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Saggio

Il trust nel concordato preventivo*

Salvo Leuzzi, Magistrato addetto al Massimario della Suprema Corte di Cassazione

30 Giugno 2013

*Scritto edito in Trusts, 6/2013

Visualizza: Trib. Ravenna, 4 aprile 2013, Pres. Gilotta, Est. Farolfi

Un decreto del Tribunale di Ravenna del 4 aprile 2013, offre all’Autore l’opportunità di sondare le prospettive di utilizzo del trust nel contesto delle procedure concordatarie, muovendo dalle fondamenta di regole e principi che contrassegnano lo strumento. In esito all’analisi, al netto di persistenti criticità, l’istituto rivela potenzialità inedite.
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1 . Il caso
Con decreto del 4 aprile 2013, il Tribunale di Ravenna ha ammesso una società a responsabilità limitata in liquidazione alla procedura del concordato preventivo, che nel caso di specie si caratterizzava per la natura liquidatoria e per la messa a disposizione, in favore della procedura, di "nuova finanza" ad opera di un terzo, sub specie di due beni immobili valutati complessivamente 500.000 euro circa [1].
L’apporto dei cespiti veniva reso possibile per il tramite della costituzione per atto di notaio di un trust di scopo, la cui efficacia era condizionata all’omologazione, ex art. 180 L. fall., entro il termine di diciotto mesi dalla istituzione del trust, che, in caso di mancata omologa, come in ipotesi di fallimento, era destinato, per converso, alla cessazione.
Il trust ravennate era della tipologia del trust autodichiarato, in tal guisa il terzo assommava le posizioni di finanziatore-disponente e di trustee. Il finanziatore, in altri termini, si autodesignava gestore del fondo in trust ed "eleggeva" i creditori concorsuali a beneficiari del vincolo segregativo, sia pure sull’accennato presupposto condizionante dell’omologa.
Nel caso di specie, il trust si è prestato a "governare" proficuamente la destinazione dei beni di terzi al soddisfacimento dei creditori concorsuali, sul cui maggioritario consenso viene a "giocarsi", in generale, la sorte stessa della proposta "contrattuale" loro rivolta.
La pronuncia del collegio romagnolo offre l’opportunità di svolgere alcune considerazioni sul trust quale strumento giuridico di "supporto" operativo nella gestione delle crisi d’impresa, nell’àmbito a più riprese riformato delle procedure concordatarie preventive.
2 . Risoluzione concordataria della crisi d’impresa e impiego del trust: alcune peculiarità strutturali e funzionali
Il trust può essere proficuamente impiegato al servizio delle "rinnovate" procedure concordatarie preventive, per assicurarne un più agevole corso [2].
L’orizzonte delle recenti riforme della legge fallimentare è, all’evidenza, quello di confinare il fallimento al rango nobile di extrema ratio, a vantaggio dell’incentivazione delle procedure concorsuali c.d. minori, tra le quali, in primo luogo, quella del concordato preventivo.
Ora, una delle manchevolezze più avvertite nella disciplina di quest’ultimo istituto, ancora fino all’introduzione del c.d. "concordato in bianco" (con la L. 7 agosto 2012, n. 134 che ha convertito con modificazioni il D.L. 22 giugno 2012, n. 83), è stata rappresentata dall’impossibilità di proteggere il patrimonio dell’impresa in crisi dalle azioni individuali dei creditori, nel periodo immediatamente antecedente la formulazione della proposta concordataria.
L’esperienza ha mostrato, del resto, come le iniziative di singoli creditori, avviate immediatamente dopo la manifestazione della volontà del debitore di addivenire ad una soluzione concordata della crisi, avessero effetti deleteri sulla fattibilità del proponendo piano, "agitando" gli altri creditori, tanto da spingerli, a loro volta, ad agire "all’impazzata", rendendo sovente inservibile il piano e ineluttabile l’epilogo della dichiarazione di fallimento.
Il legislatore dell’agosto 2012 ha emendato questo deficit, donando vita nuova all’istituto fino ad allora piuttosto recessivo del concordato preventivo. È stata introdotta una disciplina fortemente premiale, volta a favorire la tempestiva denuncia della crisi da parte dell’impresa e la sua rapida emersione. L’imprenditore può oggi depositare il ricorso contenente la domanda di concordato riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi secondo e terzo dell’art. 161 L. fall. entro un termine fissato dal giudice, compreso fra sessanta e centoventi giorni e prorogabile, sia pure in presenza di giustificati motivi, fino ad ulteriori sessanta giorni. In buona sostanza, l’impresa in crisi viene posta nell’opportunità di giovarsi, a mente del nuovo art. 168 L. fall., e sul presupposto del semplice deposito della domanda di concordato, degli effetti protettivi rappresentati dal "blocco" delle azioni individuali, esecutive e cautelari, per un lasso di tempo utile alla elaborazione di un piano adeguato a contrastare la crisi denunciata e a soddisfare le ragioni dei creditori.
Nel caso positivamente esitato dal tribunale romagnolo, il trust è apparso funzionale ad "impegnare" nella procedura prescelta beni di terzi, al fine di aumentarne l’efficienza e di irrobustire le prospettive di soddisfacimento dei creditori, promuovendone in certo modo il consenso.
Già in passato, peraltro, la giurisprudenza di merito aveva analizzato il trust costituito per l’esecuzione di un concordato ritenendone la piena ammissibilità [3]. E del resto, già la disciplina del concordato preventivo, nella versione partorita dall’emanazione del D.L. 11 marzo 2005, n. 35, convertito con L. 80/2005e svezzata dalle successive "miniriforme", non prevedeva più modelli predefiniti, lasciando ampio margine alla discrezionalità di chi al concordato ricorre. A voler scovare il filo conduttore che lega i ripetuti interventi del Legislatore fino all’ultimo, viene in rilievo un dato di sistema: il piano concordatario è stato "atipizzato". Non esiste più un modo soltanto di soddisfare i creditori, non è indicata, tra le tante, una "via maestra" per farlo. I creditori vanno soddisfatti in modo non irrisorio, ma possono esserlo in qualunque modo, sol che siano maggioritariamente favorevoli ad accogliere la proposta. La legge fallimentare non contempla più limiti in ordine agli strumenti utilizzabili dal debitore per rispettare il piano proposto ai creditori: è perciò che l’art. 160 L. fall. dispone che il concordato possa prevedere la soddisfazione dei crediti "attraverso qualsiasi forma".
In questa formulazione lata non v’è ragione di non far rientrare anche il trust. Anzi, i tentativi di percorrere nuove opportunità negoziali utili a garantire la tenuta, l’appetibilità e l’efficacia dei piani concordatari, non solo non sono interdetti, ma appaiono obiettivamente sollecitati.
In un contesto maggiormente ecclettico, il trust trova gioco facile, almeno sul piano delle sperimentazioni degli addetti ai lavori, sospinti a superare rapidamente le iniziali riserve. Il trust affiora in ambito concordatario come forma di "garanzia" del ceto dei creditori e come "modulo" di gestione della finanza esterna [4]. Proprio in quest’ultimo solco, si inserisce il caso vagliato dal Tribunale di Ravenna.
Ora, gli effetti preclusivi che l’ammissione al concordato preventivo svolge nei confronti di tutti i creditori concorsuali, sino alla fase dell’omologazione, non possono che riflettersi esclusivamente sul patrimonio del debitore, non potendo estendersi anche ai beni offerti dal terzo. Ne discende che le disponibilità patrimoniali che costui, estraneo alla procedura, ritiene di potere approntare per adempiere al concordato preventivo proposto dal debitore non si sottraggono alla garanzia generica dei suoi personali creditori. Il trust giova proprio ad isolare il patrimonio o i singoli beni da destinare ai creditori concordatari da parte dell’"estraneo", delineando per il trustee regole idonee ad assicurare, secondo un principio di trasparenza, sia la liquidazione dei cespiti conferitigli che il progressivo pagamento dei debiti sociali.
Il trust assurge così, su base privatistica, a mezzo di protezione immediata, già nell’avvio della procedura concordataria, degli interessi dei creditori di quest’ultima, permettendo di segregare a loro beneficio, non solo taluni beni del debitore proponente, ma, a maggior ragione, taluni cespiti del terzo, destinandoli in via esclusiva al soddisfacimento dei creditori che aderendo alla proposta ne sanciranno a maggioranza il buon esito.
Non va, peraltro, sottovalutato che l’attività del trustee, anziché valere a monetizzare le somme sufficienti a soddisfare i crediti, può servire, anche parzialmente, a consentire l’assegnazione di beni ai creditori ad estinzione delle rispettive pretese. Si è appena rammentato che l’art. 160 L. fall. prevede la soddisfazione dei crediti "attraverso qualsiasi forma": se è essenziale che il creditore venga soddisfatto in misura non irrisoria, è di contro irrilevante che lo sia per denaro contante o mediante un bene mobile o immobile stimato di equivalente valore.
Quando l’impresa entra in crisi l’agire dei creditori diviene patologicamente disgregato e scoordinato: ciascuno di essi è mosso da incentivi individuali, che lo sospingono ad un accesso repentino agli strumenti esecutivi e cautelari, con pregiudizio per la realizzazione dell’interesse collettivo. Il trust è strumento che agevola, almeno in linea di principio, il coordinamento dell’agire dei creditori, scongiurando gli effetti viziosi che si connettono ad iniziative esecutive individuali e disparate sul patrimonio dell’impresa in crisi. La disgregazione dei creditori in sede esecutiva conduce quasi sempre al risultato di una liquidazione parcellizzata e occasionale dei beni, orientata dalla mera contingenza e che sconta il rischio del minor risultato al maggior costo.
Senza considerare che le azioni espropriative e cautelari dei singoli creditori hanno molto spesso un risvolto del tutto distruttivo del valore azienda. Peraltro, la variabile incontrollata delle azioni esecutive individuali dei creditori è suscettibile di vanificare in nuce la stessa percorribilità dell’ipotesi concordataria: l’esecuzione del concordato viene preclusa ab origine dal fatto stesso che l’esperto chiamato ad attestare il piano concordatario è impedito ragionevolmente dal poterlo fare, proprio per l’inconsistenza patrimoniale correlata a beni che, nelle more dell’esercizio del suo mandato, vengono fatti oggetto di sequestro (prima) e pignoramento (poi), individualmente promossi dai creditori.
Il precedente ravennate testimonia come lo strumento del trust eccellentemente si configuri alla stregua di modalità di esecuzione del piano, cui il trustee darà corso nel rispetto dei doveri previsti dalle leggi regolatrici del modello internazionale che ne corredano la posizione soggettiva.
Nel contempo la fattibilità del piano concordatario, trasfusa nella relazione dell’esperto, sarà resa più sicura proprio in quanto le attività liquidatorie previste nel piano e le percentuali di soddisfacimento promesse ai creditori vengono atipicamente "garantite" proprio dalla costituzione del vincolo segregativo sui beni da liquidare.
Si noti bene: i creditori beneficiari del fondo in trust, non solo gli aderenti ma anche e soprattutto i dissenzienti, sono avvantaggiati dal congegno segregativo. La concreta riuscita del piano concordatario non verrà a dipendere dalla delega in bianco offerta al proponente in sede di voto e pedissequamente "blindata" dall’omologa, ma sarà fin da subito incisivamente assicurata dalla messa a disposizione di beni, dalle obbligazioni puntuali scolpite in capo al trustee dalla legge prescelta ex art. 6 Convenzione de L’Aja, dallo statuto della responsabilità tratteggiato da detta legge in testa al medesimo gestore, dal meccanismo surrogatorio che fa da pendant funzionale alla segregazione dei beni, dalla funzione di controllo variamente articolabile del guardiano, da una posizione giuridica soggettiva in capo a tutti i creditori, che da ontologicamente aleatoria se non eterea, è diviene sostanziale in ragione del vincolo sui beni creato dal trust.
Ora, i piani concordatari tanto più sono "credibili" in quanto prevedono, proprio come nel caso del precedente ravennate, l’apporto di "nuova finanza", anche sub specie di immobili. La segregazione di una somma di beni stimata funzionale alla fattibilità del piano concordatario, in capo ad un trustee, giova a comprimere il rischio delle azioni cautelari ed esecutive dei creditori del terzo, non interessati alla proposta di concordato, che in una situazione "ordinaria" potrebbero essere indotti ad agire uti singuli, non rilevando, rispetto a loro, l’operatività del divieto di cui agli art. 51 e 168 L. fall..
3 . Il trust come soluzione segregativa di "primo grado"
L’impiego del trust si pone come soluzione tanto innovativa, quanto appropriata, pure in funzione dell’esecuzione proficua di un concordato preventivo e del conseguimento del beneficio esdebitatorio che vi si connette. Ciò viene in rilievo sol che si consideri l’impellenza di tutelare dagli "attacchi" dei creditori particolari i beni che terzi soggetti intendono mettere a disposizione dell’ipotesi concordataria. Il trust evidenzia la propria speciale utilità nella misura in cui serve a dar corpo a patrimoni separati, mediante cui "governare" le pretese del ceto creditorio della proponente.
É noto che l’esigenza di creare porzioni separate di patrimonio, con un vincolo destinatorio agganciato alla soddisfazione dei titolari di crediti, soprattutto se certi, liquidi ed esigibili, si è prestata ad essere assicurata, almeno storicamente, nell’ordinamento italiano, solo per il tramite del ricorso a meccanismi giuridici di "secondo grado", quali in primo luogo la costituzione di un distinto soggetto giuridico.
Lungamente avulsa dal sistema del diritto privato è rimasta la percorribilità giuridica di una soluzione "primaria", consistente mera attribuzione non mediata di beni ad uno scopo. In altri termini, l’ordinamento interno ha implicato, di necessità, che detta attribuzione patrimoniale "destinata", al fine di prendere forma e operatività, fosse veicolata in favore di una persona giuridica nuova, che, acquisendola, ne assicurasse la gestione.
Il trust si connota, piuttosto, come strumento di segregazione di "primo grado", spendibile in sede concordataria: i beni che ne costituiscono l’oggetto vengono semplicemente posti sotto il controllo di un gestore, per ipotesi preesistente come soggetto dell’ordinamento, per ipotesi pure coincidente - nella forma del trust "autodichiarato" - con chi di quei beni dispone. I cespiti in trust vengono messi tendenzialmente al riparo sia dai creditori personali del gestore, sia dai creditori del disponente, sia dai creditori di coloro che sono eletti a beneficiari del trust. I beni segregati rimangono "insensibili" alle vicende personali e patrimoniali delle figure suscettibili di contraddistinguere il singolo trust, nella sua paradigmatica declinazione trilatera (disponente-trustee-beneficiari), ovvero nella variante "autodichiarata" che esso venga nello specifico ad assumere (con conseguente identità personale tra disponente e trustee, come nel caso ravennate).
In detta prospettiva, il trust si offre per una liquidazione "controllata" dei beni del terzo oltre che di quelli del debitore. Nell’un caso come nell’altro, i beni del fondo in trust verranno "messi via" dal patrimonio di provenienza o comunque - è il caso del trust "autodichiarato" - vi rimarranno solo come porzione intangibile. Essi, uscendo dalla massa patrimoniale originaria, non saranno per ciò stesso aggredibili, né dai creditori del disponente, né dai creditori del trustee, in virtù dell’effetto sancito inequivocabilmente dall’art. 11 della Convenzione de L’Aja. Mediante il trust, in buona sostanza, si dà corpo, immediatamente, ad un effetto segregativo, tale per cui i beni, per quanto entrino a pieno nel patrimonio di chi, ricevendoli ne diviene esclusivo proprietario, nondimeno restano esclusivamente deputati al perseguimento degli scopi programmati con l’atto istitutivo.
Nel contesto concordatario, peraltro, servirà ad annodare la monetizzazione dei beni e delle attività della società in liquidazione ad una istanza di protezione del patrimonio "destinato" ai creditori. Tanto avverrà in virtù della genesi, nel trust, di un rapporto di natura spiccatamente fiduciaria tra il disponente ed il trustee. Il trasferimento o la destinazione di proprietà sono indissolubilmente connessi all’obbligo, per chi gestisce, di eseguire le prescrizioni di chi dispone, a vantaggio di creditori beneficiari o in funzione di uno scopo che, comunque, riassume e sottende proprio gli interessi del medesimo ceto dei creditori.
Il tutto può opportunamente avvenire sotto la supervisione di un guardiano, in posizione di terzietà e dotato finanche di poteri di veto [5].
Sul piano strutturale, merita soggiungere che i beni segregati sono suscettibili d’esser trasferiti di diritto, in caso di decesso, revoca o sostituzione del trustee designato, al nuovo gestore, nominato secondo le modalità previste dall’atto istitutivo. L’atto istitutivo può pure prevedere che sia il tribunale adito con domanda di ammissione al concordato preventivo a procedere alla nuova designazione, tra soggetti professionalmente qualificati. Il che è un’ulteriore presidio di funzionalità appannaggio dei creditori dell’impresa in crisi, chiamati a pronunciarsi sull’ipotesi concordataria. La segregazione non subisce, in linea di principio, battute d’arresto in concomitanza con le vicende suscettibili di interessare la persona del trustee.
4 . Inadeguatezza delle soluzioni di "secondo grado"
Alcune delle considerazioni svolte, suggeriscono di leggere in chiave critica le opportunità strumentali che il nostro ordinamento prospetta al fine di addivenire a specializzazioni di responsabilità (a fronte di quella generale di cui all’art. 2740 c.c.).
Appare poco ragionevole immaginare che l’operazione della messa a disposizione da parte di un terzo di "nuova finanza", sub specie di beni da liquidare, in funzione della soddisfazione dei creditori, possa ricondursi entro l’alveo circoscritto rappresentato dalla nozione di "specifico affare" di cui all’ art. 2447 - quinquies c.c. [6], senza peraltro trascurare il limite quantitativo del dieci per cento del patrimonio netto. La creazione del "patrimonio destinato ad uno specifico affare" sembra rispondere alla limitata ratio di consentire alle società per azioni un risparmio di costi nascenti dalla costituzione di una nuova società in funzione dello svolgimento di attività d’impresa in un preciso e determinato settore.
Laddove, per converso, la nascita di un patrimonio separato si renda opportuna in funzione solutoria di debiti, perché la società è in una condizione conclamata di crisi - allorché sia, in altri termini, escluso ab initio lo svolgimento ulteriore di attività d’impresa - sembra evidente che lo strumento codicistico di conio recente è mezzo che mal si attaglia all’esigenza e che il trust non è tanto lo strumento preferenziale, ma quello forse imprescindibile.
Certo, nel concordato preventivo una soluzione affine al trust sul piano del risultato operativo è quella, assai farraginosa, consistente nella costituzione di una nuova società di capitali. Si tratta di ricorrere alla soluzione di "secondo grado" consistente nel conferimento di beni in una nuova società, appositamente costituita dal terzo (o semmai creata mediante una scissione parziale), avente ad oggetto l’esecuzione del concordato. Ovviamente le criticità di siffatta opzione affiorano allorché si consideri l’eventualità dell’insorgenza di debiti dopo la costituzione del nuovo soggetto. Le passività maturate (incontrollabilmente) da quest’ultima sono suscettibili di "svuotare" quella stessa garanzia che pure si ambisce ad offrire ai creditori concordatari. Non va trascurato che il nuovo soggetto giuridico dovrà svolgere necessariamente attività economica, sia pure limitata alla liquidazione di beni al fine di trarne il ricavo da destinare ai creditori.
E non si sorvoli sul seguente aspetto: nel caso in cui ai creditori siano attribuite partecipazioni nella società appositamente costituita, essi diventano addirittura titolari di capitale di rischio, con la conseguente assunzione, tanto dell’onere di esercitare i diritti amministrativi di soci nell’assemblea, quanto del pericolo che il predetto nuovo soggetto non riesca a perseguire il progetto programmato o vada, addirittura, essa stessa a propria volta in crisi.
Nel caso in cui alla nuova società si preferisca un trust di cui i creditori siano la parte avvantaggiata, i risultati fruttuosi sono evidenti. Intanto, non si accollano oneri gestionali o amministrativi anche "mediatamente" ai creditori. Inoltre, i creditori non devono preoccuparsi delle scelte strategiche o aziendali decise da una governance, che, altrimenti, finirebbe per dipendere, almeno in parte, dal proponente il concordato. Ed ancora, i creditori non assumono per definizione la qualità di soci e non partecipano, in ogni caso, al capitale di rischio. Ed infine, al momento in cui il trust, esaurita la fase liquidatoria, avrà tratto il ricavato da destinare ai creditori concordatari, costoro si limiteranno a conseguire il pagamento del loro credito, senza aver partecipato agli utili meramente eventuali dell’impresa.
5 . Fattibilità giuridica del concordato preventivo e ricorso al trust
Tradizionalmente, le antinomie supposte tra il trust e la gestione delle crisi di impresa sono collegate alla apparente inconciliabilità tra uno strumento negoziale d’impatto segregativo ed un "sottosistema normativo", quello del diritto concorsuale, ad elevato tasso di imperatività normativa.
In realtà, il trust può rappresentare un utilissimo tassello di un piano concordatario preventivo, proprio quale meccanismo esecutivo del piano stesso e strumento di garanzia (atipica) degli adempimenti che vi sono correlati.
Il caso vagliato dal Tribunale di Ravenna concerneva beni esterni al patrimonio della società ricorrente, la cui liquidazione era, in effetti, finalizzata proprio a rendere "fattibile" la proposta, valendo a garantire il raggiungimento delle percentuali di soddisfazione prospettate dalla debitrice, con restituzione al disponente del solo, eventuale sopravanzo.
Nonostante la legge fallimentare contempli diffusamente norme imperative, nessuna di esse osta all’ammissibilità di una proposta di concordato supportata dal trust, quale congegno che assicura l’adempimento delle prestazioni promesse.
Il collegio romagnolo si è posto in linea di continuità con la tesi che attribuisce all’organo giudiziario un ruolo non esclusivamente votato all’accertamento dei requisiti formali estrinseci di ammissibilità alla procedura concordataria, bensì un compito che, per quanto non debba sconfinare nella valutazione del merito delle "scelte" proposte ai creditori e della loro convenienza, non può che allargarsi alla verifica del possesso sostanziale dei requisiti di ammissione, fra i quali certamente figura la "fattibilità" giuridica del piano, ossia la sua concreta "percorribilità" avuto riguardo ai precetti, ai limiti, agli strumenti propri dell’ordinamento.
Non avrebbe, d’altronde, giustificazione alcuna - se l’opzione ermeneutica fosse difforme da quella qui accolta e riassunta - la facoltà, che l’art. 162 comma primo L.fall. assegna al tribunale, di richiedere, non solo di produrre "nuovi documenti", bensì anche di "apportare integrazioni al piano". Quest’ultimo inciso, all’evidenza, non suppone mere incompletezze formali, ma anche la necessità, che talvolta può porsi, di integrare dati contabili, di sostanza, contenutistici e temporali, idonei a porre in maggior luce la reale fattibilità della proposta, ponendo in condizione i creditori di esprimere una valutazione ponderata, in vista della votazione di cui agli artt. 177 e 178 L. fall.. Del resto l’art. 12, comma 5, lett. a), del D.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, ha significativamente modificato l’art. 163, comma primo, L. fall ., correggendo l’originario, esclusivo riferimento della cognizione alla "completezza e la regolarità della documentazione".
La "privatizzazione" della procedura - che sicuramente si è verificata in relazione al venir meno dei requisiti di "meritevolezza" e di percentuale minima di soddisfazione dei creditori chirografari (art. 160 L.fall. previgente) - attiene, pertanto, alla valutazione della convenienza effettiva del piano concordatario, affidata ora in via esclusiva ai creditori del soggetto istante. Detta "privatizzazione" non concerne anche la valutazione della "praticabilità" dell’ipotesi sul piano dei precetti del diritto interno e degli strumenti prescelti per adempiere la proposta e per eseguire il piano, né essa concerne la effettiva utilizzabilità giuridica di tali strumenti e la connessa loro idoneità funzionale a realizzare gli obiettivi prospettati ai creditori, la sintesi dei cui interessi dà corpo alla causa concreta del concordato preventivo.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, d’altronde, puntualizzato che "il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato", da intendersi come "obiettivo specifico perseguito dal procedimento", privo di un "contenuto fisso e predeterminabile", in quanto "dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale dei creditori, dall’altro" [7] .
Nell’economia di un concordato preventivo che preveda l’istituzione di un trust, pure di matrice liquidatoria, la valutazione che, in sede di ammissione come pure di omologazione, in linea con l’impostazione accolta dalla recenti Sezioni Unite, il tribunale è chiamato a condurre, attiene, in buona sostanza, alla idoneità operativa dell’istituto prescelto e della segregazione che vi si accompagna, ossia alla attitudine dello strumento adoperato a dar sostanza e garanzia alla realizzazione della causa concreta dell’accordo proposto ai creditori.
In altri termini, il trust, se del caso afferente beni di un terzo-finanziatore, deve rivelarsi utile, prognosticamente, ad una gestione virtuosa della crisi in funzione del raggiungimento effettivo e ragionevole delle percentuali "promesse" ai creditori.
D’altronde, ragionando in astratto, laddove rimanesse provato, per converso, che la costituzione del trust viene fatta in frode ai creditori, a segnarne le sorti sarebbe la "non riconoscibilità" ai sensi dell’art. 13 Convenzione de L’Aja, norma di chiusura.
In definitiva, non pare esservi dubbio che la proposta concordataria si mostri rispondente ad un interesse meritevole di tutela ogni qualvolta la causa concreta dell’accordo prospettato ai creditori ed avallato dal voto maggioritario di questi si compendi nella eliminazione delle passività concordatarie. Se ciò può dirsi con riferimento ai casi in cui l’esecuzione del concordato (di continuità aziendale) implichi la prosecuzione dell’attività dell’impresa e il ripristino della capacità finanziaria di quest’ultima, cionondimeno la medesima affermazione può svolgersi con riferimento ai concordati liquidatori che prevedano per i creditori (tutti) un trattamento non deteriore rispetto a quello di cui godrebbero in esito ad una liquidazione fallimentare. La causa è lecita e meritevole di tutela, in concreto, laddove i soggetti estranei all’accordo e dissenzienti rispetto ad esso non siano pregiudicati nei propri diritti.
6 . Il trust quale strumento di gestione "neutra" degli apporti del terzo
Con riferimento alla soddisfazione dei crediti l’art. 160 L. fall. enuncia due regole: la prima chiarisce che è possibile prevedere che i creditori muniti di cause di prelazione non siano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d); la seconda prevede che il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione.
Alla più recente giurisprudenza di legittimità è parso, allora, evidente che la disposizione segnalata, non trattando specificamente delle questioni poste dall’apporto finanziario di terzi, non detti alcuna regola sul collocamento dei crediti prelatizi su tali apporti. Piuttosto, il terzo finanziatore può intervenire con mezzi propri a pagare i debiti del fallito senza dover sottostare alle regole del concorso [8].
Ciò è ben vero, tuttavia, alla sola condizione che l’intervento "di sostegno" del terzo non comporti alcuna variazione dello stato patrimoniale del debitore. Non deve comportarla né "all’attivo", giacché in tal caso i creditori non potrebbero essere privati dei diritti che in base alla legge fallimentare essi vantano sul patrimonio del debitore. Non deve comportarla neppure "al passivo", mediante la creazione di poste passive per il rimborso del finanziamento, sia pure postergato e con esclusione del voto.
Ai fini dell’ammissibilità della proposta di concordato preventivo, l’art. 160, comma secondo, L .fall., nel testo sostituito dall’ art. 2, comma 1, lettera d) del D.L. 14 marzo 2005 n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005 n. 80, deve essere, piuttosto, interpretato, secondo il condivisibile avviso ermeneutico in commento, nel senso che l’apporto del terzo si sottrae all’incidenza del divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati soltanto allorché risulti rigorosamente "neutrale" rispetto allo stato patrimoniale della società finanziariamente sostenuta.
La "neutralità" è fatta salva, in particolare, ogni qualvolta la "nuova finanza" non determini né un incremento dell’attivo della debitrice proponente, sul quale i crediti privilegiati dovrebbero in ogni caso essere collocati secondo il loro rispettivo grado, né un aggravio del passivo, con il riconoscimento "per derivazione" di ragioni di credito a favore del terzo, indipendentemente dalla circostanza che tale credito sia stato postergato o no.
Si coglie, con ogni evidenza, in questo quadro concettuale, come il trust, nel suo paradigma segregativo, sia il solo strumento utile - almeno allo stato - a consentire una gestione proficua degli apporti del terzo, vieppiù se si reputa di disallineare la distribuzione del ricavato della liquidazione di beni dalle regole del concorso e dall’ordine delle cause di prelazione.
Talvolta è evidente come la stessa tenuta "contabile" del concordato e la sua appetibilità per la platea dei creditori, anche chirografari, possano dover "transitare" per strozzature sia pur lievi del principio della par condicio. Talune restrizioni del principio si mostrano utili a rendere il piano "affidabile" per tutti i creditori, non soltanto per quelli che, in quanto assistiti da cause legittime di prelazione, per definizione si attendono soddisfacimenti integrali o in percentuali ragguardevoli.
Il trust si traduce in tal guisa in strumento di legittima "organizzazione" del consenso e di governo del piano, soprattutto ove sia complesso il programma di rientro dai debiti articolato in proposta e detto rientro sia perseguito mediante modalità differenti dalla classica cessio bonorum.
Le proposte concordatarie ben possono prevedere, nel rinnovato contesto post riforma, l’individuazione, in luogo dell’ordinaria cessione dei beni al ceto creditorio, di modalità di soddisfazione più articolate, in cui parte della platea dei creditori venga soddisfatta dall’attività di monetizzazione e smobilizzo realizzate da un trustee, pur sempre sotto il controllo del commissario di nomina giudiziale. I terzi, interessati al buon esito della procedura concordataria, potranno in tal guisa decidere di devolvere beni o diritti, assicurandosi ab initio che trovi realizzazione la finalità (lecita) di garantire una percentuale ragionevole di soddisfazione a taluni creditori, motivandoli, pertanto, ad assicurare il voto favorevole sulla proposta del debitore.
7 . La segregazione dei beni in trust nel contesto concordatario
La fattispecie vagliata Tribunale di Ravenna atteneva alla rilevantissima ipotesi in cui il trust intercetta beni, non già del proponente il concordato, ma di terzi per qualche ragione propensi a conferirli a vantaggio della buona riuscita del tentativo concordatario.
La rilevanza talora assorbente dei terzi finanziatori si è colta in rapporto alla opportunità, preclusa con riferimento ai beni del patrimonio della debitrice proponente il concordato, di derogare entro certi limiti all’"ordine delle cause legittime di prelazione" (v. supra).
Ovviamente la vicenda-trust può rivelarsi in certo modo "espropriativa" delle ragioni dei creditori particolari del terzo-finanziatore, soprattutto laddove le risorse residue di quest’ultimo fossero incapienti rispetto alla cennate ragioni. E tuttavia, il sistema fornisce del tutto fisiologicamente il possibile rimedio: l’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., ovviamente verso l’atto che trasferisce i beni al trustee [9].
Le ragioni che inducono gli "estranei" a mettere propri beni a disposizione dell’ipotesi concordataria sono ampiamente variegate: può trattarsi di soggetti giuridicamente responsabili dei debiti dell’imprenditore, o in quanto soci illimitatamente responsabili esposti al fallimento in estensione ex art. 147 L. F., o in quanto garanti nei confronti di taluni creditori; può trattarsi di soggetti potenzialmente responsabili per fatti di gestione o aleatoriamente suscettibili d’essere resi destinatari di azioni di responsabilità, in seguito a un eventuale fallimento (in quanto, ad esempio, ex amministratori o sindaci); può finanche trattarsi di soggetti divenuti titolari di beni distratti dall’impresa in crisi, "in sottrazione" alla garanzia dei creditori, e, come tali, comunque "a rischio" sul fronte delle possibili azioni revocatorie astrattamente promuovibili nei loro confronti dalla curatela.
Il nostro sistema civilistico non delinea strumenti idonei a "sterilizzare" efficacemente il diritto di proprietà sui beni e di finalizzarli "in esclusiva" all’esecuzione di un accordo o di un impegno assunto nel pieno esercizio dell’autonomia privata. Il che risalta con vigore proprio nel contesto concorsuale, ove si consideri che il diritto della crisi d’impresa è ormai improntato proprio all’esercizio di detta autonomia, tanto da relegare il fallimento alla funzione di rimedio "sussidiario", da attivarsi solo laddove debitori e creditori non siano riusciti a comporre negozialmente la crisi di impresa [10].
In ogni caso, rispetto ai terzi-finanziatori il vantaggio funzionale dato dalla segregazione patrimoniale non sarebbe altrimenti conseguibile che con il ricorso al trust.
8 . Il profilo della garanzia reale "atipica"
I limiti contemplati dall’ art. 168 L .fall. non possono valere con riferimento a beni posti a supporto dell’ipotesi concordataria da soggetti altri rispetto all’impresa debitrice che propone il concordato. In tal senso, laddove i beni del terzo non siano messi a disposizione del ceto dei creditori concorsuali mediante la costituzione di una garanzia reale a favore della massa, a discenderne è l’astratta possibilità per cui, pendente il concordato e anteriormente alla sua omologazione, i creditori personali del terzo possano finire per agire a tutela delle loro ragioni, vanificando di fatto la messa a disposizione in discorso.
Costituire un trust vale plasticamente a dar corpo ad una garanzia reale "atipica" sui beni del terzo e ad assicurare la loro effettiva destinazione a vantaggio dei creditori concordatari. In tal guisa il trust adempie ad una incisiva funzione di protezione patrimoniale [11]. L’istituto, con l’attributo della segregazione che ne riassume il profilo funzionale, genera un vincolo "teleologico garantito", in forza del quale il compendio segregato rimane effettivamente finalizzato alla liquidazione, alla monetizzazione, infine alla distribuzione del ricavato in favore dei creditori concordatari.
Rimane escluso il diritto dei creditori del disponente di assoggettare ad esecuzione forzata i beni immobili costituiti in trust con atto avente data certa anteriore al pignoramento, e ciò proprio in quanto, se il trust è istituito in conformità alla legge regolatrice prescelta ex art. 6 Convenzione de L’Aja, a derivarne è un diaframma segregativo del patrimonio del trustee. L’essenza "infungibile" della segregazione risiede, del resto, in ciò, che essa avviene non nel patrimonio dal quale i beni vengono "distaccati", bensì in quello del soggetto terzo in cui essi vengono trasferiti. Ed i beni trasferiti, pur appartenendo al trustee, non sono "suoi" in un senso d’appartenenza classica: piuttosto, il diritto trasferito, non limitato nel suo contenuto, lo è nel suo esercizio, essendo conformato finalisticamente alla realizzazione degli interessi dei beneficiari.
Ed è proprio ciò a comportare che i creditori del disponente non siano legittimati a soddisfarsi sui beni conferiti in trust, che, difatti, sono divenuti di proprietà del trustee o, comunque, nel caso del trust autodichiarato, sono stati "blindati" al perseguimento di uno scopo programmato.
Ed è per la medesima ragione che i creditori del trustee non possono soddisfarsi sull’oggetto del trust, atteso che i beni sono oggetto di segregazione, talché, pur giungendo nella titolarità del gestore, non si riversano nel suo patrimonio personale, ma vi si affiancano rimanendovi avulsi.
Dal canto loro, i beneficiari (ed i creditori dei beneficiari) hanno titolo a soddisfarsi esclusivamente sulle attribuzioni che in costanza di trust sono effettuate in loro favore in ossequio al programma prestabilito nell’atto istitutivo.
In ultima analisi, appare addirittura ovvio che l’effetto segregativo e il relativo blocco delle azioni individuali previsto dall’art. 168 L. fall. riguardi unicamente i beni dell’impresa in crisi e non i beni dei terzi. E per approdare a tale ultimo risultato non resta che utilizzare il trust: il terzo destina uno o più beni a vantaggio di tutti i creditori dell’impresa in crisi al fine di assicurare il buon esito del concordato preventivo, rendere conveniente la proposta e "guadagnare" su di essa il voto favorevole della maggioranza dei creditori.
L’effetto segregativo che il trust appronta non contrasta con i limiti che la legge pone all’autonomia negoziale, ossia il non poter disporre dell’azione esecutiva dei creditori relativamente ai beni del debitore in crisi [12]. I beni infatti appartengono non al debitore, ma a soggetti terzi.
Semmai l’effetto segregativo resta esposto all’eventualità dell’esercizio della revocatoria ordinaria da parte dei creditori particolari dei terzi conferenti. Ovviamente il rimedio di cui all’art. 2901 c.c. sarà esperibile nel ricorso dei relativi presupposti. E non va trascurato che, nella maggioranza dei casi, i terzi che apportano nuova finanza nella maggior parte dei casi lo fanno in quanto a monte dispongono di un patrimonio capiente rispetto alle ragioni dei propri creditori individuali.
Una essenziale puntualizzazione: del tutto peculiare è ovviamente il caso in cui il terzo - come pure possibile - sottoscriva la proposta di concordato preventivo assieme al debitore, impegnandosi insieme a costui. In ipotesi in cui segua l’omologa e, tuttavia, il concordato abbia sorte negativa e la sequenza finale sia rappresentata dal fallimento della proponente, gli effetti della relativa sentenza varrebbero a rendere definitivamente acquisiti alla procedura anche i beni offerti dal terzo [13].
9 . Trust endoconcordatario e norme sulla liquidazione fallimentare
Dagli interventi recenti del Legislatore emerge un marcato favor per le soluzioni negoziate delle crisi d’impresa. A venire in rilievo è uno spostamento dell’asse di importanza della legge fallimentare dal fallimento "classico" al concordato preventivo giustappunto. Quello che per lunghi anni era stato l’occasionale, estremo e spesso vano rimedio dell’"imprenditore onesto e sfortunato" si è trasformato in una sorta di tappa obbligata nel tortuoso tragitto dell’impresa in crisi.
E dal canto suo, l’essenza del cimento giudiziario, nel contesto delle crisi d’impresa, è venuta repentinamente a coincidere proprio con la soluzione di problemi connessi all’uso dello strumento concordatario preventivo. Poco più di venti norme – gli artt. da 160 a 182 L. fall. - si sono elevate a "cuore del sistema".
Il trust si coniuga perfettamente con la spinta alla degiurisdizionalizzazione delle procedure concorsuali e con l’esaltazione dell’autonomia privata impressa al sistema. Il trust diviene possibile forma negoziale di regolazione dell’insolvenza.
La valorizzazione del ruolo di assetti pattizi nell’insolvenza non altera ovviamente il carattere di disposizioni di ordine pubblico delle norme concorsuali finalizzate alla tutela del ceto creditorio. Da che si trae la considerazione per cui non può riconoscersi legittimità, nell’ordinamento, ad esperienze negoziali che siano in radicale contrasto con le stesse.
Ma quanto detto vale organicamente ad escludere soltanto che il trust avente ad oggetto i beni dell’imprenditore decotto, e per beneficiari i suoi creditori, possa sopravvivere tout court all’apertura eventuale del fallimento. Lo spossessamento ad opera del curatore dei beni ricadenti nella massa patrimoniale del soggetto fallito dovrà essere (e sarà) in tal caso integrale [14].
Si potrebbe dire che le parti sono senz’altro facoltizzate a istituire un regime negoziale alternativo a quello concorsuale, in modo da tentare di evitare di ricorrere ad esso; non sono, invece, legittimate a derogare alle norme del diritto concorsuale, pretendendo di modificare l’assetto liquidatorio immaginato dal legislatore.
Il divieto di eludere le norme imperative dell’ordinamento italiano, ricavabile a chiare lettere dall’art. 13 della Convenzione dell’Aja, impedisce, infatti, che un trust possa sostituire o, peggio, precludere la liquidazione fallimentare, per effetto della segregazione, di tutti i beni della società fallita.
In siffatta virtuale ipotesi il trust si porrebbe in stridente e inesorabile attrito con le norme che necessariamente sovrintendono alla liquidazione fallimentare, per ciò stesso che impedirebbe, di fatto, alla curatela, di acquisire in favore dei creditori la disponibilità di beni costituenti in parte il patrimonio della società fallita [15].
In tal senso, la dichiarazione di fallimento della disponente rende certamente incompatibile con l’ordinamento italiano quel trust che abbia assegnato al trustee la disponibilità dell’intero patrimonio del fallito.
L’unico trust endoconcordatario legittimo è pertanto quello che preveda, almeno con riferimento ai beni della debitrice inglobati nel fondo segregato, la sua automatica risoluzione al momento dell’apertura del fallimento. In tal senso, rimane indispensabile enucleare nell’atto istitutivo una apposita "clausola di salvaguardia" che saldi la cessazione del trust all’eventualità della dichiarazione fallimentare.
Qualora, per converso, il disponente abbia voluto e programmato la sopravvivenza del trust al suo fallimento, e lo abbia per ciò indicato nell’atto istitutivo, la soluzione non potrà che essere il non riconoscimento (anche solo parziale), a mente dell’art. 13 Convenzione de L’Aja, del trust in questione.
Se questo è il quadro d’insieme, esso non può sfuggire, in definitiva, ad un dato di fondo: l’applicazione del trust nel contesto dei concordati preventivi anche liquidatori - come quello oggetto della pronuncia in esame - va adeguata al principio dell’applicazione "necessaria" della legge fallimentare. Quest’ultima, del resto, delinea regole non obliterabili - in primis l’art. 42 - proprio sulla disciplina liquidatoria concorsuale del patrimonio delle società insolventi.
Sopravvenuto il fallimento della debitrice che ha proposto il concordato, il curatore dovrà riprendersi anche i beni oggetto del patrimonio in trust, facendo così venir meno la segregazione e operando quello spossessamento generale previsto dal richiamato art. 42 L. fall., quale norma di applicazione necessaria.
Ma si noti bene: detta asserzione, se risponde al vero con riferimento ai beni collocati in trust dalla medesima debitrice, non vale, tuttavia, almeno in linea di principio, avuto riguardo ai beni messi a disposizione dal terzo, ove a quest’ultimo non debba estendersi il fallimento della proponente ai sensi e per gli effetti dell’art. 147 L. fall..
In ultima analisi, mette punto osservare che, nel caso esaminato dal tribunale ravennate, l’efficacia del trust era sospensivamente condizionata all’omologazione del concordato preventivo, prevedendosi per il caso in cui detta omologazione non fosse stata conseguita entro diciotto mesi, come pure per l’ipotesi del fallimento, la cessazione del trust. Il che poneva il congegno ammesso nel caso di specie assolutamente in linea con gli addentellati normativi di natura imperativa disseminati nella legge fallimentare.
10 . Il caso del bare trust e l’applicazione della regola di Saunders v Vautier
Cosa accade in ipotesi di mancata previsione di una clausola di salvaguardia del tipo descritto nel paragrafo che precede?
L’evenienza fallimentare fa ontologicamente venire meno la ragione stessa che ab origine giustificava l’istituzione del trust. In tal senso, il sopravvenuto fallimento funge in radice da fatto estintivo del trust. La relativa dichiarazione tradurrà, in particolare, il trust in funzione del concordato "naufragato" in un trust nudo (bare trust), in favore dello stesso disponente e il trustee diverrà, a propria volta, un trustee nudo (bare trustee) [16].
Diversamente dovrebbe ragionarsi laddove i beni oggetto del trust annesso al concordato preventivo fossero beni del medesimo debitore proponente. In tal caso, il trust in questione potrebbe esser fatto cessare dietro iniziativa unilaterale del curatore fallimentare, in forza della regola del diritto inglese dei trusts, nota come precedente di Saunders v Vautier [17]. Secondo siffatta rule, se esiste un unico beneficiario del trust - e nel caso di specie non vi sono dubbi che unica beneficiaria sia la massa dei creditori, per il tramite del curatore che li rappresenta - e costui è capace di agire, egli può far cessare anzitempo il trust, indipendentemente dai desiderata in origine espressi dal disponente. Il principio appare senz’altro applicabile anche al trust interno di natura liquidatoria, che sia disciplinato dalla legge inglese o da quella di uno dei numerosi Paesi (anche non di common law) che vi si sono conformati. La ratio della regola sta in ciò, che il trust è istituito in favore dei beneficiari, talché è opportuno rimettere a loro l’eventuale cessazione anticipata dell’istituto, con la susseguente distribuzione della trust property fa i destinatari "finali".
11 . Il commissario giudiziale guardiano
Nella prassi giurisprudenziale dei trust innestati entro le procedure concordatarie, trustee è stato nominato talvolta il commissario [18] (Trib. Parma, 3 marzo 2005 cit. in nt. 2), talaltra il liquidatore giudiziale [19], lasciandosi in tal caso al commissario la più adatta funzione di guardiano .
Il Collegio ravennate disponeva opportunamente che il nominando commissario giudiziale, anche in deroga alle disposizioni disciplinanti il vincolo fiduciario, assumesse proprio la funzione di guardiano, con onere del disponente-trustee di acquisirne il parere favorevole prima di procedere agli eventuali atti di alienazione a terzi dei beni vincolati e con riserva al giudice delegato alla procedura, per il caso di contrasto fra i due, della potestas decidendi sul compimento o meno di tali atti nonché, comunque, della facoltà di procedere alla liquidazione mediante procedure competitive.
La logica del tribunale romagnolo è condivisibile: la previsione di un guardiano del trust di designazione giudiziale serve a contemperare l’esercizio dell’autonomia privata, che si articola nella proposta concordataria e nel piano che vi dà sostanza, con l’esigenza di non deprivare il commissario giudiziale di funzioni reali di controllo sul patrimonio segregato.
Proprio in quanto guardiano del trust, il commissario viene conservato siccome effettivo organo di vigilanza in rapporto alla gestione del fondo segregato, governata, come noto, da regole peculiari, per quanto rigorose ed incisive, in base alle leggi del modello internazionale.
Il controllo del commissario, in veste di guardiano del trust, oltre che realizzare la giusta "cooperazione" della procedura con l’operato del trustee, vale a permettere finanche l’eventuale revoca del programma liquidatorio delineato da quest’ultimo, se ritenuto incompatibile con le finalità prestabilite nell’atto istitutivo del trust.
In ultima analisi, appare ben opportuno che la figura del guardiano venga indicata dal tribunale. In tal guisa, infatti, gli strumenti di tutela dei creditori, tipici della procedura concorsuale, si affiancheranno a quelli propri del trust che, in ipotesi di abuso del trustee, vanno drasticamente fino alla rimozione di quest’ultimo dall’ufficio di diritto privato ricoperto.
Va da sé, che nel caso del Tribunale di Ravenna, il compito di guardiano assegnato al commissario giudiziale si mostri del tutto in linea con l’incompatibilità tra il ruolo commissariale e quello di liquidatore sancito nella recente legislazione.
12 . L’atto di destinazione nella crisi d’impresa: una prospettiva più "angusta"
L’ art. 2645 - ter c.c. è stato introdotto con il D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito con modificazioni dalla L. 23 febbraio 2006, n. 51, alla stregua di norma sulla trascrizione, che presenta indubitabili profili di diritto sostanziale, connotati dal tratto saliente della lacunosità.
Ove sussistano gli elementi descritti dalla norma e l’interesse non sia egoistico ma meritevole di tutela, la disposizione consente che si producano effetti destinatori piuttosto "forti", quali, da un lato la sottrazione dei beni al ceto creditorio, dall’altro una limitazione alla loro libera circolazione.
Nei tempi recenti, in un paio di casi si è registrato il ricorso ad atti ex art. 2645 - ter c.c. posti in essere da imprese in crisi [20].
L’interesse ad agevolare l’esito proficuo delle procedure concordatarie, attraverso il soddisfacimento dei creditori, parrebbe suscettibile di corrispondere, almeno in linea di principio, a quello che l’ art. 2645 - ter c.c. esige come meritevole. E ciò, sia nel caso di atti di "autodestinazione" aventi per oggetto beni propri dell’impresa in crisi che li esegue, sia nel caso di "atti di eterodestinazione" posti essere da parte di terzi su loro beni.
I profili strutturali e sostanziali del vincolo di "destinazione" fanno emergere, tuttavia, rimarchevoli vaghezze di disciplina. Il raffronto con il trust va a tutto vantaggio di quest’ultimo, che mostra una maggiore duttilità e un ben più completo "reticolato" di regole [21] .
La norma codicistica, che ha consegnato al sistema la fattispecie "generalista" dell’"atto di destinazione", è ammantata da una insostenibile fumosità di contorni [22] . La pluralità degli interrogativi che sorgono dà luce alla misura dei problemi. Quali sono, vien da chiedersi, gli elementi che individuano con ragionevole certezza la struttura di detto negozio destinatorio? E, in particolare, detto negozio è bilaterale o unilaterale? E quale ne è la natura? È forse un atto a titolo oneroso o è d’indole gratuita? Presiede ad effetti traslativi o ne crea di meramente obbligatori?.
Non è questa la sede per addentrarsi nell’indagine [23], ma quelli compendiati sono quesiti che lo scarno tenore della norma consente a malapena di risolvere, senza, peraltro, dar sostanza ad una ragionevole certezza sulla maggior forza dell’una opzione ermeneutica, rispetto a quella volta per volta accantonata [24].
Ora, è proprio con riguardo al contesto dei concordati preventivi anche liquidatori, che il vincolo di "destinazione" codicistico tratteggia incompiutezze regolamentari, che lo rendono difficilmente adattabile all’ambito concorsuale. La disciplina sostanziale degli atti di destinazione è sommaria, limitandosi essa ad a individuare la forma necessaria dell’atto pubblico, la tipologia possibile (e comunque circoscritta) dell’oggetto, la durata massima del vincolo, i soggetti legittimati ad agire per la realizzazione dell’interesse meritevole, il regime di responsabilità dei beni separati.
Restano estranei all’alveo della regolamentazione altri profili di capitale importanza. E ritornano gli interrogativi. Quali sarebbero - è d’uopo chiedersi - gli obblighi di colui che viene chiamato a gestire il patrimonio e, se del caso, a liquidarlo? A quali conseguenze va incontro costui, in ipotesi in cui ritenga di non attenersi alla destinazione impressa ai beni? Ed ancora, quando e come cessa o si scioglie il vincolo creato dal disponente?
Negli ordinamenti d’origine il trust fa perno sulle obbligazioni "fiduciarie" del trustee [25]. Alla "capillarità" degli obblighi (duties) di quest’ultimo, fa da specchio nell’art. 2645 - ter c.c. proprio la drastica mancanza di regole idonee a disciplinare i profili dell’amministrazione e liquidazione dei beni. L’asimmetria operativa tra i due istituti risalta poi nella carenza dei rimedi facenti capo ai beneficiari della separazione in rapporto all’eventuale inottemperanza del "conferitario" dei beni vincolati. Difetta, del resto, qualunque disciplina dei rapporti tra il gestore e i beneficiari nonché degli aspetti della responsabilità del primo verso i secondi. La trascrizione del vincolo ne sancisce l’opponibilità ai terzi, ma non è dato individuare il campionario dei mezzi di tutela, se del caso esperibili da quello che la norma fa coincidere con "qualsiasi interessato". Quel che rimane certo è che eventuali azioni avrebbero una natura obbligatoria e non recuperatoria dei beni distratti dalle finalità impresse negozialmente al momento della creazione del vincolo. Dal che la constatazione di una tutela inadeguata degli interessi dei beneficiari, che nell’ipotesi del trust vedrebbero quel medesimo vincolo "segregativo" ben diversamente presidiato dal meccanismo della surrogazione reale [26] .
Ad enfatizzare l’"insufficienza" delle destinazioni ex art. 2645 - ter c.c. modellate in funzione delle procedure concordatarie preventive concorre un altro profilo. Il vincolo che marchia i beni in trust si connota di un effetto "segregativo" assoluto: il patrimonio del trust risponde solo dei debiti di quest’ultimo e il trustee non risponde personalmente dei debiti del trust. Nel patrimonio destinato la separazione è meno intensa in quanto "unidirezionale": i creditori del patrimonio separato che risulti incapiente sono legittimati senz’altro ad aggredire il patrimonio del conferente. In altri termini, l’art. 2645 - ter c.c. sancisce l’irresponsabilità del patrimonio separato per i debiti del conferente, ma non certo e non anche l’irresponsabilità del disponente per i debiti del patrimonio separato. Ed è inimmaginabile che detta "seconda" irresponsabilità si possa ricostruire in difetto di un’espressa statuizione, a fronte del chiaro dettato dell’art. 2740, comma secondo, c.c. e di una disposizione, quella dell’ art. 2447- quinquies, comma terzo, cod. civ. sui "patrimoni destinati ad uno specifico affare" nella quale la questione è esplicitamente risolta nel senso che "qualora la deliberazione prevista dall’articolo 2447-ter non disponga diversamente, per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato", rimanendo "salva tuttavia la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito" [27] .
Ancora, va rilevato che nei trust possono anche mancare i beneficiari; per converso, l’ art. 2645- ter c.c. non sembra autorizzare una destinazione di questo tipo, nella misura in cui fa esplicito riferimento al beneficiario e alla tutela a questi accordata.
Anche sul piano dell’oggetto su cui incide il vincolo, l’art. 2645 - ter c.c. si distanzia significativamente dal trust. Solo nel fondo in trust possono essere incluse anche posizioni non dominicali, oltre che beni mobili non registrati, somme di denaro, titoli di credito.
La carenza dell’ art. 2645 - ter c.c. si fa ancor più ragguardevole, ove si consideri che, a mente dell’art. 8, comma 2, della Convenzione de L’Aja, la legge "scelta" per regolamentare il trust, per un verso disciplina tutte le vicende relative al trustee (nomina, dimissioni, revoca, capacità di esercitare le mansioni e trasmissione delle funzioni; diritti e obblighi dei diversi eventuali trustee; diritto di delegare le mansioni; poteri di amministrare e disporre dei beni in trust, di effettuare investimenti, di accantonare gli introiti del trust; rapporti con i beneficiari; obbligo di rendiconto), per altro verso regolamenta i salienti aspetti della modifica e della cessazione del trust nonché della ripartizione dei suoi beni. Aspetti, quelli di cui al citato art. 8, che rimangono negletti nel corpo dell’art. 2645 - ter c.c. .
Peraltro, la posizione del beneficiario dell’atto di destinazione non è minimamente sovrapponibile a quella del beneficiario di un trust, essendo incerta la riconoscibilità in capo al beneficiario ex art. 2645 - ter c.c. della titolarità di un credito certo ed esigibile, titolarità che, viceversa, è ben riconoscibile in capo al beneficiario di un trust [28].
Si consideri, infine, che, nella dinamica del vincolo ex art. 2645 - ter c.c. il conferente si limita a "destinare" il bene per una finalità specifica e per un tempo determinato. In tal guisa, il "vincolo" ex art. 2645 - ter c.c. non prevede il ritrasferimento dei beni vincolati a beneficiari "finali", che è aspetto peculiare del trust e della sua natura "programmatica" e che appare spendibile anche in rapporto ai trust della crisi. Si può ipotizzare l’attribuzione dei beni del patrimonio segregato ad uno o più creditori, secondo il valore percentualistico delle rispettive riconosciute ragioni, quale adempimento della proposta concordataria avallata dal voto maggioritario dei creditori stessi. In tal caso, il ritrasferimento finale di beni appannaggio di uno o più creditori costituirà esecuzione del concordato ed assumerà una valenza eminentemente solutoria. Il che si mostra del tutto in linea con la previsione di cui all’ art. 160 L. fall., laddove, essendo disposto che il concordato possa prevedere la soddisfazione dei crediti "attraverso qualsiasi forma", si finisce per legittimare la debitrice proponente ad immaginare in proposta forme peculiari di datio in solutum nei confronti di taluno dei creditori, sottoponendole alla "legittimazione" del voto della maggioranza di questi.
13 . Conclusioni
Nella prospettiva ravennate il trust assurge a valida alternativa alla concessione di una garanzia reale sui beni, consentendo, tramite la costituzione del vincolo destinatorio, di assicurare in forme semplici ed efficaci l’effettiva finalizzazione dei beni, nei limiti delle percentuali concordatarie offerte, al pagamento dei creditori. Peraltro, la nomina del commissario giudiziale da parte del tribunale e l’esercizio di una stringente funzione di controllo da parte sua assicurano l’effettivo adempimento delle finalità per le quali il trust è stato costituito.
In buona sostanza, nel caso vagliato dal Tribunale di Ravenna, il trust non solo non froda i creditori, né elude la par condicio (individuando proprio i creditori quali soggetti avvantaggiati dal perseguimento del suo scopo), ma, piuttosto, offre una garanzia di non dispersione dei beni oggetto del trust, istituisce un controllo permeante sull’operato del trustee, àncora il mandato di quest’ultimo a puntuali regole "di comportamento" dettate dalla legge di richiamo ex art. 6 Convenzione de L’Aja. Tutto ciò che il trust offre, farebbe ovvio difetto laddove i creditori concordatari fossero esposti sic et simpliciter a sottrazioni e/o occultamenti in relazione a quegli stessi beni che il terzo-finanziatore si propone di far confluire a loro beneficio, senza, tuttavia, all’uopo sottoporli ad un regime di segregazione patrimoniale di impronta "dinamica".
Quest’ultimo profilo, in particolare, non si profila incisivamente conseguibile mediante gli ordinari strumenti civilistici anche di garanzia. Il trust rivela, sotto tale aspetto, tutta la propria "infungibilità" funzionale. E difatti, la separazione dei beni che ne costituiscono l’oggetto deriva da un semplice atto di autonomia privata, laddove i possibili analoghi effetti rinvenibili nel nostro ordinamento non sono ricollegabili ad un mero atto di volontà proveniente dai privati. Ed inoltre, il trust dà vita - ecco l’aspetto "inimitabile" - ad una proprietà nell’interesse altrui in capo al trustee, ossia ad un dominium "conformato" alla realizzazione dello scopo satisfattorio delle ragioni creditorie e articolato da specifiche obbligazioni fiduciarie e da uno statuto della responsabilità assai incisivo, che lo "strumentario" nostrano non contempla.
Il regime di responsabilità cui soggiace il trustee, che è un fiduciario degli interessi della categoria dei beneficiari (nel caso del concordato, la platea dei creditori), è assai più severo di quanto previsto dall’ art. 38 L. fall., ove si fa riferimento semplicemente alla "diligenza".
Né va trascurato che la fase di liquidazione comprende anche la fase di gestione conservativa, in quanto propedeutica alla stessa. Per la più proficua riuscita del programma di liquidazione può doversi passare, per esempio, per l’affitto dei beni.
Ove nel caso di un concordato preventivo si volesse "veicolare" appannaggio del ceto creditorio un bene del terzo senza ricorrere al trust, ci si scontrerebbe con la difficoltà di costituire un vincolo sul bene personale di detto terzo, che si rende garante dell’adempimento della proposta addirittura mettendo a disposizione parte del proprio patrimonio. Non sussistono nell’ordinamento interno mezzi adeguati, ove si constati come la prestazione di una garanzia reale non assicura affatto l’effettività dell’adempimento delle obbligazioni concordatarie.
In ultima analisi, la vocazione del trust è quella di strumento "principe" anche e soprattutto nella liquidazione degli apporti del terzo in funzione dell’esecuzione del piano concordatario. Se detti beni rimanessero nel frattempo di proprietà del terzo essi sarebbero aggredibili dai suoi creditori nelle more della realizzazione degli obiettivi concordatari; se, per contro, fossero conferiti alla società in crisi essi rischierebbero di andar "perduti" nel caso di fallimento, allorché si confonderebbero nella massa di quelli acquisiti dal fallimento.
 
 
 *Scritto edito in Trusts, 6/2013.

Note:

[1] 
Il decreto è pubblicato infra, 632. 
[2] 
In tema v. in dottrina, tra gli altri: C. Cavallini, Trust e procedure concorsuali, Riv. Soc., 2011, 06, 1093; F. Fimmanò, Il trust a garanzia del concordato preventivo, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, II, 90. Per i riflessi penalistici v. G. Minniti, Il ricorso all’istituto del trust nelle fasi di crisi: problematiche del trust liquidatorio e reato di bancarotta, in Riv. dottori comm., 2010, 4, 809. 

[3] 
V. Trib. Parma 3 marzo 2005, in Fall., 2005, 558, con commento di L. Panzani, Trust e concordato preventivo. Cfr. anche Trib. Napoli, 19 novembre 2008, in questa Rivista, 2009, 6, 636 e Trib. Mondovì, 16 settembre 2005, in questa Rivista, 2009, 182. 

[4] 
In dottrina si vedano L. Salvatore, L’utilizzazione del trust al servizio dell’impresa, Riv. Notariato, 2006, 1, 125; V. Greco, Il trust quale strumento di soluzione e di prevenzione della crisi d’impresa nella riforma delle procedure concorsuali, in questa Rivista, 2007, 219. 

[5] 
Mediante il guardiano si può sottoporre l’attività del trustee ad un controllo ex post (che concernerà il suo operato e la relativa conformità alle finalità del trust), ma anche ad un controllo ex ante (implicante l’obbligatorietà della consultazione del guardiano stesso, da parte del gestore, ai fini dell’ottenimento di pareri o di autorizzazioni, imprescindibili rispetto alle iniziative da porsi in essere). Al guardiano saranno attribuiti poteri idonei a condizionare le scelte del trustee e tra gli altri: il diritto di essere sentito (in occasione del compimento di certe operazioni), il potere di rimuovere e sostituire il trustee e ancora, sussistendo determinate circostanze, il potere di operare verifiche, quello di agire nei confronti del trustee (in caso di violazione degli obblighi nascenti dal trust). Solo limite insuperabile nell’attribuzione dei poteri al guardiano attiene all’impossibilità di dotarlo di poteri direttivi o coercitivi nei confronti dello stesso trustee. Ne deriverebbe, infatti, la nullità del trust, per il travolgimento dell’elemento strutturale essenziale dato dall’"affidamento" al trustee. 

[6] 
È stato rilevato che il termine "specifico affare" viene assunto dal legislatore non tanto nel significato giuridico, quanto piuttosto in quello aziendalistico, come enucleato nella pratica commerciale. In questo senso depone il lessico impiegato dal legislatore nel corpo dell’ art. 2447- bis c.c. - "affari attinenti ad attività" —, che non trova riscontro nelle categorie dogmatiche del diritto privato. Affare parrebbe designare l’operazione economica concretamente programmata nella gestione di un segmento di attività imprenditoriale, per la cui realizzazione è necessaria la destinazione di una parte del patrimonio della società. Si veda B. Inzitari, I patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Fallimento, 2003, 296. In tema, cfr. anche R. Lenzi, I patrimoni destinati: costituzione e dinamica dell’affare, Riv. Notariato, 2003, 3, 543. 

[8] 
Cass., Sez. I Civ., 8 giugno 2012, n. 9373, in Foro it. 2012, 10, I, 2671. 

[9] 
In linea con questa impostazione, almeno sul punto dell’esperibilità della revocatoria, pare essersi orientato Trib. Napoli, 19 novembre 2008, [ supra, nota 3] cit. Nell’ottica del collegio partenopeo, infatti, per un verso è legittima la costituzione in trust dell’intero patrimonio immobiliare della società ammessa al concordato preventivo e della società assuntrice del concordato, al fine di devolvere ogni ricavato dalla vendita al soddisfacimento dei creditori concordatari; per altro verso, tuttavia, non potendo il trust essere impiegato in violazione dei diritti dei creditori personali del terzo, costoro potranno esercitare l’azione revocatoria dell’atto di costituzione dello stesso. 

[10] 
In questo senso F. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, 2011, 65. 

[11] 
In generale sui trust in funzione di protezione patrimoniale v. M. Lupoi, La legittima funzione "protettiva" dei trusts interni, in Contr. impr., 2004, 242; F. Dimundo, "Spendthrift clause" e fallimento del beneficiario: riflessioni di un giurista italiano, in questa Rivista, 2000, 499. Sull’uso del trust in funzione di garanzia per i creditori v. M. Sacchi, Trusts e scopo di garanzia. Un possibile orientamento giurisprudenziale, in Rass. dir. civ., 2000, 55. 

[12] 
V. in tal senso L. Rovelli, I nuovi assetti privatistici nel diritto societario e concorsuale e la tutela creditoria, in Fallimento, 2009, 1038, il quale rileva che il conferimento in trust di beni di terzi non si pone in conflitto con il limite che la legge pone alla autonomia negoziale, ovvero di non poter disporre dell’azione esecutiva dei creditori estranei sui beni del debitore, rimanendo esposto all’eventuale azione revocatoria ad opera dei creditori dei terzi conferenti. 

[13] 
G. Lo Cascio, Proposta di concordato preventivo mediante trust, in Fallimento, 2009, 340. 

[14] 
La convenzione fa salva, all’art. 15, in particolare, la protezione dei creditori, in caso di insolvenza, necessariamente in riferimento al disponente. 

[15] 
In tema v. F. Dimundo, Trust interno istituito da società insolvente in alternativa alla liquidazione fallimentare, in Fallimento, Profili del trust nelle procedure concorsuali, 2010, 10. 

[16] 
Lo ha spiegato puntualmente M. Lupoi, Due parole tecniche sull’atto istitutivo di un trust liquidatorio e sui trust nudi, in questa Rivista, 2011, 211. 

[17] 
Il testo della sentenza resa nel precedente Saunders v Vautier è consultabile in questa Rivista, 2004, 294. 

[18] 
Si veda Trib. Parma, 3 marzo 2005, [ supra, nota 3]. 

[19] 
In tal senso Trib. Mondovì, 16 settembre 2005 e Trib. Napoli, 19 novembre 2008: per entrambe si veda [ supra, nota 3]. 

[20] 
In realtà le pronunce significative in materia di atto di destinazione e crisi d’impresa risultano essere due ed entrambe sono andate nel senso dell’inammissibilità: trattasi di Trib. Vicenza, 31 marzo 2011, in Corr. mer., 2011, 806, con nota di Rispoli e Trib. Verona, 13 marzo 2012, in www.ilcaso.it. 

[21] 
Per un raffronto anche "operativo" tra i due istituti, alla luce della giurisprudenza maturata e delle posizioni assunte dalla più autorevole dottrina, mi permetto di rinviare alla recente monografia S. Leuzzi, I trusts nel diritto di famiglia, Milano, 2012, 145. 

[22] 
L’ art. 2645 - ter c.c. è considerato dai più non solo una norma sulla trascrizione ma anche una norma sostanziale che detta quel che potrebbe essere definito un mini-statuto di tale atto di destinazione. La letteratura relativa a tale norma è ormai copiosa. V. per tutti, da ultimo, C. D’aprea, Negozi di destinazione: ruolo e responsabilità del notaio, in Riv. Not., 2011, pp. 801 e ss. 

[23] 
In tema v. A.C. Di Landro, L’ art. 2645 - ter c.c. e il trust. Spunti per una comparazione, Riv. Notariato, 2009, 3, 583. 

[24] 
Essenziale rimane, ad ogni buon conto, la lettura di M. Lupoi, Gli "atti di destinazione" nel nuovo art. 2645- tercod.civ. quale frammento di trust, in questa Rivista, 2006, 169. 

[25] 
Cfr. M. Lupoi, Gli atti di destinazione, [ supra, nota 24], p. 172. 

[26] 
Il fenomeno della c.d. surrogazione reale permette l’automatica sostituzione del bene alienato con il suo corrispettivo, mantenendo su quest’ultimo l’effetto della separazione patrimoniale. 
[27] 
In buona sostanza, la separazione realizzata a norma dell’ art. 2645 - ter c.c. non determina una segregazione bilaterale tra le diverse componenti del patrimonio visto che i creditori particolari possono agire anche sui beni del debitore liberi dal vincolo di destinazione: si vedano le considerazioni di G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. dir. civ., 2006, I, 200 ss. 

[28] 
Non va ovviamente trascurato che nel trust il beneficiario è ab origine di un diritto di sequela (tracing right) che gli consente di recuperare il bene dal terzo che lo abbia acquistato dal trustee infedele e che (se in mala fede) è tenuto a rilasciarlo al beneficiario stesso. In altri termini, se il bene viene trasferito dal trustee ad un terzo che ne conosceva l’origine, il trasferimento non ha effetto in danno del beneficiario del trust. 

 

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