Saggio
La postergazione del rimborso dei finanziamenti dei soci nel CCII*
Rinaldo D’Alonzo, Giudice nel Tribunale di Larino
6 Aprile 2021
Cambia dimensione testo
Sommario:
1 . L’inefficacia dei rimborsi dei finanziamenti eseguiti dai soci. Premessa
2 . Disciplina generale e ratio dell’art. 2467 c.c.
3 . La nozione di finanziamento
4 . Finanziamenti, omesse riscossioni di credito e dilazioni di pagamento
6 . L’art. 2467 c.c. in relazione all’acquisto ed alla perdita della qualità di socio
7 . La cessione del credito avente ad oggetto il rimborso del finanziamento
8 . I presupposti della postergazione
9 . Applicazione analogica dell’art. 2467 c.c. ed effetti delle novità introdotte dal CCII
La qualificazione giuridica del rimborso è stata assai discussa in dottrina, essendone incerta la collocazione sistematica.
Taluni hanno ascritto il rimborso del finanziamento eseguito nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento alla categoria dell’indebito oggettivo, come tale legittimante la ripetizione dello stesso secondo il paradigma dell’art. 2033 c.c., poiché la postergazione si traduce in una condizione legale di efficacia della restituzione[2]. Maggioritaria era invece l’opinione di chi riconduceva la fattispecie del divieto di rimborso nel perimento della revocatoria fallimentare di diritto[3], ancillare rispetto all’esigenza di protezione dei creditori sociali, perseguita dalla norma[4].
Gemmava poi da questa ricostruzione un tema ulteriore, e segnatamente quello del rapporto tra l'art. 2467 c.c., e l'art. 67 L. Fall., nel senso che ci si chiedeva se la disposizione codicistica introducesse o meno uno strumento aggiuntivo rispetto a quello individuato nella legge fallimentare, destinato ad operare anche durante societate[5].
In tale contesto è intervenuto il codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, con una modifica che appare di mera ordinazione tassonomica, ma della quale occorre scrutinare i precipitati sia in relazione alla natura (sostanziale o processuale) della postergazione, sia in riferimento all’ambito di applicazione delle disposizioni prima contenute nel solo art. 2467 c.c. ed ora ripartite tra codice civile e codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza.
Due le novità, sul piano formale, introdotte dal riformatore: da un lato si è “spostata”, collocandola all’interno dell'art. 164 CCII, la regola per cui sono privi di effetto rimborsi dei finanziamenti dei soci, se sono stati eseguiti dopo il deposito della domanda cui è seguita l'apertura della procedura concorsuale o nell'anno anteriore (con la variante, propria del codice, della individuazione del dies a quo in quello della presentazione della domanda in luogo di quello della dichiarazione di fallimento) ove trattasi di finanziamenti concessi nelle condizioni di cui all’art. 2467, comma secondo c.c.; dall’altro, la predetta regola dell’inefficacia dei rimborsi è stata espunta dall’art. 2467 c.c. ad opera dell'art. 383 CCII.
In via di estrema sintesi, e non senza una qualche approssimazione, si potrebbe insomma cominciare col dire che con il codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza la regola dell’inefficacia ha semplicemente traslocato, trasferendosi dall’art. 2467 c.c. al vecchio art. 65 L. Fall.; e tanto sarebbe avvenuto, come si legge nella relazione ministeriale, “per ragioni di coerenza sistematica”.
Si indagheranno dunque in questa sede gli effetti (voluti e non) prodotti dall’intervento di ortopedia normativa compiuto dalla tanto attesa riforma del diritto fallimentare.
I soci individuano la strada da seguire utilizzando il ventaglio informativo che gli deriva, appunto, dalla qualità di soci, compiendo una scelta, nell’una o nell’altra direzione, che non è affatto neutra per il ceto creditorio: invero, il finanziamento è costitutivo, in capo al socio, del credito avente ad oggetto il rimborso del relativo importo, sicché costui ha diritto a far valere la garanzia patrimoniale della società, al pari di tutti gli altri creditori sociali.
In linea generale, dunque, per il socio di una società di capitali[8] il finanziamento è sempre più conveniente rispetto alla ricapitalizzazione[9]: non solo perché meno costoso, più informale e veloce rispetto all’aumento di capitale[10], ma anche perché gli consente di spalmare parzialmente il rischio d’impresa sui creditori, con i quali concorre nell’esercizio del diritto di credito che dal finanziamento deriva, per di più partendo da un punto di osservazione di assoluto privilegio, disponendo egli di una conoscenza approfondita delle dinamiche societarie che agli altri creditori evidentemente manca. Ed infatti, se a norma dell’art. 2476, comma 2, c.c., anche i soci che non esercitano poteri di amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all'amministrazione, è evidente che essi potranno valutare il merito creditizio dell’azienda sulla scorta di elementi che al resto dei finanziatori sono sconosciuti.
Con l’art. 2467 c.c. la riforma del diritto societario del 2003, allineandosi alle tendenze emerse in altri paesi europei[11], si era premurata di intervenire in tale descritto scenario introducendo un sistema di contrappesi volto a “moralizzare” il finanziamento dell’impresa e scongiurare operazioni di ricapitalizzazione societaria distorsive della par condicio creditorum.
Questo obiettivo è stato perseguito dalla norma attraverso due misure: la prima (comma uno) sanciva la postergazione dei crediti da finanziamenti concessi dai soci in favore della società (previsione rimasta invariata), e l’obbligo di restituzione (ora migrato nel codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza) dei rimborsi in favore della massa quando il rimborso fosse stato eseguito nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento; la seconda (comma due) stabiliva (e continua a stabilire) che tali misure colpiscono non già indistintamente tutti i finanziamenti erogati dai soci, ma solo quelli eseguiti in una condizione di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto, oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole attendersi un conferimento.
La norma sanziona così il comportamento del socio che, conoscendo o potendo conoscere lo stato di crisi della società, ha sostenuto economicamente la stessa con mezzi non ragionevoli e non adeguati, e cioè non attraverso attribuzioni incrementative del patrimonio (quindi non implicanti un obbligo di restituzione), ma con ulteriore indebitamento della società, aggravandone lo squilibrio patrimoniale[12].
Ciò esplicita la precisa volontà del legislatore di prescindere dalla struttura formale dell’operazione economica (e, ça va sans dire, dal nomen iuris utilizzato) dando esclusivo rilievo all’elemento causale, evidentemente inteso come la ragione pratica dell’affare. L’assunto è ricorrente in giurisprudenza, ove è stato sottolineato che l'espressione "forma" contenuta nell’art. 2467 c.c. sarebbe da intendere, non già nel senso di cui all'art. 1350 ss. o 2699 ss., c.c., ma, piuttosto, come sinonimo di "titolo o causa", con la conseguenza che il "qualsiasi" consentirebbe di attrarre nel perimetro della norma ogni atto che comporti "un'attribuzione patrimoniale compatibile con l'obbligo di futuro rimborso della medesima"[13].
L’elemento causale rende irrilevante, secondo l’opinione dominante, la rappresentazione contabile dell’operazione all’interno del bilancio[14]. Non è dunque condivisibile quella giurisprudenza che, sottolineando come l'art. 2467 c.c. non contenga alcun riferimento ad una forma legale imposta per detti finanziamenti, ha ritenuto che in tema di qualificazione della natura di una erogazione di denaro dal socio alla società, occorra applicare i criteri generali valevoli per il diritto societario, tra i quali il principale è costituito dalla qualificazione che un'entrata patrimoniale per la società assume in sede di bilancio[15]. La pronuncia invero non sembra capace di condurre all’affermazione di principi generali, anche perché il caso di specie sul quale essa si è innestata riguardava il tema del trattamento fiscale di una attribuzione, sebbene non possa trascurarsi che l’imputazione contabile di una operazione economica possa costituire elemento di prova per qualificarla sul piano giuridico.
È necessario è sufficiente, dunque, che la manovra possa qualificarsi, sul piano degli effetti prodotti, come finanziamento, per tale intendendosi ogni forma di trasferimento o messa a disposizione di somme di danaro costitutiva dell’obbligo di restituzione di quanto ricevuto. Vi rientrano dunque, come condivisibilmente osservato in dottrina, non solo le operazioni di financing mero (mutuo, apertura di credito, anticipazioni) ma anche ogni contratto che abbia una finalità creditizia (leasing finanziario, lease-back, riporto, vendita con patto di retrocessione a termine).
In sintesi, il legislatore intende chiarire che non ha rilievo lo schema contrattuale utilizzato, ma la messa a disposizione di quanto occorre per la società, accompagnata dalla previsione di restituzione[16].
Sulla possibilità che in queste circostanze operi la postergazione la dottrina appare divisa.
Taluni ritengono che in tali casi l’applicazione dell’art. 2467 c.c. vada in linea generale esclusa, poiché il credito del socio (oggetto di mancata riscossione o di dilazione) è sorto prima che si verificassero i presupposti della postergazione, aggiungendosi che una diversa soluzione disincentiverebbe i soci dal venire incontro alle esigenze della società, nel timore che una dilazione del pagamento possa rendere postergato un credito che in origine non lo era. Riconoscono comunque che la postergazione si concretizza quante volte la dilazione di pagamento sia il frutto di un vero e proprio accordo, o comunque sia diretta a sostenere finanziariamente la società in un momento in cui sarebbe stato ragionevole eseguire un conferimento[17].
Altri sembrano propensi ad allargare le maglie della postergazione, osservando che i crediti derivanti da precedenti rapporti commerciali (ad esempio, vendita di un cespite, fornitura di merci alla società) ovvero, quelli dovuti a titolo di compenso per prestazioni d'opera o di servizi, ma anche i dividendi per cui sia stata deliberata la distribuzione, per quanto non ascrivibili alla categoria dei "finanziamenti", potrebbero essere riqualificati come tali non solo quando, divenuti esigibili, il socio concordi una dilazione, ma anche quando semplicemente ometta di riscuoterli per un rilevante periodo di tempo[18].
In quest’ultima direzione si è mossa la giurisprudenza di legittimità, la quale partendo dalla premessa per cui nella nozione di "finanziamento" di cui all'art. 2467 c.c. rientrano non solo i contratti di credito ma tutti i finanziamenti "in qualsiasi forma" effettuati, e quindi ogni atto che sia veicolo di un'attribuzione patrimoniale accompagnata dall'obbligo della sua futura restituzione, senza che rilevino la misura della partecipazione sociale e l'eventuale proposizione di azioni giudiziarie volte a recuperare il credito, ha ritenuto che costituisce agevolazione finanziaria anche la fornitura in esclusiva di prodotti, significativamente protrattasi nel tempo, da parte del socio alla società, senza il pagamento di alcun corrispettivo da parte di quest'ultima che dei beni forniti si sia in tal modo avvantaggiata[19], il che evidentemente concretizza una tale dilatazione dell’elemento causale da attribuire rilevanza giuridica ai motivi, per quanto non esplicitati nel contratto e non ricavabili dalla interpretazione complessiva dello stesso[20].
Va cionondimeno osservato che la ratio legis, così come sopra individuata, consente di prescindere dalla necessaria identità formale del socio e del finanziatore[21]; se così non fosse potrebbero concludersi operazioni in frode alla legge ove il finanziamento venisse erogato da un terzo solo formalmente. Invero, il socio fideiussore che fosse chiamato ad adempiere dal finanziatore della società maturerebbe, nei confronti di questa, un credito da regresso, non postergabile ed insensibile ad una eventuale liquidazione giudiziale, non solo in forza della previsione di cui all’art. 1949 c.c., ma anche per ontologica diversità rispetto ad un credito da finanziamento, e dunque diverso da quelli contemplati dall’art. 2467 c.c.[22]. Tutto questo vale a maggior ragione quante volte in concreto vi sia stata una interposizione fittizia[23] che, tenuto conto delle peculiarità dell’operazione (tra le quali assume certamente rilievo indiziario la condizione di sottocapitalizzazione della società) tradisca l’intento di eludere la portata applicativa dell’art. 2467 c.c..
Lo stesso discorso deve svolgersi nelle ipotesi di garanzia reale concessa dal socio al fine di ottenere un finanziamento a favore della società da parte di un istituto di credito[24]. Invero, anch’esso configura una forma di finanziamento indiretto del socio stesso, suscettibile di assoggettamento alla disciplina relativa alla postergazione. Infatti, pur non sussistendo una movimentazione materiale di denaro dalle disponibilità del socio a quelle della società all'atto della prestazione della garanzia, è nel momento in cui il debito non viene onorato dalla società, non più in grado di pagare le rate scadute, che il creditore può rivolgersi direttamente al socio garante. Ed il pagamento eseguito da costui nei confronti dell’istituto di credito che ha erogato il finanziamento costituisce di fatto l'esecuzione materiale della promessa di finanziamento alla società sorta con la concessione di garanzia contestuale alla stipulazione del contratto di mutuo. La circostanza permette così al socio di poter vantare un credito nei confronti della società partecipata per l'ammontare delle somme pagate in sua vece[25].
Questa interpretazione del dato normativo, per quanto condivisibile, deve essere accompagnata dall’avvertenza del pericolo di un facile aggiramento ad opera del socio che, prima di erogare finanza, maliziosamente dismetta i relativi panni per poi rivestirli nuovamente ad eseguito finanziamento. È chiaro allora che per fronteggiare tali escamotage occorrerà procedere ad una ricostruzione storica della compagine sociale per verificare quali eventuali dinamiche anomale l’abbiano interessata nell’arco temporale che precede e segue il finanziamento.
Peculiare è poi l’ipotesi del finanziamento condizionato all’acquisto della qualità di socio, in relazione al quale la dottrina che si è occupata dell’argomento ha opportunamente osservato che l’esistenza di un collegamento negoziale tra le due operazioni non è sufficiente a rendere applicabile l’art. 2467 c.c., poiché la ratio della norma è quella di rimediare all’indebito utilizzo delle informazioni da parte del socio, il quale decide di finanziare la società laddove avrebbe dovuto ricapitalizzarla, così sgravandosi dai rischi d’impresa connessi alla ricapitalizzazione[27].
Rispetto a questa conclusione occorre tuttavia chiedersi se essa sia valida quante volte il finanziamento rappresenti il “corrispettivo” dell’assunzione della qualità di socio, il quale intanto si determina ad entrare nella società in quanto ha ricevuto tutte quelle informazioni cui avrebbe avuto diritto se fosse stato socio, e pertanto ha potuto scientemente determinarsi a sottoscrivere il contratto sociale, versando il corrispettivo del finanziamento. Parimenti, occorre domandarsi se si applichi l’art. 2467 c.c. nel caso in cui, stipulato il contratto di finanziamento e di contestuale acquisto della qualità di socio, questo venisse materialmente eseguito nel momento in cui si è già assunta la veste di socio; ancora, potrebbe venire il rilievo la situazione di un contratto preliminare di finanziamento, il cui definitivo sopraggiunge all’ingresso nella compagine sociale.
Orbene, in tutte queste situazioni non pare che la disciplina dell’art. 2467 c.c. possa venire in rilievo.
E così, nell’ipotesi in cui il finanziamento assurga a corrispettivo dell’ingresso nella società, non può obliterarsi il dato per cui il finanziatore ha chiesto ed ottenuto le informazioni che ha reputato necessarie per orientare il suo business (e che in ipotesi avrebbero potuto coincidere con quelle autonomamente acquisibili quale socio) nell’ambito delle ordinarie dinamiche della contrattazione, sicché l’applicazione o la disapplicazione della disciplina codicistica non può costituire il precipitato della maggiore o minore diligenza o perizia con cui la parte ha valutato la convenienza economica dell’affare.
Allo stesso modo, quando il contratto di finanziamento è stato concluso prima dell’assunzione della qualità di socio (per quanto l’erogazione del finanziamento sia stata successiva), o si sia trattato di una contrattazione preliminare rispetto alla quale il definitivo è intervenuto dopo che il terzo è divenuto socio, l’art. 2467 c.c. non può applicarsi: la spendita dell’autonomia negoziale (id est l’obbligo di eseguire il finanziamento) è infatti avvenuta in un momento in cui il finanziatore non era socio, a meno che non si possa ritenere, attraverso l’interpretazione del sinallagma, che costui si sia riservato la possibilità di decidere, successivamente all’acquisto della qualità di socio, se eseguire o meno un finanziamento, in forza di pattuizioni riconducibili ad un preliminare unilaterale o ad un patto di opzione.
In questo caso occorre distinguere due ipotesi: quella di cessione del credito da finanziamento erogato dal socio, da un lato, e quella della cessione al socio del credito erogato alla società da un extraneus.
La prima situazione, a sua volta, impone di differenziare le normali cessioni attuate secondo i criteri di cui agli artt. 1260 c.c., dalla circolazione cartolare del credito. In relazione alle ordinarie cessioni si è ritenuto che il credito resti postergato[28] (e, se rimborsato entro l’anno, è suscettibile di essere ripetuto dal curatore), sebbene non si sia mancato di osservare da parte di taluni come questa soluzione sarebbe ingiustamente pregiudizievole per il terzo acquirente di buona fede[29]. Quando invece il diritto al rimborso sia incorporato in un titolo di credito si è ritenuto che la disciplina dell’art. 2467 c.c. non sarebbe applicabile, trattandosi di un’eccezione personale al socio che non può essere fatta valere contro l’acquirente del titolo di credito, se non avvalendosi dell’dell’exceptio doli[30].
Come si vede il legislatore ha utilizzato una formulazione volutamente ampia, evidentemente dettata della estrema eterogeneità delle dinamiche societarie, sicché è rimesso all’interprete l’indagine circa la sussistenza dei presupposti di applicazione della norma in relazione alle circostanze del caso di specie.
In varie occasioni dottrina e giurisprudenza hanno tentato indicare i modi in cui possono essere declinati i generici sintagmi codicistici, affermando ad esempio che la postergazione ricorre quando, in relazione all’attività in concreto esercitata, sono stati concessi dai soci finanziamenti che la società non sarebbe stata in grado di rimborsare[33]; in altri casi invece si è fatto riferimento all’indice di liquidità, ossia al raffronto della posizione di liquidità a breve della società con l’ammontare delle passività correnti, riconoscendosi che il requisito dell'eccessiva sproporzione nel rapporto tra indebitamento e patrimonio netto non ricorre quando esso sia di poco inferiore, uguale o superiore a uno[34].
Al fine di valutare l'eventuale eccessivo squilibrio tra indebitamento e capitale netto, si è anche detto che costituisce elemento significativo il leverage, cioè il rapporto tra il totale delle fonti di finanziamento e i mezzi propri; esso, si è specificato, deve però essere confortato e valutato unitamente ad ulteriori elementi, tra i quali riveste particolare importanza la struttura del debito, poiché se è vero che una componente di debito a medio-lungo termine incide sullo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto in misura inferiore di una componente di debito a breve termine, è anche vero che la necessità di utilizzare i finanziamenti erogati da terzi per il pagamento dei debiti di imminente scadenza costituisce un indice di undercapitalization della società[35].
Ancora, si è osservato da parte di taluni che, ai fini dell’applicazione della norma in commento, sono utilizzabili come elementi di prova i rating assegnati al debitore da banche o società indipendenti, formulati su adeguate informazioni, secondo principi generalmente accettati[36].
Da questa rapida rassegna si evince come il file rouge che accomuna i finanziamenti anomali sia rinvenibile una condizione di crisi[37], la qualcosa, secondo la dottrina[38], trovava conferma nell’art. 182-quater L. Fall., e trova oggi conforma nell’art. 102 CCII, il quale, in espressa deroga all’art. 2467 c.c., consente la parziale prededucibilità dei crediti da finanziamento concessi dai soci in funzione del concordato, dal che si ricava che in assenza di questa deroga i crediti da finanziamenti avrebbero subito la deminutio della postergazione.
Questa impostazione trova peraltro nel codice della crisi un ulteriore elemento di relativa stabilità, posto che l’art. 2, comma 1 let. a), introduce una definizione della crisi come lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate.
La complessiva riconducibilità dei vari indici proposti alla nozione di crisi permette anche di superare l’interrogativo, pure affacciato in dottrina ed obiettivamente posto dal tenore letterale della norma, relativo al se possa ritenersi autonoma causa di postergazione il requisito della ragionevolezza del conferimento in luogo del finanziamento, indipendente dalla situazione di squilibrio. Invero, a fronte di coloro i quali propendono per una lettura atomistica dei due elementi richiesti dal secondo comma dell’art. 2467 c.c.[39] , sembra da condividersi l’opinione per cui, nonostante la costruzione della norma, da un punto di vista logico il presupposto della postergazione non può che essere unico, ed individuato nella nozione di crisi, poiché tutti i criteri sulla scorta dei quali si è cercato di riempire di contenuti il concetto di “ragionevolezza del conferimento” finiscono per rimandare, più o meno esplicitamente ad essa[40].
Un primo maggioritario orientamento era favorevole ad estendere la disposizione a tutti i tipi societari, posto che essa costituiva la risposta dell’ordinamento ad un problema ricorsivo anche nelle società di capitali[42]. Invero, si diceva, se lo scopo della norma è quello di impedire al socio di sfruttare a proprio vantaggio, e quindi in pregiudizio dei terzi creditori della società, il paniere informativo e gli eventuali poteri di gestione derivanti dalla sua qualità di socio, tale obiettivo deve essere assicurato anche nelle società per azioni, poiché anche in esse i soci possono disporre di quel bagaglio conoscitivo che consente loro di assumere le decisioni relative alla concessione di un finanziamento in posizione privilegiata rispetto ai terzi[43].
Nel solco di questo filone si collocavano poi coloro i quali ritenevano addirittura costituzionalmente imposta un’applicazione della disposizione in parola anche alle società per azioni[44].
Una estensione meno ampia, ma pur sempre possibilista, era poi sostenuta da colori i quali ritenevano ammissibile l’applicazione dell’art. 2467 c.c. anche alle società per azioni solo in presenza di alcuni elementi ulteriori, rappresentati da una organizzazione di modeste dimensioni, oppure dall’esistenza di una compagine societaria "chiusa" (ad esempio, perché avente struttura familiare)[45].
La tesi -minoritaria- che invece negava la possibilità di applicare l’art. 2467 c.c. sia direttamente che in via analogia al di fuori delle s.r.l., fondava il proprio convincimento in primis sulla non assimilabilità dello status di socio di società a responsabilità limitata a quello di socio di società per azioni, in ragione della non sovrapponibilità del relativo modello legale di disciplina, che attribuiva al primo una lista di facoltà non riconosciute al secondo, la qualcosa impediva di intravvedere quella eadem ratio che legittima il ricorso all’analogia[46]; osservava inoltre che il silenzio serbato dal legislatore, che non aveva introdotto nelle s.p.a. analoga disciplina, era l’espressione di una precisa scelta compiuta dal riformatore del 2003, il quale aveva inteso realizzare una "integrale revisione" della società a responsabilità limitata (per venire incontro alle esigenze manifestate dalle piccole e medie imprese) la quale "cessa di presentarsi come una piccola società per azioni", come emerge nitidamente dalla Relazione ministeriale al D.Lgs. n. 6/2003, par. 11[47].
Questa impostazione è stata condivisa da una parte della giurisprudenza di legittimità - che ha escluso la possibilità di applicare l'art. 2467 c.c. in caso di finanziamenti concessi a società cooperative[48] - e di merito, la quale ha aggiunto che la disposizione in commento ha carattere eccezionale rispetto al principio dell’autonomia negoziale (e, potrebbe aggiungersi, rispetto al principio della par condicio creditorum di cui all’art. 2740 c.c.), e come tale sarebbe insuscettibile di applicazione analogica[49].
Rispetto al panorama dottrinario e giurisprudenziale appena riassunto, può affermarsi che il codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza rende anossici gli argomenti spesi per escludere l’applicabilità della disposizione in parola a modelli societari diversi da quelli della s.r.l., almeno per quanto attiene alla sanzione della inefficacia dei rimborsi infrannuali.
Invero, sulla base del nuovo testo dell’art. 164 CCII (nel quale è stata inserita la previsione della inefficacia dei rimborsi eseguiti entro l’anno precedente la presentazione della domanda cui è seguita la dichiarazione di liquidazione giudiziale) e dell’art. 2467 c.c. (dal quale la predetta disposizione è stata eliminata proprio perché confluita nel citato art. 164), si ha che mentre la postergazione rimante disposizione dettata per le s.r.l. (e dunque in relazione ad essa resta attuale il confronto tra le diverse opinioni che si sono espresse in punto di operatività dell’istituto anche nelle s.p.a.), la sanzione della inefficacia, oggi prevista dall’art. 164 CCII, opera indistintamente per tutte le società[50].
Il quadro che dunque il codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza ci restituisce è il seguente: i rimborsi dei finanziamenti dei soci eseguiti nelle s.r.l. sono postergati, e se compiuti nell’anno che precede la domanda da cui deriva la liquidazione giudiziale vanno restituiti; i rimborsi dei finanziamenti dei soci eseguiti nelle s.p.a. non sono postergati, ma restano ugualmente inefficaci, se compiuti nell’anno, in caso di sopravvenuta liquidazione giudiziale.
Sembrerebbe così chiarito che il problema della perimetrazione della sanzione di inefficacia del pagamento non ha più ragione di porsi poiché esso viene indistintamente predicato, in occasione della liquidazione giudiziale, per tutti i tipi societari.
Verosimilmente, nel declinare questa regola il legislatore della riforma è andato oltre le intenzioni, se è vero che nella relazione ministeriale la modifica normativa in discorso viene giustificata da “ragioni di coerenza sistematica”, ma non può non prendersi atto di un precetto normativo che oggi sanziona di inefficacia anche i rimborsi eseguiti nelle s.p.a., a meno di non voler ritenere che il generico riferimento alle società, e non alle sole s.r.l., sia il parto non voluto di un mero lapsus calami.
Parrebbe invece ancora confinato nell’alveo della s.r.l. lo stigma della postergazione.
In realtà in nodi interpretativi da sciogliere sono più d’uno, e la ricostruzione del dato normativo è assai meno scontata di quanto la lettera della norma lascia presagire.
Un primo interrogativo è posto proprio dalla rubrica dell’art. 164. Essa si propone di disciplinare la sorte dei “pagamenti dei crediti non scaduti e postergati”, ed in ciò si annida uno iato rispetto al testo dell’articolo, il quale invece sanziona l’inefficacia dei “rimborsi dei finanziamenti dei soci a favore della società”. Il codice della crisi, nella sostanza, identifica i crediti postergati con i crediti da rimborso finanziamento soci in favore della società quale che sia, ma si è visto in questo paragrafo che per una parte della dottrina e della giurisprudenza così non è, in quanto i crediti da rimborso finanziamento soci sono postergati solo nelle s.r.l. e non anche nelle s.p.a..
Orbene, non vi sono argomenti per affermare che il legislatore abbia voluto allargare le maglie della postergazione, e certamente la sola rubrica della norma non è sufficiente a ritenere che la disciplina della postergazione operi, alla luce del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, anche nelle s.p.a.. Tuttavia, se di aderisce alla tesi che esclude la postergazione nelle società per azioni non si può non prendere atto di una disciplina frastagliata, poiché i crediti da finanziamento compiuti dai soci delle s.p.a., benché non postergati, sarebbero ciononostante suscettibili di inefficacia in caso di sopraggiunta liquidazione giudiziale.
Nondimeno, una generalizzata applicazione dell’istituto della postergazione avrebbe una sua coerenza sistematica rispetto all’impianto complessivo del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza.
Invero, indipendentemente dalla regola della postergazione, anche nelle s.p.a. gli amministratori dovrebbero astenersi dall’eseguire questi rimborsi perché il codice prevede all'art. 4 che nelle situazioni di crisi il comportamento del debitore deve essere improntato a correttezza e buona fede; tale precetto, che all'evidenza “va applicato all'interno delle procedure di regolazione della crisi e nella fase delle trattative, ragionevolmente esprime un nuovo modo di approcciarsi alla crisi e, quindi, consente di affermare che, ancor prima, le condotte del debitore debbono proiettarsi sui possibili immanenti scenari di crisi e, pertanto, conformarsi (anticipatamente) alle condotte attese”[51]. E così, la restituzione, durante societate, di un finanziamento, potrà generare responsabilità, in caso di liquidazione giudiziale, quante volte sia stata eseguita nella consapevolezza che il patrimonio esistente al momento del pagamento del debito non era sufficiente a soddisfare anche tutti gli altri creditori[52], consapevolezza che l’imprenditore deve avere poiché l’art. 2086, comma secondo c.c. (aggiunto dall'art. 375, comma 2, CCII) lo obbliga a dotarsi di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile capace di rilevare tempestivamente situazioni di crisi dell'impresa [53], ed ad attivarsi senza indugio per il superamento della crisi (attraverso uno degli strumenti previsti dall’ordinamento), e per il recupero della continuità aziendale.
Del resto, si osserva, lo stesso art. 2394 c.c. espone a responsabilità gli amministratori che in una situazione di crisi non preservano l’integrità del patrimonio[54].
In definitiva, tutto questo vorrebbe dire che, indipendentemente dalla postergazione, ed a prescindere dalle forme di esercizio dell’impresa, in una situazione di crisi i pagamenti sarebbero legittimi nella misura in cui apparirebbero funzionali alla garanzia della continuità aziendale e rispettose della parità di trattamento dei creditori.
Questa conclusione però nell’impone di ritenere, a monte, che in un contesto di crisi le norme che sopra si sono richiamate (ed in particolare l’art. 4 CCII, da un alto, e gli artt. 286 e 2394 c.c. dall’altro) legittimerebbero l’inadempimento del debitore, concretizza a bene vedere in una deroga all’art. 1218 c.c., o comunque introduce una causa di inesigibilità dei crediti dagli effetti dirompenti, il che non mi sembra, poiché l’innesto di un principio così dirompente nella disciplina dell’inadempimento avrebbe avuto bisogno di una declinazione esplicita, e non di un’affermazione risultante da una non pacifica ricostruzione sistematica[55].
Tutto questo, tenendo ben presene il rischio (che solo la prassi potrà dire quanto sia reale) che una ricostruzione di questo tipo esponga il singolo creditore al comportamento distorsivo dell’imprenditore che in mala fede ritardi il pagamento trincerandosi dietro l’affermazione (difficile da verificare dall’esterno) della sussistenza di una situazione di crisi e del conseguente dovere di preservare la continuità aziendale.
Nel trattare l’argomento vale la pena prendere le mosse dagli approdi cui è giunta recentemente la giurisprudenza di legittimità, chiamata ad occuparsi (in un giudizio promosso dal socio contro la s.r.l., per ottenere il rimborso di un finanziamento erogato in favore di questa) sia del tema, annoso, della operatività della postergazione durante societate[57], sia di quello della rilevabilità d’ufficio delle cause della postergazione[58].
Nell’esplicitare le ragioni del proprio convincimento la Corte richiama preliminarmente i termini del dibattito intorno alla natura "sostanziale" o "processuale" della postergazione, e della conseguente possibilità, corollario della prima tesi, che la norma trovi applicazione già durante la vita della società ed al di fuori della procedura esecutiva; possibilità che invece la seconda opzione esclude, richiedendo un concorso in senso tecnico fra creditori, e dunque una situazione di liquidazione volontaria o, comunque, la presenza di una esecuzione individuale o concorsuale della società.
Dopo aver rievocato i precedenti di legittimità che, seppure nell’ambito di obiter dicta, avevano riconosciuto natura sostanziale alla postergazione legale[59], la pronuncia ritiene che la lettera e la ratio della disposizione convincano della natura sostanziale della disposizione.
In primis et ante omnia deporrebbe in tal senso il fatto che l'art. 2467, comma 1, c.c. parla sic et sempliciter di postergazione del rimborso rispetto agli «altri creditori», senza confinare la valenza della disposizione al momento del concorso; ciò troverebbe conferma anche nella scelta compiuta dal codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, il quale ne ha lasciato invariata la sedes materiae, mantenendola nel codice civile, pur traslando in seno al codice della crisi lo stigma dell’inefficacia del rimborso infrannuale.
Sul versante delle finalità dell’istituto, ricorda la Corte che dalla Relazione alla riforma del diritto societario del 2003 si evince che esso costituisce la risposta normativa alla possibile traslazione del rischio d'impresa dalla società al mercato realizzata da finanziamenti anomali compiuti in presenza di condizioni di sottocapitalizzazione; risposta rappresentata, appunto, dalla automatica postergazione del credito da rimborso, operante indipendentemente dalla conoscenza effettiva dello stato della società o dall'intenzione delle parti. Questo vuol dire, prosegue la sentenza, che la postergazione “produce effetti negoziali sul diritto del socio alla restituzione della somma finanziata: il credito restitutorio, sebbene eventualmente sia anche scaduto il termine previsto per l'adempimento ex art. 1813 c.c., non è esigibile”, con l'ulteriore conseguenza che la società “può, ed anzi deve rifiutare il rimborso del prestito, sino a quando non siano venute meno” le cause della postergazione[60], con accertamento demandato al giudice, il quale è chiamato ad verificare se sussista, in concreto, una delle situazioni ex art. 2467, comma 2, c.c. non solo al momento del prestito, ma anche al tempo della richiesta di rimborso e sino alla pronuncia, trattandosi di una condizione di inesigibilità del credito.
Affermato che la postergazione ha natura sostanziale in quanto determina l’esigibilità del credito, gli ermellini aggiungono che essa può essere rilevata d’ufficio dal giudice trattandosi di eccezione in senso lato, poiché discende dalla sussistenza di oggettive circostanze previste dalla legge indipendenti dall'esercizio di un diritto potestativo della società finanziata; non si tratta dunque di un'eccezione in senso proprio[61].
La pronuncia muove da presupposti del tutto condivisibili, e bene ricostruisce il brodo di coltura in seno al quale la postergazione è maturata. Le conseguenze che tuttavia ne ricava hanno suscitato in dottrina qualche perplessità nella misura in cui, nel riconoscere natura sostanziale alla postergazione, finisce con l’assegnare alla regola della par condicio creditorum una valenza operativa anche al di fuori della procedimentalizzazione del concorso[62].
Anche la portata che essa riconosce, rispetto al tema della natura (sostanziale o processuale) della postergazione, alle novità introdotte dal codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza non incontra unanimi consensi. A tal proposito, l’unico dato certo è che, probabilmente, le ragioni di coerenza sistematica che hanno suggerito la modifica normativa di cui si è dato sin qui conto allignano nella volontà di ricondurre la sanzione della inefficacia del rimborso anticipato nell’alveo dei rimedi revocatori latu sensu intesi, così come hanno scelto di fare altri ordinamenti[63].
Tuttavia, diversamente da quanto ricavato dalla richiamata pronuncia, potrebbe sostenersi che se, ai sensi del secondo comma dell’art. 164 CCII è oggi chiaro che “sono privi di effetto … i rimborsi dei finanziamenti … se … sono eseguiti dopo il deposito della domanda … o nell’anno anteriore”, è altrettanto chiaro, a contrario, che questi finanziamenti, se rimborsati al di fuori di questa forbice temporale, non sono privi di effetto e rimangono validi ed efficaci. Inoltre, il fatto che l'art. 221 CCII, contempli i crediti postergati collocandoli all'ultimo grado nell'ordine di riparto dell'attivo confermerebbe, secondo taluni, che quella della postergazione è regola che attiene al rispetto dell'ordine delle cause legittime di prelazione, che ha ragione di imporsi (solo) nel concorso dei creditori, quando è necessario graduare il soddisfacimento delle pretese secondo un criterio diverso da quello normale della priorità temporale[64].
Del resto, proprio il fatto che l’art. 164 CCII accomuni nella stessa disposizione la disciplina dei crediti non scaduti e quella dei crediti postergati, ma tenga ciononostante a distinguerli, indica inequivocabilmente che i crediti postergati sono crediti scaduti, poiché altrimenti il distinguo si sarebbe risolto in una grida manzoniana, in quanto i crediti da rimborso, ove ritenuti non scaduti, sarebbero rientrati nella previsione del primo comma[65].
Se si accede a questa lettura verrebbe confermata quella impostazione ermeneutica che le medesime conclusioni aveva tratto anche dalla lettura del vecchio art 2467 c.c., osservando che se "il rimborso dei finanziamenti ... avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito", non poteva revocarsi in dubbio, “da un lato, che le restituzioni dei finanziamenti soci non sono di per sé vietate e dall'altro, che l'inefficacia non colpisce, neppure in caso di fallimento, i rimborsi intervenuti prima dell'anno anteriore”[66].
Infatti, l’art. 8 del decreto legge 8 aprile 2020, n. 23 (recante “Disposizioni temporanee in materia di finanziamenti alle società”) convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 5 giugno 2020, n. 40 prevede che “ai finanziamenti effettuati a favore delle società dalla data di entrata in vigore del presente decreto (9 aprile 2020) e sino alla data del 31 dicembre 2020 non si applicano gli articoli 2467 e 2497 quinquies del codice civile”.
La relazione illustrativa spiega la norma con l’esigenza di incentivare i canali necessari per assicurare iniezioni di liquidità alle imprese, e tale è certamente il finanziamento erogato dai soci, per sollecitare il quale si è pensato ad un congelamento della regola della postergazione dei rimborsi dei finanziamenti effettuati da costoro nel periodo preso in considerazione dalla norma.
In altri termini, i crediti da finanziamento erogati (in situazioni di eccessivo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto ovvero in cui sarebbe stato ragionevole effettuare un conferimento) nel periodo in questione non sono postergati, né sono inefficaci i rimborsi in favore del socio, ove eseguiti entro l’anno che precede la dichiarazione di fallimento. Il riferimento alla data del fallimento (e non alla data di presentazione della domanda, secondo il paradigma del ccii) deriva dal fatto che il legislatore dell’emergenza ha fatto riferimento all’art. 2467 c.c., vigente, posto che la sua modifica ad opera dell’art. 383 CCII non è tra quelle che a norma del secondo comma dell’art. 389 ccii sono già entrate in vigore, per cui non è possibile fare riferimento alla data di deposito della domanda da cui è scaturita la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale.
Se si accede all’idea per cui la postergazione introduce una condizione di inesigibilità del credito (ove restituito nel periodo contemplato nel secondo comma dell’art. 2467 c.c.), dalla norma deriva anche che l’astratta esigibilità dei rimborsi dei finanziamenti eseguiti nel periodo considerato dalla normativa emergenziale permette di escludere, per tali rimborsi, la configurabilità della bancarotta per distrazione, mentre rimane il presidio della bancarotta preferenziale[67] nella fattispecie di cui all’art. 216 comma 3 L. Fall. (oggi art. 322 CCII).
La logica non sembra essere diversa da quella che, in fondo, al fine di favorire l'accesso delle imprese alle procedure di concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione dei debiti, assegna il rango della prededuzione ai crediti derivanti dai finanziamenti dei soci effettuati in funzione di essi, ex art. art. 182-quater, comma 3, L. Fall. (oggi art. 102 CCII).
Nell’analizzare la portata della norma si scorge in essa una scommessa.
Invero, con l’auspicare il ricorso al finanziamento da parte dei soci il legislatore confida sul fatto che essa sarà adoperata da quegli imprenditori che, impauriti dalla crisi, tentennano nel rinforzarla apportandovi capitale di rischio; e punta altresì sul fatto che essa non sarà opportunisticamente utilizzata da coloro i quali, ben disposti ad operazioni di ricapitalizzazione, ricorreranno al finanziamento per trarne i vantaggi che ne derivano, senza subire gli effetti collaterali del congelato art. 2467.
Insomma, come sempre accade, solo il tempo ci dirà (forse) se nel pertugio aperto per farvi passare buoni propositi, si infiltreranno anche i cattivi propositi.
Note: