Saggio
La natura costitutiva dell’azione revocatoria ed il credito per equivalente della curatela del solvens nei confronti del fallimento dell’accipiens*
Luciano Panzani, già Presidente della Corte d’Appello di Roma
31 Dicembre 2020
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Sommario:
1 . La natura dell’azione revocatoria secondo le Sezioni Unite. La cristallizzazione dell’attivo
2 . La natura costitutiva dell’azione revocatoria e la responsabilità del liquidatore di società
3 . Natura costitutiva dell’azione revocatoria ed azione revocatoria aggravata infragruppo
4 . Il diritto ad insinuare il credito per equivalente e la tutela dei creditori del solvens
La soluzione, secondo le SS.UU., sta nel trovare il “corretto punto di equilibrio” verificando “in qual senso la sequela di principi ai quali l’azione revocatoria risponde ottenga, nella mediazione processuale, di salvaguardare l’esigenza di tutela di quei creditori”. La soluzione sta nella reintegrazione dei creditori del solvens nel loro diritto di agire nei confronti del patrimonio del loro debitore mediante la tutela per equivalente. Sulla base dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in una serie di casi [7] le SS.UU. affermano che “il fallimento del terzo acquirente, dichiarato dopo l’atto di alienazione, vale a dire dopo l’atto di frode determinativo della lesione della garanzia patrimoniale ma prima che l’azione revocatoria sia esercitata, impedisce solo l’esercizio dell’azione costitutiva, non anche invece l’esercizio di quell’azione restitutoria per equivalente parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale”. Si noti che in questo passaggio motivazionale le Sezioni Unite, dopo aver ribadito che la revocatoria nei confronti del fallimento dell’accipiens non può essere esperita per via del carattere costitutivo dell’azione, che trae fondamento nel rilievo che l’atto revocando è pienamente lecito nel momento in cui viene compiuto, con una sorta di lapsus calami qualificano tale atto come atto di frode, secondo una risalente, oggi ripudiata, tradizione dottrinale e, come vedremo, secondo la più risalente giurisprudenza della stessa Cassazione che ammetteva la tutela per equivalente.
Il risultato non contrasta, si dice, con il principio di cristallizzazione del passivo perché il credito per equivalente fatto valere dalla massa dei creditori del solvens è riferibile direttamente all’atto oggetto di revoca. La tutela così accordata ai creditori del solvens è però una tutela ben diversa da quella che avrebbero conseguito con l’azione revocatoria perché i credito per equivalente da essi vantato concorre con i crediti insinuati dai creditori dell’accipiens e sarà pertanto soddisfatto soltanto pro quota.
Si noti che le Sezioni Unite in commento, come già Cass. n. 30416/2018, ammettono, sulla scorta di importanti precedenti della stessa Suprema Corte, che gli effetti dell’azione revocatoria possono prodursi quando la domanda sia stata trascritta anterior mente alla dichiarazione di fallimento dell’accipiens, il che può avvenire quando il fallimento del solvens sia stato pronunciato anteriormente o quando la curatela del solvens prosegua l’azione revocatoria ordinaria promossa prima dell’apertura del fallimento del solvens da un creditore di quest’ultimo [8]. In tali ipotesi, infatti, l’art. 45 L. fall. non costituisce un ostacolo. Anche in tale ipotesi tuttavia la Suprema Corte esclude che il bene oggetto della revocatoria possa essere sottratto all’attivo del fallimento dell’accipiens. Il vittorioso esperimento dell’azione revocatoria trascritta anteriormente alla data del fallimento dell’acquirente non abilita il creditore dell’alienante non fallito a promuovere l’esecuzione sui beni compravenduti, in quanto essi sono ormai entrati a far parte dell’attivo fallimentare. La revoca comporta soltanto, secondo Cass. n. 25580/2011, ma non secondo le Sezioni Unite, che il creditore dell’alienante venga a trovarsi, rispetto all’immobile ormai acquisito all’attivo fallimentare, in posizione analoga a quella del titolare di un diritto di prelazione su di un bene compreso nel fallimento e già costituito in garanzia per un credito verso debitore diverso dal fallito. Il diritto tutelato in revocatoria, analogamente al detto diritto di prelazione, “rappresenta infatti una passività dalla quale il patrimonio del fallito deve essere depurato prima della ripartizione del ricavato ai creditori concorsuali” [9]. Il principio così enunciato si fonda sull’art. 602 c.p.c., intitolato “espropriazione contro il terzo proprietario”, che equipara l’espropriazione sui beni gravati da pegno od ipoteca per un debito altrui a quella sui beni la cui alienazione da parte del debitore è stata revocata per frode. Ne consegue che in caso di accoglimento della domanda revocatoria trascritta in data anteriore al fallimento, la sentenza costituirà titolo per partecipare al riparto: in base ad essa, l’attore vittorioso potrà ottenere, in sede di distribuzione del ricavato della vendita del bene, la separazione della somma corrispondente al proprio credito verso l’alienante [10].
Di qui la conclusione, più volte ribadita dalle Sezioni Unite [15], che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dall’organo esterno del fallimento nell’esercizio della sua pubblica funzione, non si individua come diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento ovvero al momento della dichiarazione di fallimento indipendentemente dall’esercizio dell’azione giudiziale, ma si qualifica come diritto potestativo, che nasce col fallimento, all’esercizio dell’azione revocatoria, dalla quale deriva poi la modifica della situazione giuridica preesistente.
Questo ordine di idee può forse oggi essere messo in dubbio in conseguenza di un revirement della Suprema Corte [16] che ha affermato, ai fini della responsabilità del liquidatore di società per azioni ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c., che questi è responsabile per aver provveduto al pagamento dei creditori senza applicare il principio della par condicio e senza rispettare l’ordine delle cause di prelazione, e senza quindi provvedere al pagamento di un creditore privilegiato nel rispetto della regola dettata dall’art. 2741 c.c. Argomentando dal disposto dell’art. 2491, comma 2, c.c. che vieta ai liquidatori di ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione, salvo che dai bilanci risulti che la ripartizione non incide sulla disponibilità di somme idonee alla integrale soddisfazione dei creditori sociali, la Cassazione ha rilevato, sulla base delle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di merito, che il principio della par condicio è certamente un parametro corretto per verificare se vi è stata lesione del diritto di credito con conseguente responsabilità del liquidatore, a prescindere dall’apertura di una procedura concorsuale, valendo essa come criterio generale per disciplinare la fase di pagamento dei debiti sociali nel corso della liquidazione. Tale principio è ricavabile, osserva la Cassazione, dalle regole generali che negli artt. 2740 e 2741 c.c. regolano il concorso dei creditori e le cause di prelazione, ove si prescrive l’obbligo del debitore di effettuare i pagamenti rispettando “il diritto dei creditori ad essere ugualmente soddisfatti, salve le cause legittime di prelazione”. Ed è indubbio, si può aggiungere, che l’art. 2741 non contiene alcuna specifica indicazione che ne limiti l’applicazione ai casi di azioni esecutive, concorsuali o individuali.
L’affermazione che la par condicio si applica anche durante la fase di liquidazione delle società di capitali non elimina le differenze tra liquidazione nella disciplina societaria e liquidazione in sede concorsuale, perché soltanto in questo secondo caso si verifica la c.d. cristallizzazione del passivo con la conseguente totale esigibilità di tutti i crediti, anche di quelli non ancora scaduti. La Cassazione si è limitata ad affermare che è obbligo del liquidatore accertare la composizione del passivo sociale riconoscendo anche eventuali debiti non ancora appostati in bilancio. Il liquidatore comunque dovrà, in ossequio al disposto dell’art. 2741 c.c., soddisfare prima i creditori privilegiati, provvedendo soltanto in un momento successivo al pagamento dei creditori chirografari, anche in percentuale ove l’attivo non sia integralmente capiente. È verosimile peraltro che il liquidatore debba effettuare accantonamenti a fronte dei crediti non ancora scaduti.
Il principio affermato dalla Cassazione, riferito alla liquidazione delle società di capitali, può trovare applicazione anche per le società di persone ove si consideri che la regola dettata per le prime dall’art. 2491, comma 2, è la medesima sancita per le società di persone dall’art. 2280 e che l’art. 2741 non si applica nei soli casi di azione esecutiva individuale o concorsuale promossa dai creditori [17]. In dottrina [18] è stato osservato che con il codice della crisi il pagamento di un debito con pregiudizio per gli altri creditori che non trovano più capienza nel patrimonio da parte del debitore che si trovi in stato di insufficienza patrimoniale cessa di essere un comportamento pienamente lecito, anche quando il debitore non sia una società. L’imprenditore, e ciò vale anche per l’imprenditore minore o imprenditore sotto soglia, che si trovi in situazione di crisi, in base al combinato disposto del nuovo art. 2086 c.c. e dell’art. 3 CCII deve dotarsi di misure o strumenti idonei a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e deve adottare senza indugio le reazioni adeguate. Le iniziative, se si guarda alla procedura di composizione assistita, alla possibilità per il debitore di chiedere al collegio costituito presso l’OCRI la fissazione di un termine per accedere ad una procedura di composizione della crisi e dell’insolvenza, all’obbligo di segnalazione al P.M. da parte del referente della Camera di Commercio in caso di insolvenza manifesta, portano all’apertura della liquidazione concorsuale ove non siano disponibili soluzioni alternative.
Di conseguenza, si afferma, il debitore, anche prima dell’apertura della procedura concorsuale o dell’esperimento di azioni esecutive da parte dei creditori, sarà tenuto a rispettare le regole della par condicio, anche in ragione del disposto dell’art. 4 CCII che impone di comportarsi secondo buona fede e correttezza nei rapporti con i creditori, pur se tale regola riguarda le procedure disciplinate dal codice e la fase delle trattative con i creditori e non gli atti ed i pagamenti eseguiti in condizioni di insufficienza patrimoniale essendo peraltro il principio di buona fede uno dei principi cardine dell’ordinamento [19].
Va peraltro sottolineato che ai sensi dell’art. 2901, comma 3, l’adempimento di un debito scaduto non è soggetto a revocatoria ordinaria. Soltanto nel caso di fallimento il curatore potrà esperire la revocatoria fallimentare. L’adempimento di un debito scaduto non può pertanto ritenersi atto illecito, anche se, per le considerazioni che si sono svolte, si tratterà pur sempre di atto che può costituire fonte di responsabilità nei confronti dei creditori pretermessi.
Pur in un quadro normativo soggetto a mutamenti ed a fronte di un principio, quello affermato da Cass. 521/2020, che, come si è detto, riguarda la responsabilità del liquidatore per la violazione della par condicio e non l’illegittimità del pagamento effettuato in violazione di tale regola, si può evidenziare il contrasto tra la ribadita natura costitutiva dell’azione revocatoria, che presuppone che l’atto compiuto dal solvens sia pienamente lecito, e la ritenuta illegittimità del pagamento che, trovandosi il debitore in situazione di incapienza patrimoniale, non abbia rispettato le regole della par condicio. Va sottolineato che l’art. 2741 c.c. non dice che il principio di parità di trattamento tra i creditori debba essere rispettato soltanto quando sia aperta una procedura concorsuale o sia stata esperita un’azione esecutiva individuale attuando un concorso, anche parziale, tra i creditori procedenti. Per le considerazioni che si sono sin qui svolte pare ragionevole leggere la norma nel senso che la regola che il debitore può pagare chiunque senza alcun obbligo di rispettare la par condicio, vale sino a quando vi sia la prospettiva che tutti i creditori possano essere regolarmente soddisfatti. Al contrario la regola della par condicio si applica quando più creditori concorrono sul patrimonio del debitore che costituisce la loro garanzia patrimoniale e tale patrimonio è incapiente. L’azione revocatoria è ancillare al principio della garanzia patrimoniale perché è funzionale a reprimere le condotte del debitore che abbiano portato alla diminuzione di tale garanzia.
Un’ulteriore considerazione, di carattere generale già respinta dalle Sezioni Unite anche se senza approfondita motivazione [20], porta a sottolineare che la garanzia patrimoniale costituita dal patrimonio del debitore che l’azione revocatoria mira a reintegrare è lo strumento che l’ordinamento predispone a garanzia del credito per far sì che chi ha subito un torto possa ricevere tutto e proprio tutto ciò che gli spetta. La tutela costituzionale prevista dall’art. 24 Cost. comporta che si faccia i conti con tale esigenza. Pare evidente che adottando la soluzione prospettata dalla Suprema Corte tale risultato non possa essere raggiunto.
Cass. 30416/2018 ha osservato, con riferimento alla sola revocatoria infragruppo disciplinata dall’amministrazione straordinaria (art. 91, L. n. 270/1999) che si tratta di una disciplina speciale, mirata a risolvere i problemi di tutela dei gruppi di creditori che, per quanto tra di loro autonomi e distinti, sono comunque tutti favoriti o penalizzati da un’unica strategia di gestione del gruppo e della sua crisi, onde la necessità di una previsione regolatrice particolare. La sentenza in commento ha invece osservato, con riferimento all’analoga disciplina dettata dall’art. 290, comma 3, CCII, che né l’art. 91 né l’art. 290, comma 3, contengono elementi che consentano di affermare che l’azione revocatoria aggravata sia esperibile nei confronti di una società in liquidazione giudiziale.
Aggiunge ancora la sentenza in commento che sol- tanto la nuova e diversa azione, introdotta per la prima volta dal codice della crisi, contemplata dall’art. 290, comma 1, potrebbe giovare alla tesi dell’esperibilità della revocatoria tra procedure concorsuali. La norma, com’è noto, dispone che “Nei confronti delle imprese appartenenti al medesimo gruppo possono essere promosse dal curatore, sia nel caso di apertura di una procedura unitaria, sia nel caso di apertura di una pluralità di procedure, azioni dirette a conseguire la dichiarazione di inefficacia di atti e contratti posti in essere nei cinque anni antecedenti il deposito dell’istanza di liquidazione giudiziale, che abbiano avuto l’effetto di spostare risorse a favore di un’altra impresa del gruppo con pregiudizio dei creditori, fatto salvo il disposto dell’articolo 2497, primo comma, del codice civile”. È evidente il riferimento letterale all’esperibilità dell’azione sia nel caso di apertura di una procedura di liquidazione unitaria che nel caso di pluralità di procedure, come previsto dall’art. 288 CCII [21].
A dire il vero, tale riferimento potrebbe riguardare l’impresa attrice, volendo il legislatore chiarire, anche se vi si poteva arrivare in sede interpretativa per evitare di dare luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento, che il curatore della liquidazione giudiziale può agire in revocatoria aggravata tanto nel caso di apertura della liquidazione di un’unica impresa quanto nel caso di pluralità di procedure.
Tuttavia che l’azione disciplinata dal primo comma dell’art. 290 possa essere esperita nei confronti di imprese del gruppo assoggettate alla liquidazione giudiziale risulta con chiarezza dall’art. 3, comma 3, lett. c), sub 1, L. delega n. 155/2017, dove prevede “l’attribuzione al curatore, anche nei confronti di imprese non insolventi del gruppo (corsivo nostro), del potere di: 1) azionare rimedi contro operazioni antecedenti l’accertamento dello stato di insolvenza e dirette a spostare risorse a un’altra impresa del gruppo, in danno dei creditori”.
Anche in questo caso, osservano le SS.UU. che si tratta di una disciplina nuova, relativa al gruppo societario in sé considerato, come tale insuscettibile di suggerire una diversa interpretazione dell’ammissibilità della revocatoria tra fallimenti [22]. In effetti, mentre l’azione disciplinata dal comma 3 dell’art. 290, fa riferimento all’esercizio dell’azione revocatoria ex art. 166 CCII, vale a dire alla revocatoria fallimentare propriamente detta, ponendosi nel solco con alcune differenze delle regole già dettate dall’art. 91 della Prodi bis, il comma 1 introduce una disciplina del tutto nuova. Sulla premessa della legittimità dei trasferimenti infragruppo nei limiti in cui essi sono ammessi dall’art. 2497 c.c., la norma prevede che il curatore dell’impresa del gruppo in liquidazione giudiziale possa esperire nei confronti delle imprese del gruppo azioni dirette alla declaratoria di inefficacia di atti e contratti posti in essere nel quinquennio anteriore al deposito della domanda di liquidazione giudiziale che abbiano spostato risorse a favore di altra impresa del gruppo con pregiudizio dei creditori. Si tratta di una regola che il legislatore del 1999 non poteva prevedere perché, com’è noto, la disciplina degli artt. 2497 ss. ed il recepimento nel nostro ordinamento della c.d. teoria dei vantaggi compensativi è successiva.
Il carattere speciale di questa normativa non deve tuttavia trarre in inganno. La formula adottata dal legislatore (azioni dirette a conseguire la declaratoria di inefficacia di atti e contratti) indica chiaramente che si tratta di azioni revocatorie, che non hanno certamente natura diversa dalla revocatoria ordinaria esperita dal curatore ai sensi dell’art. 165 (il curatore può domandare che siano dichiarati inefficaci ...) e, nella vigenza della legge fallimentare, ai sensi dell’art. 66 L. fall. La circostanza è importante perché la ricostruzione del sistema non può non considerare che il legislatore, almeno in un caso, ammette espressamente che l’azione revocatoria possa essere esperita da una procedura concorsuale nei confronti di altre imprese, sia pur appartenenti al medesimo gruppo, che si trovano a loro volta soggette al medesimo tipo di procedura. Sia nel caso in cui la liquidazione giudiziale è unitaria sia nel caso in cui non lo sia, tutte le imprese sono sottoposte alle medesime regole, proprie in generale della liquidazione giudiziale, tanto per quanto concerne la cristallizzazione del passivo che dell’attivo. Anche il principio dell’inopponibilità ai creditori delle formalità poste in essere per rendere opponibili gli atti ai terzi (art. 45 L. fall. e art. 145 CCII) è il medesimo.
Va poi sottolineato che dottrina e giurisprudenza che si sono formate con riferimento all’art. 91 della legge.
Prodi bis non dubitano che l’azione revocatoria disciplinata dalla norma si applichi tanto nel caso in cui destinatarie dell’azione siano imprese in bonis quanto in quello che si tratti invece di imprese insolventi in amministrazione straordinaria o assoggettate ad altra procedura concorsuale liquidatoria [23].
Pare quindi arduo sul piano dell’esegesi ricostruttiva del sistema individuare le ragioni di una diversa soluzione normativa, non chiaramente espressa dal legislatore al di fuori della disciplina di gruppo, per risolvere il medesimo problema di carattere tecnico.
Non pare infatti che si possa prescindere da questa alternativa: o la natura costitutiva dell’azione revocatoria e l’inopponibilità delle formalità non iscritte anteriormente all’apertura della procedura liquidatoria concorsuale, sia essa il fallimento o la liquidazione giudiziale, rappresentano un ostacolo insormontabile all’ammissibilità della revoca dell’atto compiuto dal solvens, ed allora la disciplina dettata dall’art. 290, comma 1, CCII non avrebbe potuto essere emanata. Ovvero tale incompatibilità non sussiste ed allora l’interpretazione durevolmente seguita dalle Sezioni Unite pare irragionevole perché il disposto dell’art. 290, comma 1, costituisce applicazione ad un caso particolare, i trasferimenti infra- gruppo, di una regola generale che riguarda tutte le azioni revocatorie.
Va poi aggiunto che l’orientamento consolidato della Suprema Corte, fondato anche sull’equiparazione tra la disciplina dell’esperibilità dell’azione di risoluzione, come regolata dagli artt. 72 L. fall. e 172, comma 5, CCII, e della revocatoria da parte della curatela del solvens [24], non considera che nell’un caso si tratta dell’azione proposta da un singolo contraente in bonis, mentre nel secondo è questione della tutela di un intero ceto creditorio che, in base alla soluzione scelta dalla sentenza in commento, è destinato a concorrere con i creditori dell’accipiens, senza che gli venga riconosciuto neppure il diritto di prelazione [25].
Va poi svolta un’altra considerazione. La delega al Governo contenuta nell’art. 1, L. n. 155/2017, in base alla quale è stato emanato il codice della crisi e dell’insolvenza, ha ad oggetto la “riforma organica delle procedure concorsuali di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267”. Nel valutare la disciplina dei gruppi come materia speciale, i cui principi non possono essere estesi alla disciplina generale delle azioni revocatorie, le Sezioni Unite mostrano di non aver tenuto presente questa caratteristica della riforma. Riforma organica significa infatti che il legislatore delegato doveva rivedere e coordinare la disciplina generale della crisi e dell’insolvenza. In questa prospettiva, se può essere considerata settoriale la normativa in materia di amministrazione straordinaria, che è noto che fu stralciata dal progetto originario della Commissione Rordorf, tale conclusione non può valere per la disciplina dei gruppi contenuta nel codice della crisi. Le norme sulla revocatoria nei gruppi insolventi, in difetto di esplicita ed espressa previsione del legislatore, non possono essere diverse da quelle che regolano l’intera materia della revocatoria nello stesso codice (artt. 163 ss. CCII), nelle quali il legislatore non ha sostanzialmente modificato le norme dettate dalla legge fallimentare, riproducendole.
A nostro avviso l’insinuazione al passivo non può però tradursi, come sostengono le Sezioni Unite, in un diritto di credito per equivalente al valore del bene oggetto di revoca in concorso con i creditori del fallimento dell’accipiens. Al contrario il bene deve essere separato dalla massa di tale procedura e deve essere destinato al soddisfacimento dei creditori lesi nel loro diritto di garanzia generica sul patrimonio dell’accipiens. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite è una soluzione equitativa, che fa concorrere i creditori del solvens con i creditori dell’accipiens, ma che prescinde dalle caratteristiche e dalle funzioni dell’azione revocatoria, che è quella di tutelare, e tutelare in via esclusiva, le ragioni dei creditori del solvens, anche in danno dei creditori dell’accipiens. In difetto tali ragioni vengono seriamente compromesse, con possibile violazione dell’art. 24 Cost.
La giurisprudenza consolidata della Cassazione in ordine al ristoro dell’attore in revocatoria mediante la condanna del convenuto al pagamento del controvalore pecuniario del bene oggetto di revoca, ove la revoca sia divenuta impossibile, giurisprudenza assolutamente consolidata, ampiamente citata dalla sentenza in commento, si fonda sulla premessa che l’azione revocatoria non ha ad oggetto il bene in sé, ma il ristoro dei creditori lesi nella loro garanzia patrimoniale, sì che tale ristoro viene ugualmente realizzato nel momento in cui ai creditori viene assicurato il controvalore del bene non più recuperabile nella sua materialità [27]. Inizialmente la giurisprudenza più risalente si fondava sulla natura illecita dell’atto revocato, poi negata, come si è visto, dalla Cassazione nel momento in cui ha aderito alla teoria costitutiva. In seguito le conclusioni non sono mutate, ma la natura di debito di valore del credito è stata giustificata con il fatto che tale credito sostituisce l’azione revocatoria e quindi la possibilità per i creditori di agire sui beni oggetto di revoca, sì che essi debbono venir reintegrati nel tantumdem.
Per queste ragioni la giurisprudenza qualifica il credito all’equivalente come credito di valore, riferito al valore del bene oggetto di revoca alla data dell’atto revocato.
La condanna al pagamento dell’equivalente monetario prende il posto della declaratoria di inefficacia dell’atto oggetto di revoca. Poiché non è più possibile il recupero del bene alla garanzia generica dei creditori perché il bene è stato alienato a terzi o perché è perito, l’obbligazione restitutoria si converte nel debito di valore corrispondente al valore del bene alla data dell’atto revocato. Per questa ragione la domanda non costituisce domanda nuova e può essere proposta anche in appello, perché essa non rappresenta altro che uno strumento di realizzo alternativo dell’originaria azione revocatoria. Con la conseguenza che in tanto la domanda per equivalente è ammissibile, in quanto sia ammissibile l’azione revocatoria, principio questo che è ben chiaro alla giurisprudenza consolidata della Suprema Corte.
Nel momento pertanto in cui le Sezioni Unite affermano che non è possibile l’azione revocatoria promossa dal fallimento del solvens nei confronti del fallimento dell’accipiens, a stretto rigore neppure l’azione per equivalente potrebbe essere ammissibile, perché si tratta di azione accessoria alla prima, che da essa trae fondamento, tanto che si afferma che in sede di accertamento del passivo del fallimento dell’accipiens il credito per il controvalore del bene potrebbe essere ammesso soltanto dopo il riconoscimento, in via incidentale, della fondatezza dell’azione di revoca [28]. Pare evidente che sono ben diversi i casi in cui il bene oggetto di revoca non si trova più nel patrimonio del convenuto in revocatoria e quello in cui l’azione revocatoria in quanto tale non è ammissibile perché preclusa dall’impossibilità di configurare un effetto costitutivo di inefficacia sopravvenuta dell’atto che sottragga il bene all’attivo del fallimento dell’accipiens. Nel secondo caso il bene esiste e potrebbe essere aggredito dai creditori del solvens, ma non si vuole che tale effetto si produca, preferendo loro la tutela dei creditori dell’accipiens ovvero facendoli concorrere entrambi con soluzione equitativa, ma dai fondamenti, ci pare, incerti.
*Il saggio è estratto da Il Fallimento 12/2020
Note:
Le decisioni della Cassazione che affermano la piena discrezionalità del liquidatore in ordine ai modi e tempi di pagamento dei creditori sociali, sono molto risalenti: Cass. 25 marzo 1970, n. 792, in Giur. civ., 1970, I, 892; Cass. 26 aprile 1968, n. 1273, in Foro it., 1969, I, 987; cfr. anche Trib. Udine 26 febbraio 2010, in www. unijuris.it.
Con diversa motivazione si vedano anche: Cass. 17 febbraio 1993, n. 1941, in Giur. it., 1993, I, 1, 2278, con nota di E. Cecconi; Cass. 17 giugno 2009, n. 14098; Cass. 6 agosto 2010, n. 18369; Cass. 20 novembre 2013, n. 26041.