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Saggio

La natura costitutiva dell’azione revocatoria ed il credito per equivalente della curatela del solvens nei confronti del fallimento dell’accipiens*

Luciano Panzani, già Presidente della Corte d’Appello di Roma

31 Dicembre 2020

*Il saggio è estratto da Il Fallimento 12/2020
La sentenza delle Sezioni Unite tocca un tema controverso, la natura costitutiva dell’azione revocatoria e la tutela delle ragioni dei creditori del Fallimento del solvens. Di qui i commenti, dell’A. e di Francesco De Santis, di segno diverso. Le Sezioni Unite ribadiscono la natura costitutiva dell’azione revocatoria e confermano il principio per cui il Fallimento del solvens che non abbia promosso l’azione revocatoria, trascrivendola, prima dell’apertura del Fallimento dell’accipiens, non può più esperire tale azione in ragione del principio della cristallizzazione dell’attivo. L’A. pone a confronto le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite con altro precedente della Cassazione, che ha affermato che la regola della par condicio non si applica soltanto nel caso di azione esecutiva concorsuale o individuale, ma è anche fonte di responsabilità per il liquidatore di società di capitali che, in sede di liquidazione volontaria, abbia pretermesso un creditore privilegiato. Questo precedente mette in crisi il fondamento principe della teoria costitutiva dell’azione revocatoria, essere l’atto revocato un atto lecito prima della pronuncia della sentenza di revoca.
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1 . La natura dell’azione revocatoria secondo le Sezioni Unite. La cristallizzazione dell’attivo
I casi di azione revocatoria di un Fallimento (o Liquidazione giudiziale secondo la nuova formulazione adottata dal Codice della crisi pubblicato, ma non ancora in vigore per le note vicende) nei confronti di altro Fallimento sono sicuramente pochi. L’ammissibilità di tale azione, negata con due successive sentenze dalle Sezioni Unite della Cassazione [1] che si innestano su un orientamento consolidato sulla natura costitutiva dell’azione revocatoria [2], incide su categorie fondamentali della disciplina concorsuale quale il carattere costitutivo o dichiarativo dell’azione revocatoria e come vedremo sulla portata della regola della par condicio, che un recente arresto della Suprema Corte estende anche al di fuori dell’azione esecutiva, concorsuale o individuale. Il problema che sembra porsi è quello dei limiti della tutela del diritto di credito e della portata della garanzia patrimoniale assicurata dagli artt. 2740 e 2741 c.c. Di fronte a questioni che investono tratti fondamentali del nostro ordinamento il dubbio per l’interprete è che il Codice della crisi, ancor prima di entrare in vigore, si mostri scarsamente risolutivo, se le Sezioni Unite, come si ricava facilmente dalla lettura della sentenza qui annotata, non vi hanno trovato alcun elemento utile alla definizione del problema che erano chiamate a risolvere. Procediamo con ordine. Con la sentenza in commento la Sezioni Unite ribadiscono ancora una volta l’orientamento consolidato sulla natura costitutiva dell’azione revocatoria, ordinaria e fallimentare, respingendo le obiezioni sollevate dalla I Sezione Civile della stessa Corte con ordinanza interlocutoria [3]. Mentre però con la sentenza 30416/18 le SS.UU. avevano posto a fondamento della loro tesi, tra i vari argomenti [4], la cristallizzazione del passivo che segue all’apertura del concorso ai sensi dell’art. 52 L. fall., ora esse sembrano ripudiare tale conclusione [5] affermando invece che l’impossibilità di configurare effetti dell’inefficacia dell’atto revocato sul patrimonio dell’accipiens fallito deriva dalla cristallizzazione dell’attivo, vincolato al soddisfacimento dei creditori anteriori e quindi non toccato dagli effetti della sentenza di revoca, che retroagiscono alla data della domanda, in ipotesi successiva alla dichiarazione di fallimento dell’accipiens. Contemporaneamente le Sezioni Unite danno atto che la soluzione prescelta lascia, per così dire, l’amaro in bocca perché esclude ogni tutela dei creditori del solvens, che, ove il fallimento sia stato dichiarato dopo il fallimento dell’accipiens, rimarrebbero privi di ogni tutela. È vero, si osserva, che l’atto depauperatorio del patrimonio del solvens era atto lecito ed inattaccabile dai terzi quando è stato compiuto, ma il fallimento del solvens si colloca pur sempre come un fatto sopravvenuto di cui i creditori non hanno colpa. È indubbio, osservano le SS.UU. che “a fronte di una lesione della garanzia patrimoniale già verificatasi, tutto verrebbe a dipendere, infine, dalla circostanza che il terzo acquirente sia fallito o meno prima che i creditori dell’alienante (o il curatore, se - come nella specie - già a sua volta fallito) abbiano potuto esercitare l’azione a presidio di quella garanzia” [6]. Con la conseguenza che “L’esigenza di tutela è immanente e non può rimanere inevasa”. Deve essere tutelato il diritto del creditore alla conservazione della garanzia patrimoniale e ad opporsi alla dispersione di tale garanzia.
La soluzione, secondo le SS.UU., sta nel trovare il “corretto punto di equilibrio” verificando “in qual senso la sequela di principi ai quali l’azione revocatoria risponde ottenga, nella mediazione processuale, di salvaguardare l’esigenza di tutela di quei creditori”. La soluzione sta nella reintegrazione dei creditori del solvens nel loro diritto di agire nei confronti del patrimonio del loro debitore mediante la tutela per equivalente. Sulla base dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in una serie di casi [7] le SS.UU. affermano che “il fallimento del terzo acquirente, dichiarato dopo l’atto di alienazione, vale a dire dopo l’atto di frode determinativo della lesione della garanzia patrimoniale ma prima che l’azione revocatoria sia esercitata, impedisce solo l’esercizio dell’azione costitutiva, non anche invece l’esercizio di quell’azione restitutoria per equivalente parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale”. Si noti che in questo passaggio motivazionale le Sezioni Unite, dopo aver ribadito che la revocatoria nei confronti del fallimento dell’accipiens non può essere esperita per via del carattere costitutivo dell’azione, che trae fondamento nel rilievo che l’atto revocando è pienamente lecito nel momento in cui viene compiuto, con una sorta di lapsus calami qualificano tale atto come atto di frode, secondo una risalente, oggi ripudiata, tradizione dottrinale e, come vedremo, secondo la più risalente giurisprudenza della stessa Cassazione che ammetteva la tutela per equivalente.
La conclusione è che il curatore del fallimento del solvens potrà insinuarsi al passivo del fallimento dell’accipiens, previa delibazione della fondatezza dell’azione di revoca (come tale inammissibile), per il controvalore del bene sottratto all’azione revocatoria.
Il risultato non contrasta, si dice, con il principio di cristallizzazione del passivo perché il credito per equivalente fatto valere dalla massa dei creditori del solvens è riferibile direttamente all’atto oggetto di revoca. La tutela così accordata ai creditori del solvens è però una tutela ben diversa da quella che avrebbero conseguito con l’azione revocatoria perché i credito per equivalente da essi vantato concorre con i crediti insinuati dai creditori dell’accipiens e sarà pertanto soddisfatto soltanto pro quota.
Si noti che le Sezioni Unite in commento, come già Cass. n. 30416/2018, ammettono, sulla scorta di importanti precedenti della stessa Suprema Corte, che gli effetti dell’azione revocatoria possono prodursi quando la domanda sia stata trascritta anterior mente alla dichiarazione di fallimento dell’accipiens, il che può avvenire quando il fallimento del solvens sia stato pronunciato anteriormente o quando la curatela del solvens prosegua l’azione revocatoria ordinaria promossa prima dell’apertura del fallimento del solvens da un creditore di quest’ultimo [8]. In tali ipotesi, infatti, l’art. 45 L. fall. non costituisce un ostacolo. Anche in tale ipotesi tuttavia la Suprema Corte esclude che il bene oggetto della revocatoria possa essere sottratto all’attivo del fallimento dell’accipiens. Il vittorioso esperimento dell’azione revocatoria trascritta anteriormente alla data del fallimento dell’acquirente non abilita il creditore dell’alienante non fallito a promuovere l’esecuzione sui beni compravenduti, in quanto essi sono ormai entrati a far parte dell’attivo fallimentare. La revoca comporta soltanto, secondo Cass. n. 25580/2011, ma non secondo le Sezioni Unite, che il creditore dell’alienante venga a trovarsi, rispetto all’immobile ormai acquisito all’attivo fallimentare, in posizione analoga a quella del titolare di un diritto di prelazione su di un bene compreso nel fallimento e già costituito in  garanzia per un credito verso debitore diverso dal fallito. Il diritto tutelato in revocatoria, analogamente al detto diritto di prelazione, “rappresenta infatti una passività dalla quale il patrimonio del fallito deve essere depurato prima della ripartizione del ricavato ai creditori concorsuali” [9]. Il principio così enunciato si fonda sull’art. 602 c.p.c., intitolato “espropriazione contro il terzo proprietario”, che equipara l’espropriazione sui beni gravati da pegno od ipoteca per un debito altrui a quella sui beni la cui alienazione da parte del debitore è stata revocata per frode. Ne consegue che in caso di accoglimento della domanda revocatoria trascritta in data anteriore al fallimento, la sentenza costituirà titolo per partecipare al riparto: in base ad essa, l’attore vittorioso potrà ottenere, in sede di distribuzione del ricavato della vendita del bene, la separazione della somma corrispondente al proprio credito verso l’alienante [10].
2 . La natura costitutiva dell’azione revocatoria e la responsabilità del liquidatore di società
Il principio fondamentale sul quale fonda la consolidata giurisprudenza che afferma la natura costitutiva dell’azione revocatoria, sia essa ordinaria o fallimentare, è che pur essendo astrattamente prospettabile un obbligo del debitore di non compiere atti di disposizione patrimoniale pregiudizievoli per i creditori, tale principio non è riferibile ad alcuna previsione normativa, sicché l’affermazione secondo la quale la dichiarazione di inefficacia dell’atto, che discende dall’azione revocatoria, trovi fonte in una sorta di “illecito” posto in essere dal debitore (tanto è vero che alla domanda di revocatoria in molti casi si accompagna una domanda risarcitoria ulteriore), resta sul piano delle ipotesi assiologiche [11]. Le Sezioni Unite hanno ben spiegato il principio nella sentenza che ha inaugurato l’orientamento oggi consolidato [12]. Osservavano infatti allora le SS.UU.: “...per il criterio generale adottato dal diritto delle obbligazioni, il debitore è tenuto a soddisfare i propri debiti man mano che essi vengano a scadenza (art. 1183 c.c.), indipendentemente dal fatto che il credito fruisca, o non, di cause di prelazione; indipendentemente, inoltre, dal fatto che esistano altri debiti dello stesso soggetto scaduti o in scadenza. Questo criterio generale si riflette sul sistema dell’imputazione dei pagamenti (art. 1193 c.c.), secondo cui, quando un soggetto abbia più debiti verso lo stesso creditore ed esegua un pagamento non titolato, la funzione estintiva si esplica in primo luogo verso i crediti scaduti; tra i crediti scaduti la priorità spetta a quello meno garantito e, in sequenza, al più oneroso per il debitore ed in definitiva al più antico. Solo nel caso in cui tutti i predetti criteri non si riscontrino nel caso singolo, l’imputazione avviene proporzionalmente ai vari debiti. Una sorta di limitata “par condicio” residuale [13], quindi, con l’imputazione proporzionale, è l’ultimo dei criteri applicabili, mentre i criteri prioritari prescindono totalmente (e sono ad esso contrari) dal principio della par condicio... Affermare che in virtù del sistema revocatorio fallimentare, che tende a ricondurre alla par condicio pagamenti avvenuti in presenza di determinati presupposti e violatori della regola dettata dall’art. 2741 c.c., detto momento vada individuato in epoca anteriore all’apertura della procedura concorsuale e fatto coincidere con la realizzazione dell’atto revocabile, significa non tenere conto di uno dei presupposti della revocatoria fallimentare, determinabile solo a posteriori: il presupposto temporale che individua quali atti, a parità di altre condizioni, siano revocabili e quali no; che individua, inoltre, il momento di determinazione del pregiudizio, ancorché correlato alla sola violazione della par condicio”. Poiché soltanto una volta dichiarato il fallimento si potrà stabilire se esso ricade o meno nel periodo sospetto e poiché l’atto diverrà inefficace soltanto nel caso di effettivo esercizio dell’azione revocatoria, non resta che concludere che prima della pronuncia del giudice l’atto è del tutto legittimo e che nessuna censura può essere mossa nei confronti del debitore che ha provveduto al pagamento secondo i principi generali stabiliti dal codice civile [14].
Di qui la conclusione, più volte ribadita dalle Sezioni Unite [15], che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dall’organo esterno del fallimento nell’esercizio della sua pubblica funzione, non si individua come diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento ovvero al momento della dichiarazione di fallimento indipendentemente dall’esercizio dell’azione giudiziale, ma si qualifica come diritto potestativo, che nasce col fallimento, all’esercizio dell’azione revocatoria, dalla quale deriva poi la modifica della situazione giuridica preesistente.
Questo ordine di idee può forse oggi essere messo in dubbio in conseguenza di un revirement della Suprema Corte [16] che ha affermato, ai fini della responsabilità del liquidatore di società per azioni ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c., che questi è responsabile per aver provveduto al pagamento dei creditori senza applicare il principio della par condicio e senza rispettare l’ordine delle cause di prelazione, e senza quindi provvedere al pagamento di un creditore privilegiato nel rispetto della regola dettata dall’art. 2741 c.c. Argomentando dal disposto dell’art. 2491, comma 2, c.c. che vieta ai liquidatori di ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione, salvo che dai bilanci risulti che la ripartizione non incide sulla disponibilità di somme idonee alla integrale soddisfazione dei creditori sociali, la Cassazione ha rilevato, sulla base delle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di merito, che il principio della par condicio è certamente un parametro corretto per verificare se vi è stata lesione del diritto di credito con conseguente responsabilità del liquidatore, a prescindere dall’apertura di una procedura concorsuale, valendo essa come criterio generale per disciplinare la fase di pagamento dei debiti sociali nel corso della liquidazione. Tale principio è ricavabile, osserva la Cassazione, dalle regole generali che negli artt. 2740 e 2741 c.c. regolano il concorso dei creditori e le cause di prelazione, ove si prescrive l’obbligo del debitore di effettuare i pagamenti rispettando “il diritto dei creditori ad essere ugualmente soddisfatti, salve le cause legittime di prelazione”. Ed è indubbio, si può aggiungere, che l’art. 2741 non contiene alcuna specifica indicazione che ne limiti l’applicazione ai casi di azioni esecutive, concorsuali o individuali.
L’affermazione che la par condicio si applica anche durante la fase di liquidazione delle società di capitali non elimina le differenze tra liquidazione nella disciplina societaria e liquidazione in sede concorsuale, perché soltanto in questo secondo caso si verifica la c.d. cristallizzazione del passivo con la conseguente totale esigibilità di tutti i crediti, anche di quelli non ancora scaduti. La Cassazione si è limitata ad affermare che è obbligo del liquidatore accertare la composizione del passivo sociale riconoscendo anche eventuali debiti non ancora appostati in bilancio. Il liquidatore comunque dovrà, in ossequio al disposto dell’art. 2741 c.c., soddisfare prima i creditori privilegiati, provvedendo soltanto in un momento successivo al pagamento dei creditori chirografari, anche in percentuale ove l’attivo non sia integralmente capiente. È verosimile peraltro che il liquidatore debba effettuare accantonamenti a fronte dei crediti non ancora scaduti.
Il principio affermato dalla Cassazione, riferito alla liquidazione delle società di capitali, può trovare applicazione anche per le società di persone ove si consideri che la regola dettata per le prime dall’art. 2491, comma 2, è la medesima sancita per le società di persone dall’art. 2280 e che l’art. 2741 non si applica nei soli casi di azione esecutiva individuale o concorsuale promossa dai creditori [17]. In dottrina [18] è stato osservato che con il codice della crisi il pagamento di un debito con pregiudizio per gli altri creditori che non trovano più capienza nel patrimonio da parte del debitore che si trovi in stato di insufficienza patrimoniale cessa di essere un comportamento pienamente lecito, anche quando il debitore non sia una società. L’imprenditore, e ciò vale anche per l’imprenditore minore o imprenditore sotto soglia, che si trovi in situazione di crisi, in base al combinato disposto del nuovo art. 2086 c.c. e dell’art. 3 CCII deve dotarsi di misure o strumenti idonei a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e deve adottare senza indugio le reazioni adeguate. Le iniziative, se si guarda alla procedura di composizione assistita, alla possibilità per il debitore di chiedere al collegio costituito presso l’OCRI la fissazione di un termine per accedere ad una procedura di composizione della crisi e dell’insolvenza, all’obbligo di segnalazione al P.M. da parte del referente della Camera di Commercio in caso di insolvenza manifesta, portano all’apertura della liquidazione concorsuale ove non siano disponibili soluzioni alternative.
Di conseguenza, si afferma, il debitore, anche prima dell’apertura della procedura concorsuale o dell’esperimento di azioni esecutive da parte dei creditori, sarà tenuto a rispettare le regole della par condicio, anche in ragione del disposto dell’art. 4 CCII che impone di comportarsi secondo buona fede e correttezza nei rapporti con i creditori, pur se tale regola riguarda le procedure disciplinate dal codice e la fase delle trattative con i creditori e non gli atti ed i pagamenti eseguiti in condizioni di insufficienza patrimoniale essendo peraltro il principio di buona fede uno dei principi cardine dell’ordinamento [19].
Va peraltro sottolineato che ai sensi dell’art. 2901, comma 3, l’adempimento di un debito scaduto non è soggetto a revocatoria ordinaria. Soltanto nel caso di fallimento il curatore potrà esperire la revocatoria fallimentare. L’adempimento di un debito scaduto non può pertanto ritenersi atto illecito, anche se, per le considerazioni che si sono svolte, si tratterà pur sempre di atto che può costituire fonte di responsabilità nei confronti dei creditori pretermessi.
Pur in un quadro normativo soggetto a mutamenti ed a fronte di un principio, quello affermato da Cass. 521/2020, che, come si è detto, riguarda la responsabilità del liquidatore per la violazione della par condicio e non l’illegittimità del pagamento effettuato in violazione di tale regola, si può evidenziare il contrasto tra la ribadita natura costitutiva dell’azione revocatoria, che presuppone che l’atto compiuto dal solvens sia pienamente lecito, e la ritenuta illegittimità del pagamento che, trovandosi il debitore in situazione di incapienza patrimoniale, non abbia rispettato le regole della par condicio. Va sottolineato che l’art. 2741 c.c. non dice che il principio di parità di trattamento tra i creditori debba essere rispettato soltanto quando sia aperta una procedura concorsuale o sia stata esperita un’azione esecutiva individuale attuando un concorso, anche parziale, tra i creditori procedenti. Per le considerazioni che si sono sin qui svolte pare ragionevole leggere la norma nel senso che la regola che il debitore può pagare chiunque senza alcun obbligo di rispettare la par condicio, vale sino a quando vi sia la prospettiva che tutti i creditori possano essere regolarmente soddisfatti. Al contrario la regola della par condicio si applica quando più creditori concorrono sul patrimonio del debitore che costituisce la loro garanzia patrimoniale e tale patrimonio è incapiente. L’azione revocatoria è ancillare al principio della garanzia patrimoniale perché è funzionale a reprimere le condotte del debitore che abbiano portato alla diminuzione di tale garanzia.
Un’ulteriore considerazione, di carattere generale già respinta dalle Sezioni Unite anche se senza approfondita motivazione [20], porta a sottolineare che la garanzia patrimoniale costituita dal patrimonio del debitore che l’azione revocatoria mira a reintegrare è lo strumento che l’ordinamento predispone a garanzia del credito per far sì che chi ha subito un torto possa ricevere tutto e proprio tutto ciò che gli spetta. La tutela costituzionale prevista dall’art. 24 Cost. comporta che si faccia i conti con tale esigenza. Pare evidente che adottando la soluzione prospettata dalla Suprema Corte tale risultato non possa essere raggiunto.
3 . Natura costitutiva dell’azione revocatoria ed azione revocatoria aggravata infragruppo
La seconda questione che merita approfondimento riguarda l’affermazione della sentenza in commento secondo la quale la disciplina della revocatoria aggravata infragruppo dettata dall’art. 290 CCII, così come l’analoga disciplina espressa dall’art. 91, L. n. 270/1999 non dimostrerebbero l’esperibilità dell’azione revocatoria tra procedure concorsuali diverse.
Cass. 30416/2018 ha osservato, con riferimento alla sola revocatoria infragruppo disciplinata dall’amministrazione straordinaria (art. 91, L. n. 270/1999) che si tratta di una disciplina speciale, mirata a risolvere i problemi di tutela dei gruppi di creditori che, per quanto tra di loro autonomi e distinti, sono comunque tutti favoriti o penalizzati da un’unica strategia di gestione del gruppo e della sua crisi, onde la necessità di una previsione regolatrice particolare. La sentenza in commento ha invece osservato, con riferimento all’analoga disciplina dettata dall’art. 290, comma 3, CCII, che né l’art. 91 né l’art. 290, comma 3, contengono elementi che consentano di affermare che l’azione revocatoria aggravata sia esperibile nei confronti di una società in liquidazione giudiziale.
Aggiunge ancora la sentenza in commento che sol- tanto la nuova e diversa azione, introdotta per la prima volta dal codice della crisi, contemplata dall’art. 290, comma 1, potrebbe giovare alla tesi dell’esperibilità della revocatoria tra procedure concorsuali. La norma, com’è noto, dispone che “Nei confronti delle imprese appartenenti al medesimo gruppo possono essere promosse dal curatore, sia nel caso di apertura di una procedura unitaria, sia nel caso di apertura di una pluralità di procedure, azioni dirette a conseguire la dichiarazione di inefficacia di atti e contratti posti in essere nei cinque anni antecedenti il deposito dell’istanza di liquidazione giudiziale, che abbiano avuto l’effetto di spostare risorse a favore di un’altra impresa del gruppo con pregiudizio dei creditori, fatto salvo il disposto dell’articolo 2497, primo comma, del codice civile”. È evidente il riferimento letterale all’esperibilità dell’azione sia nel caso di apertura di una procedura di liquidazione unitaria che nel caso di pluralità di procedure, come previsto dall’art. 288 CCII [21].
A dire il vero, tale riferimento potrebbe riguardare l’impresa attrice, volendo il legislatore chiarire, anche se vi si poteva arrivare in sede interpretativa per evitare di dare luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento, che il curatore della liquidazione giudiziale può agire in revocatoria aggravata tanto nel caso di apertura della liquidazione di un’unica impresa quanto nel caso di pluralità di procedure.
Tuttavia che l’azione disciplinata dal primo comma dell’art. 290 possa essere esperita nei confronti di imprese del gruppo assoggettate alla liquidazione giudiziale risulta con chiarezza dall’art. 3, comma 3, lett. c), sub 1, L. delega n. 155/2017, dove prevede “l’attribuzione al curatore, anche nei confronti di imprese non insolventi del gruppo (corsivo nostro), del potere di: 1) azionare rimedi contro operazioni antecedenti l’accertamento dello stato di insolvenza e dirette a spostare risorse a un’altra impresa del gruppo, in danno dei creditori”.
Anche in questo caso, osservano le SS.UU. che si tratta di una disciplina nuova, relativa al gruppo societario in sé considerato, come tale insuscettibile di suggerire una diversa interpretazione dell’ammissibilità della revocatoria tra fallimenti [22]. In effetti, mentre l’azione disciplinata dal comma 3 dell’art. 290, fa riferimento all’esercizio dell’azione revocatoria ex art. 166 CCII, vale a dire alla revocatoria fallimentare propriamente detta, ponendosi nel solco con alcune differenze delle regole già dettate dall’art. 91 della Prodi bis, il comma 1 introduce una disciplina del tutto nuova. Sulla premessa della legittimità dei trasferimenti infragruppo nei limiti in cui essi sono ammessi dall’art. 2497 c.c., la norma prevede che il curatore dell’impresa del gruppo in liquidazione giudiziale possa esperire nei confronti delle imprese del gruppo azioni dirette alla declaratoria di inefficacia di atti e contratti posti in essere nel quinquennio anteriore al deposito della domanda di liquidazione giudiziale che abbiano spostato risorse a favore di altra impresa del gruppo con pregiudizio dei creditori. Si tratta di una regola che il legislatore del 1999 non poteva prevedere perché, com’è noto, la disciplina degli artt. 2497 ss. ed il recepimento nel nostro ordinamento della c.d. teoria dei vantaggi compensativi è successiva.
Il carattere speciale di questa normativa non deve tuttavia trarre in inganno. La formula adottata dal legislatore (azioni dirette a conseguire la declaratoria di inefficacia di atti e contratti) indica chiaramente che si tratta di azioni revocatorie, che non hanno certamente natura diversa dalla revocatoria ordinaria esperita dal curatore ai sensi dell’art. 165 (il curatore può domandare che siano dichiarati inefficaci ...) e, nella vigenza della legge fallimentare, ai sensi dell’art. 66 L. fall. La circostanza è importante perché la ricostruzione del sistema non può non considerare che il legislatore, almeno in un caso, ammette espressamente che l’azione revocatoria possa essere esperita da una procedura concorsuale nei confronti di altre imprese, sia pur appartenenti al medesimo gruppo, che si trovano a loro volta soggette al medesimo tipo di procedura. Sia nel caso in cui la liquidazione giudiziale è unitaria sia nel caso in cui non lo sia, tutte le imprese sono sottoposte alle medesime regole, proprie in generale della liquidazione giudiziale, tanto per quanto concerne la cristallizzazione del passivo che dell’attivo. Anche il principio dell’inopponibilità ai creditori delle formalità poste in essere per rendere opponibili gli atti ai terzi (art. 45 L. fall. e art. 145 CCII) è il medesimo.
Va poi sottolineato che dottrina e giurisprudenza che si sono formate con riferimento all’art. 91 della legge.
Prodi bis non dubitano che l’azione revocatoria disciplinata dalla norma si applichi tanto nel caso in cui destinatarie dell’azione siano imprese in bonis quanto in quello che si tratti invece di imprese insolventi in amministrazione straordinaria o assoggettate ad altra procedura concorsuale liquidatoria [23].
Pare quindi arduo sul piano dell’esegesi ricostruttiva del sistema individuare le ragioni di una diversa soluzione normativa, non chiaramente espressa dal legislatore al di fuori della disciplina di gruppo, per risolvere il medesimo problema di carattere tecnico.
Non pare infatti che si possa prescindere da questa alternativa: o la natura costitutiva dell’azione revocatoria e l’inopponibilità delle formalità non iscritte anteriormente all’apertura della procedura liquidatoria concorsuale, sia essa il fallimento o la liquidazione giudiziale, rappresentano un ostacolo insormontabile all’ammissibilità della revoca dell’atto compiuto dal solvens, ed allora la disciplina dettata dall’art. 290, comma 1, CCII non avrebbe potuto essere emanata. Ovvero tale incompatibilità non sussiste ed allora l’interpretazione durevolmente seguita dalle Sezioni Unite pare irragionevole perché il disposto dell’art. 290, comma 1, costituisce applicazione ad un caso particolare, i trasferimenti infra- gruppo, di una regola generale che riguarda tutte le azioni revocatorie.
Va poi aggiunto che l’orientamento consolidato della Suprema Corte, fondato anche sull’equiparazione tra la disciplina dell’esperibilità dell’azione di risoluzione, come regolata dagli artt. 72 L. fall. e 172, comma 5, CCII, e della revocatoria da parte della curatela del solvens [24], non considera che nell’un caso si tratta dell’azione proposta da un singolo contraente in bonis, mentre nel secondo è questione della tutela di un intero ceto creditorio che, in base alla soluzione scelta dalla sentenza in commento, è destinato a concorrere con i creditori dell’accipiens, senza che gli venga riconosciuto neppure il diritto di prelazione [25].
Va poi svolta un’altra considerazione. La delega al Governo contenuta nell’art. 1, L. n. 155/2017, in base alla quale è stato emanato il codice della crisi e dell’insolvenza, ha ad oggetto la “riforma organica delle procedure concorsuali di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267”. Nel valutare la disciplina dei gruppi come materia speciale, i cui principi non possono essere estesi alla disciplina generale delle azioni revocatorie, le Sezioni Unite mostrano di non aver tenuto presente questa caratteristica della riforma. Riforma organica significa infatti che il legislatore delegato doveva rivedere e coordinare la disciplina generale della crisi e dell’insolvenza. In questa prospettiva, se può essere considerata settoriale la normativa in materia di amministrazione straordinaria, che è noto che fu stralciata dal progetto originario della Commissione Rordorf, tale conclusione non può valere per la disciplina dei gruppi contenuta nel codice della crisi. Le norme sulla revocatoria nei gruppi insolventi, in difetto di esplicita ed espressa previsione del legislatore, non possono essere diverse da quelle che regolano l’intera materia della revocatoria nello stesso codice (artt. 163 ss. CCII), nelle quali il legislatore non ha sostanzialmente modificato le norme dettate dalla legge fallimentare, riproducendole.
4 . Il diritto ad insinuare il credito per equivalente e la tutela dei creditori del solvens
È comprensibile la resistenza delle Sezioni Unite ad accogliere una soluzione che urta contro la consolidata ricostruzione della natura costitutiva dell’azione revocatoria e che porterebbe a rivedere le soluzioni adottate con riferimento a rilevanti problemi pratici, come la disciplina degli interessi e della prescrizione. Ed è indubbio che il fallimento o liquidazione giudiziale del solvens sarà sempre vincolato dagli effetti dell’apertura della procedura concorsuale dell’accipiens nel senso che, anche ove si ammetta che il bene oggetto di revoca va separato dall’attivo della procedura convenuta, l’azione di restituzione dovrà seguire le regole della procedura concorsuale, sì che la curatela del solvens dovrà insinuarsi al passivo della procedura convenuta [26].
A nostro avviso l’insinuazione al passivo non può però tradursi, come sostengono le Sezioni Unite, in un diritto di credito per equivalente al valore del bene oggetto di revoca in concorso con i creditori del fallimento dell’accipiens. Al contrario il bene deve essere separato dalla massa di tale procedura e deve essere destinato al soddisfacimento dei creditori lesi nel loro diritto di garanzia generica sul patrimonio dell’accipiens. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite è una soluzione equitativa, che fa concorrere i creditori del solvens con i creditori dell’accipiens, ma che prescinde dalle caratteristiche e dalle funzioni dell’azione revocatoria, che è quella di tutelare, e tutelare in via esclusiva, le ragioni dei creditori del solvens, anche in danno dei creditori dell’accipiens. In difetto tali ragioni vengono seriamente compromesse, con possibile violazione dell’art. 24 Cost.
La giurisprudenza consolidata della Cassazione in ordine al ristoro dell’attore in revocatoria mediante la condanna del convenuto al pagamento del controvalore pecuniario del bene oggetto di revoca, ove la revoca sia divenuta impossibile, giurisprudenza assolutamente consolidata, ampiamente citata dalla sentenza in commento, si fonda sulla premessa che l’azione revocatoria non ha ad oggetto il bene in sé, ma il ristoro dei creditori lesi nella loro garanzia patrimoniale, sì che tale ristoro viene ugualmente realizzato nel momento in cui ai creditori viene assicurato il controvalore del bene non più recuperabile nella sua materialità [27]. Inizialmente la giurisprudenza più risalente si fondava sulla natura illecita dell’atto revocato, poi negata, come si è visto, dalla Cassazione nel momento in cui ha aderito alla teoria costitutiva. In seguito le conclusioni non sono mutate, ma la natura di debito di valore del credito è stata giustificata con il fatto che tale credito sostituisce l’azione revocatoria e quindi la possibilità per i creditori di agire sui beni oggetto di revoca, sì che essi debbono venir reintegrati nel tantumdem.
Per queste ragioni la giurisprudenza qualifica il credito all’equivalente come credito di valore, riferito al valore del bene oggetto di revoca alla data dell’atto revocato.
La condanna al pagamento dell’equivalente monetario prende il posto della declaratoria di inefficacia dell’atto oggetto di revoca. Poiché non è più possibile il recupero del bene alla garanzia generica dei creditori perché il bene è stato alienato a terzi o perché è perito, l’obbligazione restitutoria si converte nel debito di valore corrispondente al valore del bene alla data dell’atto revocato. Per questa ragione la domanda non costituisce domanda nuova e può essere proposta anche in appello, perché essa non rappresenta altro che uno strumento di realizzo alternativo dell’originaria azione revocatoria. Con la conseguenza che in tanto la domanda per equivalente è ammissibile, in quanto sia ammissibile l’azione revocatoria, principio questo che è ben chiaro alla giurisprudenza consolidata della Suprema Corte.
Nel momento pertanto in cui le Sezioni Unite affermano che non è possibile l’azione revocatoria promossa dal fallimento del solvens nei confronti del fallimento dell’accipiens, a stretto rigore neppure l’azione per equivalente potrebbe essere ammissibile, perché si tratta di azione accessoria alla prima, che da essa trae fondamento, tanto che si afferma che in sede di accertamento del passivo del fallimento dell’accipiens il credito per il controvalore del bene potrebbe essere ammesso soltanto dopo il riconoscimento, in via incidentale, della fondatezza dell’azione di revoca [28]. Pare evidente che sono ben diversi i casi in cui il bene oggetto di revoca non si trova più nel patrimonio del convenuto in revocatoria e quello in cui l’azione revocatoria in quanto tale non è ammissibile perché preclusa dall’impossibilità di configurare un effetto costitutivo di inefficacia sopravvenuta dell’atto che sottragga il bene all’attivo del fallimento dell’accipiens. Nel secondo caso il bene esiste e potrebbe essere aggredito dai creditori del solvens, ma non si vuole che tale effetto si produca, preferendo loro la tutela dei creditori dell’accipiens ovvero facendoli concorrere entrambi con soluzione equitativa, ma dai fondamenti, ci pare, incerti.



*Il saggio è estratto da Il Fallimento 12/2020

Note:

[1] 
Oltre alla sentenza in commento, si veda Cass. 23 novembre 2018, n. 3416, in questa Rivista, 2019, 321, con nota di F. De Santis, Le sezioni unite sulle azioni revocatorie promosse nei confronti della liquidazione giudiziale: declinazioni sistematiche e profili operativi, in Giur. it., 2019, 1839 ss., con nota di A. Ronco, Azione revocatoria e fallimento del terzo acquirente; in Riv. dir. proc., 2020, 367 ss., con nota di M. Fabiani, Il caso della revocatoria tra fallimenti. L’orientamento delle Sezioni Unite faceva seguito alle pronunce delle sezioni semplici: Cass. 12 maggio 2011, n. 10486, in questa Rivista, 2011, 1477, e Cass. 8 marzo 2012, n. 3672, ivi, 2013, 122. In senso contrario Cass. 14 ottobre 1963, n. 2746, in Dir. fall., 1963, 617, secondo la quale “nel conflitto tra il principio di cui all’art. 24 della legge fallimentare (per cui la Competenza funzionale a conoscere delle azioni revocatorie fallimentari, quali azioni che ‘derivano’ dal fallimento, spetta al tribunale che ha dichiarato il fallimento il curatore del quale ha proposto l’Azione revocatoria) e l’altro secondo il quale, apertosi il fallimento, ogni credito ed ogni diritto sulle cose inventariate, deve essere fatto valere nelle forme stabilite dal capo quinto della legge stessa (art. 52 L. fall.), cioè attraverso l’insinuazione al passivo o la domanda di restituzione di cose mobili, innanzi al tribunale fallimentare, deve ritenersi che, mentre il tribunale che ha dichiarato il fallimento del debitore che ha posto in essere l’atto pregiudizievole ai creditori resta competente a decidere, nelle forme ordinarie, se la revoca dell’atto debba essere o meno pronunciata, le pronunzie conseguenziali alla dichiarazione di revoca, invece (e cioè restituzione della cosa oggetto dell’atto revocato o pagamento del tantundem), possono essere emesse solo dal tribunale che ha dichiarato il fallimento del terzo, e con le forme previste dagli artt. 93 e 103 della legge fallimentare”. Conforme Cass. 30 agosto 1994, n. 7583, in questa Rivista, 1994, 1281.
[2] 
Inaugurato da Cass., SS.UU., 13 giugno 1996, n. 5443, in questa Rivista, 1996, 999, con nota di Giacalone; in Corr. giur., 1996, 1017, con nota di G. Tarzia, e da Cass., SS.UU., 8 luglio 1996, n. 6225, in questa Rivista, 1996, 999; in Dir. fall., 1996, 2, 811 con nota di G. Ragusa Maggiore. Prima di questa sentenza una parte della giurisprudenza della Cassazione aveva aderito alla teoria costitutiva dell’azione, individuando nell’azione esperita dal curatore l’esercizio di un diritto potestativo: Cass. 21 dicembre 1971, n. 3713; 25 ottobre 1973, n. 2754; 25 giugno 1980, n. 3983; 17 gennaio 1984, n. 402; 21 giugno 1984, n. 3657; Cass. 21 dicembre 1971, n. 3713; 25 ottobre 1973, n. 2754; 25 giugno 1980, n. 3983; 17 gennaio 1984, n. 402; 21 giugno 1984, n. 3657. Altro orientamento aveva invece sostenuto il carattere dichiarativo della pronuncia di revoca (Cass. 8 marzo 1995, n. 2706) ovvero avevano più frequentemente qualificato la situazione giuridica come “illecito” o “indebito” sussistente prima della proposizione dell’azione: Cass. 22 gennaio 1972, n. 164; 15 marzo 1976, n. 949; 19 ottobre 1977, n. 4464; 3 aprile 1987, n. 3227; 27 febbraio 1990, n. 1494; 10 novembre 1992, n. 12091. Dopo le due pronunce delle Sezioni Unite del 1996 la Cassazione ha costantemente seguito la teoria costitutiva. Cfr. Cass. 1° aprile 1997, n. 3155, in questa Rivista, 1997, 1013; Cass. 24 gennaio 1998, n. 690, ivi, 1998, 719, con nota di Montaldo; Cass. 2 settembre 1998, n. 8703, ivi, 1999, 1189, con nota di Maienza; Cass. 19 ottobre 1998, n. 10350, ivi, 1999, 1077; Cass. 14 marzo 2000, n. 2909, ivi, 2001, 568, con nota di G. Federico; Cass., SS. UU., 15 giugno 2000, n. 437; Cass. 11 settembre 2001, n. 11594, ivi, 2002, 531 con nota di Lo Cascio; Cass. 8 gennaio 2003, n. 58; Cass. 18 gennaio 2006, n. 887; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3379; Cass. 22 marzo 2007, n. 6991, in Giust. civ., 2007, I, 1597; Cass. 30 agosto 2007, n. 18312, in questa Rivista, 2008, 549, con nota di C. Bellomi; Cass., SS.UU., 18 marzo 2010, n. 6538, ivi, 2010, 799, con nota di Minutili; Cass. 6 agosto 2010, n. 18438; Cass. 26 luglio 2012, n. 13302.
[3] 
Cass. 23 luglio 2019, n. 19881, in www.onelegale.woltersk- luwer.it. 
[4] 
Come vedremo meglio più avanti l’argomento principe della teoria costitutiva è che l’atto o il pagamento oggetto di revoca non sono illegittimi nel momento in cui sono compiuti (anche il creditore non può rifiutare il pagamento del suo debitore), donde il carattere costitutivo della sentenza che ne dispone l’inefficacia. E di conseguenza l’azione del curatore del fallimento costituisce atto potestativo da cui segue la sentenza del giudice i cui effetti retroagiscono alla data della domanda, ma non alla data dell’atto revocato.
[5] 
Per le SS.UU. in commento “la sopravvenienza del fallimento dell’acquirente non tanto rileva (in sé e propriamente) per cristallizzare il passivo, sintesi metaforica funzionale a descrivere il fenomeno di irrilevanza (corsivo nostro n.d.r.), dopo la dichiarazione di fallimento, di modificazioni attinenti alle pretese creditorie o ai rapporti obbligatori, col fine di garantire l’unitarietà della procedura attraverso l’individuazione di tutte le pretese ivi incidenti”. 
[6] 
Prima delle Sezioni Unite, questo rilievo era già stato svolto dalla dottrina. Cfr. R. Conte, Osservazioni a Cass. 2 dicembre 2011, n. 25850, in questa Rivista, 2011, 954. 
[7] 
 Rinviamo sul punto alla nt. 22.
[8] 
In questo senso Cass. 10 settembre 2019, n. 14892, in www.onlegale.wolterskluwer.it; Cass. 2 dicembre 2011, n. 25850, in questa Rivista, 2012, 950 con nota di R. Conte, Revocatoria ordinaria, divieto di azioni esecutive nei confronti del fallimento e trascrizione della domanda. 
[9] 
Cass. 2 dicembre 2011, n. 25850, cit. 
[10] 
Su questo tema torna, da par suo, Francesco De Santis nella sua nota alla sentenza delle Sezioni Unite in commento, che segue questo scritto, ed alla quale senz’altro rinviamo. 
[11] 
In questi termini testuali F. De Santis, Le sezioni unite sulle azioni revocatorie promosse nei confronti della liquidazione giudiziale: declinazioni sistematiche e profili operativi, in questa Rivista, 2019, 327. Cfr. anche C.M. Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2001, 436. Non sono mancate nella giurisprudenza più risalente della Cassazione sentenze che hanno definito l’atto revocato come illecito o indebito. Cfr. Cass. 22 gennaio 1972, n. 164; Cass. 15 marzo 1976, n. 949; Cass. 19 ottobre 1977, n. 4464; Cass. 3 aprile 1987, n. 3227; Cass. 27 febbraio 1990, n. 1494; Cass. 10 novembre 1992, n. 12091. 
[12] 
Cass., SS.UU., 13 giugno 1996, n. 5443, in questa Rivista, 1996, 999, con nota di Giacalone; in Corr. giur., 1996, 1017, con nota di G. Tarzia. 
[13] 
Sul tema in dottrina si vedano ex multis E. Damiani, sub art. 1193 c.c., in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Milano, 2012, 520; A. di Majo, Pagamento (diritto civile), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, 567. Va ricordato che la giurisprudenza ha esteso la disciplina dettata dall’art. 1193, che si riferisce al caso di più crediti coesistenti nel rapporto tra un unico creditore ed un unico debitore al caso del rapporto tra una pluralità di creditori ed un unico debitore. Secondo Cass. 12 luglio 2005, n. 14594, in Foro it., Rep. 2005, voce Obbligazioni in genere, n. 43, “La disciplina dell’imputazione del pagamento, pur presupponendo l’esistenza di una pluralità di rapporti obbligatori omogenei tra le medesime parti, è applicabile analogicamente anche in presenza di una pluralità di creditori, qualora uno di essi sia legittimato a ricevere il pagamento sia in proprio che per conto dell’altro”. Sul punto cfr. M. Fabiani, op. cit., 334. Va sottolineato che il criterio stabilito dall’art. 1193, prevedendo che il pagamento vada imputato prima al credito meno garantito, stabilisce un criterio opposto a quello previsto dall’art. 2741 c.c., che tutela in via prioritaria i crediti assistiti da cause di prelazione. 
[14] 
Il principio affermato dalle Sezioni Unite con Cass. n. 5443/1996 urta anche contro il rilievo che il comportamento del debitore che, trovandosi in situazione di impotenza patrimoniale, soddisfa un creditore a danno di altri può integrare il reato di bancarotta fraudolenta preferenziale (art. 216 L. fall. e art. 322, comma 3, CCII). In proposito peraltro va ricordato che Cass. 28 settembre 2016, n. 19196, in questa Rivista, 2017, 410, con nota di G. Tarzia, La norma dell’art. 1418 c.c. e l’uso distorto del credito fondiario”: nullità o revocatoria?, ha affermato che “la violazione di una norma imperativa non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto, giacché l’art. 1418, 1° comma, c.c., con l’inciso ‘salvo che la legge disponga diversamente’, impone all’interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia consentito la validità del negozio predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti della norma, sicché, in assenza di un divieto generale di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, la stipulazione di un contratto di mutuo ipotecario in violazione dell’art. 216, 3° comma, L. fall., che punisce la condotta di bancarotta preferenziale, non dà luogo a nullità per illiceità di causa, ai sensi del citato art. 1418, ma costituisce il presupposto per la revocazione degli atti lesivi della par condicio creditorum”. Anche non considerando il principio affermato dalla Cassazione nella sentenza citata, va ricordato che perché sussista il delitto di bancarotta fraudolenta preferenziale occorre il dolo specifico richiesto dall’art. 216 L. fall. 
[15] 
Da ultimo da Cass., SS.UU., 23 novembre 2018, n. 30416, in questa Rivista, 2019, 321, con nota di F. De Santis, cit. 
[16] 
Cass. 15 gennaio 2020, n. 521, in questa Rivista, 2020, 329 ss. con nota di M. Fabiani; in Corr. giur., 2020, 802 ss., con nota di C. Garilli. Il principio, come sottolinea la stessa sentenza n. 521/2020 corrisponde ad un orientamento radicato di parte della giurisprudenza di merito, soprattutto milanese. Cfr. Trib. Milano 2 gennaio 2019, in Pluris; Trib. Milano 21 aprile 2017, n. 4509, in DeJure; Trib. Milano 7 ottobre 2016, in Pluris; Trib. Milano 15 giugno 2015, in Giur. comm., 2018, II, 536, con nota di Caprara, Parità di trattamento dei creditori sociali e doveri del liquidatore; Trib. Milano 6 agosto 2014, in Giur. it., 2, 393, con nota di F. Riganti, Par condicio creditorum e procedure di liquidazione di società di capitali; Trib. Milano 19 dicembre 2013, n. 16126; Trib. Milano 22 dicembre 2010, in Società, 2011, 757, con nota di Cassani, Responsabilità ex art. 2394 c.c. e applicazione analogica alle società a responsabilità limitata. Cfr. anche Trib. Genova 14 marzo 2013, in Giur. it., 2013, 11, 2273; in Società, 2014, 301. con nota di M.M. Gaeta, Brevi note in materia di liquidazione della società e par condicio creditorum.
Le decisioni della Cassazione che affermano la piena discrezionalità del liquidatore in ordine ai modi e tempi di pagamento dei creditori sociali, sono molto risalenti: Cass. 25 marzo 1970, n. 792, in Giur. civ., 1970, I, 892; Cass. 26 aprile 1968, n. 1273, in Foro it., 1969, I, 987; cfr. anche Trib. Udine 26 febbraio 2010, in www. unijuris.it.
[17] 
In questi termini C. Garilli, Liquidazione di società e par condicio creditorum, cit., 811; M. Fabiani, La regola della par condicio creditorum all’esterno di una procedura di concorso, in questa Rivista, 2020, 329 ss. 
[18] 
M. Fabiani, op. cit., 336 ss. 
[19] 
Va peraltro rilevato che una parte della dottrina non ritiene che gli obblighi connessi con la rilevazione tempestiva dello stato di crisi o di insolvenza dell’impresa da parte dell’imprenditore possano essere letti come doveri specifici nei confronti dei creditori. Sul tema si vedano P. Benazzo, Il Codice della crisi di impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario?, in Riv. Società, 2019, 274; N. Abriani - A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, 393; M. Spiotta, Continuità aziendale e doveri degli organi sociali, Milano, 2017, 125; F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Milano, 2017, 109. 
[20] 
Si fa qui riferimento a Cass., SS.UU., 23 novembre 2018, n. 30416, cit. 
[21] 
V. Caridi, La revocatoria degli atti infragruppo nel cci, in Dir. fall., 2020, nn. 3-4, osserva che la formulazione dell’art. 290, comma 1, CCII, è ambigua quanto alla possibilità di agire contro imprese in bonis, mentre non lascia dubbi in ordine al fatto che l’azione possa essere diretta contro imprese assoggettate a liquidazione giudiziale: lo si desume chiaramente dal fatto che la norma si apre precisando che l’azione può essere promossa dal curatore nei confronti di altre imprese del gruppo “sia nel caso di apertura di una procedura unitaria, sia nel caso di apertura di una pluralità di procedure”. La portata interpretativa che deve essere riconosciuta alla legge delega, tuttavia, induce a ritenere che tra i soggetti passivi di tale azione vi siano anche le imprese del medesimo gruppo in bonis. 
[22] 
Le SS.UU. sottolineano anche la “la specificità della flessione grammaticale, almeno formalmente attestata su profili riferibili alle azioni dichiarative (“azioni dirette a conseguire la dichiarazione di inefficacia di atti e contratti”). In realtà già Cass. 5443/1996, che, come si è visto, è la sentenza con cui le Sezioni Unite hanno inaugurato il filone interpretativo che assegna all’azione revocatoria carattere costitutivo, osservavano che dove l’inopponibilità dell’atto viene esplicitamente subordinata ad una domanda della curatela - come nel caso della revocatoria ordinaria ex art. 66 L. fall. e 2901 c.c. e nel caso dell’azione ex art. 290, comma 1, CCII - il contraddittorio processuale è strumento necessario per ottenere la modificazione giuridica degli effetti degli atti impugnati, ed è quindi indubbio, nei limiti del valore dell’interpretazione letterale, il carattere costitutivo dell’azione. 
[23] 
In questo senso, ex aliis, S. Ambrosini, Amministrazione Straordinaria, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da O. Cagnasso - L. Panzani, Torino, 2016, III, 4120; V. Zanichelli, Le azioni revocatorie infragruppo, in E. Stasi - V. Zanichelli, “Grandi procedure” non solo per le grandi imprese. Le procedure concorsuali amministrative: profili giuridici e soluzioni pratiche, Milano, 2010, 310; Alessandro Di Majo, I gruppi di società, Milano, 2012, 102. In giurisprudenza, v. ex aliis, Trib. Vicenza 16 febbraio 1982, in Dir. fall., 1983, II, 507; Trib. Roma 25 marzo 1985, ivi, 1985, II, 581; Trib. Roma 24 gennaio 1985, in questa Rivista, 1985, 1282. 
[24] 
Su questo tema si vedano, più approfonditamente, le considerazioni di Francesco De Santis nella nota che segue questo commento. 
[25] 
Come invece affermato da Cass. 2 dicembre 2011, n. 25850, cit. 
[26] 
In questo senso si vedano gli ampi rilievi di F. De Santis, Le sezioni unite sulle azioni revocatorie promosse nei confronti della liquidazione giudiziale: declinazioni sistematiche e profili operativi, cit., 334. Lo stesso A. ha poi ulteriormente sviluppato il suo pensiero nella nota che segue questo commento ed alla quale si rinvia. 
[27] 
Cass. 8 gennaio 1966, n. 141, in Giur. it., I, 1966, I, 1, 855, che riconosceva l’equivalente pecuniario del valore del bene revocato a titolo di risarcimento del danno; Cass. 22 gennaio 1972, n. 164, in Giur. it., 1972, I, 1, 653, anche in questo caso ipotizzando una responsabilità per fatto illecito rappresentato dall’atto in frode ai creditori e configurando pertanto il credito come credito di valore corrispondente al valore del bene alla data dell’atto revocato. Le sentenze che seguono non si discostano da questo orientamento: Cass. 15 marzo 1976, n. 949, in Dir. fall., 1976, 2, 323; Cass. 12 agosto 1982, n. 4568, in questa Rivista, 1983, 417; Cass. 17 gennaio 1983, n. 347, ivi, 1983, 830; Cass. 8 luglio 1985, n. 4069, ivi, 1986, 169; Cass. 9 dicembre 1985, n. 6217, ivi, 1986, 737; Cass. 27 febbraio 1990, n. 1499, ivi, 1990, 1005; Cass. 14 febbraio 1997, n. 1411, ivi, 1998, 17, con nota di Figone; Cass. 20 giugno 1997, n. 5540, ivi, 1998, 659; Cass. 22 ottobre 2002, n. 14891; Cass. 18 maggio 2005, n. 10432, ivi, 2006, 409, con nota di S. De Matteis; Cass. 9 febbraio 2007, n. 2883; Cass. 19 ottobre 2007, n. 22008, in Dir. fall., 2009, 168; Cass. 17 giugno 2009, n. 14098; Cass. 16 giugno 2011, n. 13244; Cass. 2 luglio 2014, n. 15123; Cass. 8 novembre 2017, n. 26425; Cass. 8 gennaio 2019, n. 1399.
Con diversa motivazione si vedano anche: Cass. 17 febbraio 1993, n. 1941, in Giur. it., 1993, I, 1, 2278, con nota di E. Cecconi; Cass. 17 giugno 2009, n. 14098; Cass. 6 agosto 2010, n. 18369; Cass. 20 novembre 2013, n. 26041.
[28] 
In questo senso rinviamo ancora agli illuminanti rilievi di F. De Santis, op. cit., 334 

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Tempi di conservazione dei Suoi dati - I dati personali raccolti durante la navigazione saranno conservati per il tempo necessario a svolgere le attività precisate e non oltre 24 mesi.

Modalità del trattamento - Ai sensi e per gli effetti degli artt. 12 e ss. del GDPR, i dati personali degli interessati saranno registrati, trattati e conservati presso gli archivi elettronici delle Società, adottando misure tecniche e organizzative volte alla tutela dei dati stessi. Il trattamento dei dati personali degli interessati può consistere in qualunque operazione o complesso di operazioni tra quelle indicate all' art. 4, comma 1, punto 2 del GDPR.

Comunicazione e diffusione - I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati, intendendosi con tale termine il darne conoscenza ad uno o più soggetti determinati, dalla Società a terzi per dare attuazione a tutti i necessari adempimenti di legge. In particolare i dati personali dell’interessato potranno essere comunicati a Enti o Uffici Pubblici o autorità di controllo in funzione degli obblighi di legge.

I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati nei seguenti termini:

  • - a soggetti che possono accedere ai dati in forza di disposizione di legge, di regolamento o di normativa comunitaria, nei limiti previsti da tali norme;
  • - a soggetti che hanno necessità di accedere ai dati per finalità ausiliare al rapporto che intercorre tra l’interessato e la Società, nei limiti strettamente necessari per svolgere i compiti ausiliari.

Diritti dell’interessato - Ai sensi degli artt. 15 e ss GDPR, l’interessato potrà esercitare i seguenti diritti:

  • 1. accesso: conferma o meno che sia in corso un trattamento dei dati personali dell’interessato e diritto di accesso agli stessi; non è possibile rispondere a richieste manifestamente infondate, eccessive o ripetitive;
  • 2. rettifica: correggere/ottenere la correzione dei dati personali se errati o obsoleti e di completarli, se incompleti;
  • 3. cancellazione/oblio: ottenere, in alcuni casi, la cancellazione dei dati personali forniti; questo non è un diritto assoluto, in quanto le Società potrebbero avere motivi legittimi o legali per conservarli;
  • 4. limitazione: i dati saranno archiviati, ma non potranno essere né trattati, né elaborati ulteriormente, nei casi previsti dalla normativa;
  • 5. portabilità: spostare, copiare o trasferire i dati dai database delle Società a terzi. Questo vale solo per i dati forniti dall’interessato per l’esecuzione di un contratto o per i quali è stato fornito consenso e espresso e il trattamento viene eseguito con mezzi automatizzati;
  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

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