I due decreti in esame dichiarano inammissibili i ricorsi proposti in quanto “deve ritenersi che difetti la fattibilità giuridica del piano proposto, che appare privo di causa concreta” e questo perché, secondo i due magistrati patavini, “il piano non permette di garantire la funzione ad esso assegnata dal legislatore che non corrisponde alla sola ‘ristrutturazione dei debiti’ bensì anche alla effettiva (seppur parziale) ‘soddisfazione dei crediti’ (art 8, comma 1, L. n. 3/2012), che non può a priori sussistere ove taluni creditori siano del tutto esclusi da una qualche forma di soddisfacimento”. I due ricorsi proposti, appare utile ricordarlo, prevedevano l’uno il pagamento di una percentuale del 3,10% per gli importi garantiti da ipoteca, dell’1,30% per gli importi assistiti da privilegio e degradati a chirografo, 1,30% per i chirografari; l’altro il pagamento di una percentuale dell’11,33% per gli importi garantiti da privilegio e nulla per i chirografari. Per corroborare la propria tesi entrambe le decisioni richiamano l’ordinanza Cass., sez. 1, 26/09/2022 n. 28013, resa in relazione ad una ipotesi di piano del consumatore, secondo cui detto istituto “ha, alla stregua delle previsioni della L. n. 3/2012, art. 7, comma 1 bis, e del comma 1, una ben precisa ‘tipica’ connotazione causale” e “deve ambire, contestualmente, alla duplice finalità […] della ‘ristrutturazione dei debiti’ e ‘della soddisfazione dei crediti’, rispettivamente gravanti sul consumatore e vantati nei confronti del consumatore”; secondo i giudici di Piazza Cavour spetterebbe “al Tribunale, in sede di omologazione, riscontrare che il piano proposto dal consumatore sia idoneo ad assolvere concretamente la (delineata) funzione causale che gli è astrattamente ed inderogabilmente propria ovvero che il piano sia ‘giuridicamente fattibile’”.
Anche sotto tale aspetto le due decisioni padovane lasciano perplessi, e questo quanto meno per due motivi: (i) appare giuridicamente forzata l’equiparazione tra accordo di ristrutturazione e piano del consumatore; (ii) il Tribunale ha omesso di considerare che, ai fini dell’omologabilità dell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, non è prevista nella L. n. 3/2012 alcuna percentuale minima di pagamento dei crediti (diversamente da quanto previsto, per esempio, dall’art. 160, comma 4, L. fall. per il vecchio concordato fallimentare), bensì un parametro per la valutazione della ammissibilità della falcidia dei crediti privilegiati (art. 7, comma 1, secondo periodo, L. n. 3/2012) ed un parametro per la valutazione della convenienza dell’accordo in caso di contestazione da parte dei creditori non aderenti ovvero in ipotesi di cram down (art. 12, comma 2, secondo periodo e comma 3 quater).
Quanto al primo punto (equiparazione tra accordo di ristrutturazione e piano del consumatore), i due istituti appaiono ontologicamente diversi e distinti: mentre nel primo è richiesto il raggiungimento di una percentuale di consenso da parte dei creditori, il secondo è sottratto al giudizio dei creditori e sottoposto, ai fini della sua omologabilità, al solo vaglio - necessariamente incisivo - del giudice. L’art. 12 bis, comma 3, L. n. 3/2012, infatti, nel disciplinare il procedimento di omologazione del piano del consumatore attribuisce espressamente al giudice il compito di verificare “l’ammissibilità e la fattibilità del piano nonché l’idoneità dello stesso ad assicurare il pagamento dei crediti impignorabili”. Nel capo che disciplina l’accordo di composizione della crisi, invece, il legislatore non ha attribuito al Giudice un simile potere in punto di fattibilità dell’accordo: egli ha infatti previsto che il giudice (art. 12, comma 2) omologhi l’accordo “quando, risolta ogni altra contestazione, ha verificato il raggiungimento della percentuale di cui all’articolo 11, comma 2, e l’idoneità del piano ad assicurare il pagamento integrale dei crediti impignorabili, nonché dei crediti di cui all’articolo 7, comma 1, terzo periodo”.
A riprova della ontologica differenza tra i due istituti e dei diversi poteri conferiti al giudice nell’ambito delle due procedure, appare utile osservare che mentre alla proposta di piano del consumatore deve essere allegata una relazione dell’OCC che deve contenere “la valutazione sulla completezza e sull’attendibilità della documentazione depositata a corredo della domanda” (art. 9, comma 3 bis, lett. c)), la domanda di accordo deve essere completa di una valutazione anche “sulla convenienza del piano rispetto all’alternativa liquidatoria” (art. 9, comma 3 bis 1, lett. d)). Nel piano del consumatore, infatti, il vaglio in ordine alla fattibilità del piano proposto compete in via esclusiva al giudice; nel caso dell’accordo, invece, spetta ai creditori il giudizio in ordine alla attitudine del piano a soddisfare le proprie ragioni e al giudice la (sola) valutazione in ordine alla sussistenza dei requisiti di ammissibilità della proposta.
Ne consegue, a nostro avviso, che non si possano acriticamente applicare ad una procedura di accordo di composizione i principi espressi dalla Corte di Cassazione con riferimento al piano del consumatore. Ed è proprio in virtù della esplicita previsione normativa contenuta nell’art. 12 bis, comma 3, L. n. 3/2012 che i giudici della Suprema Corte affermano che “il tribunale, in sede di eventuale omologazione ha, innanzitutto ed inesorabilmente, da riscontrare che il ‘piano’ proposto dal consumatore sia idoneo ad assolvere concretamente la (delineata) funzione causale che gli è astrattamente ed inderogabilmente propria ovvero che il ‘piano’ sia ‘giuridicamente fattibile’”: una previsione normativa di cui difetta, invece, l’accordo di composizione. Appare quindi forzata, alla luce di ciò, la conclusione dei due giudici patavini secondo cui sarebbe la previsione di cui all’art. 8, comma 1, L. n. 3/2012 a rendere il ragionamento della Suprema Corte assunto in relazione ad una ipotesi di piano del consumatore “perfettamente aderente anche al caso di specie” (in termini uno dei due decreti).
Quanto al secondo aspetto (la fattibilità giuridica dell’accordo): i due giudici delegati hanno dichiarato inammissibili le proposte formulate dai ricorrenti ritenendo che “difetti la fattibilità giuridica del piano proposto, che appare privo di causa concreta”. A loro dire, infatti, l’accordo, per rispettare la funzione ad esso assegnata dal legislatore, deve garantire la “effettiva (seppur parziale) ‘soddisfazione dei crediti’ (art. 8, comma 1, L. n. 3/2012)” e, inoltre deve essere garantito un “soddisfacimento che, per dirsi tale, non può essere irrisorio”, giacché in presenza di una percentuale di soddisfacimento dei creditori eccessivamente esigua verrebbe a “determinarsi uno scollamento della proposta rispetto alla propria funzione” (in termini uno dei due decreti). Insomma per il Tribunale patavino “la necessità di un soddisfacimento effettivo per i creditori è connaturata alla natura stessa dell’istituto prescelto”. La statuizione a nostro avviso presta il fianco ad alcune giuridiche aporie: (i) pare sottintendere l’esistenza di un limite minimo di soddisfazione dei creditori di cui, tuttavia, non v’è traccia nella legge (e di cui il giudice comunque omette il richiamo) e (ii) afferma la necessità di una soddisfazione effettiva e non irrisoria di tutti i creditori, indipendentemente dall’esistenza dell’ordine dei privilegi. Ora, con riferimento al primo aspetto (esistenza di un limite minimo di soddisfazione), non pare seriamente dubitabile che, nel caso dell’accordo, il legislatore non abbia previsto alcun limite minimo dei creditori, essendo rimessa a questi ultimi (e solo a loro) la valutazione in ordine alla congruità della proposta. Sono i creditori, infatti, che attraverso l’espressione di voto giudicano la convenienza economica della proposta di accordo avanzata dal debitore e, quindi, ne vagliano la fattibilità giuridica nel senso indicato dai giudici patavini (vale a dire l’esistenza della causa del negozio giuridico, inteso quale sua idoneità alla soddisfazione dei creditori). Del resto, allorquando il legislatore ha inteso introdurre un limite minimo di soddisfazione dei creditori lo ha fatto espressamente (esempio: art. 160, comma 4, L. fall.); nell’ambito della procedura di accordo per la composizione della crisi da sovraindebitamento, invece, il legislatore ha inteso introdurre due parametri di valutazione: 1) un parametro per la valutazione della ammissibilità della falcidia dei crediti privilegiati (art. 7, comma 1, secondo periodo, L. n. 3/2012); 2) un parametro per la valutazione della convenienza dell’accordo in caso di contestazione da parte dei creditori non aderenti ovvero in ipotesi di cram down (art. 12, comma 2, secondo periodo e comma 3 quater). Al giudice, invece, sono affidati il vaglio di legittimità dell’accordo, ossia la valutazione in ordine alla compatibilità dello stesso con le norme inderogabili (cd. fattibilità giuridica) e la valutazione di convenienza dell’accordo rispetto all’alternativa liquidatoria (nei soli casi, peraltro, di contestazione da parte dei creditori non aderenti o esclusi). Nel fare questo, peraltro, il giudice, non disponendo o non avendo voluto disporre (come nei due casi padovani) di poteri istruttori, deve necessariamente far riferimento a quanto espresso dall’OCC nella propria relazione particolareggiata che, a norma dell’art. 9, comma 3 bis 1, L. n. 3/2012, deve contenere appunto la valutazione “sulla convenienza del piano rispetto all’alternativa liquidatoria” (e nei due casi esaminati l’OCC aveva ritenuto la proposta di accordo conveniente sotto tale profilo). Pertanto, una volta appurata la sussistenza dei requisiti di ammissibilità della proposta di accordo il giudice, a fronte del raggiungimento dell’accordo (anche in virtù dell’applicazione del cram down) sarebbe a nostro avviso chiamato ad omologare l’accordo e a disporne l’immediata pubblicazione, non essendogli attribuita alcuna facoltà di sindacare in merito alla sua fattibilità giuridica, la cui valutazione è rimessa in via esclusiva ai creditori. Con riferimento, poi, al secondo aspetto (necessità di una soddisfazione effettiva e non irrisoria di tutti i creditori, indipendentemente dall’esistenza dell’ordine dei privilegi), appare oltremodo irragionevole pensare che questo possa essere il faro che guidi il giudice o l’interprete posto che, seguendo la regola della priorità assoluta, si conterebbero davvero sulle dita di una mano i piani capaci di offrire una percentuale di soddisfazione non irrisoria a tutti i creditori.
Ma spingiamo ancora oltre l’analisi del testo di legge, per capire se sia giuridicamente sostenibile, come fanno i due giudici delegati, la duplice finalità dell’accordo di cui all’art. 10 L. n. 3/2012: la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori. Ebbene, l’interpretazione sistematica spinge a ritenere che, nelle due fattispecie, sia stata confusa la finalità data dal legislatore agli istituti disciplinati dalla L. n. 3/2012 con il contenuto che deve avere la proposta. A norma dell’art. 6 L. n. 3/2012, significativamente rubricato “finalità e definizioni”, la funzione causale degli istituti per la composizione della crisi da sovraindebitamento è quella di “porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento non soggette né assoggettabili a procedure concorsuali diverse”. La “ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori” rappresentano invece, nell’impianto normativo, il contenuto della proposta di accordo o di piano del consumatore. Le predette espressioni, infatti, si rinvengono nell’art. 8, comma 1, rubricato “contenuto dell’accordo o del piano” e nel primo comma dell’art. 7 che, nell’individuare i presupposti di ammissibilità della proposta prevede che il “debitore sovraindebitato può proporre ai creditori […] un accordo di ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei crediti sulla base di un piano”. La soddisfazione dei crediti, diversamente da quanto sostenuto dai due giudici, non è la funzione causale dell’accordo, rappresentata dal rimedio alla condizione di sovraindebitamento, ma rappresenta (parte di) il contenuto della proposta. Con la conseguenza che la mancanza dell’una (la funzione causale) comporta una pronuncia in rito di inammissibilità (ma che, come visto sopra al par. 2, nei due casi oggetto del presente lavoro era già stata vagliata e ritenuta sussistere), mentre la mancanza dell’altra (contenuto non conforme al dettato legislativo) comporta una pronuncia nel merito, in punto di infondatezza – rigetto della proposta. Appare utile ricordare, al riguardo, che in occasione dell’esame definitivo del DDL contenente le modifiche alla L. n. 3/2012, svolto nel corso del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2012, la relazione illustrativa dello stesso, nel riferirsi al predetto testo normativo, espressamente indicava che lo stesso “per la prima volta ha introdotto nell’ordinamento un meccanismo di estinzione (controllata in sede giudiziale) delle obbligazioni del soggetto sovraindebitato non fallibile”. Non pare quindi che altra funzione causale debba riconoscersi all’istituto in esame se non quella della risoluzione della condizione di sovraindebitamento.
Giunti a questo punto dell’analisi delle due decisioni è giunto il momento di chiedersi: la funzione causale dell’accordo è sovrapponibile a quella del piano del consumatore? I giudici patavini, infatti, hanno fondato la propria decisione sulla (a loro dire) perfetta sovrapponibilità all’accordo delle norme e, altresì, delle indicazioni della giurisprudenza in tema di piano del consumatore. Vediamo se può sostenersi una simile interpretazione; per farlo partiremo proprio dalle conclusioni cui è giunta Cass., sez. 1, 26 settembre 2022 n. 28013, da cui i due giudici pescano a piene mani nei loro due provvedimenti. L’incipit del dictum della Corte è chiaro: “Il "piano" del consumatore, negozio giuridico unilaterale a contenuto patrimoniale (art. 1324 c.c.), ha, alla stregua delle previsioni della L. n. 3/2012 art. 71, comma bis e del 1 comma, una ben precisa - ‘tipica’- connotazione causale”. Il perno del ragionamento (e quindi la non perfetta sovrapponibilità degli argomenti) sta a nostro avviso proprio qui: il piano, dice la Corte, è un negozio giuridico unilaterale. L’accordo, invece, non lo è: esso, infatti (peraltro lo dice anche il lessico usato dal legislatore: accordo) ha una tipica connotazione negoziale e, come tale, bilaterale (o plurilaterale); tanto è vero questo che i creditori sono chiamati ad esprimere il consenso (o il dissenso) rispetto allo stesso (peraltro, è bene precisarlo subito, l’istituto del cram down non scalfisce minimamente tale natura). Così, all’evidenza, non accade per il piano.
Si potrebbe a questo punto obiettare quanto più avanti, nei capi di sentenza che seguono quello appena riportato, la S.C. statuisce: “Innegabilmente la sola finalità della ‘ristrutturazione’ (…) non è bastevole, siccome deve, imprescindibilmente, in virtù della formula ‘binaria’ riflessa dal dettato legislativo, coniugarsi con la finalità della ‘soddisfazione’ (…) In primo luogo, il tribunale, in sede di eventuale omologazione, ha, innanzitutto ed inesorabilmente, da riscontrare che il ‘piano’ proposto dal consumatore sia idoneo ad assolvere concretamente la (delineata) funzione causale che gli è astrattamente ed inderogabilmente propria ovvero che il ‘piano’ sia ‘giuridicamente fattibile’” (ndr.: vale a dire che esso non sia incompatibile con norme inderogabili). E questo in ragione del dettato normativo che si riferisce (art. 7 L. n. 3/2012) tanto al piano quanto all’accordo. Così tuttavia non è: ed il perché sta sempre nella ontologica differenza tra piano (negozio unilaterale) e accordo (dal carattere negoziale). E’ per questo che nel primo (piano) il giudice ha ficcanti poteri di controllo sul rispetto della funzione causale binaria: perché il presidio giurisdizionale è garanzia della corrispondenza del piano stesso alla finalità per cui il legislatore lo ha concepito (fattibilità giuridica). Nulla di ciò nell’accordo, dove il controllo della corrispondenza del negozio al parametro normativo (sub specie “convenienza per i creditori”) è demandato ai creditori stessi, che rispetto a quell’accordo sono chiamati ad esprimere il proprio parere, di adesione o di rigetto dell’accordo stesso. Nel piano quindi, proprio in ragione della sua natura unilaterale, il giudice ha il dovere e il potere di interrogarsi sulla fattibilità giuridica per impedirne gli abusi, mentre nell’accordo tale controllo è limitato alla corrispondenza dell’accordo al parametro normativo stabilito dal legislatore e alla non contrarietà dello stesso a norme imperative.
A questo ragionamento si potrebbe obiettare quanto segue: questa teoria perde di condivisibilità nel momento in cui prendiamo in considerazione l’istituto del cram down, dove la volontà e l’espressione di voto di taluni soggetti viene, per così dire, forzata. Riteniamo tuttavia che così non sia: e questo in ragione della circostanza che, in questi casi, la forzatura (e quindi l’indiretto controllo della fattibilità) viene operata in ragione dell’attestazione, ad opera dell’OCC, della convenienza dell’accordo rispetto alla alternativa liquidatoria. In altri termini, l’altro binario della causa del negozio “accordo” (= soddisfazione dei creditori), in caso di cram down, è garantito dalla convenienza dello stesso rispetto all’alternativa della liquidazione (del patrimonio sotto l’egida della L. n. 3/2012, controllata oggi sotto quella del CCII).
Per queste ragioni riteniamo non condivisibile l’interpretazione dell’istituto fornita dai due giudici di Padova.