o anche più semplicemente per non esservi alternative di scelta, attui una politica di pagamenti e riscossioni che la ponga in situazione di squilibrio finanziario. L’analisi del problema e l’immediata rettifica della politica finanziaria risolvono lo squilibrio, in quanto supportato da una gestione caratteristica in grado di generare flussi finanziari positivi[22].
• Disequilibrio economico ma mantenimento dell’equilibrio finanziario; in questo caso l’impresa potrebbe trovarsi sia in una fase fisiologica che in una patologica. Nel primo caso pensiamo alla grande distribuzione alimentare, che trae la redditività da un eccellente equilibrio finanziario ma che potrebbe essere in disequilibrio economico durante l’esercizio a causa della politica dei prezzi a ribasso[23], risolta poi dagli interessi attivi sul flusso finanziario conteggiati a fine anno. Nel secondo caso pensiamo a un’impresa che sta avviandosi a una fase di contrazione dei ricavi ma che gode dell’equilibrio finanziario per la riscossione di crediti pregressi.
• Disequilibrio sia dal lato economico sia dal lato finanziario; in questo caso la patologia è in corso.
Da quanto sopra esposto è perciò evidente che l’equilibrio economico si riferisce alla capacità dell’impresa di generare sistematicamente un risultato economico positivo soddisfacente in un arco temporale di medio periodo; cioè di ottenere dalla propria attività un volume di ricavi che sia sufficiente alla copertura dei costi e alla remunerazione di tutti i fattori della produzione. 
In definitiva: 
l’indicatore di sintesi[24] dell’equilibrio economico è rappresentato dal reddito operativo, al netto dei proventi della gestione finanziaria o della gestione straordinaria che non inficiano la capacità dell’impresa di produrre reddito per mezzo della propria attività. Nell’analisi di tale equilibrio entrano a far parte anche una pluralità di ulteriori profili derivanti da indicatori di natura contabile desumibili dai bilanci di esercizio che precisano l’esistenza dell’equilibrio economico. 
La verifica dell’equilibrio finanziario vedrà invece l’analisi dei flussi finanziari, e più tipicamente il cash flow che indicherà in che misura i flussi delle entrate e delle uscite siano armoniosi nelle loro scadenze all’interno del sistema impresa. Uno dei principali fattori esaminati dagli studi di cash flow è sicuramente la capacità dell’impresa di reperire mezzi finanziari idonei, sia per quantità sia per qualità, al fabbisogno generato dalla gestione e alle rispettive condizioni di onerosità.
Quando quindi si può parlare di insolvenza[25]?
Senza ombra di dubbio si può affermare che all’origine dell’irreversibile processo di decadimento aziendale vi è un fenomeno di squilibrio, di inefficienza, di incapacità dell’impresa all’autosufficienza economica che porta alla produzione di perdite le cui dimensioni finiscono per deteriorare le risorse dell’impresa[26]  anche in maniera formale. Si pensi a esempio all’annullamento delle riserve di bilancio e delle quote di capitale o all’impossibilità di distribuire dividendi.
L’incapacità finanziaria di far fronte regolarmente agli impegni presi si manifesterà per quello che realmente è: una conseguenza, non una causa, in quanto l’impresa in possesso del suo patrimonio economico e nella situazione di farlo fruttare è sempre in grado di far fronte agli impegni contratti.  
Ecco perché nel momento in cui si manifesta l’insolvenza, quando la crisi quindi cessa di essere solo un fatto interno all’impresa e genera una serie di conseguenze palesi tra le quali possiamo individuare l’incapacità a fronteggiare le scadenze, buona parte degli interventi riparatori possono apparire tardivi e con probabilità di successo ridotte[27] .
Di conseguenza non è in crisi, o insolvente l’impresa che non è in grado di far fronte ai suoi impegni tout court; potrebbe essere un’impresa, come già scritto, in carenza di liquidità, ma economicamente sana.
E’[28] insolvente, l’impresa che non avendo più un equilibrio economico diventa incapace di avere un equilibrio finanziario. 
Ciò che manca alle imprese in questo momento storico è la capacità di poter prevedere la futura redditività, la quale è strettamente collegata non solo all’andamento del virus ma anche alla previsione di quante imprese siano e saranno in grado di reggere al devastante impatto economico.
Personalmente ritengo di poter affermare che il panorama economico italiano non è fatto da imprese già potenzialmente in crisi e destinate a crollare a causa del periodo emergenziale, bensì da imprese che hanno già retto a momenti di criticità di mercato alla quale sono riuscite a sopravvivere, dimostrandosi in grado di superare i problemi della crisi economica iniziata nel 2008[29]. 
4 . Conclusioni
Concludendo si ritiene opportuno segnalare l’importanza, nell’analisi della situazione delle imprese apparentemente in crisi, di valutare sempre con molta attenzione se la crisi è causata da fenomeni di difficoltà finanziaria dovuta al periodo emergenziale, o se l’impresa effettivamente sta erodendo il valore del suo patrimonio a causa di errori e quindi di una mancanza di economicità nella sua gestione.
Gli indicatori di crisi di cui all’articolo 13 del D.Lgs 14/2019 e i valori di cui all’articolo 15 della L. fall. non dovrebbero essere le variabili da applicare in questo momento per la verifica dell’insolvenza, sia per i limiti oggettivi che presentano (si pensi all’applicazione degli indici di cui all’art. 13 D.Lgs 14/19, analisi statiche a consuntivo, incapaci di analizzare il fenomeno in evoluzione; o al debito minimo garantito dallo Stato e usufruito da una grandissimo numero di imprese, pari appunto a trentamila euro e per il quale è previsto il rimborso non a breve ma nella misura di dieci anni), sia per il rischio di dichiarare insolvente un’impresa che invece potrebbe presentare una situazione economica equilibrata ancorché squilibrata da un punto di vista finanziario.
Si valuta opportuno suggerire in questo momento l’applicazione ai dati di bilancio di analisi ben diverse da quelle normate dal legislatore come rilevatrici della crisi. Per l’esattezza, si ritiene che l’unica analisi in grado di verificare se l’impresa è in crisi con tendenza all’insolvenza o semplicemente in difficoltà finanziaria sia l’utilizzo dello studio del margine di contribuzione[30], applicabile ai bilanci degli anni 2017, 2018 e 2019. Infatti, tale analisi, che rappresenta la differenza tra il ricavo maturato dalla produzione di un bene o servizio e il relativo costo variabile[31] e che segnala se l’attività ordinaria dell’impresa sta contribuendo a creare valore, informa anche della capacità dell’attività ordinaria di coprire e remunerare i costi fissi e il capitale investito.
Ora, se viene analizzato il grafico del Break Even Point, da dove si ricava il volume di vendite in grado di consentire la completa copertura dei costi dell’impresa si conferma quanto affermato in precedenza, cioè che solo dopo che il margine di contribuzione ha provveduto alla copertura dei costi fissi totali (cioè solo dopo aver raggiunto il punto di pareggio), inizia a formarsi il reddito[32].

Grafico
 
Immagine reperita sul web

Quindi, se l’analisi dei bilanci 2017, 2018 e 2019 da un risultato di margine di contribuzione confermante l’equilibrio economico, l’impresa analizzata non potrà essere classificata come insolvente anche in presenza di incapacità (si spera momentanea) a far fronte agli impegni assunti.
Sono questi i dati che consentono di poter valutare se l’impresa ha una storia di equilibrio economico in grado anche di far fronte al periodo di illiquidità.

Note:

[1] 
Rapporto Cerved novembre 2020. 
[2] 
Tamburini F., Un nuovo modello economico dopo la notte della pandemia, Il Sole 24 Ore, aprile 2020.
[3] 
Cit. Rapporto Cerved novembre 2020. 
[4] 
Trib. Benevento 18/12/2019, in www.ilcaso.it.
[5] 
Cass., sez. VI, 5 novembre 2020, n. 24660, in Italgiure.
[6] 
Capaldo, Reddito, capitale e bilancio d’esercizio, Giuffrè, Milano, 1998 
[7] 
Indagine Excelsior-Unioncamere, agosto 2020
[8] 
Campobasso, Manuale di diritto commerciale, a cura di Mario Campobasso, settima edizione, UTET Giuridica, settembre 2017 
[9] 
Guatri, Il modello 'reddituale': una moderna versione nell'ottica internazionale, Mauro Bini Editore, 2003
[10] 
Alberici, Analisi dei bilanci e previsione delle insolvenze. Affidabilità bancaria e informatica del mercato mobiliare, Isedi, Torino, 1975. 
[11] 
Zanoni a cura di, Il corporate giving: indagine sul comportamento delle grandi imprese italiane, AVANZI, marzo 2002.
[12] 
Ansoff, Corporate Strategy, McGraw-Hill, New York, 1965.
[13] 
Renoldi, Valore dell’impresa, creazione di valore e struttura del capitale, EGEA, Milano, 1997, p. 17 ss.
[14] 
Bastia, Crisi e risanamento d’impresa, strumenti di pianificazione e controllo, Clueb, Bologna, 1987. 
[15] 
Abatecola, Crisi d’impresa. Elementi di teoria e evidenze empiriche, Aracne, Roma, 2007. 
[16] 
Veneziani (a cura di), Previsione, interpretazione e soluzione della crisi d'impresa. Analisi dell'economia lombarda, Giappichelli, 2015
[17] 
Quagli, Introduzione allo studio della conoscenza in economia aziendale, Giuffrè, Milano, 1993
[18] 
Giorgetti, Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza. Commento al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, Pacini Giuridica, 2019
[19] 
Amaduzzi, Il sistema aziendale e i suoi sottosistemi, in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, n. 1, 1972 
[20] 
Amaduzzi, Conflitto ed equilibrio di interessi nel bilancio dell’impresa, Cacucci, Bari, 1957 
[21] 
Rullani e Vicari, 1999; Airoldi, Brunetti Coda, 1994, Martellini, 2006
[22] 
Barney, Firm Resources and Sustainable Competitive Advantage, in Journal of Management, vol. 17, n. 1, 1991 
[23] 
Baumol, Economic Dynamics. An introduction, Terza Ed., MacMillan, London, 1970 
[24] 
Bergamin Barbato, Il valore segnaletico degli indici di bilancio in rapporto ai criteri seguiti per la loro determinazione, in CODA V.
[25] 
Russotto, L’impresa tra emersione anticipata della crisi e analisi finanziaria, Franco Angeli, 2020 in corso di pubblicazione
[26] 
Arrow, The firm in general equilibrium theory, in The corporate economy: growth, competition and innovative potential (a cura di R. Marris e A. Woods), Cambridge, Mass., 1971
[27] 
Scarf, The computation of economic equilibria, New Haven, Conn., 1973 
[28] 
Sirleo, La crisi d'impresa e i piani di ristrutturazione, Profili economico–aziendali, Aracne Editrice, 2009 
[29] 
Mariani e Marsili, Corporate governance in turnaround strategies: the definition of index of good governance and performance evidence, GSTF Business Review, 2011;  P. Capaldo, Crisi d’impresa e suo risanamento, in Banche e banchieri, 1997, pag. 316;  L.Guatri (1985) in merito all’approccio soggettivo ritiene, infatti che quasi sempre all’origine della crisi vi sono i soggetti protagonisti della vita aziendale; le loro insufficienze, i loro errati comportamenti, le loro incapacità non sono mai del tutto estranei ai processi della crisi, anzi spesso ne sono la causa prevalente.
[30] 
Si pone l’utile in funzione delle quantità vendute e non del volume produttivo in quanto si genera utile nel momento in cui avviene la vendita, non la produzione. Tuttavia tale rappresentazione grafica rientra nell’analisi costi-volumi-risultati, la quale si basa sull’ipotesi che il volume di vendita sia uguale al volume produttivo, pertanto, dal momento in cui tali grandezze coincidono, è indifferente riferirsi all’una o all’altra.
[31] 
Anthony Robert N. et al. (2005), Analisi dei costi, McGraw-Hill, Milano, pp. 59-60
[32] 
Lo Martire, Il margine di contribuzione. L'unico sistema di calcolo dei costi in grado di determinare: la vera redditività dei prodotti, il prezzo minimo cui si può vendere un prodotto, il fatturato che consente di raggiungere il pareggio, Roma 1989, p. 47

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