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Commento

La causa concreta (fattibilità giuridica) nell'accordo di composizione della crisi regolato dalla L. n. 3/2012*

Francesco D'Ambrosi, Avvocato in Padova

4 Luglio 2023

*Il commento è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.

Visualizza: Trib. Padova, 13 aprile 2023, Est. Rossi

Visualizza: Trib. Padova, 15 febbraio 2023, Est. Marzella

Nel contributo l’autore prende in esame due recentissimi decreti del Tribunale di Padova relativi ad altrettanti accordi di composizione previsti dalla L. 27 gennaio 2012, n. 3 presentati da soggetti imprenditori e aventi quali creditori assolutamente preponderanti l’Agenzia delle Entrate e l’Inps: negli stessi il Tribunale patavino ha statuito l’inammissibilità dei due ricorsi presentati in ragione (anche, in uno dei due casi) dell’inesistenza della causa concreta dell’accordo. Tale causa concreta, secondo il Tribunale, è da rinvenirsi anche nella soddisfazione dei creditori, che non può essere rappresentata da una percentuale irrisoria (3,10% per gli importi garantiti da ipoteca, 1,30% per gli importi assistiti da privilegio e degradati a chirografo, 1,30% per i chirografari in un caso; l’11,33% per gli importi garantiti da privilegio, nulla per i chirografari nell’altro caso). Da segnalare che in entrambi i ricorsi il gestore della crisi aveva prodotto relazioni particolareggiate nelle quali era attestata la convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria: di qui la richiesta, da parte del creditore, di addivenire all’omologa dell’accordo a mezzo dell’istituto del cram down.
Nel contributo l’autore, dopo aver analizzato una questione processuale (la pronuncia di inammissibilità postuma dell’accordo) e aver dato contezza dell’unico precedente di legittimità in tema di piano del consumatore, prende posizione in ordine all’applicabilità all’istituto dell’accordo di composizione della teoria della fattibilità giuridica.

In the paper the author examines two very recent decrees of the Court of Padua relating to as many composition agreements provided by Law 27 January 2012, n. 3 presented by entrepreneurs having the Revenue Agency and INPS as absolutely preponderant creditors: in the same cases, the Court of Padua ruled the inadmissibility of the two appeals presented due to (also, in one of the two cases) the non-existence of the concrete cause of the agreement. This concrete cause, according to the Court, is also to be found in the satisfaction of creditors, which cannot be represented by a negligible percentage (3.10% for amounts guaranteed by a mortgage, 1.30% for amounts secured by privileges and degraded unsecured, 1.30% for those who are unsecured in one case; 11.33% for amounts secured by lien, nothing for those who are unsecured in the other case). It should be noted that in both cases the crisis manager had produced detailed reports in which the convenience of the proposal with respect to the liquidation alternative was attested: hence the request, by the creditor, to reach the counterpart of the agreement by means of the cram down institute.
In the paper the author, after having analyzed a procedural issue (the posthumous ruling of inadmissibility of the agreement) and having given account of the only precedent of legitimacy in terms of consumer plan, takes a position regarding the applicability to the institution of the composition agreement of the theory of legal feasibility.
Riproduzione riservata
1 . Introduzione
Con due recenti decreti il Tribunale di Padova si è pronunciato su altrettanti ricorsi tesi a raggiungere l’accordo di composizione della crisi con il ceto creditorio. I due decreti, pur provenendo dalla penna di giudici delegati diversi, sono tra loro quasi perfettamente sovrapponibili nelle conclusioni (inammissibilità del ricorso) e nella motivazione del provvedimento: quella della mancanza di causa concreta (fattibilità giuridica) dell’accordo, intesa non solo come ristrutturazione del debito ma anche come soddisfazione dei creditori.
Per cogliere appieno le sfumature delle due decisioni, ma anche per dare loro una minima collocazione in punto di fatto, riassumiamo sinteticamente le due fattispecie. Il decreto del 15 febbraio 2023 riguarda il ricorso per accordo di composizione presentato da un ex socio di S.a.s. avente una esposizione debitoria nei confronti dell’Erario per circa 870.000 euro; il sovraindebitato percepisce oggi uno stipendio di circa 1.900 euro e non è titolare di beni o quote di società aggredibili o comunque utilmente liquidabili, eccezion fatta per una sparuta quota di immobile che, nella alternativa liquidatoria post giudizio di divisione, avrebbe portato utilità alla massa dei creditori per 23.000 euro. Veniva messa a disposizione della procedura la somma di 40.000 euro da parte della compagna e, ciò che più conta, il gestore nominato attestava nella propria relazione particolareggiata la convenienza della proposta.
Il secondo decreto, emesso il successivo 13/4/2023, invece, riguarda la proposta di accordo presentata da una ex imprenditrice, fallita molto tempo addietro, debitrice nei confronti dell’Erario, di AdeR, Inail, Inps e Regione Veneto della complessiva somma di €. 855.000. La proposta trovava il favore del 42,98% dei creditori (Inps e Regione Veneto), ma non quello dell’Erario, dell’AdeR e dell’Inail, che votavano a sfavore dell’accordo. Tale accordo prevedeva la corresponsione, da parte del compagno della ricorrente (nullatenente e titolare di una pensione di 558 euro mensili) della somma di €. 45.000, subordinata all’omologa dell’accordo. In ragione del voto negativo espresso la ricorrente chiedeva che, disposto il cram down in ragione della convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria attestata dal gestore, fosse omologato l’accordo.
Entrambi i decreti del Tribunale patavino concentrano (anche, il primo, solo, il secondo) la propria statuizione sul “difetto di fattibilità dell’accordo proposto, che appare privo di causa concreta (…). Il piano non permette quindi di garantire la funzione ad esso assegnata dal legislatore che, come visto, non corrisponde alla sola ‘ristrutturazione dei debiti’ bensì anche alla effettiva (seppur parziale) ‘soddisfazione dei crediti’ (art. 8, comma 1, L. n. 3/2012)” (in termini il decreto del 13 aprile 2023).
2 . La questione di diritto processuale circa la declaratoria di inammissibilità post decreto di fissazione dell’udienza
In entrambi i decreti i giudici delegati hanno dichiarato inammissibili i due ricorsi in ragione della pretesa assenza di una funzione causale della proposta di accordo e, ciò che conta ai fini del paragrafo che ci occupa, lo hanno fatto con una pronuncia di inammissibilità degli stessi.
Questa statuizione di inammissibilità lascia perplessi sotto il profilo processuale. Dalla lettura del disposto di cui all’art. 10 L. n. 3/2012, infatti, non pare potersi dubitare del fatto che il decreto di apertura della procedura possa essere adottato solo a fronte del positivo e preventivo vaglio di ammissibilità della proposta. La norma, infatti, espressamente dispone che “il giudice, se la proposta soddisfa i requisiti previsti dagli articoli 7, 8 e 9, fissa immediatamente con decreto l'udienza”. Ora, a noi pare che, dato che gli artt. 7, 8 e 9 della L. n. 3/2012 contengono tutte le disposizioni relative al contenuto vincolato della proposta, sia corretto sostenere che il Tribunale possa adottare, come accaduto nei due decreti patavini, il decreto previsto dall’art. 10 solo dopo aver previamente deliberato in ordine all’ammissibilità della stessa. A favore di tale tesi milita indubitabilmente, a nostro avviso, il combinato disposto degli art. 7 (rubricato “Presupposti di ammissibilità”) e 10 della L. n. 3/2012: se l’art. 10 afferma che “il giudice, se la proposta soddisfa i requisiti previsti dagli articoli 7, 8 e 9, fissa immediatamente con decreto l'udienza” significa che il giudice, allorquando la fissa, deve aver già valutato (art. 7) i “presupposti di ammissibilità” e li deve aver valutati come sussistenti. Diversamente il giudice, in assenza dei presupposti di ammissibilità, dovrebbe emettere immediatamente una pronuncia di inammissibilità per loro difetto; ma, una volta fissata l’udienza dell’art. 10, e quindi valutati come sussistenti i requisiti di ammissibilità della domanda, egli non potrà emettere una pronuncia di inammissibilità ma, a tutto voler concedere, una pronuncia di infondatezza, nel merito, della domanda. 
Ciò è tanto più vero se si vanno a leggere i verbali dei due procedimenti in oggetto: in entrambi i giudici, nei loro precedenti provvedimenti, avevano dichiarato l’apertura della procedura, affermando espressamente che “si danno i presupposti soggetti ed oggettivi di ammissibilità della proposta di accordo non sussistendo nessuna delle ipotesi di esclusione di cui all’art. 7, comma 2, L. n. 3/2012” (in termini il verbale di un’udienza antecedente il decreto del 13 aprile 2023): e allora se ne deve ricavare come entrambi i giudici si fossero già interrogati sulla ricorrenza dei presupposti di ammissibilità, risolvendola in senso positivo. Diversamente, anche per ragioni di economia processuale, non avrebbe avuto senso alcuno dichiarare aperte due procedure già destinate a chiudersi con una declaratoria di inammissibilità. In altre e definitive parole il GD, a nostro avviso, nel momento in cui adotta il decreto di apertura della procedura esaurisce il proprio potere in ordine al vaglio di ammissibilità della domanda, dovendosi e potendosi esprimere da lì in avanti solo in termini di fondatezza, o infondatezza, nel merito, dell’accordo proposto.
A bene vedere, del resto, questa è anche la struttura pensata dal legislatore rispetto alla domanda di concordato (artt. 160 e ss. L. fall.) che possiamo definire bifasica (ai fini che qui ci occupano: a queste in realtà si aggiunge la fase, intermedia, della revoca, non di interesse ai fini di questa disamina), prevendendo essa prima il giudizio di ammissibilità e poi quella di omologa del piano concordatario: l’art. 162, comma 2, L. fall., infatti, prevede che “il Tribunale, se all’esito del procedimento verifica che non ricorrono i presupposti di cui agli articoli 160, comma 1 e comma 2, e 161, (…) dichiara inammissibile la proposta di concordato”. Anche per questo istituto, quindi, i presupposti di ammissibilità della domanda vengono valutati dal giudice prima della dichiarazione di apertura della procedura, che poi lo vedrà concentrare la propria decisione sul giudizio (eventuale) di omologa.
3 . La teoria della connotazione causale (o fattibilità giuridica) e la sua applicabilità all’accordo di composizione della crisi
I due decreti in esame dichiarano inammissibili i ricorsi proposti in quanto “deve ritenersi che difetti la fattibilità giuridica del piano proposto, che appare privo di causa concreta” e questo perché, secondo i due magistrati patavini, “il piano non permette di garantire la funzione ad esso assegnata dal legislatore che non corrisponde alla sola ‘ristrutturazione dei debiti’ bensì anche alla effettiva (seppur parziale) ‘soddisfazione dei crediti’ (art 8, comma 1, L. n. 3/2012), che non può a priori sussistere ove taluni creditori siano del tutto esclusi da una qualche forma di soddisfacimento”. I due ricorsi proposti, appare utile ricordarlo, prevedevano l’uno il pagamento di una percentuale del 3,10% per gli importi garantiti da ipoteca, dell’1,30% per gli importi assistiti da privilegio e degradati a chirografo, 1,30% per i chirografari; l’altro il pagamento di una percentuale dell’11,33% per gli importi garantiti da privilegio e nulla per i chirografari. Per corroborare la propria tesi entrambe le decisioni richiamano l’ordinanza Cass., sez. 1, 26/09/2022 n. 28013, resa in relazione ad una ipotesi di piano del consumatore, secondo cui detto istituto “ha, alla stregua delle previsioni della L. n. 3/2012, art. 7, comma 1 bis, e del comma 1, una ben precisa ‘tipica’ connotazione causale” e “deve ambire, contestualmente, alla duplice finalità […] della ‘ristrutturazione dei debiti’ e ‘della soddisfazione dei crediti’, rispettivamente gravanti sul consumatore e vantati nei confronti del consumatore”; secondo i giudici di Piazza Cavour spetterebbe “al Tribunale, in sede di omologazione, riscontrare che il piano proposto dal consumatore sia idoneo ad assolvere concretamente la (delineata) funzione causale che gli è astrattamente ed inderogabilmente propria ovvero che il piano sia ‘giuridicamente fattibile’”.
Anche sotto tale aspetto le due decisioni padovane lasciano perplessi, e questo quanto meno per due motivi: (i) appare giuridicamente forzata l’equiparazione tra accordo di ristrutturazione e piano del consumatore; (ii) il Tribunale ha omesso di considerare che, ai fini dell’omologabilità dell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, non è prevista nella L. n. 3/2012 alcuna percentuale minima di pagamento dei crediti (diversamente da quanto previsto, per esempio, dall’art. 160, comma 4, L. fall. per il vecchio concordato fallimentare), bensì un parametro per la valutazione della ammissibilità della falcidia dei crediti privilegiati (art. 7, comma 1, secondo periodo, L. n. 3/2012) ed un parametro per la valutazione della convenienza dell’accordo in caso di contestazione da parte dei creditori non aderenti ovvero in ipotesi di cram down (art. 12, comma 2, secondo periodo e comma 3 quater). 
Quanto al primo punto (equiparazione tra accordo di ristrutturazione e piano del consumatore), i due istituti appaiono ontologicamente diversi e distinti: mentre nel primo è richiesto il raggiungimento di una percentuale di consenso da parte dei creditori, il secondo è sottratto al giudizio dei creditori e sottoposto, ai fini della sua omologabilità, al solo vaglio - necessariamente incisivo - del giudice. L’art. 12 bis, comma 3, L. n. 3/2012, infatti, nel disciplinare il procedimento di omologazione del piano del consumatore attribuisce espressamente al giudice il compito di verificare “l’ammissibilità e la fattibilità del piano nonché l’idoneità dello stesso ad assicurare il pagamento dei crediti impignorabili”. Nel capo che disciplina l’accordo di composizione della crisi, invece, il legislatore non ha attribuito al Giudice un simile potere in punto di fattibilità dell’accordo: egli ha infatti previsto che il giudice (art. 12, comma 2) omologhi l’accordo “quando, risolta ogni altra contestazione, ha verificato il raggiungimento della percentuale di cui all’articolo 11, comma 2, e l’idoneità del piano ad assicurare il pagamento integrale dei crediti impignorabili, nonché dei crediti di cui all’articolo 7, comma 1, terzo periodo”.
A riprova della ontologica differenza tra i due istituti e dei diversi poteri conferiti al giudice nell’ambito delle due procedure, appare utile osservare che mentre alla proposta di piano del consumatore deve essere allegata una relazione dell’OCC che deve contenere “la valutazione sulla completezza e sull’attendibilità della documentazione depositata a corredo della domanda” (art. 9, comma 3 bis, lett. c)), la domanda di accordo deve essere completa di una valutazione anche “sulla convenienza del piano rispetto all’alternativa liquidatoria” (art. 9, comma 3 bis 1, lett. d)). Nel piano del consumatore, infatti, il vaglio in ordine alla fattibilità del piano proposto compete in via esclusiva al giudice; nel caso dell’accordo, invece, spetta ai creditori il giudizio in ordine alla attitudine del piano a soddisfare le proprie ragioni e al giudice la (sola) valutazione in ordine alla sussistenza dei requisiti di ammissibilità della proposta.
Ne consegue, a nostro avviso, che non si possano acriticamente applicare ad una procedura di accordo di composizione i principi espressi dalla Corte di Cassazione con riferimento al piano del consumatore. Ed è proprio in virtù della esplicita previsione normativa contenuta nell’art. 12 bis, comma 3, L. n. 3/2012 che i giudici della Suprema Corte affermano che “il tribunale, in sede di eventuale omologazione ha, innanzitutto ed inesorabilmente, da riscontrare che il ‘piano’ proposto dal consumatore sia idoneo ad assolvere concretamente la (delineata) funzione causale che gli è astrattamente ed inderogabilmente propria ovvero che il ‘piano’ sia ‘giuridicamente fattibile’”: una previsione normativa di cui difetta, invece, l’accordo di composizione. Appare quindi forzata, alla luce di ciò, la conclusione dei due giudici patavini secondo cui sarebbe la previsione di cui all’art. 8, comma 1, L. n. 3/2012 a rendere il ragionamento della Suprema Corte assunto in relazione ad una ipotesi di piano del consumatore “perfettamente aderente anche al caso di specie” (in termini uno dei due decreti).
Quanto al secondo aspetto (la fattibilità giuridica dell’accordo): i due giudici delegati hanno dichiarato inammissibili le proposte formulate dai ricorrenti ritenendo che “difetti la fattibilità giuridica del piano proposto, che appare privo di causa concreta”. A loro  dire, infatti, l’accordo, per rispettare la funzione ad esso assegnata dal legislatore, deve garantire la “effettiva (seppur parziale) ‘soddisfazione dei crediti’ (art. 8, comma 1, L. n. 3/2012)” e, inoltre deve essere garantito un “soddisfacimento che, per dirsi tale, non può essere irrisorio”, giacché in presenza di una percentuale di soddisfacimento dei creditori eccessivamente esigua verrebbe a “determinarsi uno scollamento della proposta rispetto alla propria funzione” (in termini uno dei due decreti). Insomma per il Tribunale patavino la necessità di un soddisfacimento effettivo per i creditori è connaturata alla natura stessa dell’istituto prescelto”. La statuizione a nostro avviso presta il fianco ad alcune giuridiche aporie: (i) pare sottintendere l’esistenza di un limite minimo di soddisfazione dei creditori di cui, tuttavia, non v’è traccia nella legge (e di cui il giudice comunque omette il richiamo) e (ii) afferma la necessità di una soddisfazione effettiva e non irrisoria di tutti i creditori, indipendentemente dall’esistenza dell’ordine dei privilegi. Ora, con riferimento al primo aspetto (esistenza di un limite minimo di soddisfazione), non pare seriamente dubitabile che, nel caso dell’accordo, il legislatore non abbia previsto alcun limite minimo dei creditori, essendo rimessa a questi ultimi (e solo a loro) la valutazione in ordine alla congruità della proposta. Sono i creditori, infatti, che attraverso l’espressione di voto giudicano la convenienza economica della proposta di accordo avanzata dal debitore e, quindi, ne vagliano la fattibilità giuridica nel senso indicato dai giudici patavini (vale a dire l’esistenza della causa del negozio giuridico, inteso quale sua idoneità alla soddisfazione dei creditori). Del resto, allorquando il legislatore ha inteso introdurre un limite minimo di soddisfazione dei creditori lo ha fatto espressamente (esempio: art. 160, comma 4, L. fall.); nell’ambito della procedura di accordo per la composizione della crisi da sovraindebitamento, invece, il legislatore ha inteso introdurre due parametri di valutazione: 1) un parametro per la valutazione della ammissibilità della falcidia dei crediti privilegiati (art. 7, comma 1, secondo periodo, L. n. 3/2012); 2) un parametro per la valutazione della convenienza dell’accordo in caso di contestazione da parte dei creditori non aderenti ovvero in ipotesi di cram down (art. 12, comma 2, secondo periodo e comma 3 quater). Al giudice, invece, sono affidati il vaglio di legittimità dell’accordo, ossia la valutazione in ordine alla compatibilità dello stesso con le norme inderogabili (cd. fattibilità giuridica) e la valutazione di convenienza dell’accordo rispetto all’alternativa liquidatoria (nei soli casi, peraltro, di contestazione da parte dei creditori non aderenti o esclusi). Nel fare questo, peraltro, il giudice, non disponendo o non avendo voluto disporre (come nei due casi padovani) di poteri istruttori, deve necessariamente far riferimento a quanto espresso dall’OCC nella propria relazione particolareggiata che, a norma dell’art. 9, comma 3 bis 1, L. n. 3/2012, deve contenere appunto la valutazione “sulla convenienza del piano rispetto all’alternativa liquidatoria” (e nei due casi esaminati l’OCC aveva ritenuto la proposta di accordo conveniente sotto tale profilo). Pertanto, una volta appurata la sussistenza dei requisiti di ammissibilità della proposta di accordo il giudice, a fronte del raggiungimento dell’accordo (anche in virtù dell’applicazione del cram down) sarebbe a nostro avviso chiamato ad omologare l’accordo e a disporne l’immediata pubblicazione, non essendogli attribuita alcuna facoltà di sindacare in merito alla sua fattibilità giuridica, la cui valutazione è rimessa in via esclusiva ai creditori. Con riferimento, poi, al secondo aspetto (necessità di una soddisfazione effettiva e non irrisoria di tutti i creditori, indipendentemente dall’esistenza dell’ordine dei privilegi), appare oltremodo irragionevole pensare che questo possa essere il faro che guidi il giudice o l’interprete posto che, seguendo la regola della priorità assoluta, si conterebbero davvero sulle dita di una mano i piani capaci di offrire una percentuale di soddisfazione non irrisoria a tutti i creditori.
Ma spingiamo ancora oltre l’analisi del testo di legge, per capire se sia giuridicamente sostenibile, come fanno i due giudici delegati, la duplice finalità dell’accordo di cui all’art. 10 L. n. 3/2012: la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori. Ebbene, l’interpretazione sistematica spinge a ritenere che, nelle due fattispecie, sia stata confusa la finalità data dal legislatore agli istituti disciplinati dalla L. n. 3/2012 con il contenuto che deve avere la proposta. A norma dell’art. 6 L. n. 3/2012, significativamente rubricato “finalità e definizioni”, la funzione causale degli istituti per la composizione della crisi da sovraindebitamento è quella di porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento non soggette né assoggettabili a procedure concorsuali diverse”. La “ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori” rappresentano invece, nell’impianto normativo, il contenuto della proposta di accordo o di piano del consumatore. Le predette espressioni, infatti, si rinvengono nell’art. 8, comma 1, rubricato “contenuto dell’accordo o del piano” e nel primo comma dell’art. 7 che, nell’individuare i presupposti di ammissibilità della proposta prevede che il “debitore sovraindebitato può proporre ai creditori […] un accordo di ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei crediti sulla base di un piano”. La soddisfazione dei crediti, diversamente da quanto sostenuto dai due giudici, non è la funzione causale dell’accordo, rappresentata dal rimedio alla condizione di sovraindebitamento, ma rappresenta (parte di) il contenuto della proposta. Con la conseguenza che la mancanza dell’una (la funzione causale) comporta una pronuncia in rito di inammissibilità (ma che, come visto sopra al par. 2, nei due casi oggetto del presente lavoro era già stata vagliata e ritenuta sussistere), mentre la mancanza dell’altra (contenuto non conforme al dettato legislativo) comporta una pronuncia nel merito, in punto di infondatezza – rigetto della proposta. Appare utile ricordare, al riguardo, che in occasione dell’esame definitivo del DDL contenente le modifiche alla L. n. 3/2012, svolto nel corso del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2012, la relazione illustrativa dello stesso, nel riferirsi al predetto testo normativo, espressamente indicava che lo stesso per la prima volta ha introdotto nell’ordinamento un meccanismo di estinzione (controllata in sede giudiziale) delle obbligazioni del soggetto sovraindebitato non fallibile”. Non pare quindi che altra funzione causale debba riconoscersi all’istituto in esame se non quella della risoluzione della condizione di sovraindebitamento.
Giunti a questo punto dell’analisi delle due decisioni è giunto il momento di chiedersi: la funzione causale dell’accordo è sovrapponibile a quella del piano del consumatore? I giudici patavini, infatti, hanno fondato la propria decisione sulla (a loro dire) perfetta sovrapponibilità all’accordo delle norme e, altresì, delle indicazioni della giurisprudenza in tema di piano del consumatore. Vediamo se può sostenersi una simile interpretazione; per farlo partiremo proprio dalle conclusioni cui è giunta Cass., sez. 1, 26 settembre 2022 n. 28013, da cui i due giudici pescano a piene mani nei loro due provvedimenti. L’incipit del dictum della Corte è chiaro: “Il "piano" del consumatore, negozio giuridico unilaterale a contenuto patrimoniale (art. 1324 c.c.), ha, alla stregua delle previsioni della L. n. 3/2012 art. 71, comma bis e del 1 comma, una ben precisa - ‘tipica’- connotazione causale”. Il perno del ragionamento (e quindi la non perfetta sovrapponibilità degli argomenti) sta a nostro avviso proprio qui: il piano, dice la Corte, è un negozio giuridico unilaterale. L’accordo, invece, non lo è: esso, infatti (peraltro lo dice anche il lessico usato dal legislatore: accordo) ha una tipica connotazione negoziale e, come tale, bilaterale (o plurilaterale); tanto è vero questo che i creditori sono chiamati ad esprimere il consenso (o il dissenso) rispetto allo stesso (peraltro, è bene precisarlo subito, l’istituto del cram down non scalfisce minimamente tale natura). Così, all’evidenza, non accade per il piano. 
Si potrebbe a questo punto obiettare quanto più avanti, nei capi di sentenza che seguono quello appena riportato, la S.C. statuisce: “Innegabilmente la sola finalità della ‘ristrutturazione’ (…) non è bastevole, siccome deve, imprescindibilmente, in virtù della formula ‘binaria’ riflessa dal dettato legislativo, coniugarsi con la finalità della ‘soddisfazione’ (…) In primo luogo, il tribunale, in sede di eventuale omologazione, ha, innanzitutto ed inesorabilmente, da riscontrare che il ‘piano’ proposto dal consumatore sia idoneo ad assolvere concretamente la (delineata) funzione causale che gli è astrattamente ed inderogabilmente propria ovvero che il ‘piano’ sia ‘giuridicamente fattibile’” (ndr.: vale a dire che esso non sia incompatibile con norme inderogabili). E questo in ragione del dettato normativo che si riferisce (art. 7 L. n. 3/2012) tanto al piano quanto all’accordo.  Così tuttavia non è: ed il perché sta sempre nella ontologica differenza tra piano (negozio unilaterale) e accordo (dal carattere negoziale). E’ per questo che nel primo (piano) il giudice ha ficcanti poteri di controllo sul rispetto della funzione causale binaria: perché il presidio giurisdizionale è garanzia della corrispondenza del piano stesso alla finalità per cui il legislatore lo ha concepito (fattibilità giuridica). Nulla di ciò nell’accordo, dove il controllo della corrispondenza del negozio al parametro normativo (sub specie “convenienza per i creditori”) è demandato ai creditori stessi, che rispetto a quell’accordo sono chiamati ad esprimere il proprio parere, di adesione o di rigetto dell’accordo stesso. Nel piano quindi, proprio in ragione della sua natura unilaterale, il giudice ha il dovere e il potere di interrogarsi sulla fattibilità giuridica per impedirne gli abusi, mentre nell’accordo tale controllo è limitato alla corrispondenza dell’accordo al parametro normativo stabilito dal legislatore e alla non contrarietà dello stesso a norme imperative.
A questo ragionamento si potrebbe obiettare quanto segue: questa teoria perde di condivisibilità nel momento in cui prendiamo in considerazione l’istituto del cram down, dove la volontà e l’espressione di voto di taluni soggetti viene, per così dire, forzata. Riteniamo tuttavia che così non sia: e questo in ragione della circostanza che, in questi casi, la forzatura (e quindi l’indiretto controllo della fattibilità) viene operata in ragione dell’attestazione, ad opera dell’OCC, della convenienza dell’accordo rispetto alla alternativa liquidatoria. In altri termini, l’altro binario della causa del negozio “accordo” (= soddisfazione dei creditori), in caso di cram down, è garantito dalla convenienza dello stesso rispetto all’alternativa della liquidazione (del patrimonio sotto l’egida della L. n. 3/2012, controllata oggi sotto quella del CCII).
Per queste ragioni riteniamo non condivisibile l’interpretazione dell’istituto fornita dai due giudici di Padova.
4 . Conclusioni
Sono numerose le ragioni giuridiche per considerare non condivisibili le due statuizioni rese dai giudici patavini in tema di accordo di ristrutturazione del soggetto sovraindebitato, tanto sotto il profilo processuale (la declaratoria di inammissibilità) quanto di diritto sostanziale (equiparabilità dell’accordo al piano del consumatore; pretesa funzione causale dell’accordo rinvenibile – anche – nella soddisfazione non irrisoria dei creditori).
Su tutto, però, ci preme una considerazione più “alta”, che abbiamo la presunzione di non ritenere fuori luogo in queste pagine dedicate ai cultori del diritto: quello di un pensiero, una riflessione sull’uso, da parte dei Tribunali, di teorie giuridiche che, sempre più, finiscono per svuotare di contenuto norme precettive dai contenuti chiari o per aggiungere contenuti a norme precettive che gli stessi considerano insufficienti: e questo con grande pericolo per uno dei pilastri dello Stato di diritto, vale a dire il principio della separazione dei poteri.
L’accertamento cui è tenuto il giudice è la dichiarazione di quella che è l’astratta volontà di legge nel caso concreto (A. Attardi, Diritto processuale civile, parte generale, Padova 1997, pag. 433): siamo certi che, laddove sposata da altri Tribunali e finanche dalla Suprema Corte, la teoria della fattibilità giuridica applicata all’accordo di ristrutturazione dei debiti sia veramente espressione della astratta volontà di legge? O lo stesso non si tradurrebbe invece in uno sconfinamento, da parte del giudice, dal territorio che la Costituzione gli affida, a discapito del terreno proprio del legislatore; quello sconfinamento che faceva scrivere a Montesquieu “non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore”?

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Le suddette informazioni sono trattate in forma automatizzata e raccolte al fine di verificare il corretto funzionamento del sito e per motivi di sicurezza.

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Tempi di conservazione dei Suoi dati - I dati personali raccolti durante la navigazione saranno conservati per il tempo necessario a svolgere le attività precisate e non oltre 24 mesi.

Modalità del trattamento - Ai sensi e per gli effetti degli artt. 12 e ss. del GDPR, i dati personali degli interessati saranno registrati, trattati e conservati presso gli archivi elettronici delle Società, adottando misure tecniche e organizzative volte alla tutela dei dati stessi. Il trattamento dei dati personali degli interessati può consistere in qualunque operazione o complesso di operazioni tra quelle indicate all' art. 4, comma 1, punto 2 del GDPR.

Comunicazione e diffusione - I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati, intendendosi con tale termine il darne conoscenza ad uno o più soggetti determinati, dalla Società a terzi per dare attuazione a tutti i necessari adempimenti di legge. In particolare i dati personali dell’interessato potranno essere comunicati a Enti o Uffici Pubblici o autorità di controllo in funzione degli obblighi di legge.

I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati nei seguenti termini:

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  • - a soggetti che hanno necessità di accedere ai dati per finalità ausiliare al rapporto che intercorre tra l’interessato e la Società, nei limiti strettamente necessari per svolgere i compiti ausiliari.

Diritti dell’interessato - Ai sensi degli artt. 15 e ss GDPR, l’interessato potrà esercitare i seguenti diritti:

  • 1. accesso: conferma o meno che sia in corso un trattamento dei dati personali dell’interessato e diritto di accesso agli stessi; non è possibile rispondere a richieste manifestamente infondate, eccessive o ripetitive;
  • 2. rettifica: correggere/ottenere la correzione dei dati personali se errati o obsoleti e di completarli, se incompleti;
  • 3. cancellazione/oblio: ottenere, in alcuni casi, la cancellazione dei dati personali forniti; questo non è un diritto assoluto, in quanto le Società potrebbero avere motivi legittimi o legali per conservarli;
  • 4. limitazione: i dati saranno archiviati, ma non potranno essere né trattati, né elaborati ulteriormente, nei casi previsti dalla normativa;
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  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

Il TITOLARE

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