La teoria organica e del principio d’imputazione nasce e si sviluppa originariamente nell’ambito del “diritto pubblico” per individuare e isolare “l’entità statale” dal “corpo sociale” al fine di imputare direttamente alla persona giuridica dello Stato l’attività svolta dai suoi organi[6]. Secondo tale teoria “l’ufficio non ha un’esistenza giuridica a sé, distinta dallo Stato, ma, come qualunque organo in un organismo, è parte dello Stato stesso”, e “ha vita nella unica persona dello Stato”[7] e, ciò, anche se il funzionario pubblico è legato allo Stato, o alle sue articolazioni periferiche, da un contratto di lavoro subordinato.
Tale constatazione consente una prima osservazione: il rapporto d’immedesimazione organica è estraneo sia all’oggetto dell’obbligo di facere, sia alla sua fonte.
Nel diritto commerciale il rapporto tra amministratore e società è stata questione, al contrario, per lungo tempo controversa, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, almeno sino al noto arresto delle Sezioni Unite del 2017[8], a seguito del quale la teoria dell’immedesimazione organica non solo esterna, detta anche del “rapporto societario”, ha avuto il definitivo sopravvento sulla teoria contrattualistica[9].
Non è questa la sede per ripercorrere, nelle loro variegate sfaccettature, tutte le tesi sviluppatesi a riguardo nell’arco di oltre trent’anni di discussioni, ciascuna ben illustrata nella decisione delle SS. UU. del 2017 cui si rinvia[10]. Sarà qui sufficiente ricordare come, secondo l’opinione contrattualistica, allo stato superata, l’immedesimazione organica tra società̀ e organo amministrativo, che consente di imputare direttamente alla prima gli atti compiuti dal secondo, doveva considerarsi operativa solo nei confronti dei terzi, mentre nei rapporti interni doveva ritenersi prevaletene un autonomo rapporto obbligatorio, caratterizzato da etero-coordinamento e da una posizione di debolezza contrattuale dell’amministratore, da cui si faceva derivare, la natura parasubordinata del rapporto.
Tale posizione, che fondava il suo presupposto sull’asserita dicotomia del rapporto sopra illustrata, è stata via via messa in discussione a seguito della riforma del diritto societario del 2003[11], che aveva nel frattempo attribuito in via esclusiva e assoluta all’organo amministrativo il potere di gestione dell’impresa[12] , con la contestuale limitazione dei poteri dell’assemblea, la cui ingerenza sull’operato degli amministratori, anche ove prevista dallo statuto, si è affermato, non ne potrebbe in ogni caso vincolare l’autonomia decisionale stante la loro responsabilità[13].
È sulla base di tali considerazioni che le Sezioni Unite – chiamate nuovamente ad esprimersi nel 2017, dopo ventitré anni – s’indussero a superare il proprio precedente orientamento e a qualificare il rapporto tra amministratore e società come “rapporto societario”, cioè un rapporto fondato sulla totale immedesimazione organica tra società e amministratore.
Costui sarebbe deputato, infatti, secondo il pensiero del giudice di legittimità, ad assicurare l’agire della società, non sulla base di un contratto di lavoro parasubordinato, di mandato o di prestazione d’opera, bensì in ragione del suo essere amministratore.
In sostanza, secondo le SS. UU., essendo l’amministratore “il vero egemone dell’ente sociale”, non sarebbe più possibile invocare – nel rapporto amministratore/società – la sussistenza di una qualsivoglia componente di etero-direzione e/o debolezza contrattuale del primo nei confronti della seconda. Tutto ciò, però, senza approfondire la natura contrattuale derivante dall’atto di nomina (una volta accettata), il diritto dell’assemblea di revocare senza giusta causa il nominato, nonché l’oggetto del facere; temi che saranno valorizzati nel prosieguo.
Corollari derivati dell’arresto del 2017 sono: (i) la competenza del tribunale delle imprese a dirimere tutte le controversie tra amministratori e società, anche quelle riguardanti il compenso; (ii) la possibilità che le prestazioni dell’amministratore – se previsto dallo statuto e/o dall’atto di nomina – siano erogate a titolo gratuito, senza che ciò possa violare il principio dell’art 36 Cost.; (iii) la piena pignorabilità dei compensi da parte dei creditori dell’amministratore; (iv) la natura chirografaria del credito per compensi, anche in caso di amministratore nominato dall’autorità giudiziaria[14].
Preliminarmente preme precisare come tale revirment nascesse da una controversia riguardante la pignorabilità piena, oltre i limiti dell’art. 545 c.p.c., dei compensi dell’amministratore, questione che, come quella della competenza giurisdizionale e della possibile gratuità della carica, sono del tutto estranee al tema della presente d’indagine. Nessuno ha mai dubitato, infatti, che un credito professionale potesse essere oggetto di pignoramento senza limite alcuno, o che un professionista potesse decidere di prestare gratuitamente la propria opera intellettuale, senza che la rinuncia al compenso potesse essere in seguito revocata invocando una violazione del principio di cui all’art. 36 Cost. Ciò non di meno non è mai stata messa in discussione la natura privilegiata ex art. 2751 bis, n. 2, c.c. di tali creditori.
Analogamente, il fatto che le controversie riguardanti i compensi degli organi sociali siano di competenza del tribunale delle imprese e non del giudice del lavoro non è affatto dirimente per stabilire la natura dei relativi crediti, giacché anche le controversie riguardanti i crediti professionali non sono di competenza del giudice del lavoro, bensì di quello ordinario.
Ciò che qui interessa, invece, è individuare con precisione l’oggetto, e la conseguente natura, della prestazione che il “rapporto societario” pretende dall’amministratore; oggetto che a noi sembra evaporare nella ricostruzione della Suprema Corte, tutta incentrata nell’individuazione della fonte del rapporto piuttosto che, appunto, sul contenuto della prestazione pretesa.
A questo punto occorre fare un passo indietro e domandarsi se l’immedesimazione organica – concetto che, ricordiamo, nasce in ambito pubblicistico al fine al fine di imputare direttamente alla persona giuridica dello Stato l’attività svolta dai suoi organi – elida alla radice la dualità soggettiva esistente tra amministratore e società, nel senso che gli interessi dell’amministratore, una volta nominato, coincidano ex se con quelli della società e viceversa, o se, oppure, essi vengano a coincidere solo in forza di un’obbligazione nascente, ex art. 1173, da una fonte atipica qual è il “rapporto societario” .
In proposito va osservato come l’’ufficio di amministratore non privi la persona che ne è onerata della propria capacità giuridica[15], tanto che, come ammettono le stesse SS. UU. nel proprio revirment del 2017, lo stesso può intrattenere, a determinate condizioni, un autonomo rapporto giuridico con la società, tema questo che sarà oggetto di approfondimento nel successivo paragrafo a sostegno della opportunità di riaprire la discussione sulla natura intellettuale, o no, dell’opera dell’amministratore di società di capitali.
Ritornando al suo oggetto, se non v’è dubbio che il perimetro delle prestazioni che tale rapporto atipico, una volta instaurato, impone all’amministratore sia vasto, esiste più di una ragione per dubitare che non sia indefinito, come, al contrario ha sostenuto la Suprema Corte.
Molteplici sono, come per i professionisti ordinistici, infatti, le modalità – l’interpretazione esecutiva dell’incarico – con cui la prestazione può essere svolta, ma non si può negare che essa consista in un oggetto che, per quanto lato, è, come si si cercherà di dimostrare, ben specifico.
Se, però, una prestazione esiste, pare difficile, continuando nel ragionamento, porre in dubbio che debbano coesistere sia un prestatore che un beneficiario. Ne è controprova la circostanza che la deviazione dell’amministratore dagli obblighi derivanti dal “rapporto societario”, che ne è la fonte, comporta una responsabilità dello stesso nei confronti della società, salvo eccentricamente ritenere che quella duale soggettività giuridica, cui prima abbiamo accennato come immanente anche nel rapporto di immedesimazione organica, non sussista sino a che l’amministratore adempie i propri obblighi e venga a emergere, così, d’emblée, al momento del verificarsi del suo inadempimento.
Venendo, ora, all’individuazione della prestazione pretesa, va preliminarmente annotato come l’art 2380 c.c. affidi agli amministratori in via esclusiva la gestione dell’impresa al fine dell’attuazione dell’oggetto sociale e nel rispetto delle disposizioni dell’art. 2086 c.c. in tema di adeguati assetti organizzativi, sulla cui dirimente portata ci si soffermerà più avanti.
L'impresa – che a mente dell’art. 2082 c.c. è un’attività economica organizzata professionalmente, finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o di servizi e che nell’ipotesi dell’imprenditore individuale è gestita da chi la detiene a titolo di proprietà o a altro titolo – nel caso dell’ imprenditore collettivo non è detenuta da chi la gestisce, bensì a questi affidata in forza di quel rapporto atipico di carattere societario, la cui atipicità, unitamente al rapporto d’immedesimazione organica che ne deriva, non vogliono affatto essere qui messi in discussione.
Ciò che a nostro giudizio rileva, ai fini della dimostrazione del permanere della predicata dualità soggettiva endosocietaria, tra organo deputato alla gestione e titolare dell’impresa, è che l’amministratore non ne è il proprietario, bensì unicamente il gestore. Un gestore d’impresa altrui soggetto a specifici e stringenti obblighi, primo tra tutti quello di operare con criteri di economicità, ossia di operare perseguendo la massimizzazione dell’investimento degli azionisti/soci. Questo è l’oggetto dell’incarico; lato certamente, ma non indefinito.
È l’organizzazione a questo fine dei fattori di produzione che compete all’amministratore di società di capitali, senza che perciò egli, in conseguenza del rapporto d’immedesimazione organica che ne deriva a seguito dell’accettazione della carica, possa essere equiparato all’imprenditore. L’amministratore, ad esempio, non “fallisce”, al contrario del primo, per effetto degli atti compiuti in rappresentanza e nell’interesse della società. Egli ne risponde in via contrattuale nei confronti di quest’ultima e in via extra contrattuale nei confronti dei singoli azionisti e dei creditori[16], ma al momento dell’insolvenza l’immedesimazione organica non produce sui due soggetti giuridici distinti gli stessi effetti, segno ulteriore che dimostra come sia difficile predicare l’esistenza di un unico soggetto ideale costituito dal binomio società/amministratore, dove la società è il suo amministratore e l’amministratore è la società.
Ciò che accomuna le due figure, quella dell’amministratore e dell’imprenditore, è l’attività di coordinamento dei fattori di produzione dell’impresa, attività che entrambi svolgono[17], ma non il titolo per cui lo fanno.
L’imprenditore esplica tale attività ex se, in quanto tale, nel proprio interesse, l’amministratore lo fa nell’interesse della società in conseguenza dell’atto di nomina accettato.
È il caso di precisare a questo punto del ragionamento come la figura dell’amministratore che sia al contempo azionista/socio di riferimento della società sia estranea, sia alle precedenti considerazioni, sia a quelle che seguiranno, mancando in essa quella dualità soggettiva tipica del rapporto amministratore/società/azionista di controllo.
Laddove vi sia identità soggettiva tra amministratore e socio maggioritario ci si trova di fronte, infatti, da un punto di vista sostanziale, a un imprenditore che agisce tramite lo schermo societario, condizione del tutto legittima, ma che sotto il profilo che qui interessa, deve essere equiparata a quella dell’imprenditore in senso lato.
Di là della fonte dell’obbligazione del facere, ciò che rileva ai fini della corretta determinazione della natura del credito dell’amministratore è definire quale sia il contenuto di tale attività, se essa si estrinsechi, o no, in una prestazione d’opera intellettuale. Domanda, questa, alla quale la Corte, nella sua più alta composizione, ha ritenuto di rispondere negativamente, poiché l’attività dell’amministratore non presenterebbe gli elementi del perseguimento di un risultato con la conseguente sopportazione del rischio e perché l’opus che l’amministratore si impegna a fornire non è determinato dai contraenti preventivamente, né è determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività di impresa[18].
Esattamente il contrario, ce ne rendiamo conto, di quanto abbiamo sin qui sostenuto, quando abbiamo individuato nel coordinamento dei fattori di produzione ai fini della massimizzazione dell’investimento degli azionisti/soci quell’opus che il “diritto vivente” nega sussistere per via dell’immedesimazione organica.
Ora fondere in un unicum l’attività di impresa – che ai sensi dell’art. 2195 c.c. è un’attività economica diretta alla produzione e allo scambio di beni e servizi – con l’organizzazione programmata e quotidiana dei suoi fattori di produzione, da parte di un soggetto che proprietario di quei mezzi non è, ci appare essere, se non una forzatura, quanto meno un’eccessiva semplificazione del problema, almeno sotto la lente d’ingrandimento della scienza economica, se solo si volesse tenere in debito conto dell’estremo grado di soggettività con cui quell’attività di coordinamento può essere svolta; il ruolo dell’amministratore interpretato.
Se l’attività dell’amministratore si identificasse davvero con l’attività dell’impresa, come sostenuto dal pensiero oggi dominante, i suoi risultati economici sarebbero indipendenti dalle qualità professionali di chi ne organizza i fattori di produzione, ma tutti sappiamo che così non è.
Sono le capacità manageriali, organizzative, dell’amministratore a fare la differenza in riferimento impresa. L’immedesimazione organica interna, alla luce di queste argomentazioni, appare come un clamoroso equivoco, giacché si appalesa come condizione estranea al contenuto della prestazione che, ripetiamo, è ben specifica essendo costituita dal “mandato”[19], conseguente all’accettazione della carica di amministratore, di coordinare i fattori produttivi dell’impresa altrui al fine di conseguire la migliore remunerazione dei suoi proprietari.
Ciò che è indeterminato, e questo è l’aspetto che pare essere sfuggito all’argomentare del pensiero prevalente, sono le modalità, del tutto personali, con cui il mandato di amministrazione può essere svolto, modalità che possono determinare il successo o l’insuccesso dell’intrapresa altrui, non l’obiettivo.
Il fatto stesso che una non adeguata interpretazione del ruolo possa determinare risultati ritenuti non soddisfacenti dagli azionisti/soci e, in stretta conseguenza, la revoca dell’attore destituisce, poi, di fondamento l’affermazione che l’amministratore nell’espletamento del suo incarico non sopporterebbe alcun rischio. Senza considerare, per altro, che il rischio è estraneo a tutte le prestazioni d’opera intellettuale, che, come noto, determinano l’insorgere di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, obbligazione che pretende esclusivamente un’attività lavorativa conforme a dati standard di diligenza e perizia e che presenta ex se margini significativi di incertezza, perché condizionata da fattori estranei alla sfera di controllo del soggetto obbligato.
Il fatto che lo stato d’immedesimazione organica interna sia quantomeno relativo è dimostrato dal fatto che, ai sensi dell’art. 2383 c.c., la revoca dell’amministratore da parte dell’assemblea può avvenire anche in assenza di giusta causa , dando diritto a quest’ultimo di ottenere unicamente il ristoro per la perdita dei compensi residui, ma non anche, in via automatica e diretta, la risarcibilità di altri tipi di danno, quale il pregiudizio all’onore o alla reputazione: il relativo pregiudizio deve essere specificamente allegato e dimostrato, come ulteriore conseguenza immediata e diretta della revoca[20].
Si tratta, insomma, di un diritto di recesso riconosciuto ex lege alla società, a tutela del pactum fiduciae che lega l’amministratore alla medesima. Circostanza questa che, a nostro parere, dovrebbe perlomeno consentire di dubitare che l’amministratore sia il “vero egemone dell’ente sociale”, proprio perché la sua egemonia trova limite nel diritto di revoca ad nutum che la legge riserva all’assemblea, diritto che non può che trovare il suo presupposto in una divaricazione tra le attese/pretese dell’assemblea e le condotte gestionali del nominato, divaricazione che, a sua volta può sussistere, come causa legittimante la revoca, solo se si ritiene che l’assemblea degli azionisti (cioè dei proprietari dell’impresa) possa dissentire sulle modalità con cui l’amministratore eserciti il ruolo di coordinatore dei suoi mezzi di produzione.
A cascata emerge la conferma che, contrariamente al pensiero oggi dominante, l’opus che l’amministratore deve fornire esiste ed è, come più volte richiamato, quello di massimizzare, tramite un adeguato coordinamento dei fattori di produzione dell’impresa altrui, l’investimento di chi l’ha nominato.
Ciò che l’assemblea nel nominare un organo amministrativo non determina sono le modalità con cui il nominato dovrà coordinare i fattori di produzione dell’impresa, come, simmetricamente, l’assistito non determina le modalità con cui l’avvocato deve difendere i suoi interessi in giudizio. Per quest’ultimo, però, nessuno ha mai dubitato, facendo leva sull’indeterminatezza dei modi, dell’esistenza dell’opus e della sua natura intellettuale.
Né può disconoscersi, ai fini dell’indagine che qui interessa, come negli anni le esigenze del mercato del lavoro, anche in altri ambiti professionali, abbiano fatto emergere nuove forme di prestazioni lavorative non riconducibili a nessuna delle forme tipiche del lavoro subordinato, del lavoro autonomo o del lavoro parasubordinato, di tal che non dovrebbe costituire un ostacolo insormontabile ipotizzare che il rapporto d’immedesimazione organica che lega l’amministratore alla società dia vita a un obbligo di una prestazione innominata dal contenuto intellettuale, così’ come è per il funzionario pubblico legato alla Stato dal medesimo tipo di rapporto, con l’unica differenza che per il dipendente pubblico l’obbligo di prestazione deriva da un contratto di lavoro dipendente e non da un atto, accettato, di nomina alla carica. In proposito ribadiamo la nostra convinzione che la fonte contrattuale dell’incarico sia del tutto neutra rispetto all’individuazione del contenuto e della natura dell’incarico.
In questo senso, di particolare interesse appare l’approfondimento che dell’arresto del 2017 fanno i giudici di legittimità in una loro successiva pronuncia del 2021 nella quale essi ne ridimensionano la portata.
Innanzi tutto, essi rilevano come, a ben vedere, l'arresto del 2017 - che aveva “affrontato il tema della qualificazione del rapporto tra amministratore e società di capitali sotto lo specifico angolo visuale della sua sussumibilità nei rapporti previsti dall'art. 409 n. 3) c.p.c., ai fini della perimetrazione della pignorabilità del compenso in relazione all'art. 545, comma 4, c.p.c. – “avesse “sconfessato solo alcuni degli enunciati del precedente del 1994”, e come anche all’interno di un “rapporto societario” di immedesimazione organica tra persona fisica ed ente – che assume certamente rilievo nei rapporti con i terzi – nei rapporti interni effettivamente sussista una relazione obbligatoria tra soggetti del tutto distinti tra loro. Verrebbe, si afferma in tale approfondimento, “in rilievo una dicotomia tra i poteri e le funzioni dell'amministratore, che discendono direttamente dalla legge e dal contratto sociale (da un lato) e gli eventuali diritti connessi allo svolgimento dell'attività̀ gestoria, con le correlate responsabilità̀ (dall'altro). Dicotomia che, a ben vedere, rappresenta un ulteriore sviluppo logico della possibilità, ribadita dalle Sezioni Unite del 2017, che nei rapporti interni tra società e amministratori si ingeneri «una relazione obbligatoria tra soggetti affatto distinti tra loro», capace in ultima analisi di integrare quella dualità̀ di posizioni – tipica dei contratti sinallagmatici – che risulta invero testimoniata in modo cristallino da numerose norme dello stesso titolo V del libro V del codice civile, nelle quali le posizioni soggettive dell'amministratore e della società risultano chiaramente contrapposte (si pensi, a titolo esemplificativo, all'art. 2475 ter in tema di conflitto di interessi, all'art. 2476 in tema di responsabilità̀ degli amministratori verso la società, agli artt. 2485 e 2486 in tema di responsabilità̀ degli amministratori per i danni subiti dalla società al verificarsi di una causa di scioglimento)”[21].
Da tale più avanzata e approfondita lettura, nella quale pare trovare conferma quella dualità di posizioni soggettive contrapposte che abbiamo a più riprese invocato; dualità che pretenderebbe, a sua volta, l’esistenza di un contratto e di un obbligo di prestazione nei confronti della società che esula da quello d’immedesimazione organica.
Giunti a tal punto è possibile tirare le fila di questi primi ragionamenti: (i) la prestazione che l’assemblea richiede all’amministratore con l’atto di nomina è quella di coordinare i mezzi di produzione dell’impresa di proprietà (mediata) degli azionisti al fine di massimizzarne l’investimento; (ii) le capacità manageriali dell’amministratore costituiscono un fattore di produzione estraneo all’impresa che gli è affidata; (iii) la sua egemonia all’interno della società è relativa, trovando un argine solido nel potere dell’assemblea di revocarlo anche in assenza di giusta causa; (iv) l’immedesimazione organica è concetto neutro rispetto alla qualificazione del rapporto, la cui natura va indagata in relazione al suo contenuto.
Rispetto a quest’ultima osservazione di sintesi può essere utile ricordare come anche il curatore sia legato al fallimento (oggi liquidazione giudiziale) da un rapporto d’immedesimazione organica assai simile a quello dell’amministratore di società di capitali, eppure nessuno ha mai revocato in dubbio l’autonoma natura intellettuale delle sue prestazioni[22].
Ciò che accomuna le due figure è il fatto che entrambe gestiscono un patrimonio altrui in forza di un mandato che trae origine per entrambi da un atto di nomina[23]. Il fatto che l’amministratore gestisca i fattori di produzione nell’interesse degli azionisti/soci e il curatore nell’interesse dei creditori, non pare affatto dirimente ai fini della determinazione intellettuale, o meno, della loro opera. Rileva, invece, per quanto qui interessa, il contenuto della prestazione che, in caso di esercizio provvisorio dell’impresa ex art. 211 CCII si identifica, come per l’amministratore, nell’organizzazione dei fattori di produzione, e nella normale operatività del curatore, nella liquidazione dell’attivo, al pari del liquidatore sociale.
Pare difficile revocare in dubbio, dunque, la circostanza che debba essere il contenuto della prestazione a identificare la natura del relativo credito e non il beneficiario diretto/indiretto della prestazione stessa.