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Saggio

La chiusura della liquidazione giudiziale ed i giudizi pendenti*

Francesco De Santis, Ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Salerno - Avvocato

31 Ottobre 2019

*Il saggio è estratto da Il Fallimento 10/2019
L’autore esamina le problematiche applicative e le criticità processuali sollevate in relazione all’art. 234 CCII, secondo cui, una volta compiuta la ripartizione finale dell’attivo, la chiusura della liquidazione giudiziale non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore mantiene la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio.
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1 . La chiusura della liquidazione giudiziale secondo la L. delega n. 155/2017
L’art. 7, comma 10, L.n. 155/2017, recante la “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, dedica alcune disposizioni alla chiusura della liquidazione giudiziale, con la dichiarata finalità di “accelerarla”.
La legge ha affidato al Governo ilcompito di integrare la disciplina (contenuta nella legge fallimentare) della chiusura della procedura in pendenza di procedimenti giudiziari, specificando che essa deve riguardare tutti i processi nei quali è parte il curatore, comprese le azioni per l’esercizio dei diritti derivanti dalla liquidazione giudiziale e dalle procedure esecutive, nonché le azioni cautelari ed esecutive finalizzate ad ottenere l’attuazione delle decisioni favorevoli conseguite dalla liquidazione giudiziale.
Oltre alle disposizioni tese ad implementare la portata “virtuosa” della disciplina ancora vigente (contenuta nell’art. 118 L. fall.), la legge delega ha introdotto un innovativo collegamento tra la chiusura della liquidazione ed il diritto societario, prevedendo che - nell’ipotesi di chiusura della
procedura relativa a società di capitali per assenza di domande di ammissione al passivo, ovvero a seguito del pagamento integrale dei debiti dello stato passivo prima della ripartizione finale - il curatore debba convocare l’assemblea ordinaria dei soci per le deliberazioni necessarie ai fini della ripresa dell’attività o della sua cessazione, ovvero per la trattazione di argomenti sollecitati, con richiesta scritta, da un numero di soci che rappresenti una percentuale significativa del capi- tale sociale.
La norma di delega (alla quale ha dato “letterale” esecuzione l’art. 233, comma 2, del “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” - CCII) si propone di istituire un raccordo tra la chiusura del concorso delle società di capitali - le quali (stante l’assenza di creditori istanti per l’ammissione al passivo, ovvero insoddisfatti) hanno maggiori chances di sopravvivere alla liquidazione giudiziale - e l’eventuale ripresa dell’attività oppure la sua definitiva cessazione.
L’iniziativa di convocare l’assemblea è affidata al curatore (il quale ne fissa altresì l’ordine del giorno), verosimilmente a cagione del fatto che, nelle società di capitali (specie in quelle con assetti proprietari frammentati), gli amministratori (in conseguenza dell’apertura della liquidazione) potrebbero aver maturato il disinteresse verso l’attività sociale [1].
È da ritenersi che, nell’ipotesi in cui l’assemblea non deliberi la prosecuzione dell’attività, il curatore debba chiedere senza indugio la cancellazione dell’ente dal registro delle imprese, come a mio avviso si desume dallo stesso comma 2 dell’art. 233 CCII, ove è previsto che - in caso di chiusura della liquidazione per l’avvenuta ripartizione finale dell’attivo, o per assenza di attivo - il curatore procede alla cancellazione della società (qui non importa se di capitali o di persone), fatta salva l’ipotesi della chiusura con liti pendenti, di cui al successivo art. 234, a cui sono dedicate le considerazioni che seguono.
2 . Modelli e rationes normativi
In esecuzione dei principi di delega, l’art. 233 CCII ha confermato tutte le ipotesi “tradizionali” di chiusura dellaliquidazione giudizialepreviste dall’ancora vigente art. 118 L. fall., chiusura alla quale, come è noto, si perviene: i) se nel termine stabilito nella sentenza con cui è stata dichiarata aperta la procedura non sono state proposte domande di ammissione al passivo; ii)quando, anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell’attivo, le ripartizioni ai creditori raggiungono l’intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti, e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione; iii) quandoè compiuta la ripartizione finale dell’attivo; iv) quando, infine, nel corso della procedura, si accerta (con la relazione o con i successivi rapporti riepilogativi del curatore, resi a norma dell’art. 130 CCII) che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura.
Per finalità di chiarezza sistematica, e differentemente dall’art. 118 L. fall. (che declina tutti i casi di chiusura del fallimento), il successivo art. 234 CCII racchiude in un’autonoma norma le sole ipotesi di chiusura cd. “anticipata” (ovvero “facoltativa”) della liquidazione giudiziale, implementando il novero delle ipotesi già previste dallo stesso art. 118 a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 7, comma 1, lett. a-b), D.L. 17 giugno 2015, n. 83, conv., con modif., in L. 6 agosto 2015, n. 32 [2].
Ai sensi dell’ancora vigente art. 118 L. fall., una volta che è compiuta la ripartizione finale dell’attivo, la chiusura della procedura non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore mantiene la legittimazione processuale, anche nei successive stati e gradi del giudizio, con possibilità (come più avanti si vedrà) di effettuare riparti supplementary all’esito dei detti giudizi.
L’art. 234 CCII, in esecuzione della norma di delega, ha introdotto in questo sistema alcune significative previsioni processuali, precisando, da un lato, che la chiusura della procedura non è impedita dalla pendenza di procedimenti esecutivi; e, dall’altro lato, che la legittimazione del curatore sussiste anche per i procedimenti, compresi quelli cautelari ed esecutivi, “strumentali” all’attuazione delle decisioni favorevoli alla liquidazione giudiziale, anche se instaurati dopo la chiusura della procedura [3].
La (lodevole) intentio legislatoris, perseguita sin dal 2015, è stata di alleggerire il carico delle procedure, destinate a restare aperte per il solo fatto della pendenza di giudizi (attivi o passivi), di cui è parte la curatela, consentendone una chiusura che può definirsi “anticipata”, in quanto svincolata dalla sua fine“naturale”, ossia il riparto finale dopo che tutte le liti pendenti si siano esaurite [4], nonché “facoltativa”, in quanto non si tratta di un passaggio obbligatorio per il curatore.
Il perseguimento di tale (in apparenza semplice)finalità [5] ha imposto l’introduzione di una disciplina piuttosto articolata, che, fin dal suo esordio, ha sollevato questioni processuali talora di non agevole soluzione, in specie nella pratica quotidiana della curatela, la quale (pur a seguito della chiusura anticipata del fallimento) deve continuare a farsi carico del peso “gestorio” riveniente da una sorta di perpetuatio della procedura, ancorché limitata agli sviluppi ed agli esiti delle liti pendenti.
La norma sembra, invero, rinvenire un precedente nell’art. 92, comma 7, D. Lgs. 1 settembre 1983, n. 385 (testo unico bancario, T.U.B.), in tema di chiusura della liquidazione coatta amministrativa delle ban- che, ove si prevede che “La pendenza di ricorsi e giudizi, ivi compreso quello di accertamento dello stato di insolvenza, non preclude l’effettuazione degli adempimenti finali previsti ai commi precedenti e la chiusura della procedura di liquidazione coatta amministrativa” [6].
Si tratta, tuttavia, di un modello “speciale” [7], atteso che, nell’esperienza applicativa degli anni più recenti, all’apertura della LCA bancaria si è quasi sempre accompagnata la cessione delle attività e passività dell’azienda bancaria, ai sensi dell’art. 90, comma 2, T.U.B., che di norma comprende il tra- sferimento alla parte cessionaria (solitamente una banca) delle liti (attive e passive) in corso [8]. Il modello della chiusura anticipata della LCA banca- ria [9] - pur importante sotto il profilo dell’approccio teorico - non può rappresentare, in termini stretta- mente “empirici” (ossia operativi), un precedente di particolare rilievo ai fini dell’applicazione dell’art. 118, ultimo comma, L. fall., ed ora dell’art. 234 CCII, norme vocate anche (ed io direi soprattutto) alla chiusura anticipata di procedure di liquidazione giu- diziale con attivo scarso o nullo, ma con numerose liti pendenti.
Prima di entrare in medias res del nostro argomento, ritengo opportune due precisazioni.
In primo luogo, la chiusura “anticipata” della liqui- dazione giudiziale rappresenta una importante chance di definizione della procedura concorsuale, senza dover attendere l’inutile (e sovente defatigante) decorso dei tempi processuali [10].
Essa, però, non rappresenta per la curatela un esito né scontato, né imposto [11]; verosimilmente, il curatore ne proporrà l’applicazione agli altri organi della procedura nelle ipotesi in cui la gestione “ultrattiva” delle liti pendenti (e dei possibili effetti concorsuali rivenienti dal loro esito) non sia tale da generare più problemi di quanti ne possa risolvere la cancellazione della procedura dal ruolo sezionale.
La seconda precisazione è che la chiusura anticipata della procedura non può andare a detrimento dei creditori della massa, iquali legittimamente confidino non solo sul termine per la presentazione delle domande “tempestive” di ammissione al passivo (di cui all’art. 201, comma 1, CCII), ma anche sul termine per il deposito di domande “tardive” (art. 208, comma 1, CCII), ben chiaro essendo che la ratio del sistema di chiusura della liquidazione giudiziale deve essere coordinata (oggi come in futuro) col regime dell’insinuazione tardiva, giacché la circostanza che sia stata compiuta la ripartizione finale dell’attivo, e che, quindi, ci siano state domande tempestive, “implica in ogni eventuale diverso creditore la possibilità di fare affidamento sull’utile prosecuzione della procedura ai fini dell’insinuazione anche tardiva” [12].
Dunque, la chiusura ex art. 234 CCII non è in ogni caso possibile prima che sia scaduto il termine per la presentazione delle domande tardive di ammissione al passivo.
Proverò qui di seguito a segnalare talune questioni problematiche, che rampollano dalle previsioni dell’art. 234 CCII, anche alla luce dell’ancor breve esperienza applicativa dell’art. 118 L. fall.
3 . Il perimetro del sintagma “giudizi pendenti”: i giudizi di cognizione ed i giudizi “di massa”
È stato a ragione osservato che “ciò che la pendenza dei giudizi non vale più ad impedire non è la chiusura in sé stessa, bensì il riparto finale” [13]. Ciò vuol dire che il presupposto applicativo della norma è dato dall’avvenuta liquidazione di tutto l’attivo acquisito alla titolarità della massa, con esclusione del conten- zioso, così da potersi pervenire alla ripartizione finale del ricavato [14].
L’interpretazione estensiva della previsione all’esame, prima ancora che l’interpretazione analogica consente altresì di applicare l’istituto all’ipotesi di chiusura per mancanza di attivo, le quante volte il curatore abbia iniziato azioni dirette a recuperare beni o crediti, che potrebbero consentire futuri riparti in favore dei creditori.
In caso di chiusura anticipata della liquidazione, il curatore mantiene la legittimazione processuale rispetto a tali liti anche nei successivi stati e gradi dei processi in corso al momento della chiusura; siffatta legittimazione, io ritengo, è (rectius: continua ad essere) la medesima prevista dall’art. 143, comma 1, CCII, ove si stabilisce che “nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del debitore compresi nella liquidazione giudiziale sta in giudizio il curatore” [15].
Il sistema della chiusura anticipata discrezionale esige, pertanto, che si chiarisca in apicibus ilperimetro del sintagma normativo “giudizi pendenti”.
Questi ultimi sono, anzitutto, i giudizi di ordinaria cognizione relativi ai rapporti di tipo patrimoniale già facenti capo al debitore, che la massa ha acquisito per effetto dell’apertura della liquidazione giudiziale [16].
La persistenza della legittimazione della curatela riguarda, ad esempio, i giudizi di recupero dei crediti ovvero di risarcimento del danno, che già il debitorepoteva esercitare prima dell’apertura del concorso [17].
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che la sopravvenuta chiusura della procedura fallimentare non determina l’improseguibilità delle azioni esercitate dal curatore che, come quelle di responsabilità spettanti alla società ed ai creditori sociali, sussistono anche al di fuori della procedura e non la presuppongono [18].
Si tratta ora di stabilire se la chiusura della liquidazione possa o meno essere impedita dalla pendenza di azioni giudiziali che il curatore può esercitare a beneficio della massa (cd. azioni “di massa”), ma che non derivano da rapporti patrimoniali già facenti capo al debitore, ovvero - per dirla con le parole del diritto vivente - da quelle azioni che trovano nella procedura concorsuale la loro causa determinante, e che devono essere tenute distinte da quelle che, concernendo rapporti giuridici anteriori ad essa, sono indipendenti dal dissesto e dalla procedura concorsuale e potrebbero essere esercitate indipendentemente dall’aper- tura della sua apertura [19].
Il pensiero corre, anzitutto, alle azioni revocatorie ex art. 166 CCII (che il debitore non poteva esercitare, trattandosi di giudizi la cui legittimazione sorge con l’apertura della liquidazione), ma anche alle azioni relative a rapporti posti in essere dalla curatela, alle azioni derivanti dalla facoltà del curatore di scio- gliersi dai rapporti pendenti, alle azioni di responsa- bilità contro gli organi della procedura concorsuale, alle azioni relative a rapporti di lavoro proposte in costanza di procedura di liquidazione [20].
Di primo acchito, parrebbe che l’art. 234 CCII non sia estensibile alle cause che derivano dalla liquidazione giudiziale, avuto riguardo all’art. 143, comma 1, CCII, espressamente richiamato dall’art. 234, che fa riferimento alle sole controversie, anche in corso, relative “a rapporti di diritto patrimoniale del debitore”. Inoltre, in base al consolidato orientamento del diritto vivente, la pendenza della procedura concor- suale si configura come condizione di proseguibilità dell’azione revocatoria ex art. 67 L. fall., in quanto la declaratoria di inefficacia relativa dell’atto impu- gnato, cui essa è preordinata, ha come termini soggettivi, da un lato, le parti dell’atto, e, dall’altro, i creditori concorsuali costituiti in massa, sicché, ove la procedura si chiuda senza necessità di liquidare il bene oggetto dell’atto di disposizione, viene meno l’interesse ad ottenere la declaratoria, con la conseguente cessazione della materia del contendere [21].
Sennonché, la previsione alloggiata nel comma 2 dell’art. 136 CCII stabilisce (in consonanza con la previsione dell’ancora vigente art. 120, comma 2, l. fall.) che “le azioni esperite dal curatore per l’esercizio di diritti derivanti dalla procedura non possono essere proseguite”, ma soggiunge (ad integrazione di quella disposizione) “fatto salvo quanto previsto dall’articolo 234”.
In altre parole, la previsione d’improcedibilità di cui al comma 2 dell’art. 136 CCII riguarda le ipotesi in cui la procedura non ha interesse a coltivare azioni ormai irrilevanti ed infruttuose, diversamente dalla fattispecie di cui all’art. 234, in cui (una volta completata la liquidazione dei beni acquisiti all’attivo) la pendenza dei giudizi rappresenta l’unico ostacolo alla chiusura: con riguardo a questa ipotesi, la norma ha inteso rimuovere l’ostacolo, ma, al contempo, con- sentire che proseguano quelle le cause pendenti che possano favorevolmente incidere sulla massa attiva, determinando sopravvenienze rispetto a quanto realizzato al momento della chiusura [22].
L’esigenza di ottimizzare i risultati della liquidazione concorsuale, coniugata all’esigenza di contenere i tempi della procedura dentro un perimetro di ragionevole durata, impone, a mio avviso, un’interpretazione “teleologica” della normativa di nuovo conio, siccome funzionale al perseguimento della sua ratio. Ne deriva che il rinvio all’art. 143, comma 1, ha da intendersi (in senso più riduttivo) come riferito alla sola persistenza della legittimazione processuale della curatela, indipendentemente dall’oggetto e dalla “fonte” dei giudizi pendenti.
Siffatta conclusione non può, ovviamente, risolversi a detrimento di quanti - in esecuzione di provvedimenti non ancora passati in giudicato - abbiano pagato somme di denaro o adempiuto obblighi di consegna in favore della curatela [23], sorgendo in tale ipotesi l’obbligo di accantonamento in favore dei detti soggetti, di cui più avanti si dirà.
Il medesimo criterio ermeneutico sopra applicato lascia altresì aperta, a mio avviso, la possibilità per la curatela, anche dopo la chiusura della liquidazione giudiziale, di cedere i crediti litigiosi e le azioni revocatorie concorsuali pendenti, alla stregua della previsione di cui all’art. 215 CCII [24].
Sarei più dubbioso, atteso il tenore letterale delle disposizioni, che si possa addivenire alla chiusura della liquidazione giudiziale, laddove i crediti (esistenti nella “pancia” della procedura) non siano stati né ceduti, né azionati dalla curatela [25].
4 . Segue: i giudizi esecutivi
L’art. 234 CCII ha fugato ogni dubbio circa il fatto che alla ripartizione finale dell’attivo ed alla chiusura della liquidazione giudiziale si possa addivenire anche in pendenza di procedure esecutive, sia di quelle in cui il curatore sia subentrato per farne propri i risultati e per devolverli alla massa, sia di quelle che egli stesso abbia promosso nei confronti di soggetti terzi, debitori del fallito o della massa.
Potrebbe trattarsi tanto di procedure esecutive immobiliari, che di procedure mobiliari, sia presso il debitore che presso terzi [26].
Si tratta di una precisazione dovuta, ancorché non sia, a mio avviso, contrario all’ancora vigente art. 118 L. fall. (ed alla sua ratio) ricomprendere nel concetto di liti pendenti anche le procedure esecutive, “potendo il risultato utile del riparto esecutivo essere distribuito con il riparto fallimentare supplementare” [27].
Altra e ben diversa ipotesi è quella delle procedure esecutive per credito fondiario, promosse o proseguite in costanza di fallimento dall’istituto finanziatore ai sensi dell’art. 41, comma 2, D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (testo unico bancario): esecuzioni “che si snodano extra moenia concursus ma che hanno pur sempre ad oggetto beni compresi nell’attivo fallimentare e che, in forza dei meccanismi di mero privilegio processuale che connotano la loro procedibilità in corso di fallimento, si svolgono nell’interesse della massa e non solo del creditore istante” [28].
È da chiedersi se la pendenza delle dette procedure esecutive fondiarie, nelle quali la curatela sia intervenuta (avendo scelto di non sperimentare la via della vendita concorsuale), possa essere di ostacolo alla chiusura della procedura fin tanto che non si sia proceduto alla liquidazione del bene staggìto, ancorché nella sede dell’esecuzione singolare: in questo caso, infatti, potrebbe risultare un residuo attivo distribuibile ai creditori della massa, volta che sia stato soddisfatto il creditore fondiario.
Al quesito deve essere data, a mio avviso, risposta positiva, atteso che, secondo il diritto vivente, se, da un lato, la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita di un immobile pignorato dall’istituto di credito fondiario in una procedura esecutiva individuale, proseguita o iniziata dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, deve essere operata dal giudice dell’esecuzione sulla base dei provvedimenti emessi in sede fallimentare ai fini dell’accertamento, della determinazione e della graduazione di detto credito fondiario; dall’altro lato, la distribuzione del giudice dell’esecuzione, che ha carattere provvisorio, può stabilizzarsi all’esito degli accertamenti definitivi operati in sede fallimentare, legittimando in tal caso il curatore ad ottenere la restituzione delle somme eventualmente riscosse in eccedenza [29].
E tanto, a me sembra, può avvenire anche dopo la chiusura della procedura di liquidazione ai sensi dell’art. 234 CCII.
5 . Segue: i giudizi cd. “strumentali”
In esecuzione della delega, l’art. 234, comma 1, CCII, con previsione innovativa rispetto all’ancora vigente art. 118 L. fall., prevede che “la legittimazione del curatore sussiste altresì per i procedimenti, compresi quelli cautelari ed esecutivi, strumentali all’attuazione delle decisioni favorevoli alla liquidazione giudiziale, anche se instaurati dopo la chiusura della procedura”.
Il tenore letterale della norma induce a ritenere che siffatta legittimazione riguardi le liti instaurate dopo la chiusura della liquidazione, ma finalizzate a realizzare le utilità rivenienti dai giudizi pendenti al momento della chiusura medesima.
Ad esempio, il curatore potrà promuovere le azioni di recupero di somme liquidate o di beni riconosciuti in esito a tali giudizi, non solo attraverso le opportune procedure esecutive e cautelari (come specificato dalla norma), ma anche - io ritengo - a mezzo:
a) delle necessarie iniziative di insinuazione al passivo di altre procedure di liquidazione giudiziale, con ogni possibile propaggine contenziosa (mi riferisco, ad esempio, ai giudizi di impugnazione dello stato passivo, ma anche al giudizio di impugnazione del piano di riparto, che potrebbe essere promosso dal curatore insinuato al passivo di un’altra liquidazione giudiziale);
b) agli eventuali ulteriori giudizi di cognizione ordinaria che siano strumentali alla realizzazione di poste attive, collegati ai giudizi in pendenza dei quali la procedura è stata chiusa (ad esempio, i giudizi di recupero di crediti o di beni dipendenti da pronunzie dichiarative o costitutive rese in sede di giudizio ordinario [30], o anche i giudizi di opposizione esecutiva ex artt. 615 e 617 c.p.c.).
6 . Segue: i giudizi di impugnazione dello stato passivo
È ancora da chiedersi se la pendenza di liti passive - e, segnatamente, di giudizi di impugnazione dello stato passivo - sia di ostacolo alla chiusura anticipata della liquidazione giudiziale, alla stregua del CCII.
Gli indici normativi e giurisprudenziali all’uopo scrutinabili farebbero propendere per una risposta negativa, per le medesime ragioni che già consentivano la chiusura del fallimento prima della legge del 2015 (che ha modificato l’art. 118 L. fall.), e che fanno agio sulla duplice considerazione che:
a) ai sensi dell’art. 204, ultimo comma, CCII, il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi di impugnazione dello stato passivo, producono
effetti soltanto ai fini del concorso, sicché una cognizione ordinata a spiegare effetti soltanto ai fini del concorso non avrebbe alcuna ragione di proseguire una volta che esso sia giunto al termine [31];
b) dalla lettera e dalla ratio della normativa concorsuale si evince che i debiti della massa, che permangano (in quanto non pagati) dopo la chiusura del fallimento, non possono che mettere capo al debitore, il quale è tenuto a provvedere al loro pagamento [32]. Il creditore non ammesso al passive conserva intatta la propria azione nei confronti del debitore tornato in bonis e può, dunque, trovare soddisfazione al proprio credito anche dopo la chiusura della liquidazione giudiziale [33].
Alla stregua di questi indici, non si comprenderebbe per quali ragioni debba proseguire, anche a liquidazione giudiziale conclusa, il giudizio di impugnazione dello stato passivo, pur quando in occasione di esso siano state disposte misure cautelari (ad esempio nella forma di accantonamenti) in favore dei creditori opponenti, ai sensi dell’art. 227, comma 1, lett. b), CCII [34].
Difatti, quando la chiusura della liquidazione sia avvenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio di insinuazione di un credito, l’accantonamento a tal fine disposto costituisce un residuo attivo del patrimonio, da restituire all’imprenditore tornato in bonis [35].
In ogni caso, al creditore che ha impugnato lo stato passivo non è neppure precluso lo strumento del reclamo avverso il decreto di chiusura, reso ai sensi dell’art. 235 CCII [36].
Sennonché, ragioni di giustizia sostanziale indurrebbero ad orientarsi diversamente, essendo evidente l’esistenza di un giusto interesse dei creditori concorsuali ma non ancora concorrenti, per essere l’accertamento del loro credito sub judice, “a che non si faccia luogo a distribuzioni dell’attivo né alla chiusura della procedura sin tanto che non sia stato definitivamente accertato il loro diritto di parteci- pare al concorso” [37].
Come si esce allora da questa apparente aporìa?
È mia opinione che possa qui entrare in scena la previsione di cui all’art. 206, comma 2, CCII (che riproduce in parte qua l’ancora vigente art. 110, comma 1, L. fall.), secondo la quale, nel caso in cui siano in corso giudizi di impugnazione dello stato passivo, di cui all’art. 206, il curatore, nel progetto di ripartizione delle somme disponibili dell’attivo, indica, per ciascun creditore, le somme immediatamente ripartibili nonché le somme ripartibili soltanto previa consegna di una fideiussione autonoma, irrevocabile e a prima richiesta, rilasciata in favore della procedura da uno dei soggetti di cui all’art. 574, comma 1, secondo periodo, c.p.c. (38), idonea a garantire la restituzione alla procedura delle somme che risultino ripartite in eccesso, anche in forza di provvedimenti provvisoriamente esecutivi resi nell’ambito dei giudizi di impugnazione, oltre agli interessi, al tasso applicato dalla Banca cen- trale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali, a decorrere dal pagamento e sino all’effettiva restituzione [39].
Ciò non può non comportare la conseguenza che, dopo la chiusura della liquidazione giudiziale, il curatore mantenga la legittimazione anche in relazione ai giudizi d’impugnazione dello stato passivo; del resto, l’art. 234 CCII non distingue tra legittimazione “attiva” e legittimazione “passiva” del curatore, attestandosi sulla più ampia ed omnicomprensiva espressione di “legittimazione processuale” [40].
7 . L’ultrattività della legittimazione processuale del curatore
Secondo i principi generali, la chiusura della liqui- dazione giudiziale comporta (ai sensi dell’art. 236, comma 1, CCII) la decadenza degli organi ad essa preposti, oltre alla cessazione degli effetti della procedura sul patrimonio del debitore. Pertanto, ogni provvedimento emesso dagli organi della liquidazione dopo la chiusura della procedura è giuridicamente inesistente per carenza di potere ed ogni interessato può farne valere l’inesistenza senza limiti di tempo, sia in via di eccezione, che con azione di accertamento, in quest’ultimo caso convenendo in giudizio non gli autori dell’atto, ma i soggetti nella cui sfera giuridica esso ha prodotto i suoi effetti [41].
La chiusura ex art. 234 CCII introduce una significativa deroga a tali principi, atteso che il giudice delegato ed il curatore restano in carica ai soli fini di quanto previsto dalla norma: pertanto, rispetto ai giudizi in corso di cui è parte la liquidazione, il curatore mantiene la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio. In deroga all’art. 132, le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato.
Questa particolare “ultrattività” (ovvero prorogatio dei poteri) del curatore e del giudice delegato non investe il comitato deicreditori [42], che, a seguito della chiusura della liquidazione, perde qualsiasi os ad loquendum in ordine alle predette rinunzie e transazioni.
È bene precisare che la chiusura discrezionale non comporta il venir meno della “concorsualità” sostanziale, giacché l’art. 236, comma 4, CCII fa divieto ai creditori di agire su quanto è oggetto dei giudizi pendenti [43]; sarebbe stato, d’altro canto, irragionevole che beni sottratti ai poteri di aggressione giudiziale dei singoli creditori, in una sorta di (eccezionale) proiezione ultraconcorsuale della par condicio, risultassero al contempo restituiti alla libera disponibilità negoziale del debitore tornato in bonis [44].
Da tanto derivano, se non m’inganno, le seguenti conseguenze processuali:
a) la chiusura anticipata della liquidazione, con proroga della legittimazione processuale della curatela nelle liti in corso, non provoca alcun effetto interruttivo delle medesime [45];
b) l’ultrattività della legittimazione della curatela è preordinata alla realizzazione, in parte qua, della concorsualità sostanziale, di tal che non è predicabile alcuna condizione di litisconsorzio necessario nei giudizi pendenti col debitore tornato in bonis [46];
c) resta fermo il principio generale per il quale la perdita della capacità processuale del debitore, a seguito dell’apertura della liquidazione giudiziale, non è assoluta, ma relativa alla massa dei creditori, alla quale è consentito eccepirla in via esclusiva, sicché, se il curatore rimane inerte, il processo continua validamente tra le parti originarie, tra le quali soltanto avrà efficacia la sentenza finale, salva la facoltà del curatore (ancora esercitabile, a mio avviso, anche in caso di chiusura discrezionale della procedura) di profittare dell’eventuale risultato utile del giudizio [47].
8 . Adempimenti propedeutici e successivi alla chiusura anticipata della liquidazione
Il curatore che chiede di poter chiudere anticipatamente la liquidazione giudiziale deve onerarsi di una serie di attività propedeutiche, non sempre di agevole fattura.
Egli deve anzitutto predisporre un piano di riparto finale delle somme disponibili una volta liquidato l’attivo.
Come si è detto, ciò non esclude che la chiusura anticipata possa essere praticata anche per quei fallimenti che non hanno attivo da ripartire, ma soltanto cause pendenti, non ostando a tale conclusione l’aggancio normativo istituito dal comma 1 dell’art. 234 con la (sola) lett. c) del comma 1 dell’art. 233, che dispone la chiusura “quando è compiuta la ripartizione finale dell’attivo”.
Qui la norma minus dixit quam voluit, intendendo il legislatore probabilmente significare che, se vi è un attivo residuo da ripartire, non si può procedere alla chiusura anticipata, se prima non è stato effettuato il riparto finale.
L’art. 234 prevede altresì che le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonché le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute (vale a dire accantonate) dal curatore secondo quanto previsto dall’art. 232, comma 2.
In pratica, il curatore deve prevedere il deposito (accantonamento) di dette somme nei modi stabiliti dal giudice delegato, affinché, all’esito dei giudizi pendenti, esse possano essere versate ai creditori cui spettano, o fatte oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori [48]. Tali somme, pertanto, si sottraggono all’ultimo riparto, proiettandosi automaticamente sul riparto supplementare postconcorsuale.
A questo punto il tribunale è chiamato ad esaminare - col procedimento di cui all’art. 235 CCII - l’istanza di chiusura anticipata formulata dal curatore. Se si addiviene alla chiusura, il comma 4 dell’art. 234 dispone che, dopo la chiusura della procedura, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti giudiziali definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparto supplementare fra i creditori, secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di chiusura di cui all’art. 235.
È da ritenersi che il tribunale, oltre a determinare, su proposta del curatore, le modalità del riparto supplementare, nonché dei rapporti e del rendiconto finale (cfr. art. 234, comma 6), debba indicare - nuovamente su proposta del curatore - le modalità della liquidazione dei beni diversi dal denaro, che fossero acquisiti dalla curatela per effetto dell’esito dei giudizi pendenti (ad esempio, quelli aventi ad oggetto domande di restituzione).
Sul punto l’art. 234 serba il silenzio, ma la soluzione testé prospettata mi sembra che sia indirettamente avallata dalla stessa norma, nella parte in cui prevede che, in relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti, “non si fa luogo a riapertura del fallimento” (comma 5).
Ebbene, se non si fa luogo a riapertura, è legittimo ritenere che la fase della liquidazione postconcorsuale debba essere dettagliatamente disciplinata nel decreto di chiusura ex art. 235, chiamato, come si è detto, a fungere da “linea guida” di tutto ciò che accadrà (o semplicemente potrebbe accadere) in esito alle liti pendenti.
Resta da interrogarsi se il decreto ex art. 235 CCII (reclamabile alla corte d’appello, con possibilità del successivo ricorso in Cassazione), al netto dell’esito delle impugnazioni, possa essere modificato dopo la chiusura del fallimento, rectius se, in relazione alle sopravvenienze, possano essere modificate la modalità del riparto ovvero della liquidazione in esso previste, ovvero se possano essere previste modalità nuove ed ulteriori.
Ritengo che tale interrogativo meriti risposta positiva, con la precisazione che le modifiche in questione saranno “gestite” nell’àmbito del “circuito” curatore-giudice delegato, unici organi dei quali la legge prevede espressamente l’ultrattività, in specie laddove (cfr. art. 236, comma 5, CCII) stabilisce che, nell’ipotesi di chiusura in pendenza di giudizi ai sensi dell’art. 234, il giudice delegato e il curatore restano in carica “ai soli fini di quanto ivi previsto”.
 
9 . “Chiusura” ed “archiviazione” della liquidazione giudiziale
Come si è detto in principio, la L. delega del 2017 (a cui il CCI ha dato, in parte qua, una pressoché letterale esecuzione) ha inteso istituire un raccordo più nitido rispetto alla disciplina della legge fallimentare tra la chiusura della liquidazione giudiziale ed il sistema della pubblicità camerale.
L’art. 234, commi 6-8, CCII precisa che la chiusura della procedura con liti pendenti non comporta la cancellazione della società dal registro delle imprese sino alla conclusione dei giudizi in corso ed all’effettuazione dei riparti supplementari, anche all’esito delle ulteriori attività liquidatorie che si siano rese necessarie a seguito dei detti giudizi.
Eseguito, poi, l’ultimo progetto di ripartizione o comunque definiti i giudizi e procedimenti pendenti, “il curatore chiede al tribunale di archiviare la procedura di liquidazione giudiziale”; quindi, “entro dieci giorni dal deposito del decreto di archiviazione, il curatore chiede la cancellazione della società dal registro delle imprese”.
La norma consente di distinguere tra “chiusura” ed “archiviazione” della procedura di liquidazione, facendo chiaramente comprendere che, fino a quando vi sia un attivo da ripartire (ancorché soltanto eventuale, in quanto dipendente dall’esito dei giudizi pendenti), non è possibile procedere alla cancellazione della società (e della stessa procedura di liquidazione giudiziale) dal registro delle imprese; e che, in definitiva, la procedura di liquidazione resta pur sempre iscritta (con modalità da stabilirsi) nel ruolo sezionale del tribunale, fino a quando non ne sia disposta l’archiviazione.
Sorgono, però, le seguenti, non irrilevanti questioni: se la fase temporale che va dal decreto di chiusura a quello di archiviazione debba essere considerata ai fini della ragionevole durata della procedura concorsuale ai sensi della L. n. 89/2001 (cd. “legge Pinto”) [49]; quali siano la natura ed il regime di “stabilità” del decreto di archiviazione, nonché le differenze col decreto di chiusura; e come debba essere regolata l’ipotesi del concorso tra reclamo del decreto di chiusura ed impugnazione (se ammissibile) del decreto di archiviazione.
A fronte di siffatte questioni interpretative (e delle problematiche che da esse potrebbero derivare in fase applicativa), riesce difficile immaginare la concreta utilità di un decreto di archiviazione della procedura successivo a quello di chiusura, anche in considerazione del contenuto particolarmente analitico delle previsioni, di cui sopra si è detto, che il decreto di chiusura deve contenere ai sensi degli artt. 234 e 235 CCII.
Ultimate le operazioni analiticamente fissate dal decreto, al curatore dovrebbe essere, a mio avviso, consentito di chiedere senza indugio (e senza ulteriori passaggi e complicazioni formali) la cancellazione della società dal registro delle imprese.



*Il saggio è estratto da Il Fallimento 10/2019
 
*Lo scritto sarà inserito negli Studi in onore di Loris Lonardo

Note:

[1] 
Esula dal perimetro del presente scritto indagare se, nel caso che ci occupa, il potere del curatore di convocare l’assemblea sia esclusivo oppure, come appare preferibile, concorra con quello degli amministratori, i quali, come è noto, salva la loro sostituzione, restano in carica pur in costanza di fallimento (cfr. Cass. 30 settembre 2009, n. 20947 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione), sia pur “depotenziati.
[2] 
Rinvio sul tema a F. De Santis, La chiusura “anticipata” del fallimento, in Aa. Vv., Crisi d’impresa e procedure concorsuali, Milano, 2017, 79 ss. V. anche M. Attanasio, Chiusura del fallimento e liti passive ed attive alla luce dei novellati artt. 118 e 110 l. fall. e delle prospettive di riforma, in www.osservatorio-oci.org, 2018; D. Finardi, La nuova disciplina dell’art. 110 L. fall.: l’antinomia tra l’esigenza di celerità dei riparti e l’equità nei pagamenti, in questa Rivista, 2017, 1216; C. D’Aniello, La chiusura del fallimento, in Aa.Vv., La nuova mini-riforma della legge fallimentare, Torino, 2016, 90; F. Iozzo, La chiusura del fallimento, in O. Cagnasso - L. Panzani (diretto da), Crisi d’impresa e procedure concorsuali, II, Milano, 2016, 2248 ss.; E. Frascaroli, La chiusura del fallimento, in A. Didone (a cura di), Le riforme delle procedure concorsuali, II, Milano, 2016, 1225 ss.; G. Minutoli, La chiusura e la riapertura del fallimento, in A. Jorio (a cura di), Aa.Vv., Fallimento e concordato fallimentare, II, Milano, 2016, 2428 ss.; M. Montanari, Nozione e presupposti della chiusura del fallimento, in Trattato delle procedure concorsuali Jorio-Sassani, III, Milano, 2016, 571 ss.
[3] 
Il CCII non ha, invece, replicato la vigente previsione dell’art. 118, ultimo comma, ultimo periodo, L. fall., a tenore della quale, qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti, il venir meno dell’impedimento all’esdebitazione di cui al comma 2 dell’art. 142 L. fall. (impedimento che, come è noto, consiste nel non essere stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali), il debitore può chiedere l’esdebitazione nell’anno successivo al riparto che lo ha determinato. Tale impedimento non è, infatti, più previsto dagli artt. 278-281 CCII, recanti la disciplina dell’esdebitazione.
[4] 
Le norme all’esame fanno sicuramente da sponda alla previsione introdotta (a modifica dell’art. 104 ter L. fall.) dall’art. 6, comma 1, lett. b-c), D.L. n. 83/2015 (conv., con modif., in L. n. 32/2015), cit., e recepita dall’art. 213, comma 5, CCII, secondo la quale il programma di liquidazionedeve recare l’indicazione del termine entro il quale sarà completata la liquidazione dell’attivo, termine che non può eccedere dueanni (l’art. 213 CCII ha, più realisticamente, elevato tale termine a cinque anni, differibile dal giudice delegato a sette anni nei casi di maggiore complessità) dal deposito della sentenza di aperura della procedura, sicché, nel caso in cui, limitatamente a determinati cespiti dell’attivo, il curatore ritenga necessario un termine maggiore, egli è tenuto a motivare specificamente in ordine alle ragioni che lo giustificano.
[5] 
Dettata dall’esigenza “di contenere la durata delle procedura nei limiti del ragionevole” (così A. Didone, Ragionevole durata del (giusto) processo concorsuale, in Aa.Vv., Le riforme delle procedure concorsuali a cura del medesimo, I, Milano, 2016, 2, scritto, quest’ultimo, al quale si fa rinvio per una schietta analisi delle problematiche ordinamentali generate dalla durata delle procedure concorsuali), anche rispetto alle conseguenze previste dalla cd. “legge Pinto”. Non manca, tuttavia, chi intravede nelle norme di nuovo conio una prospettiva teleologica più ampia, secondo cui “la chiusura del fallimento risponde innanzi tutto all’interesse, ed anzi al vero e proprio diritto del fallito, alla cessazione delle limitazioni e delle incapacità di natura sia personale che patrimoniale che si accompagnano al relativo status; viene inoltre in considerazione l’interesse pubblico ad una sollecita definizione delle procedure concorsuali, e, infine, quello dei creditori ad una tempestiva distribuzione dell’attivo, edancheal ritorno in bonis del fallito, che potrebbe riprendere a produrre ricchezza e divenire quindi nuovamente aggredibile - salva esdebitazione - al fine del soddisfacimento dei crediti rimasti inappagati nella procedura” (così M. Attanasio, op. cit., 4).
[6] 
La norma prevede altresì che la chiusura è subordinata all’esecuzione di accantonamenti o all’acquisizione di garanzie ai sensi dell’art. 91, comma 6 (“Nell’effettuare i riparti e le restituzioni, i commissari, in presenza di pretese di creditori o di altri interessati per le quali non siastata definita l’ammissione allo stato passivo, accantonano le somme e gli strumenti finanziari corrispondenti ai riparti e alle restituzioni non effettuati a favore di ciascuno di detti soggetti, al fine della distribuzione o della restituzione agli stessi nel caso di riconoscimento dei diritti o, in caso contrario, della loro liberazione a favore degli altri aventi diritto”), e comma 7 (“Nei casi previsti dal comma 6, i commissari, con il parere favorevole del comitato di sorveglianza e previa autorizzazione della Banca d’Italia, possono acquisire idonee garanzie in sostituzione degli accantonamenti”).
[7] 
Il precedente normativo è segnalato anche da E. Bruschetta, La ripartizione dell’attivo, in Aa.Vv., Le riforme delle procedure concorsuali, cit., 1220 ss., ma senza una specifica attenzione alla sua “specialità”.
[8] 
Nella maggior parte dei casi, i giudizi che, a seguito della cessione, permangono in capo alla LCA si riducono alle azioni di responsabilità nei confronti dei cessati esponenti bancari, anch’esse peraltro cedibili; al giudizio per la dichiarazione dello stato d’insolvenza (art. 82 T.U.B.), la cui legittimazione attiva non può che spettare al commissario liquidatore e la cui definizione (quanto meno in primo grado) è di solito molto celere; alle opposizioni allo stato passivo (con la non irrilevante precisazione che, ai sensi del comma 2 dell’art. 92 T.U.B., il cessionario di attività e passività della banca risponde comunque delle passività risultanti dallo stato passivo, tenuto conto dell’esito delle eventuali oppo- sizioni). È, d’altro canto, a dirsi che l’accertamento dello stato d’insolvenza non è il presupposto ineludibile né per l’apertura, né per la permanenza, né per la chiusura della LCA delle banche, che il Ministro dell’economia, su proposta della Banca d’Italia, dispone, ai sensi dell’art. 80 T.U.B., allorché ricorrono i presupposti fissati dall’art. 17, D.Lgs. 16 novembre 2015, n. 180, ossia quando la banca è in dissesto o a rischio di dissesto (derivante, quest’ultimo, non solo dalla sussistenza di perdite di eccezionale gravità, ma anche da irregolarità nell’amministrazione o violazioni di disposizioni legislative, regolamentari o statutarie che regolano l’attività della banca di gravità tale che giustificherebbero la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività).
[9] 
Su cui cfr. V. Tusini Cottafavi, in G. Boccuzzi (a cura di), La crisi dell’impresa bancaria. Profili economici e giuridici, Milano, 1998, 323; R. Cercone, sub art. 92 TUB, in Commentario a cura di Capriglione, Padova, 2001, 730; B. Inzitari, L’insolvenza bancaria, in O. Cagnasso - L. Panzani (diretto da), Crisi d’impresa e proce- dure concorsuali, III, Milano, 2016, 4161 ss.
[10] 
Tempi dei quali il legislatore del D.L. n. 83/2015, conv., con modif., in L. n. 32/2015, è tanto consapevole, da avere - mercé l’aggiunta di un comma all’ancora vigente art. 43 L. fall. - espressamente imposto che “Le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità”, e che “Il capo dell’ufficio trasmette annualmente al presidente della corte di appello i dati relativi al numero di procedimenti in cui è parte un fallimento e alla loro durata, nonché le disposizioni adottate per la finalità di cui al periodo precedente”.
[11] 
Di chiusura “discrezionale” della procedura discorre E. Bruschetta, op. cit., 1220. Più cauto sul punto è M. Montanari, Ancora sulla chiusura anticipata del fallimento in pendenza di giudizi, in www.ilcaso.it, 2 aprile 2016, 15 s., per il quale tale tesi introduce “elementi di marcata discrezionalità in un contesto cui gli stessi sono tipicamente estranei”, sicché “una volta appurato il perfezionamento della fattispecie in tutti i suoi elementi costitutivi, le scelte operative diventano per contro vincolate”.
[12] 
Così Cass. 16 maggio 2019, n. 13270, in motivazione.
[13] 
M. Montanari, Nozione e presupposti della chiusura del fallimento, cit., ivi, 569; cfr. anche Id., La recente normativa in materia di chiusura del fallimento: primi rilievi, in www.ilcaso.it, 28 settembre 2015 (ove si rileva che “a rigore, dunque, è l’art. 116 (o, tutt’al più, il successivoart. 117, formalmente intitolato proprio alla ripartizione finale) che il legislatore avrebbe dovuto ritoccare nei termini in cui ha messo mano al successivo art. 118”).
[14] 
Così G. Minutoli, op. cit., 2429.
[15] 
È noto che, nel sistema della legge fallimentare, al fallito spetta una mera legittimazione processuale di tipo suppletivo soltanto nel caso di totale disinteresse degli organi fallimentari, ipotesi da escludere allorché il curatore sia parte, indipendentemente dalla sua concreta condotta processuale; il fallito può svolgere attività processuale unicamente nei limiti dell’intervento ex art. 43, comma 2, L. fall., cioè per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico, o nei limiti dell’intervento adesivo dipendente, che comunque non gli attri- buisce il diritto di impugnare la sentenza in autonomia dal curatore (Cass. 25 ottobre 2013, n. 24159; Cass. 14 maggio 2012, n. 7448). 
[16] 
Ed altresì (anche se in maniera statisticamente molto più limitata) ai rapporti patrimoniali che potrebbero entrare a far parte del patrimonio del fallito nella pendenza della procedura concorsuale in relazione al suo status personale, ad esempio le azioni a tutela di diritti ereditari maturati in capo al fallito successivamente alla dichiarazione di fallimento (M. Montanari, Nozione e presupposti della chiusura del fallimento, cit., 572).
[17] 
Devono, a mio avviso, essere ricompresi nel numero delle liti pendenti di cui ci stiamo occupando anche i processi (promossi dalla curatela) di insinuazione al passivo di altre procedure concorsuali (ipotesi, quest’ultima, non infrequente nella pratica), siccome finalizzati al recupero di crediti.
[18] 
Cfr. Cass. 14 marzo 2014, n. 6029.
[19] 
Così Cass., SS.UU., 8 aprile 1976, n. 1224, in Giust. civ., 1976, I, 1066 s., e tutta la giurisprudenza successiva Il tema delle cd. azioni che derivano dal fallimento (per le quali, come è noto, opera, ai sensi dell’ancora vigente art. 24 L. fall., replicato dall’art. 32, comma 1, CCII, la vis attractiva del tribunale che ha dichiarato il fallimento) - e dei tratti distintivi delle stesse dalle azioni “di massa”, “concorsuali” ovvero “non concorsuali” - è stato fortemente valorizzato dal legislatore delle riforme del 2006-2007, in specie con riferimento alla cedibilità delle dette azioni sia in sede di liquidazione dell’attivo che di concordato fallimentare (sul punto sia consentito rinviare, per un più lungo discorso, a F. De Santis, Il tribunale fallimentare, in Trattato delle procedure concorsuali Jorio-Sassani, I, Milano, 2014, spec. 640 ss.).
[20] 
Per un’analisi casistica rinvio ancora a F. De Santis, ivi, 659 ss.
[21] 
Cass. 27 aprile 2011, n. 9386; Cass. 6 agosto 2014, n. 17709.
[22] 
G. Minutoli, op. cit., 2430 s.
[23] 
Secondo Cass. 29 luglio 2011, n. 16737, l’esecutività provvisoria di una sentenza costitutiva è limitata ai capi che sono compatibili con la produzione dell’effetto costitutivo in un momento successivo e non si estende a quelli che si collocano in rapporto di stretta sinallagmaticità con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale, sicché, nella sentenza di revocatoria fallimentare, il nesso tra la statuizione condannatoria (alla restituzione delle somme ricevute con gli atti solutori dichiarati inefficaci) e l’accertamento costitutivo è di mera dipendenza, ma non è in rapporto di stretta sinallagmaticità tra i due capi, cosicché l’anticipazione degli effetti esecutivi di tale capo condannatorio non è incompatibile con la produzione dell’effetto costitutivo al momento successivo del passaggio in giudicato.
[24] 
Tema, quest’ultimo, su cui rinvio a F. De Santis, La ces- sione dei diritti e delle azioni nella liquidazione concorsuale, in Ghia - Piccininni - Severini (diretto da), Trattato delle procedure concor- suali, III, Torino, 2010, 313 ss.
[25] 
Contra Trib. Catania, Sez. II fall., circ. 12 gennaio 2016, ove si dà istruzione ai curatori che “in caso in cui la procedura vanti un credito fiscale, in attesa del relativo pagamento ed ove non sia possibile o non sia conveniente la cessione, ovvero vanti un credito nei confronti di un altro fallimento, già ammessoal passivo, e si stiano soltanto attendendo gli sviluppi di quella procedura ai fini del riparto, per analogia con le liti attive (stante la ratio acceleratoria della norma) dovrà procedersi alla chiusura del fallimento, attendendo la riscossione di tali crediti ai fini del riparto supplementare in regime di prorogatio”.
[26] 
Per quanto le circolari applicative emanate da alcuni uffici giudiziari (cfr. Trib. Catania, circ. 12 gennaio 2016, cit.; Trib. Fer- rara, Ufficio del Giudice delegato alle procedure concorsuali, circ. 25 settembre 2015) facciano riferimento (a cagione della loro preponderanza statistica) alle sole esecuzioni forzate immobiliari in cui il curatore sia intervenuto ai sensi dell’art. 107 L. fall. (“da equiparare - pur nella consapevolezza di contrarie opinioni - alle liti attive, attendendosi un ricavato da distribuire in sede di riparto supplementare”: così la circolare del Trib. Catania, cit.), è a mio avviso da ritenere che l’art. 118 L. fall. non abbia con ciò inteso negare, per la contraddizione che non lo consente, la chiusura anticipata del fallimento per la pendenza di procedure esecutive mobiliari.
[27] 
G. Minutoli, op. cit., 2431. Favorevole a ricomprendere, con riferimento all’ancora vigente art. 118 L. fall., nell’orbita dei giudizi che non sono di ostacolo alla chiusura del fallimento anche le procedure esecutive è F. Iozzo, op. cit., 2269; contra, invece, M. Montanari, op. ult. cit., 6.
[28] 
Come annota M. Montanari, ibidem.
[29] 
Si rileva che, secondo Cass. 28 settembre 2018, n. 23482, in Riv. es. forzata, 2019, con nota di A. Nascosi, la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita di un immobile pignorato dall’istituto di credito fondiario in una procedura esecutiva individuale proseguita o iniziata dopo la dichiarazione di fallimento del debitore deve essere operata dal giudice dell’esecuzione sulla base dei provvedimenti emessi in sede fallimentare ai fini dell’accertamento, della determinazione e della graduazione di detto credito fondiario. La distribuzione del giudice dell’esecuzione ha carattere provvisorio e può stabilizzarsi solo all’esito degli accertamenti definitivi operati in sede fallimentare, legittimando in tal caso il curatore ad ottenere la restituzione delle somme eventualmente riscosse in eccedenza.
[30] 
Sui possibili momenti di raccordo tra gli esiti dei giudizi costitutivi o dichiarativi (in cui la curatela sia parte convenuta) e le regole del concorso, rinvio a F. De Santis, Giudizio di verifica del passivo e pretese di tutela dichiarativa e costitutiva, in questa Rivista, 2018, 665 ss.
[31] 
Così M. Montanari, Nozione e presupposti della chiusura del fallimento, cit., 632.
[32] 
Così Cass. 16 gennaio 2009, n. 979, in motivazione.
[33] 
Si rammenta che, secondo il diritto vivente, il riacquisto della capacità processuale del fallito determinato dalla chiusura (o dalla revoca) del fallimento provoca l’interruzione dei giudizi, di cui era parte il curatore, ex art. 98 L. fall., che possono essere riassunti nei confronti del debitore tornato in bonis, o da lui proseguiti, al fine di giungere all’accertamento giudiziale sull’esistenza, o meno, del credito di cui si era chiesta l’insinuazione, dovendosi ritenere irrilevante la circostanza che le conclusioni del creditore continuino ad essere formulate in termini di ammissione al passivo, piuttosto che di condanna al pagamento dell’invocato credito, atteso che la domanda di insinuazione, inserendosi in un processo esecutivo concorsuale e tendendo all’accertamento del credito in funzione esecutiva mediante la sua collocazione sul ricavato dell’attivo fallimentare, ricomprende quella di condanna richiesta nel giudizio ordinari (cfr. Cass. 29 maggio 2013, n. 13337).
[34] 
Come ritiene M. Montanari, op. ult. cit., 633 con riguardo agli accantonamenti oggi previsti dall’art. 113, comma 1, n. 2, L. fall. (ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici).
 
[35] 
Cass. 23 aprile 2010, n. 9723 (nella specie si trattava della chiusura del fallimento di una società per ripartizione finale dell’attivo od insufficienza tale da impedire l’utile continuazione della procedura, disposta ai sensi dell’art. 118 L. fall. previgente alle riforme del 2006-2007).
[36] 
Secondo la giurisprudenza, a normativa vigente, ai fini della legittimazione a proporre reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento da parte del creditore, la posizione di coloro che hanno proposto insinuazione tardiva oppure opposizione allo stato passivo ed i cui giudizi siano pendenti al momento dell’emanazione del decreto di chiusura non comporta l’assunzione della qualità di concorrenti nella procedura e, quindi, non determina di per sé una loro legittimazione al reclamo sulla base di tale posizione qualificata. I soggetti in questione, tuttavia, non possono considerarsi del tutto estranei alla procedura, proprio perché ne fanno comunque parte attraverso i subprocedimenti in corso, ancorché la loro posizione di creditori della massa non sia stata ancora accertata: ciò comporta che, ai fini della loro legittimazione all’impugnazione del provvedimento di chiusura, occorre accertare l’interesse in concreto che essi hanno a contrastare tale provvedimento e, quindi, a soddisfare il proprio credito attraverso l’esecuzione concorsuale anziché a mezzo dell’azione individuale, che, come sopra si è detto, tali soggetti possono esperire nei confronti del fallito tornato in bonis e, dunque, dopo la chiusura del fallimento (cfr. Cass. 16 agosto 2011, n. 17308).
[37] 
Così M. Attanasio, op. loc. cit.
[38] 
Banche, società assicuratrici o intermediari finanziari che svolgono in via esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie e che sono sottoposti a revisione contabile da parte di una società di revisione.
[39] 
Tali disposizioni si applicano anche ai creditori che avrebbero diritto alla ripartizione delle somme ricavate nel caso in cui risulti insussistente, in tutto o in parte, il credito avente diritto all’accantonamento ovvero oggetto di controversia in sede d’impugnazione dello stato passivo.
 
[40] 
Di “necessaria ultrattività degli organi della procedura, al fine sia degli adempimenti previsti dall’art. 117, comma 3, e di quelli resi necessari dal nuovo art. 110, comma 1, sia della partecipazione ai giudizi di opposizione, impugnazione o revocazione che proseguono dopo la chiusura del fallimento”, discorre M. Attanasio, op. cit., 7.
[41] 
Così Cass. 14 dicembre 2015, n. 25135.
[42] 
Secondo E. Bruschetta, op. cit., 1224, “si è ritenuta non funzionale l’ultrattività del comitato dei creditori e sufficiente il solo controllo autorizzatorio del giudice delegato”.
[43] 
E. Bruschetta, op. loc. ult. cit.
[44] 
Così, efficacemente, M. Montanari, op. ult. cit., 634.
[45] 
In questo senso v. anche F. Iozzo, op. loc. cit.
[46] 
In senso contrario sembra essere M. Montanari, Ancora sulla chiusura anticipata del fallimento in pendenza di giudizi, cit., 14. Sarei, invece, più possibilista in ordine alla possibilità per il debitore tornato in bonis (che, dunque, ha riacquistato la legittimazione ad essere parte di giudizi di contenuto patrimoniale) di spiegare, nei detti giudizi, intervento adesivo dipendente, ai sensi dell’art. 105, comma 2, c.p.c.
 
[47] 
Cfr. Cass. 15 gennaio 2016, n. 614.
[48] 
Secondo G. Minutoli, op. cit., 2432, la previsione degli accantonamenti per delle somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti “va fatta prudenzialmente tenendo conto di previsioni nefaste per i giudizi e di compensi liquidati in misura medio-massima”.

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Le suddette informazioni sono trattate in forma automatizzata e raccolte al fine di verificare il corretto funzionamento del sito e per motivi di sicurezza.

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Tempi di conservazione dei Suoi dati - I dati personali raccolti durante la navigazione saranno conservati per il tempo necessario a svolgere le attività precisate e non oltre 24 mesi.

Modalità del trattamento - Ai sensi e per gli effetti degli artt. 12 e ss. del GDPR, i dati personali degli interessati saranno registrati, trattati e conservati presso gli archivi elettronici delle Società, adottando misure tecniche e organizzative volte alla tutela dei dati stessi. Il trattamento dei dati personali degli interessati può consistere in qualunque operazione o complesso di operazioni tra quelle indicate all' art. 4, comma 1, punto 2 del GDPR.

Comunicazione e diffusione - I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati, intendendosi con tale termine il darne conoscenza ad uno o più soggetti determinati, dalla Società a terzi per dare attuazione a tutti i necessari adempimenti di legge. In particolare i dati personali dell’interessato potranno essere comunicati a Enti o Uffici Pubblici o autorità di controllo in funzione degli obblighi di legge.

I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati nei seguenti termini:

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  • - a soggetti che hanno necessità di accedere ai dati per finalità ausiliare al rapporto che intercorre tra l’interessato e la Società, nei limiti strettamente necessari per svolgere i compiti ausiliari.

Diritti dell’interessato - Ai sensi degli artt. 15 e ss GDPR, l’interessato potrà esercitare i seguenti diritti:

  • 1. accesso: conferma o meno che sia in corso un trattamento dei dati personali dell’interessato e diritto di accesso agli stessi; non è possibile rispondere a richieste manifestamente infondate, eccessive o ripetitive;
  • 2. rettifica: correggere/ottenere la correzione dei dati personali se errati o obsoleti e di completarli, se incompleti;
  • 3. cancellazione/oblio: ottenere, in alcuni casi, la cancellazione dei dati personali forniti; questo non è un diritto assoluto, in quanto le Società potrebbero avere motivi legittimi o legali per conservarli;
  • 4. limitazione: i dati saranno archiviati, ma non potranno essere né trattati, né elaborati ulteriormente, nei casi previsti dalla normativa;
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  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

Il TITOLARE

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