Nella dottrina economico-aziendale il concetto di continuità aziendale (going concern) è considerato un assunto in virtù del quale si presume che l’azienda debba continuare ad esistere[1]. L’attitudine a perdurare è propria dell’istituto, che svolge, in continua evoluzione[2], l’attività produttiva finalizzata alla creazione di valore per una ampia varietà di stakeholders.
Come più volte rilevato dalla dottrina, infatti, la continuità e lo sviluppo di un’azienda «hanno un valore non solo per i suoi membri attuali, ma anche per i suoi membri potenziali futuri e per la collettività in generale»[3].
È l’esercizio di un’attività economica, con le sue esigenze dinamiche, il suo impatto sul mondo esterno e il coinvolgimento sempre più intenso di interessi di terzi, estranei alla sfera dei soci, ad esigere l’adozione normativa di strumenti rafforzativi degli assetti patrimoniali e delle strutture organizzative imprenditoriali. Strumenti che, senza negare il contratto come momento genetico del fenomeno e regolamento di base del rapporto tra i soci, consentono di superarlo, per adottare quando occorre una normativa diretta a tutelare interessi che trascendono l’interesse contrattuale dei soci e favorire la conservazione del patrimonio destinato all’esercizio dell’attività economica e la continuità di questa.
Il principio di continuità aziendale ha subito un'evoluzione significativa nel corso del tempo, riflettendo i cambiamenti storici nel contesto economico e normativo. La legge fallimentare, emanata in un contesto storico ed economico caratterizzato da una visione fortemente conservativa dell’impresa e dei rapporti economici, nella sua versione originaria non prendeva in considerazione la continuità aziendale. La normativa era basata su un’impostazione liquidatoria, concependo l’insolvenza dell’imprenditore come una situazione irreversibile da risolvere attraverso la cessazione dell’attività, l’estromissione dell’impresa dal mercato e la suddivisione dell’attivo tra i creditori. Il principio di continuità aziendale era, in questa fase, sostanzialmente assente, salvo alcune sporadiche disposizioni che consentivano la cessione dell’azienda in esercizio nell’ambito della liquidazione fallimentare. Così, ad esempio, il concordato preventivo, nella sua formulazione originaria, offriva un’alternativa al fallimento ma non era strutturato per incentivare la prosecuzione dell’attività, limitandosi a una regolazione della crisi a vantaggio dei creditori. La legge, infatti, prevedeva che l’unica alternativa reale alla liquidazione fosse l’accordo con i creditori, ma senza una vera disciplina per la gestione della crisi in ottica di continuità: e ciò appunto in quanto la tutela principale era rivolta ai creditori piuttosto che alla sopravvivenza dell’impresa.
Il primo riconoscimento normativo del principio di continuità aziendale in Italia si ha con il D.Lgs. 127/1991, che ha recepito la IV Direttiva CEE. Questa norma, che ha voluto affermare in modo espresso e chiarire alcuni principi che erano già considerati impliciti nell’ordinamento[4], ha formalmente introdotto il principio di continuità aziendale nell’art. 2423 bis c.c., che disciplina i “principi di redazione del bilancio” stabilendo, tra le altre cose, che la valutazione delle voci di bilancio deve avvenire nella prospettiva della continuazione dell’attività. Questo principio impone che la valutazione delle voci del bilancio di esercizio deve essere condotta nella prospettiva della continuazione dell’attività, e quindi tenendo conto del fatto che l’azienda costituisce un complesso economico funzionante e destinato alla produzione di reddito. La continuità aziendale rappresenta quindi il presupposto necessario affinché possano utilizzarsi i criteri ordinari nella redazione dei bilanci d’esercizio e al tempo stesso “qualifica” la regolarità dell’informativa di bilancio e con essa la veritiera e corretta rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa nel suo insieme. A tal fine occorre appunto che l’impresa prosegua nel suo normale corso, senza che vi siano l’intenzione o la necessità di porla in liquidazione o di cessare l’attività.
Con l’introduzione di questa norma, per la prima volta la continuità aziendale assurge dunque a valore pubblico da rispettare.
Il principio della tutela della continuità aziendale è venuto peraltro via via rafforzandosi nel tempo con una serie di interventi del Legislatore in tal senso, e costituisce oggi un principio economico e giuridico fondamentale del nostro ordinamento. Ed infatti gli obiettivi microeconomici di favorire la nascita di nuove imprese e la competitività delle imprese nel mercato, di conservare e potenziare le organizzazioni imprenditoriali, singole e di gruppo, e di migliorarne l’operatività sono stati ampiamente invocati e sbandierati nei programmi di riforma del diritto societario e concorsuale a partire dalla metà degli anni 2000, che hanno via via innovato la Legge fallimentare.
È però solo sulla spinta del diritto Europeo che il principio della continuità aziendale è venuto ad assurgere a principio economico cardine dell’ordinamento.
Come noto, la Direttiva Insolvency (Direttiva UE 2019/1023) ha introdotto un quadro normativo armonizzato per la prevenzione e la gestione della crisi d’impresa nei paesi membri dell’Unione Europea. Uno degli aspetti centrali della Direttiva è la promozione della continuità aziendale come obiettivo prioritario nelle procedure di ristrutturazione preventiva, imponendo agli Stati membri di privilegiare la ristrutturazione rispetto alla liquidazione.
A questo fine, la Direttiva prevede innanzitutto che gli Stati membri debbano garantire l’accesso a strumenti di ristrutturazione che permettano alle imprese in difficoltà finanziaria di evitare l’insolvenza e di preservare la continuità aziendale[5]. E così, in particolare, questi strumenti devono i) consentire all’imprenditore di mantenere il controllo sulla gestione dell’impresa durante la ristrutturazione (c.d. debtor-in-possession)[6]; ii) prevedere che i piani di ristrutturazione possano essere approvati anche contro il volere di alcune classi di creditori (cross-class cram-down), purché garantiscano un trattamento equo e favoriscano la continuità aziendale[7]; iii) prevedere una sospensione temporanea delle azioni esecutive da parte dei creditori per consentire il buon esito della ristrutturazione[8]; iv) garantire la conservazione dei contratti essenziali per la continuità aziendale, impedendo ai creditori di risolvere contratti strategici (come forniture di energia o licenze software)[9]; v) favorire l’accesso a nuova finanza per favorire la prosecuzione dell’attività durante la ristrutturazione.
In secondo luogo, la Direttiva ha altresì imposto agli Stati membri di adottare sistemi di allerta precoce per consentire agli imprenditori di individuare tempestivamente segnali di crisi e attivare misure di risanamento (c.d. early warning tools), al fine di prevenire ed evitare lo stato di insolvenza e tutelare la continuità aziendale.
Nell’ottica di adeguamento all’ordinamento eurounitario, il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza ha dunque costituito una vera e propria rivoluzione copernicana nella disciplina giuridica delle imprese in difficoltà, riconoscendo esplicitamente il principio di continuità come valore primario da preservare[10]. L’obiettivo principale del nuovo impianto normativo è infatti quello di favorire la ristrutturazione piuttosto che la liquidazione, promuovendo la gestione proattiva della crisi e riducendo gli effetti negativi sulle parti interessate.
A questo fine, il CCII ha introdotto strumenti volti alla diagnosi precoce della crisi e alla predisposizione di misure di risanamento, tra cui: i) l’obbligo per l’imprenditore di adottare assetti organizzativi adeguati alla rilevazione tempestiva della crisi (art. 2086 c.c., come modificato dal CCII); il rafforzamento delle misure di allerta e degli strumenti di composizione assistita della crisi, volti a incentivare soluzioni che garantiscano la prosecuzione dell’attività aziendale; l’ulteriore rafforzamento del concordato preventivo con continuità aziendale (art. 84 CCII), che prevede incentivi normativi per le imprese che dimostrano la possibilità di proseguire la loro attività, anche parzialmente, a beneficio dell’occupazione e dei creditori; il riconoscimento della continuità aziendale come criterio guida anche nelle procedure liquidatorie, ove compatibile, con possibilità di cessione dell’azienda in esercizio.
Dall’entrata in vigore del CCII l’imprenditore, sia individuale che collettivo, sia commerciale che agricolo, non potrà più limitarsi a consuntivare l’andamento aziendale tramite la tenuta della contabilità ordinaria, ma sarà tenuto a dotarsi di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati a prevedere gli andamenti aziendali, economici, patrimoniali e finanziari, con particolare riferimento al budget di tesoreria, che misura l’adeguatezza dei flussi di cassa a far fronte alle obbligazioni programmate. La visione prognostica degli andamenti dei cicli aziendali è indispensabile al fine della valutazione della continuità aziendale. In caso di incertezze sul mantenimento della continuità aziendale, è obbligo degli amministratori attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il recupero della continuità aziendale.
In analogo modello, con la novella del 2022 la trama delle principali norme in tema di concordato preventivo è stata riannodata ai fili della Direttiva “insolvency”, gli artt. 84-87 CCII hanno cambiato volto ed il concordato «si veste dell’habitus eurounitario della viability»[11].
Come è stato sottolineato dalla dottrina, infatti, «la nuova inclinazione del sistema nasce da una presa d’atto» per cui «la cessazione dell’attività economica deprima il valore del patrimonio dell’impresa perché fa evaporare gli investimenti programmati e gli affari in itinere, travolge gli intangibles e comporta l’immediata svalutazione dei crediti». Pertanto, «la continuità aziendale appare per ciò stesso un obiettivo cui ambire ogni qualvolta l’impresa si mostri sostenibile, ossia capace di tornare a produrre utili in un tempo prospetticamente ristretto»[12].
Similmente, il titolo IV del CCII detta la disciplina degli Strumenti di regolazione della crisi agli articoli dal 56 al 120. Si tratta di una serie definita di strumenti che hanno come scopo prioritario la salvaguardia della continuità aziendale ad esito del superamento della crisi d’impresa o dell’insolvenza “reversibile”[13].
L’evoluzione normativa descritta ha trasformato la continuità aziendale in un principio generale dell’ordinamento giuridico, con riflessi non solo nel diritto concorsuale, ma anche nel diritto societario e nella governance d’impresa. La continuità non è più considerata solo un criterio contabile o un’opzione per le imprese in crisi, ma un dovere degli organi gestionali, con conseguenze significative in termini di responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo. Questa nuova veste del principio di continuità aziendale ne consente l’estensione, per il tramite dello strumento dell’interpretazione teleologica e sistematica, ad altri rami del diritto civile.