Preannunciate da una decisione di merito
[22], sono intervenute in senso opposto rilevanti pronunce di legittimità, le quali hanno aperto un significativo contrasto. Infatti, si è ravvisata l’applicabilità del principio di automaticità delle prestazioni
[23], sulla scorta della pretesa natura previdenziale dei versamenti aziendali al Fondo di tesoreria dello Stato
[24]. Basate su un notevole, seppure non condivisibile sforzo di interpretazione, tali decisioni richiamano proprio l’art. 1, comma settecentocinquantaseiesimo, della legge n. 296 del 2006, peraltro senza spiegare come la pretesa natura previdenziale delle somme corrisposte dal datore di lavoro e l’operare del principio di automaticità si potrebbero combinare con la previsione per cui il Fondo soddisfa l’interesse del dipendente nei limiti della quota corrispondente ai versamenti effettuati, mentre il rimanente resta a carico dell’impresa.
Non è persuasiva la drastica affermazione per cui “l’unico soggetto obbligato al pagamento del trattamento di fine rapporto maturato dai lavoratori del settore privato successivamente all’1 gennaio 2007 è il Fondo di tesoreria”
[25]. Come messo in luce dalla tesi tradizionale
[26], la disciplina positiva dice l’opposto e il datore di lavoro è obbligato per le quote non versate. Egli non è affatto “
adiectus solutionis causa” per l’intero importo e risponde “nei soli limiti dei contributi dovuti per quel mese al Fondo stesso” per “l’importo di competenza del Fondo”
[27]. Sul punto, non vale invocare l’art. 2 del d. m. 30 gennaio 2007
[28], per cui, al comma quarto, “l’importo di competenza del Fondo erogato dal datore di lavoro non può in ogni caso eccedere l’ammontare dei contributi dovuti al Fondo e agli enti previdenziali con la denuncia contributiva”, poiché, come la norma regolamentare specifica, essa riguarda solo il versamento a opera dell’impresa della somma di competenza del Fondo, ciò di quella che lo stesso abbia acquisito nel corso del tempo, in coerenza con l’art. 1, comma settecentocinquantaseiesimo, della legge n. 296 del 2006. Per tali voci, l’azienda opera come cosiddetto
adiectus solutionis causa e, a questo fine, deve dare attuazione all’art. 2, quarto comma, del d. m. 30 gennaio 2007. Tuttavia, in coerenza con la sua natura di regolazione secondaria, la disposizione non può, né vuole modificare l’impianto dell’art. 1, comma settecentocinquantaseiesimo, della legge n. 296 del 2006 e, quindi, l’art. 1, quarto comma del d. m. 30 gennaio 2007 rileva per “l’importo di competenza del Fondo”
[29], non per tutto il trattamento di fine rapporto, ma soltanto per la “quota corrispondente ai versamenti effettuati al Fondo medesimo”
[30].
Per il residuo, a fronte dell’omesso versamento, opera in pieno la garanzia patrimoniale dell’impresa, che deve fare fronte con le sue risorse. Il “meccanismo di anticipazione salvo conguaglio” riguarda in via espressa “l’importo di competenza del Fondo”
[31] e, quindi, se è simile a quanto accade per il pagamento di prestazioni previdenziali
[32], non per questo rende tale i versamenti retributivi e non supera affatto l’art. 1, comma settecentocinquantaseiesimo, della legge n. 296 del 2006 che esclude la natura previdenziale dell’istituto
[33]. L’espressione “limitatamente alla quota corrispondente ai versamenti effettuati al Fondo medesimo” non si riferisce al fatto per cui, “operando il Fondo a fare data dall’1 gennaio 2007, le quote di trattamento di fine rapporto maturate nel periodo precedente dai lavoratori interessati non possono che restare a carico del datore di lavoro”
[34].
Una simile precisazione sarebbe stata assurda; chi mai avrebbe potuto pensare che il Fondo di tesoreria dello Stato avrebbe dovuto versare il trattamento di fine rapporto per epoche in cui non esisteva e, cioè, prima della sua istituzione, all’inizio del 2007? A prescindere dal fatto che una simile precisazione sarebbe stata irragionevole, essa non traspare affatto dal piano significato letterale, da cui si ricava una univoca delimitazione delle obbligazioni del Fondo non… ai fatti successivi al 2007, ma alla distribuzione di quanto acquisito.
Come sostenuto dalla Procura generale presso la Suprema Corte
[35], la conferma di tale esegesi deriva dall’ultima frase dell’art. 1, comma settecentocinquantaseiesimo, della legge n. 296 del 2006; infatti, “al contributo di cui al presente comma si applicano le disposizioni in materia di accertamento e riscossione dei contributi previdenziali obbligatori, con esclusione di qualsiasi forma di agevolazione contributiva”
[36]. Se si discutesse di un istituto previdenziale, la precisazione non avrebbe senso e, soprattutto, si dovrebbero invocare le “agevolazioni contributive”, se non altro in forza del criterio di uguaglianza. Né avrebbe significato dire che la riscossione dei contributi previdenziali dovrebbe avere luogo nelle forme loro proprie. Non è in discussione la natura obbligatoria del versamento al Fondo di tesoreria dello Stato ed è confermata l’esistenza di meccanismi di riscossione, ma questi operano non per la natura intrinseca dei contributi dell’art. 1, comma settecentocinquantaseiesimo, della legge n. 296 del 2006, ma in virtù di una equiparazione esterna e apposita.
Non può essere condivisa la citazione dell’enfatica, ma irrilevante espressione dell’art. 1, comma settecentocinquantacinquesimo, della legge n. 296 del 2006, sulla “garanzia” ai lavoratori dell’erogazione dei trattamenti di fine rapporto
[37], poiché la dizione non lascia affatto “trasparire l’intento del legislatore di sottrarre la corresponsione (…) alle alterne fortune cui essa può andare incontro allorché l’unica sua garanzia sia costituita dalla responsabilità patrimoniale del datore di lavoro”
[38]. Infatti, l’obbligazione è di certo soddisfacimento, in virtù dell’operare del Fondo di garanzia, come la stessa pronuncia è costretta ad ammettere. Non vi è alcunché da garantire, dopo l’istituzione del Fondo di garanzia; non a caso, la “garanzia” dell’art. 1, comma settecentocinquantacinquesimo, della legge n. 296 del 2006 opera “per la quota corrispondente ai versamenti” del comma successivo, dunque non in assoluto, ma in proporzione a quanto pagato dalle imprese.
La Suprema Corte non si è avveduta del fatto che, a partire dal 1982, non esiste un problema di realizzazione del credito del lavoratore al trattamento di fine rapporto. Quindi, non è affatto “evidente che non si può garantire pubblicamente la meritevolezza” delle sue funzioni “se non per tramite dell’istituzione di una forma di previdenza obbligatoria, solo questa ultima essendo assistita dalla previsione di cui all’art. 2116, comma primo, c.c.”
[39]. Da tale norma i dipendenti non hanno alcun vantaggio, poiché non hanno alcun rischio di non percepire il trattamento di fine rapporto. Al contrario, l’ultima tesi dei giudici di legittimità porterebbe a conseguenze disastrose e ingiustificate per il sistema pubblico, senza alcun costrutto, con gravissime implicazioni anche sul piano di inevitabili azioni di responsabilità per danno erariale, proprio nei confronti degli… strenui sostenitori della natura previdenziale dell’istituto.