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La prova dell’esistenza e dell’insolvenza di una società di fatto

Alessandro Giorgetta, Professore di Diritto Commerciale presso l’Università degli Studi di Roma Guglielmo Marconi

11 Giugno 2025

L’articolo analizza i principali orientamenti giurisprudenziali in materia di accertamento dell’esistenza e dello stato di insolvenza delle società di fatto, con particolare attenzione ai criteri probatori richiesti nei procedimenti concorsuali. Viene approfondito il ruolo degli elementi indiziari, quali la comunanza di interessi economici, la gestione congiunta dell’attività d’impresa e la ripartizione degli utili, nonché la rilevanza delle presunzioni. L’indagine si concentra sull’evoluzione dell’interpretazione giurisprudenziale in merito all’onere della prova e ai poteri del giudice nel valutare le risultanze istruttorie, evidenziando le principali ricadute pratiche nella declaratoria di insolvenza delle società di fatto. 
Riproduzione riservata
1 . Premessa
In linea generale, per poter accertare l’esistenza di una società di fatto [1] – istituto di creazione giurisprudenziale - occorre configurare, in concreto, l’operatività tipica di una società di persone (in particolare, di una società in nome collettivo, sebbene irregolare): solo in tal modo sarà possibile giustificare la responsabilità illimitata di chi ne è “socio di fatto”, anche ove si tratti di società di capitali, e la fallibilità, in estensione, di quest’ultima (Cass. n. 20552/2022 e Cass. n. 7903/2020). 
È pertanto essenziale che si abbia l’accertamento “dei parametri organizzativi ed essenziali del contratto di società” [2]: da tale prospettiva muovono le sentenze di legittimità meglio motivate sul tema in analisi, tra le quali, oltre a quelle citate, Cass. n. 1095/2016, Cass. n. 10507/2016 e Cass. n. 12120/2016. 
L’ultimo approdo di questo iter giurisprudenziale è rappresentato dalla ricezione operata dal CCII, laddove all’art. 256, comma 5, – che va ad occuparsi della tematica già oggetto dell’art. 147, comma 5, L. fall. – è stato aggiunto il riferimento della “società” accanto a quello del­l’“imprenditore individuale”: il nuovo comma recita infatti «allo stesso modo si pro­cede quando, dopo l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di un imprenditore individuale o di una società, risulta che l’impresa è riferibile ad una società di cui l’imprenditore o la società è socio illimitatamente responsabile». 
Ciò posto, prima di procedere oltre occorre tener presente che, nella maggior parte dei precedenti editi, la Suprema Corte ha: (i) o confermato le decisioni delle Corti territoriali che avevano revocato la dichiarazione di fallimento “in estensione” affermando che la società di fatto è configurabile solo ove sia fornita “rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all'interesse dei soci”, nel senso che l’attività sociale svolta in comune deve essere andata a vantaggio dei soggetti “soci” del nuovo ente (sicché la sussistenza di una siffatta società di fatto deve essere, almeno presuntivamente, esclusa tutte le volte in cui coloro che, di diritto o di fatto, controllavano la società poi fallita, abbiano posto in essere condotte volte a favorire i loro interessi a discapito della società all’ora in bonis); (ii) oppure cassato le decisioni impugnate rinviando ai giudici di merito per l'accertamento dell'esistenza degli elementi essenziali di questa nuova e diversa società (la società di fatto) rispetto a quella già dichiarata fallita.  
2 . La prova dell’esistenza di una società di fatto
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, affinché possa ritenersi costituita tra una società già dichiarata fallita ed altri soggetti (società anche di capitali) una società di fatto cui il fallimento della prima possa essere esteso in forza di quanto disposto dal quinto comma dell’art. 147 L. fall. (ora quinto comma dell’art. 256 CCII) è necessario che la prima e almeno uno di coloro che si ipotizza siano suoi soci nella società di fatto siano animati dall’intento di esercitare l’impresa con lo scopo di dividerne gli utili. 
In questa prospettiva, potrebbero assumere rilievo anche a livello presuntivo: 
(i) il c.d.  fondo comune [3] costituito dagli apporti di attivi patrimoniali (ad es., scissioni, cessioni di azienda) effettuati in favore della società insolvente da parte delle altre società; 
(ii) in generale, le provviste finanziarie sistematicamente erogate da queste ultime e passibili di essere configurate come veri e propri apporti di capitale di rischio strumentali al comune conseguimento dello scopo sociale; 
(iii) i pagamenti diretti ai (o gli accolli di debito in favore dei) fornitori della società insolvente, in particolare ove posti in essere in assenza di regolamentazione pattizia e se avvenuti di pari passo con l’insorgere dei crediti dei fornitori; 
(iv) la prova della affectio societatis (ovvero della collaborazione in vista dello svolgimento dell’attività economica nei confronti dei terzi), che potrebbe essere dimostrata dal fatto che – ad esempio - la società insolvente operava in un settore diverso da quello delle altre società, oppure che la prima non ha mai ottenuto risorse finanziarie da soggetti diversi dalle seconde, o, ancora, dal fatto che i fornitori ricevevano da queste ultime pagamenti diretti o beneficiavano di accolli di debito e, in assenza di tali apporti, non avrebbero potuto contare sul solo patrimonio della decotta, non patrimonializzata e incapace di procurarsi autonomamente risorse finanziarie [4]; 
(v) la proprietà incrociata delle quote o riferibile ai medesimi soggetti, specie se appartenenti al medesimo nucleo familiare o legati da co-interessenze; 
(vi) il comune uso di beni strumentali; 
(vii) il comune uso di personale; 
(viii) le manifestazioni esteriori dell’attività d’impresa [5] (in questo senso rileva in particolare la direzione comune, eventualmente “rafforzata” dall’esistenza di legami familiari), vale a dire lo svolgimento da parte dei medesimi soggetti di ruoli preponderanti nell’amministrazione delle medesime società, componenti del medesimo nucleo familiare; infatti, l’identità di soggetti che compongono le società costituenti la società di fatto ed il rapporto di stretta parentela che lega le persone fisiche che le compongono ed anche le amministrano, dal lato interno, genera, rafforza e cementa il comune interesse nell’impresa familiare e nel suo scopo sociale, e soprattutto, dal lato esterno, rende flebile agli occhi dei terzi l’imputabilità degli atti di gestione compiuti dalle persone fisiche all’una piuttosto che all’altra società facenti capo al nucleo familiare, ed ingenera l’opinione che il soggetto agisca come socio di una unica entità; 
(ix) la comunanza di sede; 
(x) la comunanza dei recapiti, in particolare indirizzi e-mail, p.e.c. e numeri di telefono. 
3 . L’insolvenza della società di fatto
Ai fini della dichiarazione di fallimento della società di fatto è altresì “imprescindibile l'accertamento della sua specifica insolvenza, che è autonoma rispetto a quella di uno o più dei suoi soci, rappresentando quest'ultima una mera circostanza indiziante”. Così recita la massima ufficiale di Cass. n. 6030/2021, una tra le molte rese sul punto, la cui motivazione è meritevole – per la parte qui d’interesse – d’essere riportata per esteso: “La giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che, per potersi dichiarare il fallimento della c.d. supersocietà di fatto, è necessario, tra l’altro, che la stessa risulti insolvente: posto in specie che non si tratta di un fallimento dipendente (com’è, invece, per il caso dei soci illimitatamente responsabili rispetto al fallimento della supersocietà), ma autonomo. Identificato l’imprenditore fallibile in una supersocietà, la dichiarazione di fallimento non può che scontare un’insolvenza che a questa sia positivamente riferibile. Il fallimento della supersocietà – si è appunto precisato in questa prospettiva – «costituisce presupposto logico e giuridico della dichiarazione di fallimento, per ripercussione, dei soci»; perciò, l’indagine del giudice dev’essere indirizzata all’accertamento sia dell’esistenza di una società occulta (o di fatto) cui sia riferibile l’attività dell’imprenditore già dichiarato fallito, sia della sua insolvenza»: «all’insolvenza del socio già dichiarato fallito», del resto, «potrebbe non corrispondere l’insolvenza della s.d.f.» (così Cass., 20 maggio 2016, n. 10507). È dunque necessario il riscontro di una «autonoma e affatto propria insolvenza» della supersocietà, che nel concreto sia fatta oggetto di analisi: con la puntualizzazione che all’esito di questa verifica sarà possibile «giungere anche eventualmente muovendo – quale fatto indiziante – dalla rilevazione dell’insolvenza di uno o più soci, ovvero del socio cui era inizialmente imputabile l’attività economica, ma senza alcuna automatica traslazione ovvero dogmatico esaurimento in esse della prova richiesta, come per tutti gli insolventi fallibili, dall’art. 5 L. fall.» (cfr. la pronuncia di Cass., 13 giugno 2016, n. 12120). Nel caso di specie, la sentenza della Corte di Appello ha sì affermato che si «impone la verifica della insolvenza della supersocietà», ma non ha poi proceduto a effettuare questa pur necessaria verifica. O meglio e con maggior precisione: prima di ogni altra cosa, essa ha trascurato di approntare una verifica che sta a monte di quella relativa alla sussistenza dello stato di insolvenza. Nei fatti, la sentenza si è limitata a prendere in considerazione dei debiti riferiti (secondo le sue testuali espressioni) a singoli soci della supersocietà (cfr. n. 4). È quest’ultima, tuttavia, il soggetto che deve essere preso in considerazione quale soggetto imprenditore e quale soggetto eventualmente insolvente, i suoi soci fallendo solo per «ripercussione» (cfr. n. 10). Per potere procedere alla verifica dell’eventuale insolvenza del soggetto che fallisce in via autonomo., dunque, occorre prima definire il perimetro delle obbligazioni che a questo soggetto – e cioè all’attività di impresa da questo svolta, risultano riferibili.”.
Quanto allo stato di insolvenza delle società che non siano in liquidazione, questo, secondo la Cassazione, “va desunto non già dal rapporto tra attività e passività, bensì dall'impossibilità dell'impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, che si traduca in una situazione d'impotenza strutturale (e non soltanto transitoria) a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell'attività” (Cass. n. 70872022). 

Note:

[1] 
Tra i contributi della dottrina sul tema in oggetto, si segnalano: L. Abete, Il fallimento della supersocietà (di fatto) occulta: “controindicazioni” applicative, in Le società, 2017; G. Fauceglia, “Così è (se vi pare)”: l’orientamento dei giudici di merito in tema di fallimento di una società di fatto tra società di capitali e persone fisiche, in Giur. comm., 4, 2018 (nota a sentenza App. Roma, 7 novembre 2017; Trib. Roma, 08 settembre 2016; Trib. Sulmona, 19 settembre 2017; Trib. Catania, 1 marzo 2018); F. Fimmanò, Supersocietà di fatto ed estensione del fallimento alle società eterodirette, in Gazzetta Forense, n. 2, 2016, p. 19; M. Irrera, La società di fatto tra società di capitali, in Giur. It., 2016; F. Luvisotti, Il fallimento per estensione della «supersocietà» di fatto, I, in Luiss Law Review, 2016; M. Spiotta, I “soci di fatto” falliscono anche se persone giuridiche, in Il nuovo diritto delle società, 2016. 
[2] 
Parametri organizzativi che sono cosa del tutto diversa da un rapporto di direzione e coordinamento, il quale può ovviamente ben sussistere e comportare, se “trasmodato” in abuso per violazione dei principi di corretta gestione societaria, la responsabilità risarcitoria ex art. 2497 c.c., non essendo il fallimento “la prima risposta all'abuso dello schermo societario” (Cass. n. 12120/2016). 
[3] 
Cass. n. 12120/2016.
[4] 
Cass. n. 12120/2016. 
[5] 
Cass. nn. 7119/1982, 6422/1984, 3398/1985, 6087/1986, 5403/1988, 2985/1994, 4187/1997, 7624/1997. 

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