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La continuità aziendale e la sua pervasività nell’ordinamento civilistico italiano e dintorni: “Tutto ciò che è, è il risultato di ciò che abbiamo pensato”

Salvatore Marceca, Avvocato in Milano

7 Maggio 2025

Il principio di continuità aziendale, tradizionalmente legato al diritto concorsuale e contabile, ha assunto un ruolo centrale nella normativa italiana ed europea sulla crisi d’impresa, come dimostrano il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) e la Direttiva (UE) 2019/1023. Questa indagine esplora la possibilità di estenderne l’applicazione oltre l’ambito fallimentare, proponendone una valorizzazione anche in settori del diritto civile, quali il diritto successorio e quello delle locazioni commerciali. L’analisi mira a dimostrare come la continuità aziendale possa diventare un principio sistemico dell’ordinamento, funzionale non solo alla gestione, ma anche alla prevenzione della crisi, favorendo la stabilità economica e la salvaguardia del valore dell’impresa.
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1 . Introduzione
Le riflessioni in corso sulla Disciplina della Crisi guardano con attenzione la continuità aziendale che appare un concetto pervasivo in una pluralità di istituti giuridici tale da costituire un riferimento sistemico dell’ordinamento. 
Il presente studio intende quindi vagliare la possibilità e l’opportunità di estendere il principio di continuità aziendale oltre l’ambito del diritto concorsuale e ad altri rami dell’ordinamento civilistico. Il principio di continuità aziendale, fondamentale nell'ordinamento economico e contabile, è diventato una pietra angolare della legislazione europea e nazionale in materia di insolvenza e crisi d'impresa. In particolare, con l'introduzione del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza (CCII) in Italia, e la Direttiva 2019/1023 sull'insolvenza a livello europeo, il concetto di continuità aziendale si è consolidato come uno degli elementi chiave nella gestione delle crisi aziendali, al precipuo scopo di evitare la liquidazione prematura delle imprese, promuovendo la ristrutturazione e la salvaguardia del valore economico delle attività aziendali. 
Sinora, questo principio ha tuttavia trovato limitate applicazioni nell’ambito del diritto civile, ed è stato anzi del tutto trascurato. 
La tesi avanzata in questo studio è che il principio della continuità aziendale non si limita alle normative fallimentari. Al contrario, esso si è ormai elevato a principio economico e giuridico cardine del nostro ordinamento, la cui portata precettiva va oltre il mero ambito concorsuale e che può, ed anzi deve essere applicato anche in altri settori del diritto civile, ove la tutela dell'attività economica è essenziale. 
Il presente lavoro si prefigge di esplorare la possibilità di estensione del principio della continuità aziendale in ambiti come il diritto successorio e il diritto delle locazioni commerciali. Questa applicazione estensiva è suscettibile di garantire la protezione dell’impresa anche in contesti non legati alla crisi finanziaria, ovvero di prevenirla. Tale estensione trova giustificazione attraverso diverse interpretazioni ermeneutiche, che rispondono sia alla necessità di tutelare l’equilibrio e la stabilità economica, sia alla flessibilità dell’ordinamento giuridico nell’adattarsi alle nuove dinamiche economiche. 
In particolare, attraverso un'analisi normativa, dottrinale e giurisprudenziale, questo contributo propone un'interpretazione sistematica che concili gli interessi privati con la tutela della stabilità economica dell'impresa. In tale prospettiva, viene esaminato anche il ruolo del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza (CCII) nel consolidare l'importanza della continuità aziendale e nel fornire strumenti di protezione per le imprese coinvolte in processi successori. 
2 . Il principio della continuità aziendale nella recente riforma europea e italiana del diritto della crisi d’impresa
Nella dottrina economico-aziendale il concetto di continuità aziendale (going concern) è considerato un assunto in virtù del quale si presume che l’azienda debba continuare ad esistere[1]. L’attitudine a perdurare è propria dell’istituto, che svolge, in continua evoluzione[2], l’attività produttiva finalizzata alla creazione di valore per una ampia varietà di stakeholders
Come più volte rilevato dalla dottrina, infatti, la continuità e lo sviluppo di un’azienda «hanno un valore non solo per i suoi membri attuali, ma anche per i suoi membri potenziali futuri e per la collettività in generale»[3]. 
È l’esercizio di un’attività economica, con le sue esigenze dinamiche, il suo impatto sul mondo esterno e il coinvolgimento sempre più intenso di interessi di terzi, estranei alla sfera dei soci, ad esigere l’adozione normativa di strumenti rafforzativi degli assetti patrimoniali e delle strutture organizzative imprenditoriali. Strumenti che, senza negare il contratto come momento genetico del fenomeno e regolamento di base del rapporto tra i soci, consentono di superarlo, per adottare quando occorre una normativa diretta a tutelare interessi che trascendono l’interesse contrattuale dei soci e favorire la conservazione del patrimonio destinato all’esercizio dell’attività economica e la continuità di questa. 
Il principio di continuità aziendale ha subito un'evoluzione significativa nel corso del tempo, riflettendo i cambiamenti storici nel contesto economico e normativo. La legge fallimentare, emanata in un contesto storico ed economico caratterizzato da una visione fortemente conservativa dell’impresa e dei rapporti economici, nella sua versione originaria non prendeva in considerazione la continuità aziendale. La normativa era basata su un’impostazione liquidatoria, concependo l’insolvenza dell’imprenditore come una situazione irreversibile da risolvere attraverso la cessazione dell’attività, l’estromissione dell’impresa dal mercato e la suddivisione dell’attivo tra i creditori. Il principio di continuità aziendale era, in questa fase, sostanzialmente assente, salvo alcune sporadiche disposizioni che consentivano la cessione dell’azienda in esercizio nell’ambito della liquidazione fallimentare. Così, ad esempio, il concordato preventivo, nella sua formulazione originaria, offriva un’alternativa al fallimento ma non era strutturato per incentivare la prosecuzione dell’attività, limitandosi a una regolazione della crisi a vantaggio dei creditori. La legge, infatti, prevedeva che l’unica alternativa reale alla liquidazione fosse l’accordo con i creditori, ma senza una vera disciplina per la gestione della crisi in ottica di continuità: e ciò appunto in quanto la tutela principale era rivolta ai creditori piuttosto che alla sopravvivenza dell’impresa. 
Il primo riconoscimento normativo del principio di continuità aziendale in Italia si ha con il D.Lgs. 127/1991, che ha recepito la IV Direttiva CEE. Questa norma, che ha voluto affermare in modo espresso e chiarire alcuni principi che erano già considerati impliciti nell’ordinamento[4], ha formalmente introdotto il principio di continuità aziendale nell’art. 2423 bis c.c., che disciplina i “principi di redazione del bilancio” stabilendo, tra le altre cose, che la valutazione delle voci di bilancio deve avvenire nella prospettiva della continuazione dell’attività. Questo principio impone che la valutazione delle voci del bilancio di esercizio deve essere condotta nella prospettiva della continuazione dell’attività, e quindi tenendo conto del fatto che l’azienda costituisce un complesso economico funzionante e destinato alla produzione di reddito. La continuità aziendale rappresenta quindi il presupposto necessario affinché possano utilizzarsi i criteri ordinari nella redazione dei bilanci d’esercizio e al tempo stesso “qualifica” la regolarità dell’informativa di bilancio e con essa la veritiera e corretta rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa nel suo insieme. A tal fine occorre appunto che l’impresa prosegua nel suo normale corso, senza che vi siano l’intenzione o la necessità di porla in liquidazione o di cessare l’attività. 
Con l’introduzione di questa norma, per la prima volta la continuità aziendale assurge dunque a valore pubblico da rispettare. 
Il principio della tutela della continuità aziendale è venuto peraltro via via rafforzandosi nel tempo con una serie di interventi del Legislatore in tal senso, e costituisce oggi un principio economico e giuridico fondamentale del nostro ordinamento. Ed infatti gli obiettivi microeconomici di favorire la nascita di nuove imprese e la competitività delle imprese nel mercato, di conservare e potenziare le organizzazioni imprenditoriali, singole e di gruppo, e di migliorarne l’operatività sono stati ampiamente invocati e sbandierati nei programmi di riforma del diritto societario e concorsuale a partire dalla metà degli anni 2000, che hanno via via innovato la Legge fallimentare. 
È però solo sulla spinta del diritto Europeo che il principio della continuità aziendale è venuto ad assurgere a principio economico cardine dell’ordinamento. 
Come noto, la Direttiva Insolvency (Direttiva UE 2019/1023) ha introdotto un quadro normativo armonizzato per la prevenzione e la gestione della crisi d’impresa nei paesi membri dell’Unione Europea. Uno degli aspetti centrali della Direttiva è la promozione della continuità aziendale come obiettivo prioritario nelle procedure di ristrutturazione preventiva, imponendo agli Stati membri di privilegiare la ristrutturazione rispetto alla liquidazione. 
A questo fine, la Direttiva prevede innanzitutto che gli Stati membri debbano garantire l’accesso a strumenti di ristrutturazione che permettano alle imprese in difficoltà finanziaria di evitare l’insolvenza e di preservare la continuità aziendale[5]. E così, in particolare, questi strumenti devono i) consentire all’imprenditore di mantenere il controllo sulla gestione dell’impresa durante la ristrutturazione (c.d. debtor-in-possession)[6]; ii) prevedere che i piani di ristrutturazione possano essere approvati anche contro il volere di alcune classi di creditori (cross-class cram-down), purché garantiscano un trattamento equo e favoriscano la continuità aziendale[7]; iii) prevedere una sospensione temporanea delle azioni esecutive da parte dei creditori per consentire il buon esito della ristrutturazione[8]; iv) garantire la conservazione dei contratti essenziali per la continuità aziendale, impedendo ai creditori di risolvere contratti strategici (come forniture di energia o licenze software)[9]; v) favorire l’accesso a nuova finanza per favorire la prosecuzione dell’attività durante la ristrutturazione. 
In secondo luogo, la Direttiva ha altresì imposto agli Stati membri di adottare sistemi di allerta precoce per consentire agli imprenditori di individuare tempestivamente segnali di crisi e attivare misure di risanamento (c.d. early warning tools), al fine di prevenire ed evitare lo stato di insolvenza e tutelare la continuità aziendale. 
Nell’ottica di adeguamento all’ordinamento eurounitario, il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza ha dunque costituito una vera e propria rivoluzione copernicana nella disciplina giuridica delle imprese in difficoltà, riconoscendo esplicitamente il principio di continuità come valore primario da preservare[10]. L’obiettivo principale del nuovo impianto normativo è infatti quello di favorire la ristrutturazione piuttosto che la liquidazione, promuovendo la gestione proattiva della crisi e riducendo gli effetti negativi sulle parti interessate. 
A questo fine, il CCII ha introdotto strumenti volti alla diagnosi precoce della crisi e alla predisposizione di misure di risanamento, tra cui: i) l’obbligo per l’imprenditore di adottare assetti organizzativi adeguati alla rilevazione tempestiva della crisi (art. 2086 c.c., come modificato dal CCII); il rafforzamento delle misure di allerta e degli strumenti di composizione assistita della crisi, volti a incentivare soluzioni che garantiscano la prosecuzione dell’attività aziendale; l’ulteriore rafforzamento del concordato preventivo con continuità aziendale (art. 84 CCII), che prevede incentivi normativi per le imprese che dimostrano la possibilità di proseguire la loro attività, anche parzialmente, a beneficio dell’occupazione e dei creditori; il riconoscimento della continuità aziendale come criterio guida anche nelle procedure liquidatorie, ove compatibile, con possibilità di cessione dell’azienda in esercizio. 
Dall’entrata in vigore del CCII l’imprenditore, sia individuale che collettivo, sia commerciale che agricolo, non potrà più limitarsi a consuntivare l’andamento aziendale tramite la tenuta della contabilità ordinaria, ma sarà tenuto a dotarsi di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati a prevedere gli andamenti aziendali, economici, patrimoniali e finanziari, con particolare riferimento al budget di tesoreria, che misura l’adeguatezza dei flussi di cassa a far fronte alle obbligazioni programmate. La visione prognostica degli andamenti dei cicli aziendali è indispensabile al fine della valutazione della continuità aziendale. In caso di incertezze sul mantenimento della continuità aziendale, è obbligo degli amministratori attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il recupero della continuità aziendale. 
In analogo modello, con la novella del 2022 la trama delle principali norme in tema di concordato preventivo è stata riannodata ai fili della Direttiva “insolvency”, gli artt. 84-87 CCII hanno cambiato volto ed il concordato «si veste dell’habitus eurounitario della viability»[11]. 
Come è stato sottolineato dalla dottrina, infatti, «la nuova inclinazione del sistema nasce da una presa d’atto» per cui «la cessazione dell’attività economica deprima il valore del patrimonio dell’impresa perché fa evaporare gli investimenti programmati e gli affari in itinere, travolge gli intangibles e comporta l’immediata svalutazione dei crediti». Pertanto, «la continuità aziendale appare per ciò stesso un obiettivo cui ambire ogni qualvolta l’impresa si mostri sostenibile, ossia capace di tornare a produrre utili in un tempo prospetticamente ristretto»[12]. 
Similmente, il titolo IV del CCII detta la disciplina degli Strumenti di regolazione della crisi agli articoli dal 56 al 120. Si tratta di una serie definita di strumenti che hanno come scopo prioritario la salvaguardia della continuità aziendale ad esito del superamento della crisi d’impresa o dell’insolvenza “reversibile”[13]. 
L’evoluzione normativa descritta ha trasformato la continuità aziendale in un principio generale dell’ordinamento giuridico, con riflessi non solo nel diritto concorsuale, ma anche nel diritto societario e nella governance d’impresa. La continuità non è più considerata solo un criterio contabile o un’opzione per le imprese in crisi, ma un dovere degli organi gestionali, con conseguenze significative in termini di responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo. Questa nuova veste del principio di continuità aziendale ne consente l’estensione, per il tramite dello strumento dell’interpretazione teleologica e sistematica, ad altri rami del diritto civile. 
3 . Continuità aziendale e diritto successorio
Uno degli ambiti in cui questo “nuovo” principio della continuità aziendale dovrebbe trovare applicazione, al fine anche di adeguare attraverso lo strumento ermeneutico norme codicistiche evidentemente “vetuste” che riflettono un assetto economico-sociale non più al passo coi tempi, è quello del diritto successorio. Mi riferisco, in particolare, alla norma di cui all’art. 729 c.c. che, in tema di divisione ereditaria, stabilisce che «l’assegnazione delle porzioni eguali è fatta mediante estrazione a sorte». Questa disposizione prevede un meccanismo aleatorio per l’assegnazione dei beni indivisibili, senza considerare l'eventuale destinazione commerciale degli stessi. 
Il principio dell'estrazione a sorte ex art. 729 c.c. risale a un periodo storico in cui la struttura economica e sociale era profondamente diversa da quella attuale. In un contesto prevalentemente agricolo e caratterizzato da una gestione patrimoniale statica, il legislatore del codice civile ha introdotto un criterio aleatorio per garantire un'equa distribuzione dei beni tra gli eredi. La ratio della norma in esame e del ricorso al metodo del caso infatti risiedeva infatti nella «necessità di garantire non solo l’eguaglianza in entrata tra le parti ereditarie e la trasparenza, ma anche l’imparzialità delle operazioni divisionali nel momento in cui deve procedersi all’attribuzione delle porzioni ai singoli condividenti, assicurando correttezza ed equilibrio all'intero procedimento di divisione ed evitando qualsiasi tipo di favoritismo e pratiche opportunistiche»[14]. 
Nell’attuale sistema economico, caratterizzato da una forte componente imprenditoriale e in cui sono ormai gli asset immateriali, e non più la terra e le proprietà immobiliari a guidare l’economia, il meccanismo dell'estrazione a sorte dei lotti appare anacronistico e potenzialmente dannoso. E ciò soprattutto laddove la giurisprudenza si arrocchi dietro un’interpretazione meramente letteraria e restrittiva della stessa, riconoscendo al criterio del sorteggio carattere assolutamente inderogabile. 
Una lettura evolutiva dell’art. 729 c.c. suggerisce allora la possibilità di derogare all'estrazione a sorte laddove ragioni di opportunità lo giustifichino. La giurisprudenza ha in alcuni casi valorizzato la funzione economica dei beni ereditari, ammettendo soluzioni alternative volte a tutelare l'attività d'impresa. Tra le possibili deroghe, si segnala la prevalenza dell'erede già coinvolto nella gestione aziendale o la previsione di un conguaglio economico per riequilibrare le posizioni patrimoniali. Inoltre, il CCII prevede meccanismi di protezione per le imprese in crisi che potrebbero ispirare soluzioni analoghe per evitare che la successione metta a rischio la continuità dell'attività. 
L'evoluzione normativa ha riconosciuto il valore dell'impresa non solo come patrimonio economico, ma anche come elemento fondamentale per il mantenimento dell'occupazione e dello sviluppo economico. Il CCII, con le sue disposizioni volte a preservare la continuità aziendale anche in situazioni di crisi, rafforza la necessità di una lettura evolutiva dell'art. 729 c.c., al fine di evitare soluzioni arbitrarie che potrebbero compromettere la stabilità di un'impresa familiare. 
Alla luce di queste considerazioni, si rende necessaria un'interpretazione teleologica e sistematica della norma, che tenga conto delle esigenze economiche e della necessità di assicurare la continuità delle attività produttive. L'assegnazione dell'impresa a un coerede già attivo nella gestione aziendale, con opportuni conguagli per gli altri eredi, rappresenta una soluzione maggiormente coerente con l'attuale assetto economico e con i principi introdotti dal CCII. 
4 . Continuità aziendale e locazioni commerciali
Un secondo ambito in cui il principio di continuità aziendale dovrebbe trovare applicazione indipendentemente dallo stato di crisi dell’impresa è, se ben vedo, quello delle locazioni commerciali. 
Come noto, differentemente da quanto accade per le locazioni ad uso abitativo[15], per il caso delle locazioni ad uso commerciale la legge non riconosce il c.d. periodo di grazia in capo al conduttore per sanare la propria posizione debitoria circa i canoni di locazione ed evitare l’intimazione di sfratto. 
Attualmente, nel caso delle locazioni ad uso commerciali il diritto del locatore di risolvere il contratto per morosità del conduttore è dunque preminente e non ammette limitazioni. Tuttavia, il principio di continuità aziendale potrebbe essere esteso in via interpretativa per bilanciare gli interessi in gioco, proteggendo l’impresa conduttrice e l’ecosistema economico connesso alla sua attività. 
Questo argomento si base sul postulato che la locazione commerciale non è solo un rapporto sinallagmatico tra privati, ma un contratto che incide sul tessuto economico e sulla stabilità dell’occupazione, e quindi dovrebbe essere soggetto a limiti interpretativi in situazioni di crisi. Ed infatti, la funzione economica del contratto di locazione commerciale non si esaurisce nella semplice concessione dell’immobile, ma si inserisce nel più ampio sistema della tutela dell’attività d’impresa e dell’occupazione. La locazione commerciale non riguarda solo locatore e conduttore, ma ha effetti sociali ed economici più ampi; e ciò è tanto più vero quando essa coinvolge attività di rilevanza strategica, come negozi storici, servizi pubblici locali, o imprese con numerosi dipendenti. 
La tesi qui di seguito esposta propone quindi un nuovo criterio di bilanciamento tra i diritti del locatore e l’impatto economico e occupazionale della cessazione della locazione. 
Il CCII contiene già diverse norme che, in caso di crisi di impresa, possono essere invocate per evitare che l’impresa debba abbandonare i propri locali commerciali e quindi, di fatto, cessare la propria attività. Tra queste norme ricordo innanzitutto quella di cui all’art. 18, ai sensi della quale l’imprenditore che accede alla composizione negoziata della crisi può ottenere misure protettive, tra cui la sospensione delle azioni esecutive e dei pagamenti. In base a questa norma, se il conduttore dimostra che il pagamento immediato del canone comprometterebbe la continuità aziendale, può negoziare con il locatore una dilazione o un periodo di grazia con il supporto dell’esperto della composizione negoziata. 
Richiamo poi in secondo luogo l’’art. 95 CCII, che stabilisce che la dichiarazione di insolvenza non comporta automaticamente la risoluzione dei contratti di locazione. Questa norma reca un principio a favore della mantenibilità del contratto, anche con una sospensione temporanea del canone per favorire la ripresa dell’attività. 
Infine, l’art. 84 CCII prevede che se l’impresa in crisi propone un concordato preventivo in continuità aziendale, questo può prevedere un differimento nei pagamenti, compresi quelli relativi alla locazione. In queste ipotesi, il tribunale potrebbe quindi concedere un periodo di moratoria sui canoni di locazione per permettere il riequilibrio dell’impresa. 
Orbene, se questi principi si applicano all’impresa che sia già in stato di crisi, non si vede perché essi non dovrebbero trovare applicazione a fortiori anche all’impresa che non è ancora in stato di crisi ma che, a causa di un possibile sfratto dai propri locali commerciali, potrebbe vedere la propria situazione economico-patrimoniale aggravarsi a tal punto da divenire insolvente. 
Questa estensione è peraltro suggerita da una rilettura evolutiva e teleologica di alcune norme del codice civile alla luce del principio della continuità aziendale. 
In primo luogo, il principio di buona fede contrattuale (art. 1375 c.c.) e la funzione sociale del contratto possono essere riletti alla luce del CCII per imporre un dovere di collaborazione del locatore con il conduttore commerciale (anche non ancora) in crisi. Il locatore, in altre parole, non dovrebbe poter risolvere il contratto in modo immediato e automatico per morosità se il conduttore dimostra che ciò comprometterebbe la continuità aziendale e la ripresa dell’attività. 
In secondo luogo, l’art. 1455 c.c. stabilisce che il contratto non si può risolvere per inadempimento se l’inadempienza è di scarsa importanza, considerando l’interesse della controparte. Applicato alla locazione commerciale, si potrebbe sostenere che un ritardo nei pagamenti non giustifica automaticamente la risoluzione se l’impresa ha prospettive di ripresa e lo sfratto metterebbe in pericolo la sua continuità aziendale. Il giudice potrebbe valutare la proporzionalità tra il danno subito dal locatore e le conseguenze economiche dello sfratto per l’impresa e l’occupazione. 
In terzo luogo, l’art. 1256 c.c. in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione stabilisce, al secondo comma, che «Se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento». Pertanto, se il conduttore commerciale dimostra che una crisi economica imprevista ha reso temporaneamente impossibile il pagamento del canone (es. emergenze economiche, crisi di settore, pandemie), il suo obbligo di pagamento dovrebbe essere sospeso fino al superamento della difficoltà. Questo potrebbe essere letto in parallelo con il principio di continuità aziendale, per giungere alla conclusione che se l’attività è in difficoltà ma ha concrete possibilità di ripresa, lo sfratto non dovrebbe essere concesso ed un periodo di grazia dovrebbe essere accordato. 
In quarto luogo, richiamo alcuni principi contrattualistici in tema di eccessività onerosità sopravvenuta. Come noto, ai sensi dell’art. 1467 c.c., se un evento straordinario e imprevedibile (es. crisi economica settoriale) rende il pagamento del canone eccessivamente oneroso, il conduttore può chiedere la risoluzione del contratto. Tuttavia, la medesima norma prevede che l’altro contraente possa evitare la risoluzione offrendo una modifica equa delle condizioni contrattuali. 
Applicato alla locazione commerciale, si potrebbe sostenere che il locatore debba accettare soluzioni alternative allo sfratto, come una rinegoziazione temporanea del canone, per tutelare la continuità aziendale del conduttore. 
Infine, in una prospettiva collegata, l’art. 2560 c.c. prevede che se un’impresa in crisi cede la propria azienda, i debiti (inclusi quelli verso il locatore) passano all’acquirente salvo patto contrario. Questo significa che, se la locazione commerciale è essenziale per l’attività, lo sfratto potrebbe pregiudicare il valore della cessione aziendale, rendendo più difficile la continuità dell’impresa. Si potrebbe quindi sostenere che, in caso di crisi d’impresa, il locatore dovrebbe accettare una temporanea sospensione dello sfratto per consentire una cessione aziendale che garantisca la continuità dell’attività e il pagamento dei debiti pregressi. 
5 . Conclusioni
Questo breve contributo nell’intenzione dell’autore intenderebbe attirare l’attenzione sia della dottrina sia della giurisprudenza su un universo di situazioni che possono essere interessate dal concetto della continuità aziendale. Le mutate odierne situazioni fattuali e giuridiche, fatte proprie dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) suggeriscono di verificare nel profondo come si staglia ora l’impresa riguardata nella sua continuità, quale forza stabile e pervasiva, operante nell’attività economica organizzata. La verticalizzazione del principio in esame trascende in tal modo la materia concorsuale, per impattare, al passo con i tempi, quantomeno nelle discipline del diritto civile. 

I casi in via esemplificativa più sopra richiamati quale l'applicazione del principio di continuità aziendale agli istituti del diritto successorio e delle locazioni commerciali si rivela uno strumento interpretativo e operativo di particolare rilevanza, soprattutto nel contesto della trasmissione intergenerazionale dell'impresa e della salvaguardia del valore economico-sociale dell'attività imprenditoriale. 

Note:

[1] 
Come rileva D. Amodeo, Ragioneria generale delle imprese, Cedam, Padova, 2003, 12, il concetto di continuità è immanente alla definizione di azienda, percepita «come un istituto […] duraturo». Con riferimento ai caratteri distintivi dell’azienda «la dottrina più avveduta li considera elementi di un nucleo centrale […], tra loro strettamente collegati, che consentono all’azienda non solo di essere tale, ma anche di conservare la condizione d’esistenza fondamentale ed essenziale, che è la durabilità, ovvero la continuità del suo funzionamento in prospettiva del tempo» (Cosi L. Potito, Economia aziendale, Giappichelli, Torino, 2020, 4). 
[2] 
Secondo P. Capaldo, L’azienda centro di produzione, Giuffrè, Milano, 2013, 79, «se non si può affermare […] che il fine dell’azienda è la sua sopravvivenza, si può, invece, senz’altro affermare che l’azienda ha una tendenza innata, congenita – si potrebbe dire una sua “vocazione” – a vivere indefinitamente». 
[3] 
G. Airoldi et al., Corso di economia aziendale, Bologna, Il Mulino, 163. In questo senso v. anche Quagli, Bilancio, 6: «Tutti hanno interesse affinché l’azienda continui a vivere e, possibilmente a prosperare. […] Questi soggetti […] necessitano di informazioni per valutare la capacità dell’azienda di garantire il soddisfacimento dei propri interessi (…) e tutti i soggetti richiedono in primo luogo la valutazione di sintesi della capacità dell’azienda di mantenersi in equilibrio economico, durevole condizione di esistenza delle aziende».
[4] 
Per un commento a questa norma v. R. Santini, Sub art. 2423-bis, in Cian – Trabucchi (a cura di), Commentario breve al Codice Civile
[5] 
Art. 4(1) Direttiva Insolvency: «Gli Stati membri provvedono affinché, qualora sussista una probabilità di insolvenza, il debitore abbia accesso a un quadro di ristrutturazione preventiva che gli consenta la ristrutturazione, al fine di impedire l'insolvenza e di assicurare la loro sostenibilità economica, fatte salve altre soluzioni volte a evitare l'insolvenza, così da tutelare i posti di lavoro e preservare l'attività imprenditoriale». 
[6] 
Art. 5(1) Direttiva Insolvency: «Gli Stati membri provvedono affinché il debitore che accede alle procedure di ristrutturazione preventiva mantenga il controllo totale o almeno parziale dei suoi attivi e della gestione corrente dell'impresa». 
[7] 
Art. 11 Direttiva Insolvency
[8] 
Art. 6(1) Direttiva Insolvency: «Gli Stati membri provvedono affinché il debitore possa beneficiare della sospensione delle azioni esecutive individuali al fine di agevolare le trattative sul piano di ristrutturazione nel contesto di un quadro di ristrutturazione preventiva. L 172/40 IT Gazzetta ufficiale dell'Unione europea 26.6.2019 Gli Stati membri possono prevedere che le autorità giudiziarie o amministrative abbiano la facoltà di rifiutare la concessione di una sospensione delle azioni esecutive individuali qualora tale sospensione non sia necessaria o non consegua l'obiettivo di cui al primo comma». 
[9] 
Art. 7(4) Direttiva Insolvency: «Gli Stati membri prevedono norme che impediscono ai creditori cui si applica la sospensione di rifiutare l'adempimento dei contratti pendenti essenziali, o di risolverli, anticiparne la scadenza o modificarli in altro modo a danno del debitore, in relazione ai debiti sorti prima della sospensione, per la sola ragione di non essere stati pagati dal debitore. I contratti pendenti essenziali devono essere intesi come i contratti pendenti necessari per la continuazione della gestione corrente dell'impresa, inclusi i contratti relativi alle forniture la cui interruzione comporterebbe la paralisi dell'attività del debitore. Il primo comma non impedisce agli Stati membri di conferire a tali creditori adeguate garanzie per evitare che subiscano un ingiusto pregiudizio in conseguenza di tale comma. Gli Stati membri possono prevedere che il presente paragrafo si applichi a contratti pendenti non essenziali».
[10] 
Sul principio di continuità nel CCII v. R. Rordorf, Crisi, continuità aziendale, adeguati assetti organizzativi, composizione negoziata: le parole chiave del nuovo Codice (una prefazione), 2, il quale sottolinea come il Codice abbia «la propensione ad allontanarsi da soluzioni cui una volta corrispondeva una sorta di morte civile, definitiva ed irreversibile, in favore di scenari nei quale anche l’insolvente conservi delle possibilità di recupero ed i valori residui dell’impresa non siano necessariamente votato alla dispersione». Sul tema v. anche M. E. Chiari, La prioritaria rilevanza della continuità aziendale negli strumenti del Codice della crisi, in questa Rivista 2023.
[11] 
S. Leuzzi, op. cit., 12. Sull’importanza della continuità aziendale nel concordato preventivo come delineato dal nuovo CCII v. Ambrosini, Brevi appunti sulla nuova “sintassi” del concordato preventivo, in Ristrutturazioni aziendali, 9 maggio 2022; M. Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Il Fall. 2918, 855 ss.; F. D’angelo, Il concordato preventivo con continuità aziendale nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Dir. fall. 2020, 27 ss.; M. Fabiani, Il concordato con piano di continuità dopo il Codice della crisi, in Foro it. 2020, V, 45 ss.; V. Pinto, La fattispecie di continuità aziendale nel concordato nel Codice della crisi, in Giur. comm. 2020, I, 396 ss.
[12] 
S. Leuzzi, op. cit., 12. 
[13] 
Gli strumenti previsti dal Codice a tal fine sono i seguenti: piano attestato di risanamento ex art. 56 CCII; Accordi di ristrutturazione dei debiti in continuità ex artt. 57-61 CCII; Convenzioni di moratoria ex art. 62 CCII; Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione ex artt.64 bis e 64 quater CCII; Procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento con particolare riferimento al concordato minore; Concordato preventivo in continuità ex art. 84 e ss. CCII). 
[14] 
In senso analogo si sono espressi A. De Donato, La divisione a domanda congiunta, in Rivista del notariato 2014, 1083-1084; G. Amodio, La divisione-Disposizioni generali, in N. Lipari, P. Rescigno (coordinato da), Diritto civile, II, Milano, Giuffré, 2009, 280; F. Venosta, sub Articolo 729, in V. Cuffaro, V. Delfini (a cura di), Commentario del codice civile, Torino, Utet, 2009, p. 143. G. Pavanini, voce Divisione giudiziale, in Enc. dir., XIII, Milano, Giuffré, 1964, 477. 
[15] 
L’art. 55 L. 392/1978 prevede un termine di grazia in caso di morosità: se il conduttore non paga l’affitto, può evitare lo sfratto pagando il dovuto entro 90 giorni dalla convalida dell’intimazione di sfratto, se il giudice lo concede. 
Questa possibilità è ammessa solo una volta nell’arco dello stesso rapporto di locazione. 

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Articoli 12 e ss. del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR)

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