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La disciplina della Liquidazione Coatta Amministrativa nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza - I. Natura dell’istituto e norme applicabili (art. 293 CCII)*

Sido Bonfatti, Professore di Diritto della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza nell’Università di Modena e Reggio Emilia, già Ordinario di Diritto Commerciale nel medesimo Ateneo

2 Settembre 2024

*Il presente contributo è destinato a confluire - come “Commento all’articolo 293” -, con gli eventuali aggiornamenti ed integrazioni del caso, nel Commentario al Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza, diretto da S. Bonfatti e coordinato da G. Falcone, di prossima pubblicazione per i tipi di Giappichelli Editore.
L’A. prende in esame le caratteristiche principali delle procedure di Liquidazione Coatta Amministrativa delle imprese sottratte alle procedure concorsuali “di diritto comune“, alla luce delle modifiche apportate dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza alla previgente legge fallimentare, estendendo l’indagine alle imprese che esercitano “di fatto” le attività comportanti l’assoggettamento a L.C.A., ed alle imprese che possono essere assoggettate a questa procedura per “attrazione“ o per “conversione“ . 
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1 . Premessa. I limiti dell’esecuzione delle disposizioni della legge-delega per la riforma della legge fallimentare
La legge delega per la riforma della legge fallimentare aveva previsto un cambiamento radicale della impostazione della disciplina dedicata alle procedure di liquidazione coatta amministrativa, attraverso: (i) il mantenimento in vigore delle sole discipline “unitarie” dettate per un numero di imprese (o soggetti) individuati in modo analitico – principalmente: banche, intermediari finanziari non bancari, assicurazioni -; e (ii) l’attribuzione di un ruolo residuale alla disciplina delle procedure di l.c.a. pur previste per singole categorie di imprese diverse   dalle prime - in particolare: le imprese cooperative -, nel senso di privilegiare l’accesso delle stesse alle procedure di composizione negoziale delle crisi “di diritto comune” (Concordato preventivo; Accordo di Ristrutturazione; Piano Attestato di Risanamento). 
Oltre a ciò, si prevedeva la assegnazione alle Autorità di Vigilanza competenti per le singole imprese “di diritto speciale” delle funzioni assegnate, per le imprese di diritto comune, all’OCRI (Organismo di Composizione delle Crisi di Impresa). 
Il secondo principio ha trovato attuazione in misura molto contenuta, ed addirittura ridimensionata nel passaggio dal testo originario del CCII (articolo 316) a quello poi effettivamente entrato in vigore.     
 L’originario art. 316 CCII recitava: “1. Oltre a quanto previsto nei precedenti articoli, le autorità amministrative di vigilanza sono altresì competenti a: a) ricevere dagli organi interni di controllo dei soggetti vigilati, dai soggetti incaricati della revisione e dell’ispezione e dai creditori qualificati di cui all’articolo 15 la segnalazione dei fondati indizi di crisi secondo le disposizioni del Titolo II del presente codice; b) svolgere le funzioni attribuite agli organismi di composizione assistita della crisi, designando i componenti del collegio di cui all’articolo 17, comma 1, lettere b) e c), a seguito della richiesta di nomina del debitore o richiedendo direttamente la costituzione del collegio al referente, ai sensi dell’articolo 16. Per l’impresa minore è nominato, con i medesimi poteri del collegio, un commissario tra gli iscritti all’albo speciale di cui all’articolo 356. L’apertura della procedura di composizione assistita della crisi non costituisce causa di revoca degli amministratori e dei sindaci; c) proporre domanda di accertamento dello stato di insolvenza con apertura della liquidazione coatta amministrativa”. 
Con l’entrata in vigore del CCII la norma è stata così ridimensionata: “1. Oltre a quanto previsto nei precedenti articoli, le autorità amministrative di vigilanza sono altresì competenti a: a) ricevere dagli organi interni di controllo dei soggetti vigilati, e dai soggetti incaricati della revisione e dell’ispezione e dai creditori qualificati di cui all’articolo 15 la comunicazione dei segnali di allarme di cui all’articolo 3; b) svolgere le funzioni attribuite agli organismi di composizione assistita della crisi, designando i componenti del collegio di cui all’articolo 17, comma 1, lettere b) e c), a seguito della richiesta di nomina del debitore o richiedendo direttamente la costituzione del collegio al referente, ai sensi dell’articolo 16. Per l’impresa minore è nominato, con i medesimi poteri del collegio, un commissario tra gli iscritti all’albo speciale di cui all’articolo 356. L’apertura della procedura di composizione assistita della crisi non costituisce causa di revoca degli amministratori e dei sindaci; c) proporre domanda di accertamento dello stato di insolvenza con apertura della liquidazione coatta amministrativa”. 
Il primo principio non ha trovato attuazione. 
In conseguenza di quanto sopra rappresentato, si registra una rilevante continuità tra la disciplina della proceduta di l.c.a. prima e dopo la riforma della legge fallimentare[1]. 
Il ché non realizza peraltro propriamente una sovrapposizione normativa. 
La nuova disciplina ha apportato in ogni caso alcune innovazioni a quella attualmente vigente: e la loro rilevanza è stata immediata, in quanto è stato giudicato unanimemente corretto risolvere i dubbi interpretativi posti dal diritto positivo previgente considerando le soluzioni adottate dal legislatore in sede di riforma. 
La nuova disciplina è peraltro applicabile solamente alle nuove procedure: per tale ragione si è ritenuto opportuno, nella predisposizione del presente contributo, tenere in considerazione tanto il diritto vigente, quanto quello annunciato con l’approvazione del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza.
2 . Le ragioni dell’esigenza di una procedura concorsuale diversa (dal “fallimento” e) dalla liquidazione giudiziale di diritto comune
Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza ha preso atto - come aveva fatto la legge fallimentare – della circostanza che l’ordinamento giuridico avverte l’esigenza che in talune circostanze la situazione di “crisi” di una impresa (o di un soggetto in singoli casi di specie ad essa equiparato) sia disciplinata attraverso la applicazione di una procedura bensì “concorsuale”, e tuttavia diversa dalla procedura concorsuale (liquidativa) di diritto comune, funzionale a regolare le situazioni di “crisi” della generalità delle imprese[2]. 
La ragione di ciò risiede principalmente nella ritenuta necessità di predisporre una adeguata tutela non soltanto degli interessi dei creditori dell’impresa versante in una situazione di difficoltà (quale che ne sia la natura) – come accade invece allorché si tratta di affrontare la “crisi” di una impresa di diritto comune – : bensì anche degli interessi di natura pubblicista – di vario genere -, che la disciplina delle procedure concorsuali di diritto comune non tutela adeguatamente (o non tutela affatto), perché insussistenti (o scarsamente sussistenti) nel contesto di una situazione di “crisi” coinvolgente una impresa “ordinaria”. 
La modalità principale attraverso la quale apprestare una adeguata tutela anche ad interessi di natura pubblicista non coincidenti (e talora, anzi, confliggenti) con l’interesse dei creditori dell’impresa in “crisi”, può essere colta, oggi, dal semplice confronto tra le denominazioni della procedura “di diritto comune” e della procedura “di diritto speciale” che si contrappongono.           
 Liquidazione giudiziale l’una, e liquidazione (coatta) amministrativa l’altra: dove è evidente la contrapposizione rappresentata dalla circostanza che nel primo caso la natura della procedura (concorsuale) ha carattere “giudiziale”; mentre nel secondo caso la natura (sia pur sempre concorsuale) della procedura ha carattere “amministrativo”. 
Si pensi ad interessi pubblicistici che in certe fattispecie possono assumere una rilevanza fuori dall’ordinario, come quelli concernenti i livelli occupazionali; l’impatto sociale; il funzionamento dei servizi pubblici essenziali, la considerazione dei quali potrebbe fare ritenere indispensabile la prosecuzione dell’attività di impresa nonostante la presenza di perdite di conto economico, l’effetto delle quali è inevitabilmente rappresentato dall’intaccamento del patrimonio e conseguente pregiudizio per i creditori[3]. 
La ragione di ciò risiede nella circostanza che proprio in considerazione degli interessi sottesi alle attività esercitate dalle imprese “di diritto speciale” la loro gestione è caratterizzata dalla com-presenza dell’autorità amministrativa, che ne condiziona marcatamente l’evoluzione (di norma già condizionandone l’ammissione all’esercizio dell’attività “speciale” al rilascio di una preventiva autorizzazione amministrativa), e che per ciò è interessata a disciplinare anche gli effetti della sopravvenienza di una situazione di “crisi”, e la valutazione della sussistenza dei presupposti per la permanenza sul mercato, piuttosto che l’espulsione dallo stesso (di norma, proprio tramite la revoca di quella autorizzazione che aveva consentito l’avvio dell’esercizio dell’attività “riservata”)[4] [5]. 
L’attribuzione di una rilevanza centrale ad interessi anche diversi da (e, come detto, talora addirittura confliggenti con) quelli di cui sono portatori i creditori dell’impresa, mette in evidenza la possibile inadeguatezza della disciplina delle procedure concorsuali “di diritto comune” a favorirne un adeguato soddisfacimento, sotto una serie di profili. 
In via preliminare, vengono in considerazione i presupposti oggettivi di assoggettamento dell’impresa ad una procedura concorsuale. Sotto tale profilo: 
(i)   assumono rilievo non soltanto i presupposti che sono espressivi di una “crisi” di carattere economico–finanziario–patrimoniale, bensì anche quelli espressivi di una “crisi” di carattere “comportamentale” – cc.dd. “crisi di legalità”: violazione di norme di legge, di disposizioni regolamentari, di principi statutari -; e 
(ii) pur rimanendo nell’alveo dei presupposti espressivi di una crisi di carattere economico-finanziario-patrimoniale, assumono rilievo  non soltanto quelli espressivi di una situazione di crisi attuale, bensì anche quelli che costituiscono i sintomi di una possibile crisi di carattere prospettico[6].
In effetti, delle sei situazioni giudicate rilevanti ai fini dell’assoggettamento delle imprese bancarie (e degli intermediari finanziari non bancari ad esse assimilati) alla procedura di l.c.a. (vale a dire: situazioni nelle quali: 1. risultano irregolarità nell'Amministrazione o violazioni di disposizioni legislative, regolamentarie o statutarie che regolano l'attività dell’intermediario di gravità tale che giustificherebbero la revoca dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività; 2. risultano perdite patrimoniali di eccezionale gravità, tali da privare l’intermediario dell'intero patrimonio o di un importo significativo del patrimonio; 3. le attività dell’intermediario sono inferiori alle sue passività; 4. l’intermediario non è in grado di pagare i propri debiti alla scadenza; 5. elementi oggettivi indicano che una o più delle situazioni su indicate si realizzeranno nel prossimo futuro; 6. è stato erogato un sostegno finanziario pubblico straordinario a favore dell’intermediario, salvo quanto previsto dall'articolo 18 D.Lgs. n. 180/2015), di queste sei situazioni – si diceva – le prime quattro costituiscono altrettanti sintomi di crisi attuali, per come sono declinate (le irregolarità gestionali o violazioni di legge “risultano” – cioè sono già state accertate -; le perdite di eccezionale gravità pure “risultano”; le attività “sono” inferiori alle passività; e infine, l’intermediario “è” non in grado di pagare i propri debiti alla scadenza), mentre le ultime due “situazioni” prospettano invece un “rischio di dissesto”. Esse infatti riguardano: 
(i) il caso in cui le situazioni di rischio attuale declinate nelle prime quattro lettere del comma in esame sia ipotizzabile - sulla base di “elementi oggettivi” - “nel prossimo futuro”; e 
(ii) l’erogazione di un sostegno finanziario straordinario in favore dell’intermediario “è previsto” (ma non ancora attuato). 
Mentre l’accertamento della seconda “situazione” di rischio di dissesto dovrà (e potrà) fare riferimento a provvedimenti dell’Autorità di Vigilanza (o di chi di competenza), già individuati ed in attesa di essere adottati nel contesto della instauranda procedura di gestione della crisi; la verifica della prima situazione (il pericolo che si presenti, “nel prossimo futuro”, una delle “situazioni” che, una volta verificatasi, comporterebbe l’assoggettamento dell’intermediario alla riduzione o conversione di strumenti di capitale o di quasi capitale; o alla risoluzione; ovvero alla L.C.A.), presenta maggiori profili di problematicità. 
Pare improbabile che possa ricorrere il pericolo di una prossima concretizzazione di una “crisi di legalità” - corrispondente alla “situazione” prospettate nella lettera a) del secondo comma dell’art. 17 D.Lgs. n. 180/2015 -. Ove si dovesse temere che gli Organi della banca possano macchiarsi, “nel prossimo futuro”, di irregolarità gestionali o di violazioni di legge, li si dovrebbe semplicemente sostituire (per iniziativa del corpo sociale ovvero della stessa Autorità di Vigilanza: cfr. art. 53 bis, comma 1, lett. 2), T.U.B.; art. 69 vicies-semel T.U.B.; art. 7, comma 2-bis. T.U.F.; art. 55 quinquies T.U.F.). 
È invece possibile che vi siano casi nei quali “elementi oggettivi” indicano che una “crisi economica” (e/o finanziaria e/o patrimoniale) è destinata a manifestarsi in un “prossimo futuro”: e ciò tanto in relazione al pericolo di una prossima illiquidità - che prefigurerebbe la “situazione” rilevante di cui alla lettera d) dell’art. 17, comma 2) - ; quanto in relazione al pericolo di una prossima deficienza patrimoniale - che prefigurerebbe le “situazioni” rilevanti ai sensi delle lettere b) e c) della norma citata -. 
La esigenza di attribuire rilevanza – per ciò che concerne le “crisi economiche” – anche a profili previsionali, oltre che ad accertamenti già acquisiti, era presente già nella disciplina delle crisi bancarie previgente. 
Con il passaggio dall’art. 67 l. banc. all’art. 80 T.U.B., infatti, in materia di rilevanza delle perdite ai fini dell’assoggettamento della banca alla l.c.a., si era rinunciato alla pretesa che le perdite «risultino» (cfr. art. 67 l. banc.), e si era attribuito rilievo anche alle perdite soltanto «previste». 
D’altro canto, una volta esercitata l’opzione di ricondurre le crisi patrimoniali bancarie rilevanti non solo alle situazioni di «insolvenza» (intesa come illiquidità), ma anche alle situazioni di «perdite patrimoniali» (intese come produttive della perdita dei requisiti patrimoniali che condizionano l’autorizzazione all’esercizio dell’attività creditizia), l’esigenza che tali perdite dovessero essere, per divenire rilevanti (oltre che gravi ad eccezionalmente gravi, anche) «risultanti», sarebbe stata del tutto irrealistica. 
Poiché l’attivo delle banche è necessariamente formato da crediti verso la clientela (oltre che verso altri intermediari finanziari); e poiché i ricavi delle stesse sono in larga misura rappresentati dagli interessi attivi contabilizzati su tali crediti; è evidente che una situazione di «perdita» può essere costituita solo (od essenzialmente) da valutazioni, da «previsioni» – per l’appunto – sul grado di esigibilità di quella fondamentale componente dell’attivo che è rappresentata dai crediti; nonché di quell’altra fondamentale componente dei ricavi correnti che è (nuovamente) rappresentata da (crediti per) interessi attivi. 
La soluzione che connettesse l’intervento delle procedure di crisi alle sole situazioni nelle quali le perdite di patrimonio siano oggettivamente «risultate», ne rinvierebbe l’apertura – in buona sostanza – al momento di effettivo riscontro dell’esito (in ipotesi infausto) delle pratiche giudiziali di recupero dei crediti di dubbia esigibilità: il ché non è improponibile da un punto di vista puramente logico, ma appare inaccettabile per l’intuitivo effetto moltiplicatore che produrrebbe sulle conseguenze della crisi patrimoniale della banca, messa in condizione di «svilupparsi» in tutta la sua devastante potenzialità. 
A questa logica è stata ridotta anche la disciplina delle crisi “irreversibili” delle cc.dd. Sim “speciali” [7]: anche se le ragioni di ciò sembrano individuarsi soprattutto nella prospettiva delle crisi dell’impresa bancaria. 
In argomento si deve ritenere che gli “elementi oggettivi” dai quali sarebbe lecito desumere un “rischio di dissesto” dell’intermediario, rilevante ai fini di assoggettarlo alla l.c.a., non siano circoscritti a quelli connessi alle valutazioni del possibile esito dei crediti o degli strumenti finanziari facenti parte del suo patrimonio, ma riguardino anche valutazioni riferite a profili strettamente gestionali. 
Si deve infatti considerare che nelle situazioni nelle quali l’intermediario faticasse a rispettare i coefficienti patrimoniali “di legge”, ovvero quelli (cc. dd. “rafforzati”) che gli fossero stati assegnati dall’Autorità di Vigilanza, ove fossero indisponibili (o più semplicemente fossero esaurite) operazioni straordinarie di patrimonializzazione, l’unica arma funzionale a migliorare (ovvero più semplicemente conservare) i coefficienti patrimoniali, sarebbe costituita da una generale riduzione delle attività sul mercato: il ché costituirebbe l’inevitabile presupposto di ulteriori perdite di conto economico. 
Il rapporto tra patrimonio ed impieghi (in ché consiste, in ultimissima analisi, il coefficiente di cui si parla) è rappresentato – in mancanza di strumenti di incremento del patrimonio – dalla riduzione degli impieghi. 
Questa manovra, peraltro (denominata “de-risking”) produce, con la diminuzione del volume dei finanziamenti alla clientela, una immediata contrazione dei ricavi, alla quale non può fare riscontro – principalmente a causa delle rigidità che continuano a caratterizzare il lavoro bancario, che rappresenta di gran lunga il maggior fattore di costo dell’attività creditizia – una corrispondente riduzione di costi (né in termini quantitativi, e tanto meno in termini temporali). Da ciò, i presupposti di sicure perdite di conto economico, che costituiscono fattori di ulteriore erosione del patrimonio: con l’innesco di una spirale i cui risultati pregiudizievoli “nel prossimo futuro” è agevole prevedere. 
In secondo luogo, vengono in considerazione esigenze particolari, che anche nelle fattispecie nelle quali il presupposto oggettivo di assoggettamento dell’impresa “di diritto speciale” risultasse identico a quello compostante l’assoggettamento ad una procedura concorsuale “di diritto comune” (id est: la già verificata insolvenza dell’impresa), non risulterebbero adeguatamente soddisfatte dalla relativa disciplina (vale a dire: dalla disciplina del “fallimento” ieri, e dalla disciplina della liquidazione giudiziale oggi), neppure per i profili strettamente economico-finanziario-patrimoniale: da cui, anche in queste fattispecie, la necessità di una procedura concorsuale “di diritto speciale”. 
Si pensi, ad esempio, alla esigenza di potere corrispondere ai creditori degli acconti rispetto ai prevedibili pagamenti conseguenti alla liquidazione del patrimonio dell’impresa insolvente, e perciò assoggettata a procedura concorsuale: esigenza che (il “fallimento”, ovvero) la liquidazione giudiziale ignora – diversamente, per l’appunto, da talune Liquidazioni Coatte Amministrative: v. in argomento l’art. 212, comma 2, L. fall. (riprodotto dall’art. 312, comma 2, CCII), che prevede la facoltà del Commissario liquidatore, nelle procedure di L.C.A. in generale (salvo contraria disposizione di norme specifiche), di “distribuire acconti parziali…”. -. Si pensi, ancora, alla più favorevole disciplina dell’accertamento delle pretese dei creditori nei confronti dell’impresa insolvente, che nelle procedure di l.c.a. si manifesta con l’accertamento d’ufficio, da parte del Commissario liquidatore, delle passività dell’impresa assoggettata a L.C.A. Quanto sopra considerato dovrebbe portare naturalmente a formulare la considerazione della incompatibilità della procedura concorsuale liquidativa “di diritto comune” con la natura della crisi dell’impresa “di diritto speciale”, dal momento che: 
(i) in caso di “crisi di legalità”, la procedura di liquidazione giudiziale non è applicabile; 
(ii) in caso di crisi economico-finanziaria-patrimoniale solo ipotetica (il c.d. “pericolo di dissesto”: v., in questo senso, l’art. 17 D.Lgs. n. 180/2015), la procedura di liquidazione giudiziale non è applicabile; 
(iii) in caso di già verificata insolvenza, la procedura di liquidazione giudiziale sarebbe in teoria applicabile, ma dovrebbe vedersi preferita la procedura di liquidazione coatta amministrativa per la più attenta considerazione che la stessa riserva ai soggetti coinvolti dalle situazioni di crisi delle imprese connotate di profili di “specialità”, ivi compresi gli stessi creditori. 
Sarebbe pertanto (rectius: è pertanto) fortemente incoerente la previsione di una possibile alternatività tra la liquidazione giudiziale e la l.c.a., nelle situazioni nelle quali anche la prima risultasse teoricamente applicabile (cioè le situazioni di già verificata insolvenza): per la ragione che la disciplina della seconda garantirebbe un trattamento più soddisfacente per gli stessi soggetti (a partire dai creditori) colpiti dagli effetti di una crisi caratterizzata da connotati economico-finanziario-patrimoniale. 
La denunciata incoerenza è tuttavia generalmente accettata con riguardo a situazioni (principalmente rappresentate dalle fattispecie di insolvenza delle società cooperative esercitanti una attività d’impresa), nelle quali si dà atto che l’impresa “di diritto speciale” può essere assoggettata o alla liquidazione giudiziale; o alla liquidazione coatta amministrativa, semplicemente in base al criterio della prevenzione[8]. 
Tale risultato è fortemente insoddisfacente: in termini sistematici, per le ragioni già elencate; ed in termini di opportunità generale, purché consenta all’impresa interessata (nell’esempio fatto: la società cooperativa con oggetto commerciale) di scegliere la procedura concorsuale “preferibile”, nel momento della acquisita consapevolezza della sopravvenuta insolvenza. L’esperienza insegna che la generalità delle società cooperative (con oggetto commerciale) insolventi, “si precipita” a richiedere l’assoggettamento alla l.c.a., nelle situazioni nelle quali sarebbe ugualmente assoggettabile al “fallimento” (oggi: alla liquidazione giudiziale): qualcosa vorrà dire, e – si ritiene – nulla di particolarmente pregevole. 
3 . Il confermato impianto della disciplina delle procedure di Liquidazione Coatta Amministrativa
La mancata attuazione della delega conferita al Governo dalla legge n. 155/2017 è stata accompagnata anche dalla mancata riforma dell’impianto che caratterizza la disciplina delle procedure di Liquidazione Coatta Amministrativa. Come nel vigore della legge fallimentare, questi istituti sono regolati attraverso il seguente schema normativo: 
a) “le imprese soggette” a L.C.A. sono determinate “dalla legge” (rectius: dalle singole leggi che disciplinano talune categorie di imprese “di diritto speciale”: v. art. 293, comma 3, CCII); 
b) “i casi” per i quali la L.C.A. può essere disposta, sono determinati dalle singole leggi di settore - ibidem: v. supra -;
c) “l’autorità competente” a disporre la L.C.A. è determinata dalle singole leggi di settore – ibidem: v. supra-;
d) “le disposizioni del (presente) titolo” VII del Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza sono applicabili “salvo che le leggi speciali” (di settore) “dispongano diversamente” - art. 294, comma 1, CCII -. 
Si afferma (anzi: si conferma) pertanto il principio generale secondo il quale in caso di contrasto tra le disposizioni generali dettate per la disciplina della “liquidazione coatta amministrativa” nel Codice, e disposizioni specifiche della singola disciplina di settore concernente una specifica procedura di l.c.a., prevalgono le seconde (così, ad esempio, nonostante la affermazione del principio generale secondo il quale le imprese soggette a L.C.A. “possono essere sempre ammesse alla procedura di Concordato preventivoart. 296 CCII –, laddove disposizioni di settore escludano l’ammissibilità di determinate categorie di imprese di diritto speciale a “procedure concorsuali” di diritto comune, dette imprese non possono ricorrere al Concordato preventivo – è il caso di banche; finanziarie; assicurazioni-). 
Secondo la “Relazione illustrativa” al CCII, “La disposizione (articolo 293) definisce la liquidazione coatta amministrativa come il procedimento concorsuale amministrativo che si applica esclusivamente nei casi espressamente previsti dalla legge, che determina anche i casi per i quali la liquidazione coatta amministrativa può essere disposta e l’autorità competente a disporla, riprendendo il disposto dell’art. 2 L. fall. Conseguentemente nulla è mutato quanto alla platea degli enti sottoposti alla procedura di liquidazione coatta amministrativa”. 
4 . I presupposti soggettivi di assoggettabilità alla L.C.A.
Il Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza esordisce (figurativamente), in modo innovativo, affermando che la disciplina della L.C.A. (per come regolata dal Codice stesso) “non si applica agli enti pubblici” (art. 294, comma 3)[9]. 
Con riguardo agli “enti pubblici” propriamente detti gli AA. osservano che “tale disposizione (l’art. 195, comma 4, L. fall., corrispondente all’art. 297, comma 9, c. crisi imp.) tende ad evitare che la decisione circa l’assoggettamento o meno di un ente pubblico alla L.C.A. venga rimessa in definitiva all’autorità giudiziaria, mantenendo dunque il controllo da parte dell’autorità amministrativa anche in questa delicata fase della vita dell’ente”. 
Ciò precisato in termini preclusivi, il CCII aggiunge che la L.C.A. (“è il procedimento concorsuale amministrativo che”) “si applica nei casi espressamente previsti dalla legge” (art. 293, comma 1): ma non li enumera, rimandando alle (diverse) leggi che “determina(no) le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa” (art. 293, comma 2). 
La ricerca delle categorie di imprese definibili “di diritto speciale” sotto il profilo qui considerato conduce a risultati eterogenei, in quanto riferibili ad imprese molto diversificate tra di loro, soprattutto per la rilevanza a ciascuna attribuibile nell’ambito del mondo economico e sociale, fino a ricomprendere soggetti ai quali è persino dubbio riconoscere la qualità di “impresa”[10]. 
Sono così catalogabili come appartenenti al perimetro di applicabilità delle procedure di liquidazione coatta amministrativa: 
a) i consorzi e le associazioni di cooperative; 
b) le società cooperative (eccetto l’ipotesi in cui esercitino un’attività commerciale, posto che in tal caso opera il concorso con il “fallimento” ex art. 2545 – terdecies c.c.); 
c) i consorzi industriali e agrari; 
d) le agenzie territoriali per la casa; 
e) le banche, qualunque forma giuridica assumano, le società capogruppo di banche, le società componenti il gruppo bancario, le succursali di banche extracomunitarie (artt. 80 ss. T.U.B.); 
f) i monti di credito su pegno; 
g) le imprese di assicurazione e di riassicurazione (artt. 245 ss. C. Ass.), le succursali e le sedi secondarie italiane di assicurazioni estere, le società capogruppo e le società facenti parte del gruppo assicurativo, le mutue assicuratrici; 
h) le società fiduciarie, le società di revisione e gli enti di gestione fiduciaria (artt. 1 e 2 d. l. n. 233/1986); 
i) le fondazioni liriche (art. 20 D.Lgs. n. 367/1996); 
j) le SIM, le SICAV, le SICAF e le SGR, le società capogruppo o componenti il gruppo di SIM (artt. 57 ss. T.U.F); 
k) gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 106 t.u. bancario; 
l) le società di gestione accentrata di strumenti finanziari (qualora sia stato dichiarato lo stato di insolvenza); 
m) le imprese sociali (artt. 15 ss. d. lg. n. 155/2006); 
n) istituti autonomi di case popolari e cooperative edilizie a contributo erariale (artt. 23 ss. e 127 ss. r.d. n. 1165/1938); 
o) le fondazioni bancarie (D.Lgs. n. 153/1999); 
p) la Cassa Depositi e Prestiti (l. n. 326/2003); 
q) le società debitrici dello Stato, quando ricorrano determinati presupposti (l. n. 702/1935)[11]. 
Sono state invece dichiarate soggette tanto alla L.C.A. quanto al fallimento, sulla base del ricordato principio della prevenzione: le società controllate dall’I.R.I. (R.D. n. 859/1933); le società per azioni e in accomandita per azioni verso le quali lo Stato abbia concesso o abbia garantito crediti superiori a quattro volte il capitale sociale (r.d. n. 2/1935). Lo stesso si può dire per ciò che concerne le società cooperative. 
Con riguardo alle società cooperative, peraltro, come già detto, occorre tenere conto del principio secondo il quale “le cooperative che svolgono attività commerciali sono soggette anche al fallimento” (art. 2545-terdecies, comma 1, seconda parte, c. c.). La dichiarata assoggettabilità al “fallimento” (oggi: alla liquidazione giudiziale) delle imprese cooperative “che svolgono attività commerciali” postula peraltro (i) la sussistenza di uno stato di “insolvenza” (art. 5 L. fall.; art. 121 CCII); e (ii) che la cooperativa svolgente attività commerciale e versante in stato di insolvenza non dimostri “il possesso congiunto dei (seguenti) requisiti” dimensionali che la qualifichino “impresa minore” ai sensi dell’art. 1, comma 2, L. fall. (art. 121 CCII). 
Per la rilevanza, ai fini dell’assoggettabilità della cooperativa svolgente attività commerciale in stato di insolvenza, della sussistenza dei requisiti dimensionali di cui all’art. 1, comma 2, L. fall. (e art. 121 CCII)[12].
5 . I presupposti oggettivi di assoggettabilità delle imprese “di diritto speciale” alla procedura di liquidazione coatta amministrativa
Secondo quanto disposto dall’art. 293, comma 2, CCII, “la legge determina... i casi per i quali la liquidazione coatta amministrativa può essere disposta…”: anche a tale proposito, quindi (salvo quanto si riferirà subito in appresso a proposito dell’intervento della dichiarazione giudiziale di insolvenza dell’impresa interessata), è necessario fare riferimento alla singole leggi speciali che disciplinano le singole procedure di L.C.A., che possono essere disposte per le singole categorie di imprese “di diritto speciale” che vi sono, rispettivamente, assoggettate. Solo per le ragioni di completezza è opportuno ricordare che, come si è già accennato, “i casi” nei quali le procedure di L.C.A. sono suscettibili di essere disposte non sono soltanto quelli coincidenti con “i casi” nei quali potrebbe essere disposta la liquidazione giudiziale, ovvero le situazioni di “insolvenza” già insorte: bensì anche i casi nei quali l’insolvenza in questione è soltanto ancora temuta (il “rischio di dissesto”: cfr. art. 17, comma 1, D.Lgs. n. 180/2015, richiamato dall’art. 80, comma 1, T.U.B.); ovvero i casi nei quali la situazione di crisi dell’impresa non ne coinvolge l’andamento economico, quanto piuttosto la governance (le cc. dd. “crisi di legalità”)[13].
6 . Le imprese esercenti “di fatto” le attività comportanti l’assoggettamento a liquidazione coatta amministrativa
Problema distinto è quello di stabilire se le imprese che esercitino “di fatto”, cioè senza la autorizzazione amministrativa che le avrebbe legittimate a farlo, una delle attività economiche che, se esercitate in seguito al rilascio della debita autorizzazione, comporterebbero l’applicazione della procedura di L.C.A. “di settore”, siano da considerarsi soggette alla corrispondente disciplina speciale delle situazioni di “crisi” – ivi compresa, ricorrendone i presupposti oggettivi, la L.C.A. -; oppure siano soggette alla disciplina delle “crisi” di diritto comune – e conseguentemente, in presenza (e solo in presenza) dello stato di insolvenza (al fallimento ovvero) alla liquidazione giudiziale -. 
Per ciò che concerne le imprese appartenenti ai settori economici più importanti (le banche, le imprese che prestano servizi di investimento) la giurisprudenza e la dottrina hanno spesso optato per l’applicabilità della disciplina delle crisi di diritto comune[14]. 
Per espressa disposizione di legge, peraltro, sono esclusivamente assoggettati alla l.c.a (in luogo del fallimento) le società e gli enti che, senza essere autorizzati, svolgono “di fatto” l’attività propria delle società fiduciarie (art. 3 bis D.L. n. 27/1987, convertito dalla l. n. 148/1987), o delle imprese di assicurazione o di riassicurazione (art. 265 D.L. n. 209/2005) – Codice delle Assicurazioni -). 
A parere di chi scrive analoga conclusione dovrebbe essere raggiunta anche per le imprese bancarie (e finanziarie): e ciò sulla base della considerazione che la situazione di illegalità rappresentata dall’esercizio “abusivo” dell’attività bancaria non può essere affrontata con gli strumenti utilizzabili in base al diritto comune. 
Va infatti osservato che in tutte le situazioni nelle quali la “banca di fatto” non versi in stato di insolvenza, la soluzione ricavabile dal diritto comune non è né facile da individuare e perseguire; né particolarmente soddisfacente. In questa ipotesi l’assoggettamento della società al fallimento (oggi: alla liquidazione giudiziale) è ovviamente escluso; le prospettive dell’adozione della liquidazione volontaria o del rilascio successivo dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria sono irrealistiche; l’intervento della sanzione penale non è in condizione di offrire alcun contribuito apprezzabile alla soluzione dei problemi sull’evoluzione della società come persona giuridica e sulla sorte dei rapporti in corso: e forse l’unica via suscettibile di essere intrapresa in questa direzione – attesa l’oggettiva “irregolarità” della situazione – sarebbe quella rappresentata dal complicato ricorso ai provvedimenti previsti dall’art. 2409 c.c. su iniziativa del pubblico ministero. 
Al contrario, ove si ritenesse di propendere per l’applicazione della disciplina speciale delle crisi bancarie, è evidente che il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa potrebbe essere adottato a prescindere dalla insussistenza di elementi negativi di carattere economico, finanziario o patrimoniale. 
Costituiscono presupposti delle procedure speciali bancarie, come è noto, anche le gravi (o gravissime) violazioni di disposizioni legislative, amministrative e statutarie: e l’esercizio dell’attività bancaria senza l’autorizzazione pretesa dalla legge integrerebbe senza possibili discussioni tale presupposto. L’individuazione di possibili rimedi di diritto comune alla situazione provocata dalla scoperta di una banca “abusiva” elude poi il problema interpretativo qui considerato, perché la discussione non verte tanto sul punto se, negata l’applicabilità della disciplina delle crisi delle banche, nessun mezzo di reazione alla situazione illecita descritta sia dato di rinvenire nel diritto comune: bensì – piuttosto – proprio sul punto se sia preferibile la soluzione che indica il ricorso al diritto comune, oppure quella che propende per l’applicazione del diritto speciale bancario. 
La soluzione che si fa preferire, come detto, è la seconda, sia per ragioni di coerenza con quanto viene disposto, per la disciplina di un fenomeno analogo a quello qui considerato, proprio dal menzionato diritto speciale bancario (in materia di “gruppi”, infatti, l’art. 64 D.Lgs. n. 385/1993 prevede che “la Banca d’Italia può procedere d’ufficio all’accertamento dell’esistenza di un gruppo bancario... e può determinare la composizione del gruppo bancario anche in difformità da quanto comunicato dalla capogruppo”); sia per ragioni connesse più in generale alla valutazione dei diversi interessi meritevoli di tutela nella situazione descritta, ed al confronto dei differenti gradi di protezione che ciascuno di essi riceverebbe in conseguenza dell’adozione dell’una o dell’altra delle due soluzioni interpretative possibili. 
Per il gruppo bancario “di fatto” (e per la società facente parte “di fatto” di un gruppo bancario) l’iscrizione d’ufficio nell’Albo (o nel perimetro del gruppo già eventualmente iscritto) assume rilievo, ai fini della valutazione del problema interpretativo qui in discussione, per la circostanza che non in tutti i casi nei quali si prospetta pertinente il ricorso a tale iniziativa possono essere presenti i presupposti, nell’ipotesi di una situazione di “crisi”, per il ricorso (all’amministrazione straordinaria o) alla liquidazione coatta amministrativa. È possibile che il gruppo “di fatto”, o la società facente parte di “fatto” di un gruppo bancario, non versino in alcuna situazione di difficoltà economica, finanziaria, patrimoniale: ed è pure possibile che non abbiano commesso alcuna violazione di leggi, regolamenti, statuti. L’iscrizione d’ufficio persegue allora l’obiettivo di assoggettare per il futuro il gruppo (o la società) alla disciplina (e alla vigilanza) di settore. 
Per la impresa bancaria singola “abusiva”, invece, l’ipotesi di una iscrizione d’ufficio all’Albo di cui all’art. 13 D.Lgs. n. 385/1993, con lo scopo sopra indicato, non è utilmente concepibile, perché la violazione della legge bancaria (oltre che dello statuto), connaturale all’esercizio di attività creditizia non autorizzata, comporta l’immediato necessario assoggettamento alla disciplina delle crisi delle banche (per la ricorrenza del presupposto delle gravissime violazioni di leggi, regolamenti o statuti), riproducendosi la stessa situazione che viene presa in considerazione dall’art. 105 T.U.B., quando per il gruppo bancario “di fatto”, o per la società facente parte “di fatto” di un gruppo bancario, sussista anche uno dei presupposti di assoggettabilità alla disciplina delle crisi bancarie, alla luce dei criteri previsti dalla disciplina di diritto speciale bancario. Se mai si può precisare che per la impresa bancaria “abusiva” singola la violazione della legge appare di per sé talmente grave (o per dire meglio: così incompatibile con la prospettiva del mantenimento dell’impresa all’esercizio dell’attività bancaria), da indirizzare senz’altro verso la soluzione dell’assoggettamento della banca “di fatto” alla liquidazione coatta amministrativa tout court. In questo senso (ma solo in questo senso) potrebbe concludersi che la banca “di fatto” non è soggetta ad amministrazione straordinaria: nel senso, si ripete, che la banca “abusiva” esprime di per sé un fenomeno a tal punto irregolare, da costituire una violazione di legge immediatamente qualificabile come incompatibile con l’autorizzazione all’esercizio dell’attività creditizia (cfr. art. 17, comma 2, lett. a), D.Lgs. 16 novembre 2015, n. 180, richiamato dall’art. 80, comma 1, T.U.B.) –: o per meglio dire, tale da postulare una soluzione repressiva dell’esercizio dell’attività bancaria in forma abusiva. 
Per ciò che concerne, infine, la valutazione delle ragioni di carattere generale che orientano verso la soluzione indicata, occorre considerare che nella alternativa tra disciplina di diritto comune e disciplina di diritto speciale – che si traduce nell’alternativa tra (fallimento ovvero) liquidazione giudiziale e liquidazione coatta amministrativa, ma solo in ipotesi di stato di insolvenza della “banca di fatto”, perché in caso contrario la soluzione di diritto comune (del fallimento ovvero) della liquidazione giudiziale non è prospettabile -, si devono individuare i termini di un conflitto tra ragioni della “proprietà”; e ragioni di ogni altro interessato, che si ritiene debba essere risolto in favore del secondo termine del confronto. 
7 . L’assoggettabilità dell’impresa alla procedura di liquidazione coatta amministrativa per “attrazione” o per “conversione”
Con riguardo al fenomeno della possibile sottoponibilità alla procedura di L.C.A. di imprese che di per sé non vi sarebbero soggette, ma che vi possano divenire in considerazione dei rapporti con imprese che invece lo sono, si deve tenere presente che, in forza di specifiche disposizioni di legge, anche imprese di per sé non assoggettabili a liquidazione coatta amministrativa possono diventarlo in forza della sussistenza di rapporti “di gruppo” con una impresa posta (in quanto di per sé assoggettabile a tale procedura) in liquidazione coatta amministrativa. A tale riguardo la dottrina ha distinto le ipotesi di assoggettamento “per attrazione” e di assoggettamento “per conversione”. 
Nel primo gruppo rientrano le fattispecie in cui imprese, che per la loro natura sarebbero assoggettabili alle procedure concorsuali “di diritto comune”, vengono invece assoggettate a liquidazione coatta amministrativa in ragione della loro appartenenza ad un “gruppo” di imprese “di diritto speciale”. 
Di assoggettamento per “conversione” si parla con riferimento a quelle ipotesi di imprese già assoggettate a procedure concorsuali “di diritto comune” (fallimento; liquidazione giudiziale) che, peraltro, si convertono in liquidazione coatta amministrativa al sopravvenire di determinati accadimenti: che possono consistere anche nello ius superveniens
In questo contesto pare opportuno segnalare l’intervento del legislatore in materia di consorzi agrari. L’art. 9 della legge 23 luglio 2009, n. 99 (“Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”) ha affermato che per i consorzi agrari in L.C.A. per i quali sia accertata la mancanza dei presupposti per il superamento dello stato di insolvenza, e, in ogni caso, in mancanza della presentazione e dell’autorizzazione della proposta di Concordato, “l’autorità amministrativa che vigila sulla liquidazione revoca l’esercizio provvisorio dell’impresa e provvede a rinnovare la nomina dei Commissari liquidatori”. 
L’ordinamento conosce una pluralità di ipotesi nelle quali imprese soggette al diritto concorsuale comune possono risultare, nel caso concreto, soggette invece alla L.C.A. (in caso di insolvenza), non tanto in relazione alla tipologia dell’attività economica esercitata, od alla dimensione, oppure alla “presenza pubblica” nel capitale, eccetera; quanto piuttosto per la sussistenza di “rapporti di gruppo” con una impresa a sua volta soggetta a L.C.A. in relazione al proprio specifico “statuto”. Sono questi i casi delle società (benché di “diritto comune”) appartenenti al “gruppo fiduciario”; al “gruppo bancario”; ed al “gruppo assicurativo”: le quali divengono soggette alla stessa disciplina delle crisi di diritto speciale concernenti la società fiduciaria, l’impresa bancaria, o la Compagnia di Assicurazione facente parte dello stesso “gruppo”, a determinate condizioni. Per queste società si può pertanto parlare di una soggezione alla procedura di L.C.A. “per attrazione”: mentre si deve parlare di una soggezione alla L.C.A. “per conversione” con riguardo alle disposizioni di settore le quali prevedono che le procedure di diritto comune già in corso nei confronti di queste società, e disciplinate fino ad allora dalla legge “fallimentare”, si convertano in procedure di diritto speciale (e segnatamente nella L.C.A.), al sopravvenire di determinati accadimenti: il principale dei quali è rappresentato dall’assoggettamento ad una “procedura di crisi” della società del “gruppo” – ad es. una banca – caratterizzata da una disciplina di diritto speciale. 
Questo fenomeno della “conversione” di fallimenti (e oggi di liquidazioni giudiziali) in corso, in procedure di crisi di diritto speciale, è disposto talora anche in fattispecie nelle quali la trasformazione della procedura si giustifica per ragioni di ius superveniens, cioè per effetto dell’assoggettamento di una determinata categoria di imprese ad una disciplina delle crisi di diritto speciale in luogo delle procedure concorsuali di diritto comune. In questa ottica un esempio di rilievo è stato rappresentato dalla conversione dei fallimenti in corso alla data del 1° luglio 1999 nei confronti di intermediari finanziari “speciali” (gli intermediari finanziari abilitati all’esercizio di taluni servizi di investimento, oppure che avessero raccolto fondi con obbligo di rimborso superiori al patrimonio) nella procedura di L.C.A. propria delle imprese abilitate alla prestazione di servizi di investimento.

Note:

[1] 
R. Fava, Commento all’articolo 93, in Il Codice della crisi. Commentario, a cura di P. Valensise, G. Di Cecco e D. Spagnuolo, Giappichelli, Torino, 2024, osserva che “il legislatore delegato non ha però esercitato la delega, limitandosi a mutuare nel Codice della crisi la disciplina della l.c.a. già contenuta nella L. fall. con qualche modifica per esigenze di coordinamento sistematico all’interno della nuova disciplina”
[2] 
Sulla attribuibilità alla Liquidazione Coatta Amministrativa della natura di procedura concorsuale, pur quando non venga accertato lo stato di decozione, M. Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, Zanichelli, 2017, 543. In argomento v. anche G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, 2 ed., Torino, Giappichelli, 2022, 391 e 399. Lo stesso art. 293, comma 1, CCII definisce la L.C.A. come “il procedimento concorsuale amministrativo che si applica nei casi espressamente previsti dalla legge”. Sulla “nozione di procedura concorsuale” e sulla “cifra attuale della concorsualità” v. S. Ambrosini, Procedure concorsuali: tipologie, caratteri e presupposti, in S. Pacchi e G. Ambrosini, Diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, Zanichelli, 2020, 47 ss. e 50 ss. 
[3] 
Secondo C. Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, Milano, Wolters Kluwer Italia, 2020, 438, “esiste poi – e si lega molto alla prima ragione – la forte interferenza di alcune attività economiche con interessi che trascendono il diritto privato, per il coinvolgimento di interessi generali, se non addirittura pubblici (si pensi all’intermediazione nei mercati regolati, alle stesse imprese bancarie e assicurative, alle cooperative), le quali sono perciò soggette a controlli intensi da parte di autorità amministrative, dalla loro nascita e durante tutto il loro esercizio. L’interferenza intensa con interessi generali genera una diffusa regolamentazione legislativa dell’attività economica dell’imprenditore e una particolare attenzione al suo rispetto da parte di un’autorità amministrativa di vigilanza che, a fronte di gravi violazioni, per irregolarità di gestione, può imporre d’autorità la cessazione della impresa o il trasferimento coatto dell’azienda a soggetto che dia maggiore garanzia di legalità nella gestione, aprendo la via della liquidazione coatta”. 
[4] 
Secondo G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 391, “la finalità primaria della l.c.a. è quella di eliminare dal mercato le imprese che presentino patologie rilevanti, rappresentate dall’insolvenza o da gravi irregolarità di gestione”. Nello stesso senso R. Fava, Commento all’articolo 293, cit., 1582. In senso opposto – almeno ad una prima impressione – C. Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, cit., 437, secondo il quale “le regole economiche, che si impongono all’ordinamento concorsuale, rendono necessario, per evitare turbamenti al mercato dovuti all’insolvenza, che le imprese di grandi dimensioni siano in qualche modo conservate (imprese bancarie e imprese assicurative, ad esempio), anche se non sul piano soggettivo, almeno sul piano oggettivo, con una procedura che, ben prima della riforma della legge fallimentare degli anni 2006 e 2007, regolava la liquidazione in senso stretto mediante la cessione dell’azienda, di un ramo di essa, o di rapporti o situazioni in blocco (differentemente dall’impresa medio – piccola, ove la regola economica imponeva la sua soppressione)”.  
[5] 
In argomento A. Nigro e D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, 4 ed., Bologna, Il Mulino, 2017, 461, secondo i quali “sembra di poter dire che – almeno in generale – la L.C.A. assolve anch’essa, come il fallimento, solo ad una esigenza esecutiva, cioè all’esigenza del soddisfacimento coattivo dei creditori, sia pure realizzando questa esigenza, per ragioni di pubblico interesse legate al tipo di impresa nei cui confronti la stessa è disposta, attraverso un procedimento amministrativo”. 
[6] 
In argomento v. S. Bonfatti, Commento all’articolo 80, in Commentario al Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia, diretto F. Capriglione, 4 ed., II, Milano, CEDAM, 2018, 1082 ss.; G. Cuonzo, Commento all’articolo 80, in Commentario al Testo Unico Bancario, diretto da S. Bonfatti, Pisa, Pacini Giuridica, 2021, 462 ss.; S. Bonfatti, La disciplina delle situazioni di “crisi” degli intermediari finanziari, Milano, Giuffrè, 2021. 
Nei termini sopra rappresentati, con riguardo alle imprese bancarie, Trib. Treviso, 27 gennaio 2018, e App. Venezia, 18 dicembre 2019 (entrambe in BBTC, 2020, II, 256, con nota di C. Canale, L’accertamento dell’insolvenza delle banche alla luce della (nuova) disciplina europea sulla gestione delle crisi bancarie) – che hanno accertato lo stato di insolvenza di Veneto Banca Spa – hanno affermato che la dichiarazione di “dissesto” o di “stato di dissesto” si risolve in un giudizio prognostico diretto a verificare se nel prossimo futuro potrebbero manifestarsi situazioni tali da rendere opportuno il ricorso alla procedura di L.C.A. ovvero di “Risoluzione”. Secondo il giudice di appello “la dichiarazione di “dissesto” o “rischio di dissesto” di una banca consiste in un giudizio prognostico diretto a verificare se “nel prossimo futuro” potrebbero manifestarsi situazioni tali da rendere opportuno il ricorso alla procedura di risoluzione o alla liquidazione coatta amministrativa, con ciò attestandosi come indipendente dall’accertamento dello stato di insolvenza, da cui differisce per presupposti e finalità”. 
[7] 
S. Bonfatti, La disciplina delle situazioni di " crisi " degli intermediari finanziari, Quaderni di giurisprudenza commerciale, n. 436, Giuffrè, Milano, 2021, 7 ss. 
[8] 
Per tutti v. M. Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Zanichelli, Bologna, 2017, 544; B. Armeli, Liquidazione coatta amministrativa, in Fallimentarista.it, 28 maggio 2020; Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, 4 ed., Il Mulino, Bologna, 2017, 462. 
[9] 
In questo senso G. Bonfante, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenzaLa liquidazione coatta amministrativa, in Giur.it, 2019, 1943 ss. 
Per quanto riguarda gli enti pubblici economici, peraltro, occorre tenere presente quanto osservato (con riferimento alla legge fallimentare previgente) da A. Nigro e D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese ecc., cit., 462, secondo i quali “sono soggetti a L.C.A. anche gli enti pubblici economici, anzi, la L.C.A. è l’unica procedura concorsuale ad essi applicabile; peraltro anche per essi occorre una specifica previsione normativa (che, ove si tratti di enti sottoposti a vigilanza dello Stato, può essere rinvenuta nell’art. 15 del D.L. n. 98/2011, per il quale “fatta salva la disciplina speciale vigente per determinate categorie di enti pubblici, quando la situazione economica, finanziarie e patrimoniale di un ente sottoposto alla vigilanza dello Stato raggiunga un livello di criticità tale da non potere assicurare la sostenibilità e l’assolvimento delle funzioni indispensabili, ovvero l’ente stesso non possa fare fronte ai debiti liquidi ed esigibili nei confronti dei terzi, con decreto del Ministero vigilante, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, l’ente è posto in liquidazione coatta”.
[10] 
Secondo M. Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, Zanichelli, 2017, 543, “il catalogo (delle imprese soggette a L.C.A.) è molto eterogeneo e include anche soggetti che con difficoltà possono messere definiti imprenditori, il cui unico minimo comun denominatore è rappresentato dal fatto che nella fase fisiologica dell’attività di questi soggetti è già previsto, per vero con modalità assai variegate, un controllo da parte di un’autorità che esercita la vigilanza”. 
[11] 
In argomento v. ora R. Fava, Commento all’articolo 293, cit., 1583. 
[12] 
V. Cusa, Le cooperative sociali come doverose imprese sociali, in NLCC, 2019, 948 ss.; G. Bonfante, Codice della Crisi d’Impresa ecc., cit., 1943 ss. 
[13] 
In argomento v. S. Bonfatti, Commento all’articolo 80, in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da F. Capriglione, 4 ed., II, Padova, 2018, 1085 ss. e 1107 ss.; G. Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 206; R. Fava, Commento all’articolo 293, cit., 1584. 
A. Nigro e D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese ecc., cit., 463, declinano il principio sopra rappresentato in questi termini: “Mentre per l’apertura del fallimento è richiesta la manifestazione dello stato di insolvenza, per la L.C.A. il presupposto oggettivo è stabilito dalle singole leggi speciali (art. 2, comma 1) ed è volta a volta diverso. In linea generale, comunque, i (possibili) presupposti oggettivi possono raggrupparsi in tre categorie:     
- violazioni di leggi o di regolamenti o irregolarità gestionali; 
- non conformità dell’attività esercitata all’interesse generale; 
- perdite patrimoniali”. 
[14] 
Trib. Brindisi, 16 aprile 1996, in BBTC, 1997, II, 97 ss.; Trib. Venezia, 15 luglio 1999, in Fall., 2000, 1039; L. Panzani, Banca di fatto e fallimento, in Fall., 1006, 321; F. Capriglione, Le problematiche della “banca di fatto” dopo il d. lg. n. 385/1993, in NLCC, 1997, II, 50. 

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Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

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