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Commento

La collocazione nel fallimento dei compensi dei liquidatori e degli amministratori maturati nel corso del concordato preventivo: un arabesco assai poco europeo*

Giovanni La Croce, Dottore commercialista in Milano

30 Maggio 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.

Visualizza: Cass., Sez. 1, 13 dicembre 2022, n. 36465, Pres. Ferro, Est. Perrino

L’Autore, prendendo spunto dall’ordinanza in commento, affronta il tema della natura e del trattamento dei crediti degli amministratori e dei liquidatori maturati in una precedente procedura di concordato preventivo. Nell’affrontare la materia l’autore amplia il raggio dell’indagine alla questione del contenuto della prestazione richiesta agli amministratori/liquidatori, concludendo per la sua natura intellettuale e, dunque, per la sua natura privilegiata ex art. 2751, n. 2, c.c., non senza prima aver affrontato criticamente, con ampie argomentazioni, la teoria della immedesimazione organica interna tra amministratori e società. Il commento, nell’offrire una lettura alternativa a quella dell’attuale pensiero dominante, si pone unicamente l’obiettivo di riaprire la discussione sul tema all’interno di un perimetro argomentativo più ampio.
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1 . Premessa
L’analisi dell’ordinanza in commento, di là dello specifico caso trattato, offre l’occasione per affrontare a tutto tondo il tema della sorte dei crediti degli amministratori e dei liquidatori maturati in una precedente procedura di concordato preventivo; e ciò a valere anche avuto riguardo all’assetto del nuovo codice della crisi. 
Nel complesso percorso ricostruttivo che ci accingiamo a intraprendere utilizzeremo come bussola di orientamento il considerando (70) della Direttiva Insolvency, il quale raccomanda agli Stati membri di garantire che i dirigenti non siano dissuasi dall’assumere decisioni ragionevoli funzionali al processo di ristrutturazione e che, in particolare le adottino sulla base di adeguate consulenze professionali [1].
Per il legislatore europeo, dunque, l’idoneità al ruolo degli organi direttivi dell’impresa, integrata da un’adeguata assistenza professionale, costituisce una delle chiavi di successo di un’operazione di ristrutturazione di un’impresa in crisi, di tal che agli stessi, e ai loro consulenti, dovrebbe essere garantito un trattamento corrispondente alla centralità del loro ruolo. Una loro penalizzazione dovrebbe essere consentita, quindi, esclusivamente in conseguenza alla deviazione delle loro decisioni dal fine concreto che essi devono perseguire in presenza di una situazione di crisi o d’insolvenza, ossia quello del miglioramento delle probabilità di successo della ristrutturazione.
Lo stesso art. 2086 c.c. nel pretendere che l’impresa sia dotata di adeguati assetti organizzativi, anche al fine della corretta gestione della crisi, riconosce la centralità delle capacità dei suoi organi direttivi. 
Sarebbe del tutto incoerente, infatti, esigere, da un lato, l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e tollerare, dall’altro, l’incapacità professionale delle sue funzioni apicali, conseguente al fatto che nessun manager preparato sarebbe indotto ad assumere la carica di amministratore/liquidatore di una società in crisi, se il rischio di non vedersi corrisposto il compenso deliberato fosse conseguenza, non delle proprie inadempienze, bensì della natura giuridica del proprio ruolo.
2 . Il caso deciso dall’ordinanza in commento
La Corte di cassazione era stata chiamata a decidere se al credito vantato da un liquidatore che aveva predisposto in proprio – senza, dunque, l’assistenza di un professionista – il piano e la proposta di concordato preventivo potesse riconoscersi, sia la natura di credito prededucibile, sia la natura di credito privilegiato ex art, 2751 bis, comma 1, n. 2, negate entrambe dal tribunale che aveva deciso l’opposizione allo stato passivo. 
Va precisato che, nonostante il ricorrente avesse invocato ai fini del riconoscimento della prededuzione, anche il requisito della temporalità e non solo quello della connessione teleologica, la Corte ha ritenuto si vertesse solo in questo secondo ambito, sicché il principio enunciato non può ritenersi esteso automaticamente anche ad eventuali compensi maturati nel corso della procedura, che costituisce l’ipotesi più ricorrente e, quindi, quella di maggiore interesse.
I giudici di legittimità hanno escluso che al suddetto credito potesse riconoscersi sia la natura prededuttiva, sia quella privilegiata e ciò in ragione della struttura del rapporto di immedesimazione organica che lega il liquidatore – al pari dell’amministratore – alla società[1], rapporto d’immedesimazione che esclude, ha precisato la Corte, che l’attività possa ricondursi, come necessario, a un soggetto terzo che abbia apportato un vantaggio al ceto creditorio[2] . 
A riguardo l’ordinanza in commento ha precisato che “il liquidatore…, come l’amministratore, non collabora con l’ente, non è esterno ad esso, ma s’identifica funzionalmente con l’ente medesimo e agisce per esso” e che “per questa ragione che, qualora il liquidatore di una società abbia presentato una richiesta di concordato, l’attività relativa non può essere considerata separatamente da quella di liquidazione” e che al medesimo trattamento ad essa riservato deve essere attratta.
In sostanza, secondo la tesi della Suprema Corte, il liquidatore, nel predisporre il piano e la proposta di concordato non agirebbe nell’interesse della massa, bensì nell’interesse della società.
Aggiungono, ancora, i giudici di legittimità che nel caso specifico non era in discussione il diritto al compenso, per il quale, sì, avrebbe rilevato l’eventuale inadempimento e la conseguente scissione degli interessi della società da quelli degli amministratori o dei liquidatori[3], bensì unicamente la sua collocazione nella graduazione dei crediti ai fini del loro soddisfacimento in ambito fallimentare (ora liquidazione giudiziale).
Ulteriormente, e conclusivamente, l’ordinanza in commento chiosa sostenendo che la nomina del liquidatore germinerebbe non in ragione della sussistenza di una situazione di crisi/insolvenza, bensì dall’intervenuto acclaramento di una delle cause di scioglimento della società di cui all’art. 2484 c.c., sicché la coesistenza della situazione di crisi/insolvenza non potrebbe essere “strumentalmente finalizzata, secondo una prospettiva ex ante, a recare vantaggio alla procedura, indipendentemente dalla circostanza che un siffatto vantaggio, secondo un giudizio ex post effettuato caso per caso, possa occasionalmente per avventura  ricorrere”.[4] 
Tale arresto si pone nel solco di un così stabile orientamento giurisprudenziale, un vero e proprio “diritto vivente”, che dovrebbe sconsigliare qualsiasi tentativo di critica, come quello che ci accingiamo a fare, che, non a torto, potrebbe essere giudicato frutto di apostasia. 
Ciò non di meno questo solido, ma vetusto, “muro di Berlino”, alla luce delle modificazioni normative nel frattempo sopravvenute e al cospetto del diritto europeo mostra alcune profonde crepe che potrebbero portare, se non ad un suo definitivo sgretolamento, e a un conseguente revirment giurisprudenziale, almeno a una riapertura della discussione.
3 . La teoria dell’immedesimazione organica interna, conseguenze, fallacie e aporie
La teoria organica e del principio d’imputazione nasce e si sviluppa originariamente nell’ambito del “diritto pubblico” per individuare e isolare “l’entità statale” dal “corpo sociale” al fine di imputare direttamente alla persona giuridica dello Stato l’attività svolta dai suoi organi[6]. Secondo tale teoria “l’ufficio non ha un’esistenza giuridica a sé, distinta dallo Stato, ma, come qualunque organo in un organismo, è parte dello Stato stesso”, e “ha vita nella unica persona dello Stato”[7] e, ciò, anche se il funzionario pubblico è legato allo Stato, o alle sue articolazioni periferiche, da un contratto di lavoro subordinato.
Tale constatazione consente una prima osservazione: il rapporto d’immedesimazione organica è estraneo sia all’oggetto dell’obbligo di facere, sia alla sua fonte.
Nel diritto commerciale il rapporto tra amministratore e società è stata questione, al contrario, per lungo tempo controversa, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, almeno sino al noto arresto delle Sezioni Unite del 2017[8], a seguito del quale la teoria dell’immedesimazione organica non solo esterna, detta anche del “rapporto societario”, ha avuto il definitivo sopravvento sulla teoria contrattualistica[9].
Non è questa la sede per ripercorrere, nelle loro variegate sfaccettature, tutte le tesi sviluppatesi a riguardo nell’arco di oltre trent’anni di discussioni, ciascuna ben illustrata nella decisione delle SS. UU. del 2017 cui si rinvia[10]. Sarà qui sufficiente ricordare come, secondo l’opinione contrattualistica, allo stato superata, l’immedesimazione organica tra società̀ e organo amministrativo, che consente di imputare direttamente alla prima gli atti compiuti dal secondo, doveva considerarsi operativa solo nei confronti dei terzi, mentre nei rapporti interni doveva ritenersi prevaletene un autonomo rapporto obbligatorio, caratterizzato da etero-coordinamento e da una posizione di debolezza contrattuale dell’amministratore, da cui si faceva derivare, la natura parasubordinata del rapporto. 
Tale posizione, che fondava il suo presupposto sull’asserita dicotomia del rapporto sopra illustrata, è stata via via messa in discussione a seguito della riforma del diritto societario del 2003[11], che aveva nel frattempo attribuito in via esclusiva e assoluta all’organo amministrativo il potere di gestione dell’impresa[12] , con la contestuale limitazione dei poteri dell’assemblea, la cui ingerenza sull’operato degli amministratori, anche ove prevista dallo statuto, si è affermato, non ne potrebbe in ogni caso vincolare l’autonomia decisionale stante la loro responsabilità[13].
È sulla base di tali considerazioni che le Sezioni Unite – chiamate nuovamente ad esprimersi nel 2017, dopo ventitré anni – s’indussero a superare il proprio precedente orientamento e a qualificare il rapporto tra amministratore e società come “rapporto societario”, cioè un rapporto fondato sulla totale immedesimazione organica tra società e amministratore. 
Costui sarebbe deputato, infatti, secondo il pensiero del giudice di legittimità, ad assicurare l’agire della società, non sulla base di un contratto di lavoro parasubordinato, di mandato o di prestazione d’opera, bensì in ragione del suo essere amministratore.
In sostanza, secondo le SS. UU., essendo l’amministratore “il vero egemone dell’ente sociale”, non sarebbe più possibile invocare – nel rapporto amministratore/società – la sussistenza di una qualsivoglia componente di etero-direzione e/o debolezza contrattuale del primo nei confronti della seconda. Tutto ciò, però, senza approfondire la natura contrattuale derivante dall’atto di nomina (una volta accettata), il diritto dell’assemblea di revocare senza giusta causa il nominato, nonché l’oggetto del facere; temi che saranno valorizzati nel prosieguo.
Corollari derivati dell’arresto del 2017 sono: (i) la competenza del tribunale delle imprese a dirimere tutte le controversie tra amministratori e società, anche quelle riguardanti il compenso; (ii) la possibilità che le prestazioni dell’amministratore – se previsto dallo statuto e/o dall’atto di nomina – siano erogate a titolo gratuito, senza che ciò possa violare il principio dell’art 36 Cost.; (iii) la piena pignorabilità dei compensi da parte dei creditori dell’amministratore; (iv) la natura chirografaria del credito per compensi, anche in caso di amministratore nominato dall’autorità giudiziaria[14].
Preliminarmente preme precisare come tale revirment nascesse da una controversia riguardante la pignorabilità piena, oltre i limiti dell’art. 545 c.p.c., dei compensi dell’amministratore, questione che, come quella della competenza giurisdizionale e della possibile gratuità della carica, sono del tutto estranee al tema della presente d’indagine. Nessuno ha mai dubitato, infatti, che un credito professionale potesse essere oggetto di pignoramento senza limite alcuno, o che un professionista potesse decidere di prestare gratuitamente la propria opera intellettuale, senza che la rinuncia al compenso potesse essere in seguito revocata invocando una violazione del principio di cui all’art. 36 Cost. Ciò non di meno non è mai stata messa in discussione la natura privilegiata ex art. 2751 bis, n. 2, c.c. di tali creditori.
Analogamente, il fatto che le controversie riguardanti i compensi degli organi sociali siano di competenza del tribunale delle imprese e non del giudice del lavoro non è affatto dirimente per stabilire la natura dei relativi crediti, giacché anche le controversie riguardanti i crediti professionali non sono di competenza del giudice del lavoro, bensì di quello ordinario.
Ciò che qui interessa, invece, è individuare con precisione l’oggetto, e la conseguente natura, della prestazione che il “rapporto societario” pretende dall’amministratore; oggetto che a noi sembra evaporare nella ricostruzione della Suprema Corte, tutta incentrata nell’individuazione della fonte del rapporto piuttosto che, appunto, sul contenuto della prestazione pretesa.
A questo punto occorre fare un passo indietro e domandarsi se l’immedesimazione organica – concetto che, ricordiamo,  nasce in ambito pubblicistico al fine al fine di imputare direttamente alla persona giuridica dello Stato l’attività svolta dai suoi organi – elida alla radice la dualità soggettiva esistente tra amministratore e società, nel senso che gli interessi dell’amministratore, una volta nominato, coincidano ex se con quelli della società e viceversa, o se, oppure, essi vengano a coincidere solo in forza di un’obbligazione nascente, ex art. 1173, da una fonte atipica qual è il “rapporto societario” .
In proposito va osservato come l’’ufficio di amministratore non privi la persona che ne è onerata della propria capacità giuridica[15], tanto che, come ammettono le stesse SS. UU. nel proprio revirment del 2017, lo stesso può intrattenere, a determinate condizioni, un autonomo rapporto giuridico con la società, tema questo che sarà oggetto di approfondimento nel successivo paragrafo a sostegno della opportunità di riaprire la discussione sulla natura intellettuale, o no, dell’opera dell’amministratore di società di capitali.
Ritornando al suo oggetto, se non v’è dubbio che il perimetro delle prestazioni che tale rapporto atipico, una volta instaurato, impone all’amministratore sia vasto, esiste più di una ragione per dubitare che non sia indefinito, come, al contrario ha sostenuto la Suprema Corte. 
Molteplici sono, come per i professionisti ordinistici, infatti, le modalità – l’interpretazione esecutiva dell’incarico – con cui la prestazione può essere svolta, ma non si può negare che essa consista in un oggetto che, per quanto lato, è, come si si cercherà di dimostrare, ben specifico. 
Se, però, una prestazione esiste, pare difficile, continuando nel ragionamento, porre in dubbio che debbano coesistere sia un prestatore che un beneficiario. Ne è controprova la circostanza che la deviazione dell’amministratore dagli obblighi derivanti dal “rapporto societario”, che ne è la fonte, comporta una responsabilità dello stesso nei confronti della società, salvo eccentricamente ritenere che quella duale soggettività giuridica, cui prima abbiamo accennato come immanente anche nel rapporto di immedesimazione organica, non sussista sino a che l’amministratore adempie i propri obblighi e venga a emergere, così, d’emblée, al momento del verificarsi del suo inadempimento.
Venendo, ora, all’individuazione della prestazione pretesa, va preliminarmente annotato come l’art 2380 c.c. affidi agli amministratori in via esclusiva la gestione dell’impresa al fine dell’attuazione dell’oggetto sociale e nel rispetto delle disposizioni dell’art. 2086 c.c. in tema di adeguati assetti organizzativi, sulla cui dirimente portata ci si soffermerà più avanti.
L'impresa – che a mente dell’art. 2082 c.c. è un’attività economica organizzata professionalmente, finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o di servizi e che nell’ipotesi dell’imprenditore individuale è gestita da chi la detiene a titolo di proprietà o a altro titolo – nel caso dell’ imprenditore collettivo non è detenuta da chi la gestisce, bensì a questi affidata in forza di quel rapporto atipico di carattere societario, la cui atipicità, unitamente al rapporto d’immedesimazione organica che ne deriva, non vogliono affatto essere qui messi in discussione.
Ciò che a nostro giudizio rileva, ai fini della dimostrazione del permanere della predicata dualità soggettiva endosocietaria, tra organo deputato alla gestione e titolare dell’impresa, è che l’amministratore non ne è il proprietario, bensì unicamente il gestore. Un gestore d’impresa altrui soggetto a specifici e stringenti obblighi, primo tra tutti quello di operare con criteri di economicità, ossia di operare perseguendo la massimizzazione dell’investimento degli azionisti/soci. Questo è l’oggetto dell’incarico; lato certamente, ma non indefinito.
È l’organizzazione a questo fine dei fattori di produzione che compete all’amministratore di società di capitali, senza che perciò egli, in conseguenza del rapporto d’immedesimazione organica che ne deriva a seguito dell’accettazione della carica, possa essere equiparato all’imprenditore. L’amministratore, ad esempio, non “fallisce”, al contrario del primo, per effetto degli atti compiuti in rappresentanza e nell’interesse della società. Egli ne risponde in via contrattuale nei confronti di quest’ultima e in via extra contrattuale nei confronti dei singoli azionisti e dei creditori[16], ma al momento dell’insolvenza l’immedesimazione organica non produce sui due soggetti giuridici distinti gli stessi effetti, segno ulteriore che dimostra come sia difficile predicare l’esistenza di un unico soggetto ideale costituito dal binomio società/amministratore, dove la società è il suo amministratore e l’amministratore è la società.
Ciò che accomuna le due figure, quella dell’amministratore e dell’imprenditore, è l’attività di coordinamento dei fattori di produzione dell’impresa, attività che entrambi svolgono[17], ma non il titolo per cui lo fanno. 
L’imprenditore esplica tale attività ex se, in quanto tale, nel proprio interesse, l’amministratore lo fa nell’interesse della società in conseguenza dell’atto di nomina accettato. 
È il caso di precisare a questo punto del ragionamento come la figura dell’amministratore che sia al contempo azionista/socio di riferimento della società sia estranea, sia alle precedenti considerazioni, sia a quelle che seguiranno, mancando in essa quella dualità soggettiva tipica del rapporto amministratore/società/azionista di controllo. 
Laddove vi sia identità soggettiva tra amministratore e socio maggioritario ci si trova di fronte, infatti, da un punto di vista sostanziale, a un imprenditore che agisce tramite lo schermo societario, condizione del tutto legittima, ma che sotto il profilo che qui interessa, deve essere equiparata a quella dell’imprenditore in senso lato.
Di là della fonte dell’obbligazione del facere, ciò che rileva ai fini della corretta determinazione della natura del credito dell’amministratore è definire quale sia il contenuto di tale attività, se essa si estrinsechi, o no, in una prestazione d’opera intellettuale. Domanda, questa, alla quale la Corte, nella sua più alta composizione, ha ritenuto di rispondere negativamente, poiché l’attività dell’amministratore non presenterebbe gli elementi del perseguimento di un risultato con la conseguente sopportazione del rischio e perché l’opus che l’amministratore si impegna a fornire non è determinato dai contraenti preventivamente, né è determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività di impresa[18].
Esattamente il contrario, ce ne rendiamo conto, di quanto abbiamo sin qui sostenuto, quando abbiamo individuato nel coordinamento dei fattori di produzione ai fini della massimizzazione dell’investimento degli azionisti/soci quell’opus che il “diritto vivente” nega sussistere per via dell’immedesimazione organica. 
Ora fondere in un unicum l’attività di impresa – che ai sensi dell’art. 2195 c.c. è un’attività economica diretta alla produzione e allo scambio di beni e servizi – con l’organizzazione programmata e quotidiana dei suoi fattori di produzione, da parte di un soggetto che proprietario di quei mezzi non è, ci appare essere, se non una forzatura, quanto meno un’eccessiva semplificazione del problema, almeno sotto la lente d’ingrandimento della scienza economica, se solo si volesse tenere in debito conto dell’estremo grado di soggettività con cui quell’attività di coordinamento può essere svolta; il ruolo dell’amministratore interpretato.
Se l’attività dell’amministratore si identificasse davvero con l’attività dell’impresa, come sostenuto dal pensiero oggi dominante, i suoi risultati economici sarebbero indipendenti dalle qualità professionali di chi ne organizza i fattori di produzione, ma tutti sappiamo che così non è.
Sono le capacità manageriali, organizzative, dell’amministratore a fare la differenza in riferimento impresa. L’immedesimazione organica interna, alla luce di queste argomentazioni, appare come un clamoroso equivoco, giacché si appalesa come condizione estranea al contenuto della prestazione che, ripetiamo, è ben specifica essendo costituita dal “mandato”[19], conseguente all’accettazione della carica di amministratore, di coordinare i fattori produttivi dell’impresa altrui al fine di conseguire la migliore remunerazione dei suoi proprietari.
Ciò che è indeterminato, e questo è l’aspetto che pare essere sfuggito all’argomentare del pensiero prevalente, sono le modalità, del tutto personali, con cui il mandato di amministrazione può essere svolto, modalità che possono determinare il successo o l’insuccesso dell’intrapresa altrui, non l’obiettivo. 
Il fatto stesso che una non adeguata interpretazione del ruolo possa determinare risultati ritenuti non soddisfacenti dagli azionisti/soci e, in stretta conseguenza, la revoca dell’attore destituisce, poi, di fondamento l’affermazione che l’amministratore nell’espletamento del suo incarico non sopporterebbe alcun rischio. Senza considerare, per altro, che il rischio è estraneo a tutte le prestazioni d’opera intellettuale, che, come noto, determinano l’insorgere di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, obbligazione che pretende esclusivamente un’attività lavorativa conforme a dati standard di diligenza e perizia e che presenta ex se margini significativi di incertezza, perché condizionata da fattori estranei alla sfera di controllo del soggetto obbligato. 
Il fatto che lo stato d’immedesimazione organica interna sia quantomeno relativo è dimostrato dal fatto che, ai sensi dell’art. 2383 c.c., la revoca dell’amministratore da parte dell’assemblea può avvenire anche in assenza di giusta causa , dando diritto a quest’ultimo di ottenere unicamente il ristoro per la perdita dei compensi residui, ma non anche, in via automatica e diretta, la risarcibilità di altri tipi di danno, quale il pregiudizio all’onore o alla reputazione: il relativo pregiudizio deve essere specificamente allegato e dimostrato, come ulteriore conseguenza immediata e diretta della revoca[20].  
Si tratta, insomma, di un diritto di recesso riconosciuto ex lege alla società, a tutela del pactum fiduciae che lega l’amministratore alla medesima. Circostanza questa che, a nostro parere, dovrebbe perlomeno consentire di dubitare che l’amministratore sia il “vero egemone dell’ente sociale”, proprio perché la sua egemonia trova limite nel diritto di revoca ad nutum che la legge riserva all’assemblea, diritto che non può che trovare il suo presupposto in una divaricazione tra le attese/pretese dell’assemblea e le condotte gestionali del nominato, divaricazione che, a sua volta può sussistere, come causa legittimante la revoca, solo se si ritiene che l’assemblea degli azionisti (cioè dei proprietari dell’impresa) possa dissentire sulle modalità con cui l’amministratore eserciti il ruolo di coordinatore dei suoi mezzi di produzione. 
A cascata emerge la conferma che, contrariamente al pensiero oggi dominante, l’opus che l’amministratore deve fornire esiste ed è, come più volte richiamato, quello di massimizzare, tramite un adeguato coordinamento dei fattori di produzione dell’impresa altrui, l’investimento di chi l’ha nominato.
Ciò che l’assemblea nel nominare un organo amministrativo non determina sono le modalità con cui il nominato dovrà coordinare i fattori di produzione dell’impresa, come, simmetricamente, l’assistito non determina le modalità con cui l’avvocato deve difendere i suoi interessi in giudizio. Per quest’ultimo, però, nessuno ha mai dubitato, facendo leva sull’indeterminatezza dei modi, dell’esistenza dell’opus e della sua natura intellettuale.
Né può disconoscersi, ai fini dell’indagine che qui interessa, come negli anni le esigenze del mercato del lavoro, anche in altri ambiti professionali, abbiano fatto emergere nuove forme di prestazioni lavorative non riconducibili a nessuna delle forme tipiche del lavoro subordinato, del lavoro autonomo o del lavoro parasubordinato, di tal che non dovrebbe costituire un ostacolo insormontabile ipotizzare che il rapporto d’immedesimazione organica che lega l’amministratore alla società dia vita a un obbligo di una prestazione innominata dal contenuto intellettuale, così’ come è per il funzionario pubblico legato alla Stato dal medesimo tipo di rapporto, con l’unica differenza che per il dipendente pubblico l’obbligo di prestazione deriva da un contratto di lavoro dipendente e non da un atto, accettato, di nomina alla carica. In proposito ribadiamo la nostra convinzione che la fonte contrattuale dell’incarico sia del tutto neutra rispetto all’individuazione del contenuto e della natura dell’incarico.
In questo senso, di particolare interesse appare l’approfondimento che dell’arresto del 2017 fanno i giudici di legittimità in una loro successiva pronuncia del 2021 nella quale essi ne ridimensionano la portata.
Innanzi tutto, essi rilevano come, a ben vedere, l'arresto del 2017 - che aveva “affrontato il tema della qualificazione del rapporto tra amministratore e società di capitali sotto lo specifico angolo visuale della sua sussumibilità nei rapporti previsti dall'art. 409 n. 3) c.p.c., ai fini della perimetrazione della pignorabilità del compenso in relazione all'art. 545, comma 4, c.p.c. – “avesse “sconfessato solo alcuni degli enunciati del precedente del 1994”, e come anche all’interno di un “rapporto societario” di immedesimazione organica tra persona fisica ed ente – che assume certamente rilievo nei rapporti con i terzi – nei rapporti interni effettivamente sussista una relazione obbligatoria tra soggetti del tutto distinti tra loro.  Verrebbe, si afferma in tale approfondimento, “in rilievo una dicotomia tra i poteri e le funzioni dell'amministratore, che discendono direttamente dalla legge e dal contratto sociale (da un lato) e gli eventuali diritti connessi allo svolgimento dell'attività̀ gestoria, con le correlate responsabilità̀ (dall'altro). Dicotomia che, a ben vedere, rappresenta un ulteriore sviluppo logico della possibilità, ribadita dalle Sezioni Unite del 2017, che nei rapporti interni tra società e amministratori si ingeneri «una  relazione obbligatoria tra soggetti affatto distinti tra loro»,  capace in ultima analisi di integrare quella dualità̀ di posizioni – tipica dei contratti sinallagmatici –  che risulta invero testimoniata in modo cristallino da numerose norme dello stesso titolo V del libro V del codice civile, nelle quali le posizioni soggettive dell'amministratore e della società risultano chiaramente contrapposte (si pensi, a titolo esemplificativo, all'art. 2475 ter in tema di conflitto di interessi, all'art. 2476 in tema di responsabilità̀ degli amministratori verso la società, agli artt. 2485 e 2486 in tema di responsabilità̀ degli amministratori per i danni subiti dalla società al verificarsi di una causa di scioglimento)”[21].
Da tale più avanzata e approfondita lettura, nella quale pare trovare conferma quella dualità di posizioni soggettive contrapposte che abbiamo a più riprese invocato; dualità che pretenderebbe, a sua volta, l’esistenza di un contratto e di un obbligo di prestazione nei confronti della società che esula da quello d’immedesimazione organica. 
Giunti a tal punto è possibile tirare le fila di questi primi ragionamenti: (i) la prestazione che l’assemblea richiede all’amministratore con l’atto di nomina è quella di coordinare i mezzi di produzione dell’impresa di proprietà  (mediata) degli azionisti al fine di massimizzarne l’investimento; (ii) le capacità manageriali dell’amministratore costituiscono un fattore di produzione estraneo all’impresa che gli è affidata; (iii) la sua egemonia all’interno della società è relativa, trovando un argine solido nel potere dell’assemblea di revocarlo anche in assenza di giusta causa; (iv) l’immedesimazione organica è concetto neutro rispetto alla qualificazione del rapporto, la cui natura va indagata in relazione al suo contenuto.
Rispetto a quest’ultima osservazione di sintesi può essere utile ricordare come anche il curatore sia legato al fallimento (oggi liquidazione giudiziale) da un rapporto d’immedesimazione organica assai simile a quello dell’amministratore di società di capitali, eppure nessuno ha mai revocato in dubbio l’autonoma natura intellettuale delle sue prestazioni[22].
Ciò che accomuna le due figure è il fatto che entrambe gestiscono un patrimonio altrui in forza di un mandato che trae origine per entrambi da un atto di nomina[23]. Il fatto che l’amministratore gestisca i fattori di produzione nell’interesse degli azionisti/soci e il curatore nell’interesse dei creditori, non pare affatto dirimente ai fini della determinazione intellettuale, o meno, della loro opera. Rileva, invece, per quanto qui interessa, il contenuto della prestazione che, in caso di esercizio provvisorio dell’impresa ex art. 211 CCII si identifica, come per l’amministratore, nell’organizzazione dei fattori di produzione, e nella normale operatività del curatore, nella liquidazione dell’attivo, al pari del liquidatore sociale.
Pare difficile revocare in dubbio, dunque, la circostanza che debba essere il contenuto della prestazione a identificare la natura del relativo credito e non il beneficiario diretto/indiretto della prestazione stessa.
4 . Il principio della cumulabilità degli incarichi e la direzione e coordinamento nei gruppi societari: l’antinomico contrasto con l’asserita assenza di coordinamento tra società e amministratori
Abbiamo più volte fatto riferimento nel paragrafo precedente all’assioma logico che individua la prestazione dell’amministratore nell’organizzazione e nel coordinamento dei mezzi di produzione dell’impresa ai fini della massimizzazione dell’investimento degli azionisti/soci. Ora, è noto come gli amministratori, ove lo statuto lo consenta, possano delegare a un direttore generale buona parte di questa attività, motivo per il quale l’art. 2396 c.c. estende a questa figura professionale, che non definisce, però, le medesime responsabilità degli amministratori.
Riguardo al direttore generale la Corte di cassazione ha avuto modo di affermare che seppur esso, nell’esperienza pratica, risulti spesso inquadrato come lavoratore dipendente, non può escludersi che tale ruolo possa essere ricoperto da un soggetto esterno alla società, non legato da un vincolo di subordinazione, ancorché la prestazione per le caratteristiche che la contraddistinguono rientri ragionevolmente nella previsione di un’attività coordinata e continuativa con gli amministratori[24].
Nel caso in cui i due ruoli siano ricoperti da due diversi soggetti i paradigmi del tema in esame non cambiano, giacché è possibile distinguere tra il coordinatore (l’amministratore) e il coordinato (il direttore generale), sicché l’esistenza di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa a valle non aiuta affatto a risolvere i dubbi sulla natura della prestazione degli amministratori.
Le SS.UU., però, nel proprio revirment del 2017 hanno voluto precisare[25] come la teoria dell’immedesimazione organica di tipo societario non precluda a che tra la società e la persona fisica dell’amministratore si possa instaurare un autonomo, parallelo, e diverso rapporto che può assumere le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d’opera, richiamando un proprio precedente del 1996[26].
Se è pur vero che non si ritiene ammissibile che un tale duplice rapporto possa instaurarsi nel caso dell’amministratore unico[27], è altrettanto vero che il postulato della cumulabilità degli incarichi introduce nella discussione una questione, assai rilevante, di pura logica, che non pare essere stata per nulla né affrontata, né risolta.
Vogliamo riferirci al predicato per cui al rapporto d’immedesimazione organica interna corrisponderebbe una prestazione dell’amministratore non determinata dai contraenti preventivamente, né determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività di impresa. Senonché, però, la parte di tali prestazioni delegate dagli amministratori al direttore generale – che possono essere così ampie da non richiedere per l’adeguatezza degli assetti organizzativi la nomina di un amministratore delegato – esclude alla radice che l’attività dell’amministratore sia indeterminata e indeterminabile, e ciò in ragione del fatto che se un’ampia parte di essa può essere delegata è ovvio che essa sia per forza determinata e determinabile. Infatti, gli unici poteri non delegabili dal consiglio di amministrazione sono quelli stabiliti dall’art. 2381 c.c. e più precisamente quelli relativi: (i) alla redazione del bilancio; (ii) agli aumenti di capitale delegati al consiglio; (iii) ai provvedimenti per la riduzione del capitale per perdite; l’emissione di obbligazioni convertibili; (iv) la redazione dei progetti di scissione e fusione. Sicché se tutti i poteri strettamente gestionali – l’organizzazione e il coordinamento dei fattori di produzione – sono delegabili al direttore generale, l’oggetto della prestazione del quale è determinata e determinabile, non può che conseguirne, a rigor di logica, per definizione, che siano determinate e determinabili anche le prestazioni degli amministratori ove questi avessero ritenuto essere più proficuo una gestione diretta degli affari sociali. 
Ma se così è, come logica vorrebbe, sarebbe difficile negare che la natura di prestazione d’opera intellettuale riconosciuta all’attività del direttore generale, non importa se legato alla società da un rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione consulenziale, non debba essere riconosciuta, a parità di contenuti, anche alla prestazione dell’amministratore.
Né è rilevante, almeno a parere di chi scrive, che si verta in una situazione di amministratore unico, perché se è pur vero che, come abbiamo già rilevato, non è legittimamente configurabile il duplice incarico di amministratore unico e direttore generale, è altrettanto vero che le prestazioni delegate a quest’ultimo da un amministratore unico altro non siano che una parte delle prestazioni dovute dall’amministratore alla società. Ritorniamo, quindi, al nodo centrale della questione, ossia se, a parità di contenuto delle prestazioni, il credito nascente dalle medesime possa avere natura diversa. Tema al quale abbiamo già dato una risposta negativa che troverà la sua naturale conclusione nel successivo paragrafo denominato “Dal contenuto della prestazione pretesa alla natura del credito”.
Ma v’è di più. Lasciando in disparte, per il momento, il tema delle società a responsabilità limitata nelle quali è possibile, a condizione che patti sociali lo consentano,  di riservare all’assemblea taluni poteri gestori, ad esempio l’approvazione dei business plan e dei budget  situazione all’interno della quale sarebbe difficilmente negabile l’esistenza di un rapporto di coordinazione –  non è possibile astrarsi dalla considerazione che nelle prassi di mercato si sono da tempo affermati i c.d. “accordi di management” all’interno dei quali sono regolati ex ante i rapporti tra società e amministratore, a partire dal compenso che gli sarà riconosciuto e a quale titolo in caso di eventuali cumuli con altri incarichi, nonché a quali politiche si dovrà ispirare nel gestire gli affari sociali, etc.
Tali accordi sono stati ritenuti legittimi dalla miglior dottrina che ha affermato come i due rapporti possano ben essere inquadrati nell’ambito di un unico contratto “nel quale le prestazioni stesse siano causalmente collegate ancorché nettamente distinte tra loro”.[28]
L’ipotesi tipica è quella del manager, assunto come dirigente, il quale si impegna contestualmente ad assumere la posizione di membro del consiglio di amministrazione, legando le sorti dei due rapporti, di modo che la cessazione di uno determini l’interruzione anche dell’altro. Un contratto di questo tipo sarebbe “misto” nella forma, seppure requisito indispensabile è che le prestazioni siano nettamente distinte nella sostanza. Ciò non di meno, il fatto che le funzioni del manager altro non sono che quelle delegategli dagli amministratori ingenera forzatamente una etero-coordinazione dell’assemblea– recte: dell’azionista di maggioranza – nei confronti dell’amministratore/direttore generale che mal si concilia con il predicato dell’assenza di coordinamento. 
Il ruolo che la prassi ha riconosciuto agli accordi di management è di evidente importanza nell’ambito dell’indagine che stiamo conducendo se solo si voglia tenere in considerazione come, generalmente, mediante tali accordi sia disciplinata, inter alia, la nomina e la conferma alla scadenza del mandato dell’amministratore, le ipotesi di giusta causa di revoca, nonché ipotesi di piani di remunerazione parametrati al raggiungimento degli obiettivi conformi agli obiettivi previsti nell’accordo. 
L’affermazione, incontestabile, che il manager/amministratore non sarebbe tenuto a rispettare i contenuti dell’accordo di management, in considerazione del fatto che la legge gli attribuisce la gestione esclusiva dell’impresa, non pare affatto dirimente ai fini che interessano, giacché ciò si verificherà in concreto solo nel caso in cui una determinata azione prevista dal contratto danneggiasse la società o i creditori. In ogni altra eventualità non vi sarebbe ragione per l’amministratore/manager di discostarsi dagli obblighi assunti in sede di assunzione. 
Ed allora, come autorevole dottrina ha rilevato, sarebbe innegabile che al rapporto formale tra la proprietà e l’organo amministrativo ben si possa affiancare un informale rapporto fiduciario che si manifesterebbe, non solo tramite accordi come quelli appena descritti, ma anche in direttive confidenziali cui l’amministratore non potrebbe non adeguarsi anche perché soggetto, come in precedenza più volte evocato, al potere di revoca ad nutum dell’assemblea[29]. Né si può escludere che tali direttive abbiano ad oggetto sia materie di gestione, sia mansioni o attività generalmente attribuite al dirigente/consulente.
L’affermazione per cui il rapporto che lega l’amministratore alla società è di tipo societario non dovrebbe perciò, almeno a nostro sommesso parere, condurre a ritenere, con tutte le conseguenze del caso, l’inapplicabilità al rapporto stesso delle norme generali sul contratto per la predicata assenza di contenuti obbligatori determinati e astrattamente determinabili.
Ad ulteriore conferma del fatto che nella pratica quotidiana delle imprese collettive è usuale che gli azionisti/soci impartiscano direttive agli amministratori, e che tale prassi non sia ignota all’ordinamento, soccorrono le disposizioni – artt. 2497 cc. e segg. – che regolano, nell’ambito dei gruppi d’imprese, la responsabilità della capogruppo che eserciti la direzione e coordinamento delle proprie controllate, potere questo che, per unanime opinione, si estrinseca nell’esercizio di una pluralità sistematica di atti d’indirizzo nei confronti degli organi amministrativi delle controllate, che determina un’influenza attiva sulla vita di queste consapevolmente esercitata dalla capogruppo[30].
A riguardo non paiono più sussistere dubbi sulla legittimità dei c.d. “contratti di dominio”[31] tramite i quali si realizza una vera e propria “alienazione del governo della società”[32] senza che per altro venga meno l’autonomia giuridica della controllata[33]. 
A riguardo, autorevole dottrina ha sostenuto che “non si vede per quale ragione sia lecito esercitare (senza conseguenze risarcitorie) una corretta direzione unitaria nei confronti di società controllate, come si evince dall’art. 2497, comma 1, ma non sia invece lecito, a fortiori, regolamentare contrattualmente il contenuto, che dovrà̀ essere necessariamente non illecito (arg. ex art. 1346 c.c.) e pertanto non contrario ai principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale”[34]. 
Anzi, per il tramite della contrattualizzazione del dominio “diviene possibile stabilire con chiarezza e precisione quali siano il contenuto, i limiti, le modalità̀, gli organi investiti dell’attività di direzione e coordinamento, i doveri di adempimento delle società sottoposte, le regole di controllo e di adeguamento”[35]
Inoltre, di là dell’ipotesi di una direzione e coordinamento in danno della controllata, è opinione condivisa che gli amministratori della controllata possano essere revocati e chiamati in responsabilità qualora non abbiano dato seguito alle direttive ricevute ne sia derivato un danno per il gruppo[36]. Si è anche affermato, a riguardo, l’utilità dell’inserimento negli statuti delle società dipendenti di clausole dirette a definire, in modo specifico, entro quali limiti sussista l’obbligo degli amministratori di dare esecuzione alle direttive emanate dalla società dominante[37]. 
Non è un caso che di tutto ciò non vi sia traccia, anche semplicemente per negarne la rilevanza, all’interno della formazione del pensiero maggioritario.
A questo punto della disamina non ci sembra particolarmente eversivo dubitare che il revirment delle SS. UU. del 2017, sui cui principi si fonda l’assunto dell’ordinanza in commento, là dove nega in assoluto l’esistenza di un qualsiasi rapporto di direzione e coordinamento tra società e amministratore, non solo non abbia tenuto conto delle lecite prassi in uso nel mercato delle imprese e del lavoro, ma che non abbia neppure tenuto in considerazione le ricadute della regolamentazione positiva di parte di dette prassi.
5 . Dal contenuto della prestazione pretesa alla natura privilegiata del credito
Seppure più che qualche accenno sia già stato sviluppato nel precedente paragrafo riguardo al fatto che debba essere il contenuto della prestazione pretesa a determinare la natura privilegiata, o meno, del credito, occorre ora affrontare il tema in concreto, domandandosi se l’attività di coordinamento e organizzazione dei fattori di produzione dell’impresa altrui, sia, o no, un’attività di tipo intellettuale. 
È opinione condivisa che per prestazione d’opera intellettuale debba intendersi una prestazione per la cui esecuzione è richiesta un’attività intellettiva che risulta nettamente prevalente rispetto a quella materiale. La prestazione d’opera intellettuale, dunque, consiste nel mettere a disposizione le proprie competenze e risorse intellettuali specifiche in vista della realizzazione di un risultato utile per il proprio “cliente”.
Riguardo, poi, al concetto di “prestazione d’opera intellettuale” occorre avere riguardo all’intellettualità della prestazione piuttosto che dell’opera. Infatti, “mentre è possibile affermare che ogni attività umana abbia una componente intellettuale, data la fondamentale unità tra mente e corpo nell’agire, non ogni opera o risultato dell’azione possano definirsi intellettuali.”[38]. E’, dunque, il facere che deve essere contraddistinto da un forte momento intellettuale, momento intellettuale che caratterizza, oltre le professioni disciplinate dall’art. 2229 c.c., una molteplicità di lavoratori autonomi che svolgono un’attività professionale non imprenditoriale, cioè tutta quella vasta platea – ma non solo – di soggetti individuata e tutelata dall’art. 1 e segg. L. 22 maggio 2017, n. 81.
Orbene, nell’economia globalizzata è difficile revocare in dubbio che le competenze che la stessa legge richiede agli amministratori non siano competenze altamente professionali; una cognitio extra ordinem in grado di incidere con capacità innovative su realtà economiche complesse e rilevanti anche sotto il profilo giuridico. L’amministratore delegato di un’impresa di medie dimensioni è di norma un soggetto che ha conseguito la laurea in una delle più prestigiose università internazionali, che ha frequentato uno o più master in management aziendale, e che ha trascorso la prima parte della carriera in una delle grandi società internazionali di consulenza manageriale. Di tal che appare difficile negare che l’attività di organizzazione e coordinamento dei mezzi di produzione altrui non sia connotata da un’assoluta componente intellettuale. 
È vero che l’attività di amministrazione di società commerciali è anche contraddistinta da una componente di mandato a compiere atti giuridici in nome e per conto dell’ente collettivo, ciò non di meno tale componente, ponendosi a valle della prestazione, non ne riduce per nulla l’intellettualità[39], nel senso che l’atto giuridico non esisterebbe senza la prestazione d’opera intellettuale che la precede.
Ed allora, pare ritornare utile quella dicotomia esistente nel cosiddetto rapporto societario che la stessa Corte di cassazione è tornata a valorizzare, dopo l’arresto delle Sezioni Unite nel 2017 per cui pur nell’ambito di un unico rapporto, il compimento di atti giuridici in nome e per conto dell’ente collettivo contraddistinguerebbe solo i rapporti con i terzi, mentre nei rapporti interni prevarrebbe una relazione obbligatoria di prestazione d’opera intellettuale[40]. 
D’altro canto, come abbiamo già in precedenza argomentato, sarebbe quantomeno eccentrico sostenere che la natura del credito non sia dipendente dal contenuto della prestazione, bensì dalla qualità del prestatore. Tale qualità certamente rileva, ma unicamente per individuare, all’interno delle diverse tutele che la legge riserva ai prestatori d’opera intellettuale, quale sia il grado di privilegio che gli compete.
Declinando esemplificativamente tali principi, ove l’attività di organizzazione e coordinamento dei mezzi di produzione altrui fosse svolta da un dipendente con la qualifica di direttore generale, ai crediti dello stesso competerebbe il privilegio di cui al n. 1 dell’art. 2751 bis c.c., mentre ove la stessa attività fosse svolta da un direttore generale legato alla società da un rapporto di consulenza oppure da un amministratore delegato[41], ai relativi crediti dovrebbe  competere il privilegio ex art. 2751 bis n. 2 c.c. con la limitazione temporale degli ultimi due anni di prestazione. Peraltro, anche la figura del direttore generale è contraddistinta da una componente di mandato a compiere atti giuridici in nome e per conto dell’ente collettivo, senza, però, che l’esistenza di tale elemento sia stato ritenuto prevalente, e negativamente incidente, sull’intellettualità della prestazione.
6 . Il trattamento tributario dei compensi degli amministratori: rilevanza
Anche il trattamento tributario dei compensi degli amministratori può costituire una valida bussola di orientamento, giacché esso è espressione del principio sancito dall’art. 53 della Costituzione, secondo il quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.
È noto anche come non sia stato ritenuto lesivo di tale principio un impianto normativo che, come quello attualmente in vigore, differenzi il trattamento tributario a seconda del tipo di reddito prodotto dal contribuente[42].
La collocazione, dunque, in una categoria di reddito o in un’altra, non può essere considerata estranea al tema dell’individuazione della natura civilistica della prestazione dell’amministratore, proprio perché tramite la tassazione dei redditi si perseguono i principi espressi, non solo dal richiamato art. 53 Cost., bensì anche quelli dell’art. 3 Cost.
In base alle norme del TUIR il compenso percepito dall’amministratore è qualificato come reddito assimilato a quello di lavoro dipendente, ovvero di lavoro autonomo, a seconda che l’attività̀ svolta rientri o meno nell’ambito dell’attività̀ professionale del percipiente. 
In particolare: il compenso costituisce reddito assimilato a quello di lavoro dipendente se l’amministratore non esercita alcuna attività̀ professionale o esercita una attività̀ non inerente al funzionamento e alla gestione delle imprese sia nell’ambito della disciplina civilistica che tributaria. Inoltre, in perfetta aderenza al trattamento riservato ai redditi di lavoro dipendente e parasubordinato, i compensi corrisposti agli amministratori e qualificati come redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, incassati entro il 12 gennaio ma relativi all’anno precedente, si considerano percepiti nel periodo d’imposta precedente; essi, inoltre, non possono, al pari di quelli da lavoro dipendente, partecipare ai benefici regime della c.d. flat tax.
Nel caso in cui il percettore del compenso fosse un professionista esso è trattato alla pari di un reddito di lavoro autonomo ove la prestazione è ex se di natura intellettuale. 
Se l’immedesimazione organica interna dell’amministratore nell’impresa fosse così assoluta, e tale da identificare l’amministratore in essa, e questa nell’amministratore, come il pensiero dominante ritiene d’interpretare i canoni della sentenza delle SS. UU. del 2017[43], il legislatore tributario, esercitando la propria discrezionalità secondo criteri costituzionali, avrebbe dovuto assimilare il reddito prodotto dagli amministratori di società commerciali a quello d’impresa.
Siamo consapevoli che la scelta del legislatore fiscale non sia affatto risolutiva ai fini che qui interessano, ma certamente neppure può esservi considerata del tutto estranea.
7 . Lo “statuto” degli amministratori delegati
Abbiamo in precedenza trattato, al fine di provare la non indeterminatezza delle prestazioni loro richieste dalla legge e dall’atto di nomina, della possibilità che il consiglio di amministrazione deleghi a un direttore generale una parte dei propri poteri.
Allo stesso assetto di poteri delegati può pervenirsi, ai sensi dell’art. 2381 c.c., tramite l’attribuzione a uno o più amministratori delegati, o a un comitato esecutivo, di determinati poteri gestori. In tal caso si suole affermare che “il consiglio si svincola dal principio di collegialità”[44].
Seppure la nomina degli amministratori delegati sia riservata al consiglio non si esclude che siano legittime le clausole statutarie che ne rendano obbligatoria la nomina e che sia possibile prevedere statutariamente il contenuto della delega[45], di tal che nella prassi l’individuazione dell’amministratore delegato è spesso opera del socio di controllo cui seguono quegli accordi di management di cui si è già trattato e che possono vedere l’amministratore delegato chiamato ricoprire anche la carica di direttore generale.
Anche per quanto attiene l’ampiezza della delega si è già detto, potendo riguardare la totalità dei poteri gestori. In questo contesto, che riguarda la figura dell’amministratore delegato, può essere utile precisare come anche il perimetro dei poteri delegati possa essere predeterminato in sede di statuto[46] e come, nella prassi, la delega dei poteri trovi il suo limite naturale nelle previsioni del business plan triennale e nel budget annuale approvati dal consiglio di amministrazione, nel senso che il consigliere delegato non può compiere atti eccedenti quanto previsto nei due documenti di governo e programmazione aziendale sopra indicati.
Venendo ora alla questione più attinente al tema d’indagine, ossia se anche per l’amministratore delegato possa sostenersi l’esistenza di un rapporto d’immedesimazione organica interno con la società, cui sia del tutto estranea una qualsivoglia attività di coordinamento da parte dell’organo delegante, è possibile osservare – limitandoci a ciò che accade nelle prassi più diffuse – come il consigliere delegato debba scrupolosamente attenersi a quanto previsto nei documenti di governo e programmazione approvati dal consiglio di amministrazione, pena la sua responsabilità endosocietaria che può determinarne la revoca per giusta causa e costituire motivo di denuncia ex art. 2408 e 2409 c.c.[47].  La stessa regola degli assetti organizzativi, diversamente, ne uscirebbe sovvertita.
Ebbene, in simili situazioni di fatto[48], ci pare difficile sostenere che l’amministratore delegato sia anch’esso quel “vero egemone dell’ente sociale”, come sostenuto dal pensiero maggioritario, al pari dell’amministratore unico e degli amministratori con poteri disgiuntivi, trovando l’esercizio dei suoi poteri limite invalicabile nei documenti di governo e programmazione approvati dal consiglio di amministrazione, rispetto ai quali la sua attività è giocoforza sotto-coordinata.
Altrettanto complesso sarebbe sostenere la tesi della non determinatezza dell’opera richiesta all’amministratore delegato, stante appunto la specifica perimetrazione delle attività ad egli delegate, e ciò anche in relazione al fatto che la delega da origine a un nuovo e diverso rapporto che da diritto a una separata retribuzione[49], difficilmente assimilabile, quanto a contenuti della prestazione richiesta, a quella dei semplici consiglieri di amministrazione privi di poteri operativi.
Infine, a chiudere il sistema, vi è sempre la possibilità per il consiglio di amministrazione di revocare la delega e modificarne limiti e modalità d’esercizio anche in assenza di giusta causa[50]; possibilità che a noi pare possa almeno consentire di porre in dubbio una sua assoluta egemonia sull’ente sociale.
8 . Le peculiarità del rapporto società-liquidatori
Se per gli amministratori, particolarmente per i consiglieri delegati, abbiamo visto esserci molteplici argomenti per sostenere fondatamente la tesi l’esistenza di un obbligo di prestazione di natura intellettuale in favore della società, autonomo rispetto al rapporto d’immedesimazione organica, e che può anche essere oggetto di contrattualizzazione in quanto meritevole di tutela, per i liquidatori è la legge – art. 2487 c.c., primo comma, lett. c) – che , contrariamente a quanto sostenuto in una non lontana pronuncia della Corte di cassazione[51], sancisce come essi nell’espletamento dell’incarico debbano attenersi ai criteri fissati dall’assemblea riguardo alle modalità con cui la liquidazione deve svolgersi, “con particolare riguardo alla cessione dell'azienda sociale, di rami di essa, ovvero anche di singoli beni o diritti, o blocchi di essi; gli atti necessari per la conservazione del valore dell'impresa, ivi compreso il suo esercizio provvisorio, anche di singoli rami, in funzione del migliore realizzo”. Non solo. Il terzo comma dell’art. 2487 c.c. consente all’assemblea di modificare i suddetti criteri nel corso di tutta la liquidazione.
Proprio in relazione a tale potere d’indirizzo riservato ex lege all’assemblea, la stessa Corte di cassazione in un precedente arresto aveva, infatti, affermato che “lo statuto legale dei liquidatori delle società di capitali (e delle società cooperative) non è identico a quello degli amministratori, atteso che i poteri di questi ultimi si presumono in base alla legge mentre quelli dei secondi devono risultare dalla deliberazione dell’assemblea che li ha nominati”[52]. 
All’assemblea, dunque, competono ampi poteri, finalizzati a gestire la delicata fase della liquidazione, al fine di orientare l’intero procedimento verso l’obiettivo finale di massima valorizzazione del patrimonio sociale[53]. 
La ratio di tale disposizione appare evidente, nella sua esplicita volontà di rendere l’assemblea dei soci un interlocutore istituzionale privilegiato non solo dal punto di vista genetico- strutturale del procedimento di liquidazione, ma anche, se non soprattutto, in una prospettiva funzionale e dialettica di coordinamento del lavoro dei liquidatori, i quali non possono discostarsi dalle sue indicazioni, essendo le medesime vincolanti, ovviamente ove non si ponessero in contrasto con disposizioni di legge imperative[54].
Si è anche affermato che la limitazione dei poteri dei liquidatori da parte dell’assemblea può estendersi financo ai poteri di rappresentanza, sia sostanziale che processuale[55]; segnale questo di quanto possa essere invasivo l’atto di nomina dei liquidatori rispetto alla loro libertà di azione. A questo proposito, taluni autori hanno ritenuto, correttamente a nostro parere, che il legislatore, per la fase della liquidazione delle società di capitali, avesse voluto disegnare “un modello «ibrido» in cui l’operato dei liquidatori deve necessariamente aderire alla volontà̀ dei soci eventualmente espressa”[56].
Ovviamente, laddove l’assemblea non avesse inteso fissare i criteri della liquidazione e limitare i poteri dei liquidatori all’atto della loro nomina agli stessi dovranno essere riconosciuti tutti i più ampi poteri per la liquidazione dell’ente[57]. In ogni caso la non limitazione dei poteri di questi ultimi non intaccherebbe – stante il punto e virgola che separa i due aspetti normati dalla lett. c) del primo comma dell’art. 1487 c.c. – il potere assoluto dell’assemblea di disporre i criteri con cui la liquidazione deve essere svolta; che è l’aspetto dirimente ai fini della nostra indagine sulla sussistenza, o no, di una situazione di coordinamento tra società e liquidatori[58]. Infatti, i pieni poteri di questi ultimi troverebbero sempre l’argine invalicabile costituito dai criteri di liquidazione fissati dall’assemblea.
9 . Gli arrière penseé del passato alla luce delle recenti novità normative nazionali e sovranazionali
A ben vedere, però, il dibattito, e il deciso in commento, sono stati condizionati da un evidente pre-giudizio. Lo spiega bene un datato arresto della Suprema Corte, laddove vi si afferma che “
la mancata estensione del privilegio risponde a una precisa scelta del legislatore fondata su ragioni di equità, essendo il regime dei privilegi destinato ad assumere pratico rilievo soprattutto in casi d’insolvenza del debitore; sicché trovasi affermato che, in simili casi, “apparirebbe poco plausibile che proprio i crediti di coloro che hanno condotto la gestione dell’impresa siano preferiti agli altri creditori”[59].
Che si tratti di un falso pre-giudizio lo dimostra il fatto che al credito dell’amministratore/liquidatore[60] responsabile del dissesto è negata l’ammissione al passivo del fallimento (della liquidazione giudiziale, oggi) anche nel caso in cui il giudizio di responsabilità sia ancora in corso, giacché “il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere dal creditore, a norma dell’art.93 L. F. , nel rispetto del principio di esclusività del concorso formale sancito dall’art.52, comma 2 L. F.”[61].
Se, dunque, la ragione che s’invoca per giustificare la negazione del carattere privilegiato della prestazione è la stessa che con cui si nega la possibilità per  l’amministratore responsabile del dissesto di ottenere l’ammissione al passivo del fallimento del relativo credito, dovrebbe apparire  chiaro come essa, al contrario, non costituisca una ragione, bensì una fallacia: discettare della natura privilegiata di un credito che non può concorrere ai riparti fallimentari sarebbe un esercizio inutile.
Sgombrato il campo dai pre-giudizi – si deve discutere solo della natura del credito dell’amministratore/liquidatore incolpevole – occorre comprendere se, e come, le modifiche normative di recente introdotte incidano sul tema su cui stiamo indagando.
Ci vogliamo riferire in particolare alla nuova struttura dell’art. 2086 sugli adeguati assetti organizzativi dell’impresa collettiva, che devono essere congegnati anche in funzione della tempestiva emersione della crisi e della sua soluzione tramite il rapido ricorso a uno degli strumenti messi a disposizione dell’ordinamento.
La domanda che ci si deve porre è se l’adeguatezza dell’assetto organizzativo debba essere valutata unicamente sotto il profilo oggettivo del modello prescelto o anche avuto riguardo alle competenze soggettive di chi è chiamato a gestire l’impresa e che, a mente dell’art. 2086, è il soggetto che ha il dovere di istituirlo.
È opinione diffusa nella dottrina gius-aziendalistica che le competenze degli amministratori, particolarmente quelle dell’amministratore delegato, siano una componente imprescindibile dell’adeguatezza degli assetti di corporate governance, i quali a loro volta costituiscono un fattore necessario perché l’assetto organizzativo complessivo dell’impresa possa essere giudicato conforme al dettato normativo. Le competenze e le professionalità degli amministratori, particolarmente di quelli delegati, dovranno essere coerenti, in primis, con l’articolazione del modello di business dell’impresa[62] e, quindi, con la situazione specifica – di continuità aziendale o di crisi – in cui l’impresa si trovi.
Tale opinione trova una solida conferma positiva nell’art. 2392 c.c., che, stabilendo che gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto «con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze», riconduce le relative modalità di adempimento a quelle di cui all’art. 1176, secondo comma c.c.[63] . Condividendo questa lettura si deve ritenere, in conseguenza, che la diligenza richiesta agli amministratori nell’espletamento del proprio incarico necessiti di un’ulteriore qualificazione, quella della perizia, che consiste nella conoscenza delle regole e nell’attuazione dei mezzi tecnici propri di una determinata arte o professione.[64]
Ne consegue che, quanto più le dimensioni dell’impresa siano ragguardevoli e più la sua gestione comporti la necessità di contrarre obbligazioni di rilevante quantità e qualità, tanto più l’amministratore dovrà essere dotato di una sempre più elevate capacità tecniche gestionali[65]. 
A questo punto della ricostruzione non deve apparire eccentrico, o, se si preferisce, eterodosso, se si dubitasse con convinzione della tesi dominante che vuole che l’attività dell’amministratore non possa essere considerata alla stregua di una qualsiasi attività professionale[66], distinguendosi, appunto, da quella dell’imprenditore per il fatto che a quest’ultimo non sono richieste le specifiche competenze tecniche che la legge pretende dall’amministratore di società commerciali[67].
Ma v’è di più. La nuova struttura dell’art. 2086 c.c., in tema di adeguatezza degli assetti organizzativi, catapulta gli amministratori, al semplice emergere di segnali di crisi, in una nuova dimensione, essi non rispondono più agli azionisti/soci, bensì hanno il dovere proteggere l’interesse dei creditori ben prima che l’insolvenza si manifesti, già nella cosiddetta fase di “crepuscolo”[68].
Se così è, però, risulta assai arduo, almeno a nostro parere, continuare a sostenere, almeno dal momento in cui i primi segnali di crisi si manifestano, che permanga un’immedesimazione organica anche interna tra amministratore e società. Quanto meno da quel momento viene ad evaporare ogni qualsivoglia identificazione tra amministratore e attività d’impresa, la quale non potrà più proseguire liberamente, dovendo in via prioritaria essere condotta entro gli stretti limiti della protezione degli interessi dei creditori e non più degli azionisti.
Infatti, mentre in una fase non patologica dell’impresa gli interessi dei soci sono allineati a quelli dei creditori, in quanto non sussiste la convenienza dei primi ad operare a danno creditori né quella di questi ultimi ad ostacolare l’attitudine della società ad incrementare la propria redditività, in una fase di crisi gli interessi tendono ad opporsi. I creditori sono interessati ad una gestione conservativa del patrimonio, i soci sono più propensi a cimentarsi in operazioni rischiose[69].
Nell’attuale ordinamento riformato coloro che agiscono per la società non possono più abusare, nell’interesse dei soci, dell’alterità soggettiva costituita per mezzo dello strumento societario, circostanza questa che determina un’innegabile scissione di identità funzionale tra amministratore e società. 
Indicativi, in tal senso, sono i limiti alla libertà gestionale che l’art. 21 del CCII impone agli amministratori nel corso della “composizione negoziata”. L’obiettivo della preservazione delle condizioni di sostenibilità economico finanziarie dell’impresa nell’interesse prevalente dei creditori si sostituisce a quello della massimizzazione dell’investimento degli azionisti; né v’è ragione per ritenere che tale necessario cambio di prospettiva non debba trovare attuazione anche nella fase precedente l’accesso alla composizione negoziata.
Tirando le fila dei contenuti di questo paragrafo, ci paiono sussistere molteplici ragioni per ritenere che all’amministratore di società commerciali possa riconoscersi, ferma la prevalente natura intellettuale delle sue prestazioni in precedenza affermata, un ruolo autonomo e distinto, rispetto alla società, quanto meno a partire dal momento dell’emersione dei primi segnali di crisi, ruolo che pretende la sussistenza di specifiche qualità professionali diverse da quelle, pur sempre altamente qualificate, dell’amministratore di società in bonis.
Alla luce di queste considerazioni appare quanto meno discutibile l’affermazione contenuta nella decisione in commento, secondo cui la nomina di un liquidatore, che avesse poi chiesto l’accesso alla procedura di concordato preventivo, non germinerebbe dall’obbligo di tutelare gli interessi dei creditori sussistendo una situazione di crisi/insolvenza, bensì dall’acclaramento del verificarsi di una causa di scioglimento ex art. 2484 c.c., come se in quello specifico caso la causa di scioglimento avesse potuto essere distinta dalla crisi/insolvenza.
Invero, al contrario, l’accertamento della causa di scioglimento ex art. 2484 c.c. e la conseguente nomina del liquidatore che richiedeva l’accesso al concordato preventivo rappresentava nient’altro che l’esatto adempimento connesso agli obblighi allo stesso imposti dall’art. 2086 c.c.[70].
Su quest’onda è possibile proseguire nel ragionamento e, facendo tesoro degli stessi insegnamenti della Corte di cassazione, riguardo alla possibile sussistenza in capo alla medesima persona fisica di un autonomo rapporto giuridico con la società, consulenziale ad esempio, si dovrebbe ritenere ammissibile che all’amministratore/liquidatore possa essere affidato il mandato di redigere e gestire il piano di risanamento, oppure che esso sia stato prescelto proprio in considerazione delle sue personalissime specifiche competenze in materia di gestione delle imprese in crisi e degli strumenti giuridici per la sua regolazione.
Nella prima ipotesi la natura prededucibile del credito dell’amministratore/liquidatore che avesse predisposto in proprio, senza l’assistenza di consulenti, il piano di risanamento e la domanda di concordato preventivo, non potrebbe essere messa in discussione, stante la sua derivazione da un rapporto giuridico diverso da quello di amministratore/liquidatore.
Non diversamente si dovrebbe concludere, proprio in ragione della proposta ricostruzione in tema di adeguatezza degli assetti organizzativi dell’ente collettivo, nel caso in cui la nomina dell’amministratore/liquidatore trovasse esplicita origine nelle specifiche competenze del candidato prescelto. Diversamente s’indurrebbero gli attori verso condotte assai poco virtuose, antitetiche a quelle delineate dagli artt. 2086 e 2392 c.c., che pretendono che alla carica di amministratore siano designati soggetti di comprovata competenza ed esperienza.
Negando, infatti, al credito dell’amministratore/liquidatore la medesima tutela accordata a quelli dei consulenti – a parità di contenuto della prestazioni – si finirebbe col favorire l’affidamento della carica gestoria a soggetti incompetenti[71], i quali si dovrebbero avvalere forzatamente di consulenti, con evidente aggravio di costi e introduzione di pericolose franchigie di responsabilità in cui ogni giorno, nell’esperienza pratica ci imbattiamo.
Per altro, limitando l’indagine alla figura del liquidatore – l’ipotesi di cui si è occupata l’ordinanza in commento – non è per nulla un’eccezione che il mandato a ricorrere a una procedura concorsuale/risanamento sia contenuta nell’atto stesso di nomina. Infatti, l’art. 2487 c.c. dispone che sia l’assemblea a determinare “i criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione; i poteri dei  liquidatori, con particolare riguardo alla cessione dell'azienda sociale, di rami di essa, ovvero anche di singoli beni o diritti, o blocchi di essi; gli atti necessari per la conservazione 
del valore dell'impresa, ivi compreso il suo esercizio provvisorio, anche di singoli rami, in funzione del migliore realizzo” e che dunque in tale sede possa delegare al liquidatore il compito di redigere il piano di risanamento e il connesso ricorso a uno degli strumenti di regolazione della crisi/insolvenza che l’ordinamento mette a disposizione del mercato.
Se è pur vero che, come sosteneva Ennio Flaiano, nel nostro Paese la linea tra due punti di un ragionamento è l’arabesco, ciò non di meno la necessità di coinvolgere nelle ristrutturazioni aziendali le migliori professionalità disponibili dovrebbe indurre il dibattito a maggiore concretezza; maggiore concretezza che, valorizzando in positivo i considerando (15), (29), (30) e (70) della Direttiva Insolvency, potrebbe offrire al mercato letture meno formalistiche e maggiormente modellate sul caso specifico; così eliminando, in perfetta aderenza alla filosofia della Direttiva, inutili ostacoli al concreto perseguimento della ristrutturazione dell’impresa sana in difficoltà finanziarie. Diversamente, come abbiamo accennato in esordio, nessun manager, serio e competente, assumerebbe la carica correndo il rischio – in assenza di sue responsabilità – di non essere pagato. 
10 . La questione dei crediti degli amministratori/liquidatori sorti in corso di procedura
Come abbiamo già chiarito nell’introduzione la decisione in commento non si è occupata della qualificazione dei crediti degli organi gestori sorti successivamente l’apertura del concordato, seppure il ricorrente avesse invocato anche il requisito della temporalità.
A chiusura di questo contributo ci occuperemo, dunque, anche della collocazione dei crediti degli amministratori e dei liquidatori sorti dopo l’ammissione della società alla procedura di concordato preventivo. Lo faremo avendo riguardo alle disposizioni del CCII che hanno ampiamente innovato le vecchie disposizioni dell’art. 111 bis L. fall.
In particolare, per quanto qui interessa, la lett. d) dell’art. 6 CCII dispone che godano della prededuzione “i crediti legalmente sorti durante le procedure concorsuali per la gestione del patrimonio del debitore, la continuazione dell’esercizio dell’impresa, il compenso degli organi preposti e le prestazioni professionali richieste dagli organi medesimi”.
Due sono le condizioni che la norma pone ai fini del riconoscimento della prededuzione: (i) il fatto che il credito sia sorto legalmente; (ii) che lo stesso sia sorto in relazione alla gestione del patrimonio del debitore o per la continuazione dell’impresa.
La sussistenza della prima condizione ci pare potersi riconoscere ogni qual volta il compenso dell’amministratore/liquidatore risulti da regolare delibera e il relativo costo sia ricompreso e ben evidenziato nel piano di concordato. 
Non si ritiene, per altro, che l’eventuale delibera, eventualmente intervenuta in corso di procedura, possa essere qualificata come atto di straordinaria amministrazione necessitante dell’autorizzazione del giudice delegato perché le si possa riconoscere il requisito della “legalità”, ovviamente se l’entità del compenso deliberato non incidesse significativamente sulla garanzia patrimoniale. 
In questo senso l’entità del compenso e le utilità del piano dovranno essere adeguatamente comparate.
Per quanto attiene alla seconda condizione, di là del perimetro da attribuire alla locuzione “organi preposti”[72], ci si deve domandare se vi possa essere una gestione del patrimonio del debitore o dell’impresa in assenza di un organo gestorio, e se, dunque, la tutela della prededuzione riguardi solo i crediti sorti per disporre dei fattori di produzione esterni necessari o se possano ricomprendervisi anche i crediti relativi all’opera di chi – amministratore o liquidatore – quei fattori di produzione è chiamato ad organizzare.
Nonostante i dubbi che potrebbero essere prospettati, ci pare difficile, anche in relazione a quanto in precedenza ampiamente argomentato, sostenere la tesi che trovi il suo presupposto nell’idea che possa esistere in rerum natura una gestione di un patrimonio o di una impresa in assenza di un soggetto deputato a tale scopo, e ciò sulla base dell’intuitiva considerazione che i fattori di produzione non si auto organizzano in una sorte di anarchico caos.
Ne va, dunque, con le limitazioni di cui si è in precedenza accennato e con la precisazione che la gestione non abbia danneggiato i creditori, che ai compensi maturati dagli organi gestori nel corso della procedura di concordato preventivo non possa essere disconosciuta la tutela della prededuzione al pari di qualsiasi altro fornitore di beni e servizi, il cui acquisto diversamente sarebbe non solo inutile, bensì dannoso.
11 . Considerazioni conclusive
Pur nella consapevolezza del fatto che quel “muro di Berlino”, cui abbiamo fatto cenno in apertura, costituito da un vero e proprio “diritto vivente”, risulti ancora ben solidamente eretto, riteniamo che le argomentazioni contenute in questo contributo possano essere almeno di stimolo a riaprire la discussione in un clima che ponga definitivamente da parte i vecchi arrière penseé del passato e ogni altro pregiudizio ideologico, e ciò in funzione della piena attuazione dei principi di matrice europea in tema di ristrutturazione delle imprese sane in difficoltà finanziaria.

Note:

[1] 
Direttiva UE  20 giugno 2019, n. 1023: “(70) Per promuovere ulteriormente la ristrutturazione preventiva è importante garantire che i dirigenti non siano dissuasi dal prendere decisioni commerciali ragionevoli o dal correre rischi commerciali ragionevoli, in particolare ove tali pratiche potrebbero migliorare le probabilità di successo della ristrutturazione di un'impresa potenzialmente sana. Qualora l'impresa versi in difficoltà finanziarie, i dirigenti dovrebbero prendere misure per ridurre al minimo le perdite ed evitare l'insolvenza, come: richiedere consulenza professionale, anche sulla ristrutturazione e sull'insolvenza, ad esempio facendo ricorso a strumenti di allerta precoce, se del caso; proteggere gli attivi della società in modo da massimizzarne il valore ed evitare perdite di attivi fondamentali; esaminare la struttura e le funzioni dell'impresa per valutarne la sostenibilità economica e ridurre le spese; evitare di impegnare la società in tipi di operazioni che potrebbero essere oggetto di azioni revocatorie, a meno che sussista un'adeguata giustificazione commerciale; proseguire gli scambi commerciali nelle circostanze in cui ciò è opportuno per massimizzare il valore della continuità aziendale; avviare trattative con i creditori e procedure di ristrutturazione preventiva.”
[2] 
Cass. civ. SS. UU. 20 gennaio 2017 n. 1545.
[3] 
Cass. civ. SS. UU. 31 dicembre 2021 n. 42093; Cass. civ. 28 giugno 2019 n. 17596.
[4] 
Cass. civ. 20 ottobre 2021 n. 29252.
[5] 
Cass. civ. 16 aprile 2021 n. 10130.
[6] 
M. C. Cavallaro, Immedesimazione organica e criteri di imputazione della responsabilità, in Journals uniUrb, 2019, 39; B. Sordi, Rappresentanza, organo, organizzazione: l’itinerario del diritto amministrativo, in Quad. Fior., 2008, 187; A. De Valles, Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, 1931, 156. 3 O. Ranelletti, Gli organi dello Stato (Concetto, natura, rapporti), in Scritti giuridici scelti, 1992, I, 281.
[7] 
A. De Valles, cit., 281.
[8] 
Cass. civ., SS. UU., 20 gennaio 2017, n. 1545, cit.
[9] 
Cass. civ., SS. UU., 14 dicembre 1994, n. 10680; in precedenza Cass. civ. 2 ottobre 1991, n. 10259; Cass. civ. 24 marzo 1981, n. 1722; e successivamente Cass. civ. 20 febbraio 2009, n. 4261. Contra, precedentemente l’arresto delle SS. UU. del 2017: Cass. civ. 12 settembre 2008, n. 23557; Cass. civ. 17 ottobre 2014, n. 22046; Cass. civ. 27 gennaio 2015, 1439.
[10] 
Tra molti, per una ricostruzione storica del dibattuto, vedasi anche: M. Spadaro, La controversa qualificazione giuridica del rapporto che lega la società di capitali al suo amministratore, in Le Società, 2017, 613 ss.
[11] 
Cass. civ. 12 settembre 2008, n. 23557, cit.; Cass. civ. 17 ottobre 2014, n. 22046, cit; Cass. civ. 27 gennaio 2015, 1439, cit.
[12] 
Art. 2380 bis c.c.
[13] 
Art. 2364, n. 5, c.c.
[14] 
Riguardo alla natura chirografaria dell’amministratore di nomina giudiziaria: Cass. civ. 27/02/2014, n. 4769; Cass. civ. 3 novembre 2011, n. 22800; Cass. civ. 23 luglio 2004 n. 13805. Contra: Trib. Napoli nord 16 novembre 2016, in IlCaso.it, che, proprio in un caso simile a quello dell’ordinanza in commento, ha avuto modo, non ha torto, di affermare: “Orbene un credito può ritenersi sorto «in funzione» della procedura concorsuale quando, pur non derivando da attività̀ direttamente svolta dagli organi della procedura, risulti comunque alla stessa strumentale e quindi in definitiva destinato ad avvantaggiare il ceto creditorio nella sua globalità̀ (cd. criterio funzionale): in sostanza, ogni qualvolta gli oneri sopportati da terzi o da singoli creditori siano relativi ad atti i cui effetti ridondano a vantaggio di tutti i creditori, appare del tutto razionale riconoscere a quei crediti il rango e la qualità̀ di crediti prededucibili. L’attività̀ di amministrazione giudiziaria svolta dal C., sebbene istituzionalmente finalizzata a scopi in parte diversi, ha comunque salvaguardato l’interesse del ceto creditorio della procedura fallimentare, avendo di fatto conservato e preservato i valori aziendali della società impedendone in concreto il depauperamento. Ciò è a maggior ragione avvalorato anche dal fatto che è stato proprio il C., nella sua qualità di amministratore giudiziario, a promuovere ricorso in auto fallimento, e ciò proprio nell’interesse indubbio dei creditori sociali.
[15] 
Cass. civ. 24 aprile 1956, n. 845, in Giur.it., 1957, I, 586.
[16] 
Cass. civ. 29 dicembre 2017, n. 31204; Cass. civ., SS.UU., 23 gennaio 2017, n. 1641; Cass. civ. 22 ottobre 1998, n. 10488.
[17] 
F. Galgano, Le nuove società di capitali e cooperative, 2004, 251; S. Bologna, Sulla natura giuridica del rapporto tra amministratore e società per azioni, in RGL, 2017, III, 403.
[18] 
Cass. civ., SS. UU., 20 gennaio 2017, n. 1545, cit.
[19] 
A scanso di equivoci si precisa che il termine è usato in senso atecnico.
[20] 
Cass. civ. 26 gennaio 2018, n.2037. Per l’applicabilità del principio anche alle srl: Trib. Roma 28 febbraio 2019, in Iusletter.com; Trib. Torino, 18 ottobre 2012, in Giur.it., 2013, 867.
[21] 
Cass. civ. 20 ottobre 21, n. 29252.
[22] 
Art. 31, primo comma, L. fall.: “il curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite”, testo riversato senza modificazioni sostanziali al primo comma dell’art. 128 CCII.
[23] 
Da parte dell’assemblea per quanto attiene all’amministratore, da parte del Tribunale per quanto attiene al curatore.
[24] 
Cass. civ. 5 dicembre 2008, n. 28819.
[25] 
Nella sentenza la Corte parla di “opportuna precisazione”.
[26] 
Cass. civ. 7 marzo 1996 n. 1793 (erroneamente richiamata in sentenza nella n. 1796). In proposito vedasi anche Cass. civ. 24 marzo 1956, n. 845, in Giur.it., 1957, I, 586. Per l’ammissibilità del doppio rapporto vedasi anche INPS, messaggio 17 settembre 2019, n. 3359.
[27] 
Cass. civ. 13 novembre 2006, n. 24188; Cass. civ. 5 settembre 2003, n. 13009; Cass. civ. 24 maggio 2000, n. 6819; Cass. civ. 10 febbraio 2000, n. 1490.
[28] 
P. Ichino, Il contratto di lavoro, in Trattato di Diritto Commerciale, diretto da L. Mengoni, XXVIII, 2, 2000, 311. Di contro non è stata reperita giurisprudenza che ne abbia negato la validità.
[29] 
F. Galgano, Il gruppo nei rapporti interni, in Trattato di Diritto Civile, IV, 2014, 860.
[30] 
P. Montalenti, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi, in Rivista delle Società, 2007, 317; R. Santagata, Autonomia privata e formazione dei gruppi nelle società di capitali, in Il nuovo diritto delle società, III, 2007, 799 ss.; Trib. Milano, 23 aprile 2008, in Le Società, 2009, 78 ss.
[31] 
Trib. Roma, 17 luglio 2007, in Riv. dir. comm., 2008, II, 215, che ha affermato che “la nuova disciplina della attività di direzione e coordinamento di società contenuta negli art. 2497 ss. c.c. [..] induce a valutare con favore la validità dei contratti di dominazione”.
[32] 
G. B. Portale, Rapporti fra assemblea e organo gestorio nei sistemi di amministrazione, in Il nuovo diritto delle società, 2007, 31; P. Montalenti, cit., 330 ss.; A. Valzer, Il potere di direzione e coordinamento di società tra fatto e contratto, in Il nuovo diritto delle società, 870 ss.; S. Cerrato, Il ruolo dell’assemblea nella gestione dell’impresa: il “sovrano” ha veramente abdicato?, in Riv. dir. civ., 2009, 147; U. Tombari, Riforma del diritto societario e gruppo di imprese, in Giur. comm., 2004, I, 67. Nei limiti del rispetto dell’interesse sociale della controllata: R. Rordorf, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, in Le Società, 2004, 540.
[33] 
P. Dal Soglio, Sub art. 2497, in Commentario breve al diritto delle società, 2016, 1546; G. Sbisà, Sub. art. 2497, in Commentario alla riforma delle società, 2015, 14.
[34] 
P. Montalenti, cit., 331.
[35] 
Ibidem, 332.
[36] 
A. Valzer, cit., 833.
[37] 
Un espresso riferimento al fatto che l’attività di direzione e coordinamento possa essere esercitata in base a clausole statutarie lo si ritrova all’art. 2497septies c.c., disposizione che, allo stato, seppure scarsamente applicata, non è stata oggetto di rilievi critici.
[38] 
F. M. Bandiera – A. P. Ugas, Art. 2230 – Prestazione d’opera intellettuale, in Commentario del Codice civile. Dell'impresa e del lavoro, a cura di O. Cagnasso – A. Vallebona, 2014, 537.
[39] 
Sulla compatibilità tra mandato e prestazione d’opera intellettuale, F. Santoro Passarelli, Opera (contratto di), in Noviss.Dig it., XI, 1976, 986; C. Lega, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, Milano, 1974, 6; G. Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 42; F. Carnelutti, Figura giuridica del difensore, in Riv. dir. processuale, 1940, I, 65; F. M. Bandiera – A. P. Ugas, cit., 519.
[40] 
Cass. civ. 20 ottobre 2021 n. 29252, cit.
[41] 
La figura dell’amministratore delegato sarà approfondita in un successivo paragrafo.
[42] 
Inter alia: Cost. 30 giugno 1994, n. 272; Cost. 23 dicembre 1997 n. 431; Cost. 7 novembre 2001 n. 362; Cost. 31 maggio 2001 n. 174; Cost. 121 maggio 2001, n. 56.
[43] 
Per una lettura alternativa: Cass. civ. 20 ottobre 21, n. 29252, cit.
[44] 
F. Bonelli, Gli amministratori di S.p.A, 2013, 89.
[45] 
Ibidem, 90.
[46] 
Ibidem, 91.
[47] 
O. Cagnasso, Gli organi delegati nelle società per azioni. Profili funzionali, 1976, 115.; M. Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, 2002, 250; F. Bonelli, cit., 98.
[48] 
Escludendo, dunque, tutti i casi in cui la delega dei poteri sia generica, assoluta e senza limiti.
[49] 
F. Galgano - R. Genghini, Il nuovo diritto societario, 2004, 270; F. Bonelli, cit., 92.
[50] 
F. Bonelli, cit., 99; In tal senso Trib. Verona, 14 febbraio 1989, in Le Società, 1990, 954, ha ritenuto illegittima una clausola statutaria ostativa la revoca dei poteri delegati; a compendio Trib. Genova, 14 febbraio 1986, in Riv. not., 1986, 971.
[51] 
Cass. civ. 7 marzo 2018, 5489 in cui si è sostenuto: ” che non sussiste ragione alcuna per differenziare la posizione del liquidatore da quella dell’amministratore; anche il liquidatore svolge un’attività riferibile all’intera organizzazione dell’impresa, benché’ ovviamente dell’impresa in fase di liquidazione: in coerenza col conseguimento del mutato scopo (liquidatorio) al quale ogni residua attività devesi ritenere convertita, pure quelle di liquidazione costituiscono, cioè, attività di gestione dell’impresa”.
[52] 
Cass. civ. 14 giugno 2016, n. 12273; commentata da: G. Fauceglia, Un ritorno al diritto societario comune: l’assemblea, il potere del liquidatore e la crisi d’impresa, in Il Fall., 2016, 1305; S. Turelli, Competenze gestorie dei liquidatori di società di capitali e potere di decidere sulla proposta del concordato preventivo e sull’esercizio provvisorio dell’attività d’impresa Corr. giur., 2017, 1566; M. Spiotta, Difetto di legittimazione attiva dei liquidatori a presentare la proposta di concordato, in Le Società, 2016, 1329. Più in generale, S: Serafini, Riflessioni sulla gestione liquidatoria di società di capitali in crisi, in Giur. comm., 2018, 689. Riguardo al tema specifico del concordato, va considerato che l’art. 256 CCII prevede che possa essere proposto il concordato nella liquidazione giudiziale da chi ha la rappresentanza della società, ciò non di meno l’assemblea può legittimamente escludere tale potere con l’atto di nomina dei liquidatori.
[53] 
J. Sodi, La nomina dei liquidatori di s.r.l. e l’intervento del notaio, in Rivista di diritto societario, 2007, 154.
[54] 
E. Scimemi, I poteri dei liquidatori delle società di capitali nella distribuzione dell’attivo, in Le Società, 2008, 292. N. Soldati, I poteri dei liquidatori nelle società cooperative, in Diritto e pratica delle società, 2003, 42; con nota di Di Brina L. I poteri dei liquidatori di società di capitali, in Le Società, 2012, 774.
[55] 
Cass. civ. 26 febbraio 2016, n. 3813.
[56] 
F. Fimmanò, F. Angiolini, Osservazioni sulla responsabilità dei liquidatori, in Società e Contratti, Bilancio e Revisione, 05/2019, 22.
[57] 
Ibidem, 22. Cass. civ. 1° giugno 2017, n. 13867, con commento M. Spiotta, Un’ulteriore puntualizzazione (o un revirement?) sui poteri dei liquidatori, in Giur.it., 2017, 1875; M.G. Trivigno, in La Suprema Corte ritorna sui poteri dei liquidatori, in Notariato, 2017, 664.
[58] 
Discettare sul fatto se la regola generale sia quella fissata dall’art. 2489 c.c. – che crono-logicamente si pone dopo quella dell’art. 2487 – e che afferma che i liquidatori hanno pieni poteri (così è stato sostenuto dall’ordinanza sub 45), salvo limitazioni statutarie o quelle dell’art. 2487, o se la regola generale  sia quella fissata in quest’ultima non appare per nulla risolutivo per quanto qui interessa, giacché così si darebbe per presupposto che l’assemblea non abbia deliberato in conformità a questa ultima disposizione all’atto di nomina dei liquidatori, e, a questo proposito sarebbe difficilmente revocabile in dubbio la circostanza che, in stretto ordine temporale, interviene prima l’atto di nomina e come, dunque, solo ove l’assemblea non avesse limitato i loro poteri, entri in gioco l’art. 2489.
[59] 
Cass. civ. 26 febbraio 2002. n. 2769; Cass. civ. 7 marzo 2018, n 5489, cit.
[60] 
Se in astratto è possibile ipotizzare che un liquidatore possa essere responsabile del dissesto di un’impresa, in concreto si tratterebbe di casi eccezionali che, come tali, non potrebbero mai giustificare un’esegesi “punitiva” di una disposizione di legge che non affermi esplicitamente il principio che si vuole sostenere.
[61] 
Ex pluribus: Cass. civ .7 febbraio 2022, n.3804; Cass. civ. 20.4.2021, n. 10394.
[62] 
P. Bastia e E. Ricciardiello, Gli adeguati assetti organizzativi funzionali alla tempestiva rilevazione e gestione della crisi: tra principi generali e scienza aziendale, in Rivisteweb.it, 2020, 7; P. Riva, La mappa dei ruoli e i compiti degli attori della governance societaria in situazione di going concern, in P. Riva (a cura di), Ruoli di Corporate Governance. Assetti organizzativi e DNF, 2020, XXIII, 3.
[63] 
A. Zanardo, Delega di funzioni e diligenza degli amministratori nelle società per azioni, 2010, 165; S. Ambrosini-M. Aiello, Società per azioni. Responsabilità degli amministratori, in Giur. comm., 2010, II, 957più.
[64] 
N. Abriani, Le regole di governance delle società per azioni: introduzione alla nuova disciplina, in Abriani-Onesti, La riforma delle società di capitali. Aziendalisti e giuristi a confronto, Atti del convegno di Foggia, 12 e 13 giugno 2003, 2004, 16.
[65] 
A. Toffoletto, Amministrazione e controlli, in AA.VV., Diritto delle società, 2006, 22.
[66] 
Per l’equiparazione, A. Zanardo, cit., 164; S. Ambrosini-M. Aiello, cit., 953.
[67] 
G. Terranova, Che cosa resta del piccolo imprenditore?, in Riv. dir. comm., 2010, I, 750, secondo il quale “professionalità” e “abitualità” non sono concetti equivalenti né tra loro sovrapponibili, dato che la prima designa una qualità che, talvolta, sussiste.
[68] 
R. Bernabai, Gli assetti organizzativi adeguati in una prospettiva storica, in L. Calcagno e F. Di Marzio (cura di), Gli assetti organizzativi dell’impresa, SSM, 2022, 18, 107.
[69] 
G. M. Buta, Tutela dei creditori e responsabilità gestoria nell’approssimarsi dell’insolvenza: prime riflessioni, in Società Banche crisi d’impresa, 2013, 2543.
[70] 
Seppure la vicenda regolata dall’ordinanza in commento fosse anteriore alle modifiche apportate all’art. 2086 c.c. dal CCII, ritenendo che la novella abbia solo precisato positivamente obblighi già immanenti nell’antecedente dettato, non vi sarebbe ragione per non estendere alla stessa le prospettazioni qui proposte.
[71] 
Delle vere “teste di legno”.
[72] 
Alla gestione o alla procedura? A nostro parere a entrambe.

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