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Il sistema e i principi del diritto della crisi dell’impresa

Massimo Fabiani, Ordinario di diritto commerciale nell’Università del Molise

11 Ottobre 2024

Lo scritto, pubblicato per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore La Tribuna-Il Foro Italiano, contiene la summa dei principi del riformato diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza, fornendo indispensabili chiavi di lettura del nuovo sistema.
Riproduzione riservata
1 . Il sistema tra inadempimento e insolvenza
Quando in una comunità di consociati sorge un conflitto che le parti non vogliono o non riescono a comporre consensualmente, in assenza di strumenti di effettiva autotutela, si rende necessario l’accesso davanti alla autorità giudiziaria.
Se la lite che è sorta attiene ad un diritto di credito il creditore è dotato di diversi mezzi per affermare il proprio diritto: quando il debitore non adempie spontaneamente dopo la pronuncia di condanna del giudice, quel creditore ha a disposizione, dopo la tutela dichiarativa, anche quella esecutiva perché, contro la volontà del debitore, può far espropriare i beni dell’obbligato e soddisfarsi sul ricavato della liquidazione.
In questo caso si assiste ad una dialettica duale tra creditore e debitore rispetto alla quale il profilo oggettivo che rileva è l’inadempimento; ciò che interessa è la circostanza che il debitore non vuole adempiere spontaneamente, mentre resta del tutto indifferente il fatto che il debitore possa, oppure no, disporre dei mezzi per far fronte all’obbligazione.
Infatti, quando il debitore non ha la capacità di rispondere del debito con il proprio patrimonio allora si discute di insolvenza. L’insolvenza è un fenomeno patologico, non necessariamente irreversibile, ma sicuramente non transeunte e che può generare reazioni in capo al creditore, come accade per la decadenza dal beneficio del termine (art. 1186 c.c.).
V’è da chiedersi, allora, se in presenza di uno stato di insolvenza le norme del codice civile siano sufficienti ovvero se non siano necessarie altre regole idonee a disciplinare questo fenomeno più complesso. Nel nostro sistema, per tradizione, un complesso di regole è stato predisposto per affrontare l’insolvenza dell’imprenditore commerciale e ciò sin dal Codice di commercio del 1865. Solo recentemente (a partire dal 2012), il legislatore italiano ha intrapreso un percorso diverso stabilendo un assetto normativo dedicato all’insolvenza (sebbene declinata formalmente come sovraindebitamento) dell’imprenditore agricolo, del professionista e finanche del consumatore.
Oggi esiste un sistema generale volto a regolare gli effetti dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale di taglia “ordinaria”, di quello sotto-soglia, di quello agricolo nonché dei debitori non imprenditori (professionisti, consumatori ed enti); esiste, parallelamente anche un sistema speciale per l’impresa di grandi dimensioni e per alcune specifiche tipologie di imprese.
2 . Sul sistema e sui principi
Il sistema si muove tra alcuni punti cardinali ben identificabili. L’insolvenza è uno stadio patologico che quando investe un’impresa non può essere gestito, esclusivamente, tra le parti, debitore e creditori. L’impresa è, per definizione, una attività organizzata destinata ad operare nel mercato e, quindi, è fisiologico che vengano intessuti rapporti con una pluralità di soggetti che possono (anche) essere altri rispetto ai creditori: basti pensare ai lavoratori o a coloro che hanno intrattenuto rapporti contrattuali non esauriti nel momento in cui l’insolvenza emerge.
Il sistema vuole che il coagulo di interessi che ruotano attorno ad una impresa in crisi sia gestito con una specifica attenzione agli interessi plurali, con una ponderata calibratura tra autonomia delle parti ed eteronomia giudiziale.
Parimenti, un sistema presuppone che siano chiari gli obiettivi del complesso di regole che vengono redatte per affrontare una crisi; ciò nella misura in cui proprio la pluralità degli interessi coinvolti rende indispensabile stabilire se si debbano tutelare in via prioritaria i diritti dei creditori, oppure se l’esigenza primaria sia quella di conservare il valore dell’impresa, ad esempio al fine di assicurare il mantenimento dei livelli occupazionali anche a discapito della tutela del credito.
Ed ancora, fra i punti ordinanti di un sistema occorre innestare i principi in tema di garanzia patrimoniale e verificare se esista, davvero, un diritto del singolo creditore (e poi della massa dei creditori) alla garanzia patrimoniale.
Le superiori considerazioni inducono a ritenere che, prima ancora di declinare i principi cui si debbono ispirare le regole disciplinari di dettaglio, sia indispensabile selezionare il perimetro di un sistema.
I lati della figura geometrica di riferimento possono essere molti, ma ciò che importa è il fatto che talune regole assumono il ruolo di regole di sistema e non possono essere infrante.
3 . La frammentazione del sistema
Il sistema non è facile da ricomporre per un difetto genetico costituito dal fatto che non esiste un solo corpo normativo nel quale sono insediate tutte le disposizioni utili. Il tessuto normativo di riferimento è rappresentato dal codice della crisi (D.Lgs. n. 14/2019) progressivamente innervato dal D.Lgs. n. 147/2020 “correttivo” e dal successivo D.Lgs. n. 83/2022 di attuazione della Direttiva Europea 2019/1023 , cui ha fatto seguito il D.Lgs. n. xx/2024. Sennonché, la frammentazione normativa è diffusa a livello interno se solo si pensa alla legge sull’amministrazione straordinaria (D.Lgs. n. 270/1999, D.L. n. 347/2003, D.L. n. 134/2008), alle leggi sull’insolvenza delle banche (TUB, D.Lgs. 385/1993) e delle compagnie di assicurazioni (D.Lgs. n. 209/2005).
La frammentazione normativa non rileva soltanto dal punto di vista della eterogeneità delle fonti, ma spesso impatta significativamente sugli obiettivi delle regole: come si vedrà più diffusamente, vi sono procedure nelle quali la stella polare è la tutela del credito ed altre, invece, nelle quali il valore da perseguire è la prosecuzione dell’attività d’impresa.
In tale contesto, il presente Volume ambisce a disegnare un sistema organico al modo di un tronco dal quale poi gemmano le ramificazioni (i principi) e, di poi, i frutti (le regole).Il sistema non è facile da ricomporre per un difetto genetico costituito dal fatto che non esiste un solo corpo normativo nel quale sono insediate tutte le disposizioni utili. Il tessuto normativo di riferimento è rappresentato dal codice della crisi (D.Lgs. n. 14/2019) progressivamente innervato dal D.Lgs. n. 147/2020 “correttivo” e dal successivo D.Lgs. n. 83/2022 di attuazione della Direttiva Europea 2019/1023 , cui ha fatto seguito il D.Lgs. n. xx/2024. Sennonché, la frammentazione normativa è diffusa a livello interno se solo si pensa alla legge sull’amministrazione straordinaria (D.Lgs. n. 270/1999, D.L. n. 347/2003, D.L. n. 134/2008), alle leggi sull’insolvenza delle banche (TUB, D.Lgs. 385/1993) e delle compagnie di assicurazioni (D.Lgs. n. 209/2005).
La frammentazione normativa non rileva soltanto dal punto di vista della eterogeneità delle fonti, ma spesso impatta significativamente sugli obiettivi delle regole: come si vedrà più diffusamente, vi sono procedure nelle quali la stella polare è la tutela del credito ed altre, invece, nelle quali il valore da perseguire è la prosecuzione dell’attività d’impresa.
In tale contesto, il presente Volume ambisce a disegnare un sistema organico al modo di un tronco dal quale poi gemmano le ramificazioni (i principi) e, di poi, i frutti (le regole).
4 . Il mutamento di lessico
Nel titolo del Volume scompare ogni riferimento al “diritto fallimentare”, un sintagma che germina dal R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (“legge fallimentare”), ma che probabilmente continuerà a resistere come lessico gergale (senza trascurare che le regole di tale legge troveranno applicazione per tutte le procedure aperte sino al 14 luglio 2022, e dunque per molto altro tempo).
Già prima delle ultime riforme si era diffusa, per divenire sempre più consueta, l’espressione “diritto della crisi d’impresa” o quella di “diritto dell’impresa in crisi”.
Si trattava di espressioni che mutuavano un comune sentire perché, tanto fra gli studiosi quanto fra coloro che nelle varie professionalità si occupavano dei casi pratici – magistrati, avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili, advisor finanziari –, serpeggiava l’idea che la nozione di “diritto fallimentare” fosse ormai divenuta una sorta di camicia di forza che impediva di accogliere tutti quei fenomeni che, pur attenendo a situazioni di patologia dell’impresa non possono risolversi nella dissoluzione fallimentare e brutalmente liquidatoria.
Oggi che il codice della crisi (d’ora in poi, anche solo, CCII) ha espunto i lemmi “fallimento” e “fallito”, è innaturale chiamare “diritto fallimentare” un comparto del diritto che disciplina le sorti di una impresa quando questa non è più in grado di reagire ad una situazione di crisi con mezzi endogeni e deve necessariamente coinvolgere i diritti dei creditori e di altri soggetti.
Ma sarebbe parimenti innaturale parlare di “diritto della liquidazione giudiziale” per la semplice ragione che le regole che il legislatore ha voluto sono di spettro assai più ampio rispetto a quelle di una qualunque forma di liquidazione d’impresa. Il valore dell’impresa è un valore immanente che va ben oltre il solo aspetto dell’esecuzione che sarebbe evocato dalla liquidazione: in ogni caso un sistema di economia liberale non può fare a meno di una legge – che comunque la si voglia appellare – è destinata a disciplinare l’organizzazione e gli effetti di un fallimento: il fallimento di una determinata iniziativa economica.
5 . Le ragioni della presenza di una legge sulle crisi
L’esperienza ormai ultrasecolare dimostra che il mercato, qualunque nozione ad esso si voglia assegnare, non è in grado, da solo, di autoespellere in modo decisivo l’impresa insolvente.
L’effetto è cristallino: non si può fare a meno di un diritto, ovverosia un insieme di principi e di regole che disciplini i fenomeni della crisi e dell’insolvenza.
Il diritto della crisi e dell’insolvenza è funzionale ad assicurare una serie composita di obiettivi e fra questi, di certo, compare, in primo piano (quanto meno nelle procedure giurisdizionali), quello di tutelare i diritti dei creditori attraverso il loro coattivo soddisfacimento.
Spesso, il profilo coattivo potrà risultare almeno in parte attenuato dalla formazione di un accordo fra creditori e debitore, ma resta il fatto decisivo che questa partizione del diritto è indirizzata all’attuazione della garanzia patrimoniale emblematicamente sintetizzata nell’art. 2740 c.c.
Le regole del processo espropriativo quando il debitore è una impresa non possono essere emarginate ed accanto al processo espropriativo “singolare” è necessario che, alternativamente, si svolga un processo egualmente espropriativo ma, naturalmente (anche se non necessariamente), collettivo.
Una prima ragione si ravvisa nel fatto che quando la situazione di crisi e di insolvenza riguarda un’impresa, il processo espropriativo diviene un contenitore non più sufficiente e adeguato alla pluralità di creditori, ancorché sia noto che la pluralità dei creditori non è un connotato essenziale di una procedura collettiva retta da regole diverse da quelle della espropriazione singolare.
Parimenti, è frutto di una visione parziale predicare che un procedimento di liquidazione non volontario debba esistere (solo) per rispondere ad interessi pubblici o almeno “superindividuali”.
Si può ben condividere che in situazioni di crisi ed insolvenza che investono taluni soggetti vengano in giuoco anche interessi “superindividuali” (se si vuole rappresentati dalla immanente presenza del pubblico ministero), ma è dubitabile che se questi ci sono, allora si deve aprire una procedura di crisi o di insolvenza.
Quando si guardano le procedure di crisi e di insolvenza secondo un’ottica unitaria, si rischia di perdere l’orientamento. Le procedure di insolvenza della legge fallimentare rispondevano a determinate esigenze che non sempre collimavano con quelle dedicate al debitore “civile”. Per queste ultime la tutela dei diritti dei creditori non è la stella polare ma è solo uno dei vari profili che debbono essere adeguatamente ponderati.
Ciò che in esse prevale nettamente è il profilo che pertiene alla liberazione dai debiti e cioè la possibilità di una ricollocazione del debitore nel circuito del credito e delle relazioni commerciali. Questo valore è enfatizzato dalla figura della “esdebitazione del debitore incapiente” (art. 283 CCII) che si caratterizza per l’eliminazione delle obbligazioni senza alcun soddisfacimento del credito, in evidente linea di discontinuità dal precetto di cui all’art. 2740 c.c., a mente del quale il debitore risponde col suo patrimonio attuale e futuro di tutte le obbligazioni contratte.
Senza entrare nel merito dei valori economici, giuridici, sociali e morali della scelta legislativa, si può comunque comprenderne la ratio, per vero condivisa in molti ordinamenti di Paesi anglosassoni e continentali.
Così, sgombrato il campo da intersezioni di procedure fra loro assai poco comunicanti – se non per taluni aspetti relativi all’organizzazione – si può concentrare l’attenzione sul perché in ogni sistema giuridico antico e moderno esista una legge sulla crisi e sull’insolvenza.
Quando crisi e insolvenza colpiscono un’impresa e cioè un soggetto giuridico ed economico che idealmente si colloca sul mercato e che, presuntivamente, intreccia una pluralità di relazioni commerciali, appare opportuno che, all’incapacità del debitore di adempiere in modo ordinato alle proprie obbligazioni, l’ordinamento reagisca con un insieme di regole che siano dirette a perseguire il medesimo obiettivo delle procedure espropriative – cioè il soddisfacimento dei creditori – ma che vadano anche oltre.
Queste regole debbono essere intese come volte a disciplinare il fenomeno della patologia col potenziale coinvolgimento anche di coloro che non sono più creditori ma che possono avere acquisito vantaggi asimmetrici rispetto ad altri e che si ritiene non debbano consolidarsi.
6 . I valori delle procedure di crisi e di insolvenza
La ragione della presenza di un sistema di regole si fonda su un fenomeno che è notoriamente descritto come “concorso”: il concorso dei più creditori sul medesimo patrimonio impegnato con la garanzia patrimoniale. Un concorso che si può realizzare anche nella procedura espropriativa singolare – ne sono espressione sia l’istituto dell’intervento dei creditori (per vero declinato con limitazioni soggettive stringenti e assai opinabili, v., art. 499 c.p.c.), sia quello della successione di pignoramenti sugli stessi beni (v., art. 493 c.p.c.) – ma con modalità statiche perché il patrimonio è solo quello che si seleziona al momento del pignoramento.
È pur vero che questo patrimonio può comprendere anche beni che non appartengono al debitore (art. 2929-bis c.c., art. 602 c.p.c.), ma ciò deriva da una attività di tipo recuperatorio che il creditore promuove prima del concorso e non dopo che questo si è aperto.
Viceversa, all’interno delle procedure di crisi e di insolvenza, si assiste al fenomeno della concorsualità dinamica perché, dopo che il patrimonio del debitore è acquisito, si possono sviluppare varie iniziative volte ad ampliarlo (come pure a restringere il passivo) e a coinvolgere un’ulteriore pluralità di soggetti, quali i creditori già soddisfatti, così come parti in bonis di contratti pendenti al momento di apertura della procedura.
Un ulteriore fattore dominante per inclinare nella direzione della necessità che vi siano le procedure di crisi e di insolvenza è rappresentato dal valore dell’impresa come organizzazione.
L’espropriazione colpisce singoli beni, eventualmente una pluralità anche articolata di beni, ma pur sempre disaggregati funzionalmente.
Diversamente, quando la crisi e l’insolvenza riguardano un debitore che esercita una attività d’impresa appare necessario valutare se l’impresa abbia, ancora, un valore residuo che sia tale da consentirne un’utile collocazione sul mercato, se sia possibile in un periodo di transizione recuperare economicità a quella attività d’impresa, se la gestione unitaria del patrimonio sia più proficua di una gestione liquidatoria atomistica.
Pertanto, è l’essere impresa come soggetto operante su un mercato complesso che regge l’ideologia diffusa di disciplinarne i fenomeni patologici con un insieme di principi e di regole ad essi dedicati.
Questa affermazione non è contraddetta dalla obiezione per cui non è sempre vero che queste procedure si giustificano perché la crisi e l’insolvenza riguardano un’impresa. Esistono, infatti, imprese alle quali non si applica questo regime ma, dal 2012, quello sul sovraindebitamento.
Parliamo sia delle imprese che svolgono una attività agricola, sia di imprese che hanno una dimensione che l’ordinamento reputa non rilevante o che vengono “premiate” per un certo periodo per incentivarne la diffusione, come accade per le start up innovative.
Il codice della crisi supera alcune aporie perché la procedura di liquidazione controllata (artt. 268 ss. CCII) mira a recuperare, anche per i debitori assunti come marginali, i valori della concorsualità: basti pensare alla esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria (art. 274 CCII). Per converso, quando l’impresa è esercitata in forma societaria si impone un ulteriore comparto di regole, tant’è che si è diffusa la convinzione che esista anche un diritto societario della crisi e dell’insolvenza, sicuramente enfatizzato da nuove disposizioni che rivalutano il ruolo dei soci e dalla esplicita rilevanza giuridica attribuita al gruppo di imprese (v., Cap. XXV).
Pertanto, i valori fondanti una procedura di crisi e di insolvenza si ritrovano nella necessità di provvedere al miglior soddisfacimento dei creditori (inteso in senso relativo e non assoluto, al punto che oggi è forse più corretto discutere di assenza di pregiudizio) nel contesto dell’apertura di un concorso dinamico sul patrimonio del debitore, che a sua volta sia gestito secondo canoni di organizzazione imprenditoriale funzionalizzata alla remunerazione del credito.
Questa conclusione improntata alla prudenza non può essere, però, un punto di arrivo perché è poi utile spiegare quando ci si trova al cospetto di una procedura concorsuale.
Prima di affrontare questo passaggio, è importante precisare che il soddisfacimento dei creditori è sì una componente essenziale di una procedura di insolvenza ma per scelte di politica economica non sempre in armonia col diritto, può essere fortemente compressa quando l’ordinamento reputa prevalenti interessi diversi (da quelli dei creditori): uno fra tutti, l’interesse alla continuità dell’attività di impresa, a sua volta giustificato, ad esempio, dall’interesse al mantenimento dei livelli occupazionali.
Orbene, nel selezionare i fattori identificativi della ragione dell’esistenza di procedure di crisi e di insolvenza, al netto di altri istituti che pure vanno inclusi nel perimetro del diritto della crisi e dell’insolvenza, ci si avvede che, tutti, presuppongono la relazione patologica di un patrimonio rispetto a coloro che su quel patrimonio vantino una pretesa.
La relazione patologica si forma quando si crea una crisi di cooperazione fra chi ha la disponibilità di un patrimonio e non fa fronte alle obbligazioni contratte rispetto alle quali quel patrimonio funge da garanzia, e chi invece ha erogato credito nell’aspettativa di poter trovare soddisfazione proprio su quello.
Non c’è crisi o insolvenza in assenza di una rottura dell’equilibrio fra creditore e debitore.
Si può discutere sulla funzionalizzazione delle procedure concorsuali, ma è la crisi del rapporto dialogico creditore → debitore ad innescare il bisogno di affrontare un percorso di regolazione della crisi o dell’insolvenza.
Di crisi (e insolvenza) in senso tecnico si potrà discutere quando chi amministra l’impresa avverte che la situazione di difficoltà si potrà ( forse) superare, solo coinvolgendo i terzi.
È ben probabile che la crisi del rapporto sia solo l’occasione e non la causa, ma tutti i protagonisti della scena dell’insolvenza vengono chiamati in causa dopo la rottura dell’equilibrio fra creditori e debitore.
Ed allora, se di una relazione di credito-debito non si può fare a meno (anche quando l’iniziativa sia affidata al pubblico ministero), ciò accade perché le relazioni commerciali non scorrono più sul binario della fisiologia; si percepisce, così, che il diritto di cui ci occupiamo è diretto a disciplinare fenomeni che pertengono all’attuazione della garanzia patrimoniale.
Certo, il diritto della crisi e dell’insolvenza è cementato dall’idea che serva ad attuare la responsabilità patrimoniale, senza in esso esaurirsi.
Con diverse sfumature, gradatamente ascendenti, l’attuazione della responsabilità patrimoniale dovrà essere coniugata con altri valori – che in talune situazioni potrebbero finanche divenire dominanti -, ma la cornice costituzionale impedisce di negare che le procedure di crisi e di insolvenza non siano degli strumenti per consentire al creditore di ottenere tutto e proprio tutto ciò che un debitore inadempiente non ha voluto corrispondergli.
È evidente che l’esito della procedura non potrà sempre essere pienamente o anche solo parzialmente satisfattivo per il creditore, perché ciò dipenderà in larga misura dalla capacità patrimoniale dell’obbligato; ma gli strumenti di cui il creditore è dotato altri non sono: si può realizzare coattivamente la responsabilità patrimoniale facendo espropriare i beni del debitore che costituiscono la garanzia generica del suo credito o tramite l’esecuzione individuale o tramite l’esecuzione collettiva-concorsuale.
L’ordinamento, infatti, non tollera modelli di autotutela esecutiva (salvo taluni che attengono a garanzie reali, ma con molte cautele) che riescano a soddisfare il creditore nello stesso modo.
L’attuazione della garanzia patrimoniale può realizzarsi tanto con procedimenti imposti, quanto all’esito di procedimenti concordati; si potrà parlare, nel primo caso, di procedimenti coattivi e nel secondo di procedimenti volontari, segnati da molte linee di discontinuità, ma accomunati dall’effetto di realizzazione della garanzia. Terminato il procedimento, la garanzia patrimoniale generica è stata trasformata in denaro, il denaro è stato distribuito ai creditori e i beni del debitore sono stati purgati dalle garanzie reali che su quelli gravavano. Non sempre si dipana tutto il percorso perché può accadere che la crisi venga risolta con strumenti che non vedono il coinvolgimento del giudice: in queste situazioni la crisi è stata, effettivamente, risolta non come esito di un procedimento di attuazione della garanzia patrimoniale, bensì perché il valore della garanzia sarà stato sostituito dalla scelta del creditore di rinunciarvi per effetto di un accordo con il debitore.
Queste considerazioni potrebbero apparire ad una prima lettura come espressive di un appiattimento delle procedure di crisi e di insolvenza sul sistema del processo esecutivo singolare. Potrebbe, così, sembrare marginale il profilo del valore della conservazione dell’impresa di cui presto si parlerà.
Questa impressione non è fondata: le procedure (ovverosia procedimenti organizzati che contemplano il coinvolgimento del giudice) di crisi e di insolvenza realizzano sempre la garanzia patrimoniale pur quando ad esse non si associ alcuna soddisfazione dei creditori. Infatti, se si postula che il valore della conservazione dell’impresa deve prevalere sul valore della tutela dei creditori, l’effetto che si produce è quello dell’assorbimento delle risorse al servizio della continuità d’impresa ma ciò non impedisce affatto che la garanzia patrimoniale non abbia ad intendersi realizzata. La realizzazione sarà grandemente insoddisfacente per il creditore e tuttavia il patrimonio del debitore avrà assolto alla sua funzione.
7 . Il palinsesto delle procedure di crisi e di insolvenza
Una volta ammesso che esistono le procedure di crisi e di insolvenza e che queste debbano esistere per un ordinato approccio alla crisi, possiamo provare a esporre il perimetro di regole che circoscrivono l’area della procedura di crisi e di insolvenza e che per comodità possiamo anche declinare come procedura di concorso.
Nell’epoca della decodificazione è sempre più frequente che alcuni plessi normativi siano collocati all’esterno della legge di riferimento e così accade anche nella materia della crisi e dell’insolvenza.
Nel codice della crisi trovano spazio la liquidazione giudiziale, il concordato preventivo e la liquidazione coatta amministrativa. Fuori dal codice troviamo ben tre modelli di amministrazione straordinaria, regolati rispettivamente dal D.Lgs. n. 270/1999, dal D.L. n. 347/2003, conv. con modif. L. n. 39/2004, e dal D.L. n. 134/2008, conv. con modif. L. n. 166/2008, nonché varie ipotesi di liquidazione coatta amministrativa. Le più importanti sono la liquidazione coatta degli istituti di credito (TUB), delle imprese di assicurazione (D.Lgs. n. 209/2005), delle società fiduciarie (L. n. 430/1986). Ed ancora, nel codice della crisi si rinvengono “istituti” che hanno in comune, con le procedure concorsuali, la radice della funzionalizzazione alla regolazione della crisi (piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione, accordi di ristrutturazione, piani attestati di risanamento, accordi di moratoria, composizione negoziata), nonché le procedure di sovraindebitamento che, solo per comodità espositiva, possono essere qualificate in modo unitario, dal momento che presiedono a interessi differenziati.
Risulta, così, subito evidente che non è detto che ciò che è collocato nel codice della crisi corrisponda al paradigma della procedura concorsuale, come al contrario non è detto che ciò che è ubicato al di fuori non lo sia.
Da questo coacervo di procedimenti ed istituti non è agevole districarsi. Vi sono alcuni procedimenti “imposti”, nei quali la garanzia patrimoniale è attuata coattivamente: la liquidazione giudiziale, la liquidazione coatta amministrativa, l’amministrazione straordinaria.
In altri, invece, si transita per un accordo fra debitore e creditori: ciò accade nel concordato preventivo e nel concordato minore, negli accordi di ristrutturazione, nel piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione. Vi sono poi istituti di regolazione della crisi cui non corrisponde un procedimento, come accade nel piano attestato di risanamento e nella composizione negoziata.
Ed ancora vi sono procedure che sono sottoposte al “governo” della autorità giurisdizionale (la liquidazione giudiziale, il concordato preventivo e le procedure di sovraindebitamento) ed altre a quello della autorità amministrativa (la liquidazione coatta e l’amministrazione straordinaria).
Vi sono procedure necessariamente disgregative del patrimonio (la liquidazione giudiziale, la liquidazione coatta amministrativa, nonché la liquidazione dei beni del debitore civile) ed altre nelle quali il baricentro sembra collocarsi nella continuità dell’impresa (l’amministrazione straordinaria).
Queste sono alcune caratterizzazioni qualificanti anche se spesso le definizioni assumono un significato più classificatorio (o descrittivo) che concreto. È vero, però, che talora alcune classificazioni risultano decisive e ci si riferisce alla definizione di procedura concorsuale.
Infatti, nella trama normativa del codice della crisi ritroviamo una pluralità di istituti (gli accordi di ristrutturazione dei debiti, la composizione negoziata e il piano attestato di risanamento) che, aldilà della loro collocazione, rappresentano strumenti alternativi per la regolazione della crisi d’impresa.
8 . I connotati che caratterizzano la procedura concorsuale e gli strumenti di regolazione della crisi
È, dunque, utile fornire una immagine descrittiva di ciò che intendiamo per procedura concorsuale allo scopo di verificare se tutti gli strumenti di regolazione della crisi vi rientrino oppure no, con la conseguenza, già anticipata, che se ne rimangono estranei, di riflesso i principi fondamentali della concorsualità, o comunque, taluni di essi, non troveranno per essi applicazione; fornire la definizione di procedura concorsuale è importante perché il diritto positivo lo richiede (cfr., artt. 2486 e 2499 c.c. mentre, all’interno del codice della crisi lo prevedeva l’art. 6 , ora però, modificato).
Prima di descriverne i connotati qualificanti è d’uopo porre un regolamento di confini. È vero che esistono anche altri procedimenti (ritenuti) concorsuali (vengono di solito evocati quelli correlati all’eredità giacente - art. 530 c.c. -, al debito dell’armatore - art. 620 cod.
nav. -, alla liquidazione delle persone giuridiche - art. 16 disp. att. c.c.-), ma quelli di cui ci si vuole occupare possiedono come tratti distintivi la tipologia del soggetto (l’imprenditore commerciale o altre soggettività tipicizzate) ed una patologia oggettiva (variamente intesa).
Questi tratti che dovrebbero connotare indistintamente le procedure sono:
a. la previsione di un accertamento di una situazione di patologia dell’impresa (insolvenza, crisi, irregolarità);
b. la previsione che l’accertamento sia rimesso all’apprezzamento di una autorità pubblica (giurisdizionale o amministrativa);
c. la previsione dell’affidamento della gestione – o di un controllo sulla gestione – ad un organo nominato dall’autorità pubblica;
d. la previsione del coinvolgimento dell’intero patrimonio dell’imprenditore nella gestione sostitutiva (con poche e non rilevanti deroghe);
e. la collettivizzazione delle tutele e l’inibizione alla creazione di posizioni di preferenza (divieto di azioni esecutive e controllo sull’acquisizione di cause di prelazione);
f. l’applicazione tendenziale delle regole di parità di trattamento e, comunque, un criterio legale di distribuzione del valore;
g. l’imposizione di un vincolo sui beni del debitore con formazione di una massa funzionalizzata alla soddisfazione dei creditori.
Di recente, il giudice di legittimità – in più occasioni - ha optato per una nozione assai lata di procedura concorsuale, assumendo che già la sola imposizione di un divieto di azioni esecutive dei creditori possa costituirne il tratto caratterizzante.
È sin troppo ovvio che in assenza di una definizione normativa di procedura concorsuale, non rintracciabile nell’art. 2 CCII, sia compito dell’interprete fornirne una descrizione. Orbene, ci pare che alcuni dei tratti qualificanti che sono stati sopra enunciati non possano in alcun modo essere elusi: (i) da una parte, quando si utilizza il termine “procedura” non si può fare a meno di un procedimento governato da una autorità pubblica (giudiziaria o amministrativa); (ii) dall’altra parte, quando si parla di concorso non si può fare a meno della presenza di una regola distributiva, nel senso che è la legge che stabilisce come debbano essere ripartite le risorse, pur quando vi sia un accordo tra debitore e creditori.
In tale contesto si può proporre una suddivisione di questo tenore: un primo plesso è costituito dalle procedure di concorso, mentre un secondo plesso è composto da una variegata serie di istituti, talora procedimentalizzati, nei quali le tutele vengono collettivizzate, si apre un concorso tra i creditori ma le regole di distribuzione non sono imposte. Non v’è dubbio che, rispetto al passato, i contorni siano meno nitidi e che i procedimenti regolatori della crisi siano divenuti più “liquidi”; tuttavia, non si può ancora rinunciare a tenere distinte le procedure concorsuali dagli altri percorsi volti a regolare la crisi.
Da questo punto di vista è indubitabile che il sistema “soffra” di una insufficiente organizzazione generale tra i singoli procedimenti ed istituti; i paradigmi della concorsualità si sono indeboliti e ciò è accaduto perché le stratificazioni normative degli ultimi tre lustri, culminate con il codice della crisi emendato anche (ma non solo) per effetto delle richieste di armonizzazione di fonte europea, sono state occasionate dal bisogno di trovare soluzioni concrete alle esigenze delle imprese di affrontare la sequenza di crisi susseguitesi a partire dal 2008: una sequenza rinvigorita dalla emergenza pandemica, dalle guerre, dall’innalzamento del tasso di inflazione. È così accaduto che alcune procedure tipicamente concorsuali si stiano progressivamente de-concorsualizzando (il concordato preventivo), mentre gli accordi di ristrutturazione, originariamente certamente collocabili nel palinsesto della autonomia negoziale, si stiano sempre più accostando alla nomenclatura delle procedure concorsuali, specie per la variante degli accordi ad efficacia estesa; così pure, vicino alle procedure concorsuali, può collocarsi il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione.
All’interno di quelle che appartengono al catalogo (imperfetto) delle procedure concorsuali potranno essere suggerite talune frammentazioni qualificatorie ulteriori (ad esempio i vari modelli di concordato preventivo) ma ciò che, davvero, rileva è che fra le procedure concorsuali ben possano trasferirsi principi comuni e regole in presenza di analogie, mentre non dovrebbe essere consentito il travaso di regole nella direzione di ciò che non è procedura concorsuale.
Come sopra enunciato, pur nel ricco quadro delle definizioni che aprono il codice della crisi (art. 2), manca la definizione di procedura concorsuale, ma alla lett. m-bis) si trova la definizione di strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza intesi come misure, accordi e procedure volti al risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività o passività o del capitale oppure volti alla liquidazione del patrimonio o delle attività.
Tra gli strumenti sono inclusi anche gli istituti che non sono procedure, come accade per il piano attestato di risanamento, mentre le procedure ricadono, sempre, nell’alveo degli strumenti.
Pertanto, vi saranno degli strumenti per i quali si applica il procedimento unitario (in quanto strumenti/procedure) ed altri per i quali il procedimento unitario (v., Cap. IX) è eccentrico (convenzioni di moratorie/piani attestati). Per quanto assai eterogenea la nozione di strumenti va riferita alle misure, accordi e procedure inclusi nel codice della crisi (mentre la liquidazione giudiziale e la liquidazione controllata sono estranee alla categoria). Fuori dal perimetro si colloca l’amministrazione straordinaria per la precisa volontà della Politica di lasciarsi campo libero nella sua gestione anche normativa.
9 . Autonomia del diritto della crisi e dell’insolvenza
Abbiamo sopra condiviso che esiste un diritto della crisi e dell’insolvenza ma ciò non assorbe il quesito se si tratti di un diritto dotato di piena autonomia o se non rivesta un ruolo ancillare del diritto commerciale, del diritto civile e del diritto processuale civile.
Per lungo tempo vi è stata la convinzione che il diritto fallimentare (ora diritto della crisi e dell’insolvenza delle imprese), non potesse considerarsi un diritto autonomo perché privo di principi generali suoi propri; un’opinione che ci pare non condivisibile perché esiste un sistema di regole – dirette a disciplinare la patologia dell’attività d’impresa o la patologia delle relazioni negoziali del debitore civile - che non ritroviamo nelle altre materie (se non al costo di molti sforzi interpretativi).
Infatti, se è ben vero che potrebbe essere rischioso parcellizzare oltre misura i comparti del diritto affrancandoli dalle sistemazioni classiche, vi sono non pochi indici che convergono nella direzione della sicura autonomia di questo diritto.
Pensiamo alla regola della concorsualità: è una regola del diritto civile (art. 2741 c.c.) e tuttavia il principio di effettiva concorsualità, statica e dinamica, si realizza solo nelle procedure di liquidazione. Solo nelle procedure collettive (nella accezione che subito vedremo) si applica la regola dell’esdebitazione (cioè la liberazione dai debiti rimasti insoddisfatti); solo nelle procedure che concernono le imprese assistiamo ad una gestione sostitutiva coattiva del patrimonio di un soggetto; solo in queste procedure l’attuazione della responsabilità patrimoniale viene a compiersi in armonia con altri valori egualmente protetti. Il fatto che lo si possa considerare una disciplina autonoma non significa certo che non vi siano strettissime relazioni col diritto civile, col diritto commerciale e col diritto processuale civile. Sono relazioni trasversali che ci consentono di precisare che il diritto della crisi e dell’insolvenza non pende verso il diritto commerciale o verso il diritto processuale, perché è il diritto con il quale si disciplinano, organizzandoli, i fenomeni che derivano dalla patologia della gestione di un’impresa commerciale o del patrimonio di un soggetto sovraindebitato.
Una connotazione davvero peculiare è costituita dal fatto che il diritto della crisi e dell’insolvenza è al contempo diritto sostanziale e diritto processuale. La vocazione del diritto processuale è l’essere uno strumento di attuazione del diritto sostanziale: ebbene qui le interferenze fra diritto e strumento di realizzazione sono così intense da dar vita ad un sistema in cui si fatica a separare il diritto dalla sua tutela.
10 . Liquidazione giudiziale, impresa, esecuzione
Nel successivo Capitolo vedremo che le origini del fallimento erano essenzialmente rivolte ad apprestare un insieme di regole dal sapore (più o meno marcatamente) afflittivo dirette ad espropriare i beni del debitore e così, attraverso la loro liquidazione, a distribuire il ricavato fra i creditori.
Questa visione tradizionale si è perpetuata con la legge fallimentare del 1942, pur addizionata da interventi demolitivi e correttivi del giudice delle leggi; un primo cambio di passo si è registrato con la Riforma del 2006 (D.Lgs. n. 5/2006) quando le tonalità afflittive (sul piano degli effetti personali dell’apertura del fallimento) sono state allentate, per poi giungere all’abbandono del termine fallimento con il codice della crisi.
Si tratta, però, di verificare se dal punto di vista patrimoniale le regole siano cambiate: non possiamo dimenticare che la visione del legislatore del 1942 fosse dichiaratamente quella di favorire l’espulsione dell’imprenditore insolvente dal mercato, imprenditore qualificato come un virus in grado - se non debellato – di diffondersi fra le imprese sane ma coinvolte nel dissesto. Questa visione traspariva da una pluralità di fattori concorrenti: (a) il soggetto passivo era l’imprenditore (non l’impresa); (b) il processo non conosceva un sistema di garanzie del debitore; (c) la revocatoria fallimentare era costruita per formare un cordone sanitario attorno all’imprenditore in modo da generare un allarme tale da indurre i partners commerciali a non fornire più risorse con il risultato di prosciugare l’impresa; (d) il termine ‹‹azienda›› era sconosciuto e il valore della conservazione del tutto negletto; (e) il sistema penale era fortemente dissuasivo nei confronti dei creditori (cfr., la cd. bancarotta preferenziale).
Questi ed altri elementi ci portano a concludere che per il legislatore del 1942 il “valore- impresa” fosse sconosciuto; il valore si risolveva nella sommatoria dei singoli beni – e sia chiaro, beni materiali (tangibili) – di cui l’imprenditore fosse titolare secondo una ben precisa logica proprietaria decisamente coerente con l’impronta del coevo codice civile.
La liquidazione giudiziale, ancora nel tessuto normativo del codice della crisi, è vista come mezzo (coattivo) di attuazione della responsabilità patrimoniale. In sostanza, quando il debitore non adempie alle proprie obbligazioni e riveste la qualità soggettiva di imprenditore commerciale, all’esecuzione individuale si sostituisce un’esecuzione collettiva universale, molto più invasiva, che assolve alla funzione primaria di soddisfare le ragioni dei creditori. È innegabile che i passaggi fondamentali dell’esecuzione espropriativa si ripetano nell’esecuzione concorsuale; i tratti comuni sono rappresentati dal fatto che in ambedue i casi, di fronte ad un debitore che non adempie, l’ordinamento stabilisce l’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria (e dei suoi ausiliari), che si realizza con (i) lo spossessamento, (ii) la vendita dei beni e (iii) la distribuzione delle risorse fra i creditori che hanno partecipato all’esecuzione.
Pertanto, neppure il più avanzato sostenitore della liquidazione giudiziale (e prima del fallimento) quale luogo di mera disciplina organizzativa della crisi d’impresa, può negare che quella procedura ha natura esecutiva perché: attua la responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.) → in funzione della soddisfazione dei creditori, → contro la volontà del debitore, → privato del potere di disporre del suo patrimonio → e nel contesto di un processo che l’ordinamento statuale appresta allo scopo, con l’impiego di mezzi e strutture dell’apparato giurisdizionale. Con la differenza che tutto il patrimonio è coinvolto e che tutti i creditori ne sono partecipi se lo vogliono.
Né, come da tempo si è osservato, la negazione della liquidazione giudiziale come processo (anche) esecutivo può essere desunta dal fatto che mancherebbe un titolo esecutivo; il titolo esecutivo per procedere alla espropriazione esiste ed è la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale. Il fatto che la sentenza possa essere pronunciata su istanza del debitore medesimo (art. 37 CCII) non deve apparire un paradosso sol perché il debitore, di solito, non può autoimporsi un pignoramento. Infatti, il debitore quando chiede la liquidazione giudiziale della sua impresa non fa che domandare proprio ciò che vuole il creditore, ovverosia che l’esecuzione sia guidata dalle regole della concorsualità (e non da quelle del diritto civile). L’eliminazione dell’iniziativa d’ufficio (presente nella legge fallimentare del 1942) restituisce piena coerenza a questa tesi anche se come si vedrà a proposito del procedimento unitario, alla domanda non corrisponde, davvero, un diritto o un potere.
La liquidazione giudiziale rappresenta il mezzo per realizzare contro la volontà del debitore la responsabilità patrimoniale declamata nell’art. 2740 c.c., da attuarsi secondo le regole della concorsualità invocabile le quante volte sul medesimo patrimonio concorrano almeno due pretese creditorie (art. 2741 c.c.).
11 . L’idea della concorsualità
Di concorsualità si può discutere quando più creditori aspirano a soddisfarsi su un unico patrimonio; ciò spiega perché, in questa lata accezione, l’esecuzione individuale si possa orientare con le regole della concorsualità e, per converso, come l’esecuzione collettiva della liquidazione giudiziale possa essere al servizio di un solo creditore, nel qual caso si potrà parlare di concorsualità solo potenziale.
La disposizione che lega la responsabilità patrimoniale all’esecuzione è quella dell’art. 2910 c.c., là dove si stabilisce che il creditore per conseguire quanto gli è dovuto può far espropriare i beni del debitore.
La lettura segnatamente processualistica (come archetipo del processo esecutivo) dell’allora fallimento emergeva emblematicamente dall’art. 105 L. fall., là dove si dichiaravano applicabili le disposizioni del codice di procedura civile in tema di vendita forzata.
Molte cose sono però cambiate dal 1942 ad oggi e il codice della crisi non poteva non prenderne atto, dapprima attraverso una prudente, spesso saggia e illuminata lettura adeguatrice della giurisprudenza (costituzionale e ordinaria) e di poi mediante la riscrittura delle regole.
Tuttavia, sarebbe incoerente per valorizzare il profilo regolativo della crisi dimenticare alcune caratteristiche strutturali che ci portano, oggi come ieri, a riconoscere nella liquidazione giudiziale una procedura esecutiva. Una procedura esecutiva di tenore più efficace le quante volte tutti gli strumenti che derivano dalla liquidazione giudiziale vengano in concreto attivati.
La concentrazione esecutiva (quella che spesso viene definita in termini di universalità) è forse il valore più pregnante. Parliamo di concentrazione per dire che: (i) la liquidazione giudiziale apre un’espropriazione generale sui beni del debitore assorbendo le iniziative dei singoli (art. 150 CCII); (ii) gli effetti sostanziali del pignoramento si realizzano con la sentenza dichiarativa (e col vantaggio per il creditore di non doversi, per forza, munire di un titolo esecutivo), sì che un unico atto pone tutti i vincoli di indisponibilità; (iii) il patrimonio aggredibile è potenzialmente più esteso di quello assoggettabile ad esecuzione singolare per effetto dell’applicazione delle regole della concorsualità dinamica; (iv) la concorsualità si estende ai rapporti giuridici, ai diritti, alle aspettative ossia a tutte le posizioni giuridiche soggettive (attive e passive) riconducibili al debitore.
Questa concorsualità è sufficiente che sia affermata come normalmente ricorrente, perché non è essenziale alla permanenza della procedura. Il creditore può volere l’applicazione delle regole concorsuali anche se sa bene di essere l’unico creditore rimasto e lo strumento della liquidazione giudiziale non può essergli negato.
12 . Concorsualità, par condico creditorum, classi
Si tratta, ora, di cercare di spiegare come la concorsualità debba confrontarsi con la par condicio creditorum; le due espressioni sono spesso associate ma non esprimono il medesimo concetto.
La par condicio creditorum sembra derivare dall’art. 2741 c.c., là dove si stabilisce che i creditori hanno un eguale diritto sui beni del debitore, salve le cause di prelazione. Così intesa, la par condicio sarebbe una regola tendenziale, posto che l’esistenza di cause di prelazione la emargina. Da tempo si assume che questo principio sia ormai un retaggio ottocentesco per effetto del depotenziamento pubblicistico dell’istituto; infatti se la par condicio creditorum era comunemente considerata trasversale a tutte le procedure concorsuali liquidatorie ed anche ai concordati, oggi dobbiamo chiederci quante “porzioni” di quel principio si ritrovino nei concordati, per i quali è ormai possibile la frantumazione delle posizioni giuridiche nei molti rivoli delle diverse posizioni economiche, attraverso l’istituto della classi. Né va trascurato che già nelle procedure liquidatorie il principio è da tempo recessivo se non altro per tre fattori:
i. il più antico è costituito da un aumento smodato delle cause di prelazione e della prededuzione;
ii. i più recenti sono rappresentati dal notevole ridimensionamento dell’azione revocatoria concorsuale e da
iii. una sempre più crescente compartimentazione normativa del patrimonio responsabile.
Un colpo decisivo alla par condicio è stato assestato dal legislatore quando ha ritenuto di impiantare anche nel nostro ordinamento l’istituto delle classi dei creditori, prima nel concordato dell’amministrazione straordinaria e poi nei concordati (di liquidazione e preventivo).
Le classi sono i sottoinsiemi di gruppi di creditori omogenei e se la legge consente trattamenti differenziati tra le classi (ciò accade in particolare nei concordati liquidatori) si disvela il conflitto con l’art. 2741 c.c., disposizione che affonda la sua legittimazione – per non trascurabili settori della letteratura – in un principio di parità di trattamento che trova un possibile ascendente normativo nella carta costituzionale (e cioè nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.), o se si vuole in un ancor più risalente principio di “diritto naturale”.
Ci si trova dunque al cospetto di un problema molto delicato. La par condicio è stata una pietra angolare della concorsualità, ma ora battono in breccia le nuove regole delle soluzioni negoziate che stabiliscono condizioni più flessibili, ma anche più difficili da armonizzare col sistema.
Occorre svolgere una breve digressione per la necessità di distinguere la par condicio dalla concorsualità; ciò per giustificare il fatto che un conto è valutare la recessività dell’istituto della par condicio, ben altro conto è confermare la concorsualità della liquidazione giudiziale e dei concordati. La prima attiene al metodo con cui, nella concorsualità, si può attuare una regola di trattamento fra i creditori concorrenti che ambiscono ad usufruire della medesima garanzia patrimoniale; il criterio della parità di trattamento è alternativo al criterio della preferenza temporale, ma di per sé è solo un criterio, non il criterio per regolare i rapporti fra creditori. La seconda (la concorsualità) è un modo per stabilire se la garanzia patrimoniale debba corrispondere alle pretese del singolo creditore, ovvero se vi debba essere un sistema per disciplinare le più pretese, una volta considerato che la concorsualità è una logica implicazione del principio (allocato nella norma sovrastante dell’art. 2740 c.c.) dell’universalità della responsabilità patrimoniale.
Nelle procedure liquidatorie “pure” il principio della parità di trattamento, al netto delle cause di prelazione, è regola ancora attuale, pur se non assume un ruolo così centrale, vista la coeva recessività delle azioni revocatorie concorsuali che esaltavano la concorsualità dinamica.
Nelle procedure concordate, ove pure si attua la responsabilità patrimoniale, l’inserimento nel sistema del nuovo fenomeno delle classi di creditori, quale strumento di flessibilità delle proposte di concordato, esalta le regole della negozialità al punto da divellere il principio della parità di trattamento che, pur spesso praticata, non è più indispensabile.
Come vedremo nel Cap. XI, la possibile emarginazione del principio di maggioranza nella espressione del consenso dei creditori ad una proposta concordataria (artt. 109 e 112 CCII) e la previsione di una distribuzione sempre più asimmetrica delle risorse inducono ad interrogarsi se nel concordato preventivo non si assista ad un ribaltamento dei valori con l’effetto che la diseguaglianza nel trattamento offerto ai creditori sembra, quasi, divenire il grimaldello per esaltare e perseguire il valore della continuità imprenditoriale.
13 . I principi giustificativi delle classi
La possibilità di suddividere i creditori in classi assume un rilievo sistematico che induce ad affrontare l’argomento sin dalle considerazioni generali.
La previsione per cui la proposta [di concordato] può contenere una suddivisione del ceto creditorio per classi è ampiamente derogatoria del principio di cui all’art. 2741 c.c., se si intende questa disposizione organizzata secondo la tecnica della regola/eccezione, fra primo e secondo comma.
Nei concordati la par condicio era anche una finzione funzionale a creare una omogeneità di interessi fra tutti i creditori, per giustificare l’applicazione del principio di maggioranza.
L’enunciazione della par condicio come un dogma anche nel concordato non è più attuale; infatti, le norme sulla formazione delle classi, là dove, in particolare, stabiliscono che ai creditori possono essere offerti trattamenti differenziati pur a parità di situazione giuridica, si pongono come regole derogatorie della disciplina generale in tema di obbligazioni e responsabilità.
La classe non può essere considerata una forma spuria di causa di prelazione, non tanto perché derivante dalla convenzione fra le parti, quanto piuttosto per il fatto che le prelazioni hanno ad oggetto beni e diritti che appartengono al debitore e sui quali queste prelazioni insistono; viceversa, nelle classi non v’è una relazione fra vantaggio e patrimonio, bensì il vantaggio deriva da una possibile distribuzione asimmetrica delle risorse, frutto di una proposta del debitore, condivisa dai creditori.
Dal momento che le classi sono istituto tipico ed esclusivo delle soluzioni concordate della crisi dell’impresa, è ragionevole pensare che si giustifichino in virtù dell’obiettivo della tutela di un pubblico interesse insito nella finalità di risanamento dell’impresa, ma anche dell’obiettivo di prevenire le procedure liquidatorie che si considerano dispersive dei valori economici dell’impresa, favorendo e sostituendole in concreta alternativa con una regolamentazione privatistica e dunque con l’approvazione di proposte concordatarie. Se tali esigenze sono giustificate sono ammissibili le deroghe poste dal legislatore ordinario alla parità di trattamento.
La possibilità di proporre un trattamento migliore per i creditori appartenenti ad alcune classi, in verità, deriva direttamente dall’accordo negoziale; mentre i privilegi trovano fondamento nella inerenza economica di alcuni crediti alla cosa gravata o nel vantaggio che si è procurato il debitore col conseguimento di una certa prestazione, vantaggio che però ridonda anche a favore di terzi, i vantaggi che derivano dalle classi attengono direttamente al beneficio collettivo che si può conseguire con l’accordo per la sistemazione dell’insolvenza.
La distribuzione dei creditori per classi, se da un lato è ragione di armonizzazione delle posizioni al fine di rendere omogeneo il consenso, dall’altro lato è servente rispetto al valore del funzionamento dell’accordo. La classe è un mezzo per perseguire il fine dell’accordo; si tratta, dunque, di un istituto che non può in alcun modo essere comparato al sistema dei privilegi e per capirne appieno il significato dobbiamo, dunque, sgomberare il campo dai retaggi ideologici connessi alle singole posizioni di credito per confluire verso una visione collettiva del soddisfacimento dei creditori. Tanto i privilegi esprimono la loro forza rispetto alla tutela del singolo creditore (pur, ovviamente, nel concorso di altri, perché il privilegio non esiste se manca il concorso – o se concorso c’è ma i beni del debitore sono sufficienti a soddisfare tutti –, ed è ciò che viene qualificato come principio di relatività delle cause di prelazione), quanto le classi vanno rapportate alla tutela dei diritti di credito dell’intero ceto creditorio.
È un drastico mutamento di prospettiva, se si trascorre da un sistema concorsuale votato a soddisfare i diritti di credito incisi dal dissesto, ad un sistema concorsuale diretto a regolare i diritti dei creditori; mutamento di prospettiva che si ritrova, in misura speculare, nel nuovo impatto delle azioni revocatorie, viste nell’ottica delle ragioni dell’economia. Classi e pagamenti preferenziali quasi imposti per legge sono un periscopio della deriva anti-paritaria e, al contempo, un valore fondante una nuova concorsualità edificata attorno al valore dell’interesse economico. Le asimmetrie non esprimono una diseguaglianza valoriale negativa, ma sono accettate e forse incentivate quando consentono non più un trattamento migliore per tutti (“non tutti sono uguali, ma tutti stanno meglio”) come era stabilito nella legge fallimentare ma che nessuno riceva un pregiudizio e tutti ricevano una utilità. La tutela del diritto di credito sembra esprimersi nella clausola del “realizzo minimo”. Solo così si possono spiegare quelle norme che esprimono una vera torsione della concorsualità egualitaria.
È una visione di compromesso tollerabile perché ci si muove nell’orizzonte della crisi, là dove le risorse sono limitate e l’aspirazione alla vera uguaglianza – certo da non accantonare - è forse (per il momento) irraggiungibile. Resta, però, il fatto che nel concordato preventivo, come vedremo (Cap. XI) le diseguaglianze possono risultare eccessive.
14 . Lo scopo delle procedure di insolvenza
In passato ci si interrogava su quale dovesse essere lo scopo del fallimento; spesso lo si identificava con l’attuazione della responsabilità patrimoniale in un clima di parità di trattamento. In sostanza il binomio costituito dagli artt. 2740 e 2741 c.c. esauriva la funzione del fallimento.
Alla luce della legislazione vigente v’è da ritenere che quella lettura sia divenuta complessivamente inattuale.
Come vedremo a proposito di ciò che è oggetto del processo di apertura della liquidazione giudiziale, il creditore che propone la relativa domanda vuole che il difetto di cooperazione espresso con l’inadempimento del debitore si ripristini non già attraverso le regole del diritto privato ma attraverso le regole della concorsualità; il creditore vuole che quel difetto di cooperazione si colmi con l’applicazione di altre regole che presuppongono altri valori: l’universalità dell’espropriazione e l’applicazione di regole di diritto sostanziale speciali, regole dettate dall’ordinamento per organizzare la concorrenza fra creditori. Il creditore aspira alla soddisfazione del suo diritto di credito ma accetta anche di rimanere insoddisfatto, purché trovino applicazione le norme sul concorso, cioè uno statuto diverso da quello suggerito dal solo diritto privato.
Quando, invece, spostiamo l’attenzione sullo scopo della liquidazione giudiziale, allora l’interesse del creditore deve coordinarsi con altri interessi meritevoli di tutela: (i) la conservazione del valore-impresa; 
(ii) le posizioni giuridiche di soggetti coinvolti non creditori (si pensi ai contraenti di negozi pendenti, come pure ai lavoratori dipendenti, a coloro che vantano diritti su beni riconducibili apparentemente all’impresa debitrice);
(iii) la presenza immanente di interessi superindividuali come quello al regolare funzionamento del mercato.
In tale cornice lo scopo della liquidazione giudiziale è quello di tutelare i diritti dei creditori, filtrati dai diritti di terzi, in combinazione col bisogno di restituire regolarità al mercato anche mediante la ri-circolarizzazione di un’impresa o dei valori residui imprenditoriali; la tutela e l’armonizzazione di questi diritti avviene applicando le regole della concorsualità, qui intese come regole volte a disciplinare la concorrenza e i conflitti fra più creditori su un unico patrimonio. Questo scopo viene realizzato attraverso un processo (la procedura di liquidazione giudiziale) che si snoda in più sub-procedimenti.
L’organizzazione del procedimento non è al servizio dell’esigenza di regolare l’insolvenza dell’impresa se i creditori non ne sono (o non ne sono più) interessati; di fronte ad una situazione di patologia dell’attività d’impresa, l’autorità giurisdizionale non può intervenire senza che sia manifesto un interesse dei creditori, come è plasticamente dimostrato dal fatto che la liquidazione giudiziale si chiude quando nessun creditore presenta la domanda di ammissione al passivo (art. 233 CCII).
Lo scopo delle procedure (o istituti) di composizione concordata della crisi d’impresa coincide parzialmente con lo scopo della liquidazione giudiziale per la porzione della tutela dei creditori, ma se ne distacca nel resto perché il fine della conservazione dell’impresa, pur non esclusivo (potendo queste negoziazioni dirigersi verso la liquidazione disgregativa dell’impresa), viene maggiormente valorizzato a scapito dell’applicazione delle regole della concorsualità, regole che trovano importanti deroghe nel concordato preventivo (la formazione delle classi) e un sostanziale annientamento negli altri strumenti negoziali.
Esiste, però, un obiettivo che possiamo considerare comune: tutti i procedimenti e tutti gli strumenti, al fondo, perseguono un risultato di mercato. Potrà essere quello della conservazione del valore-impresa, quello della gestione dei crediti deteriorati, quello della reimmissione nel circuito delle relazioni economiche del debitore, ma sempre si tratta di un effetto sul mercato.
15 . Natura pubblica o privata delle procedure concorsuali
Un altro dialogo sempre attuale è quello che ha per oggetto la natura privatistica o pubblicistica delle procedure concorsuali. Alle molte argomentazioni che si possono svolgere non può far ombra il rilievo per il quale l’iniziativa del pubblico ministero per l’apertura della liquidazione giudiziale (art. 38 CCII), nonché il suo parziale coinvolgimento nel concordato preventivo, quand’anche non pervasivi, testimoniano, piaccia o no, che il legislatore considera tuttora il fenomeno dell’insolvenza come un accadimento che non può essere confinato nel rapporto binario creditore-debitore, posto che sono incisi interessi superindividuali.
Anche in questo contesto parlare diffusamente di “privatizzazione” della gestione della crisi sol perché l’ordinamento mette a disposizione delle parti alcuni istituti destinati a regolare la crisi fuori da un percorso giudiziario (la composizione negoziata e il piano attestato di risanamento) non sembra condivisibile. Lo Stato impiega non poche risorse per disciplinare la regolazione della crisi; il diritto della crisi e dell’insolvenza resta, pur tra molte contraddizioni, un comparto dell’ordinamento in cui non ci si limita a mettere a disposizione delle parti gli strumenti (le regole processuali) per risolvere i loro conflitti, ma si interviene talora per regolarli in via eteronoma con la presenza del pubblico ministero e, sebbene da posizioni più sfumate, del giudice e dell’autorità amministrativa.
Sennonché, non sempre il baricentro è orientato sulla attribuita prevalenza degli interessi superindividuali. Infatti, come accade anche altrove, si è presa consapevolezza che una gestione burocratica della crisi e dell’insolvenza può rivelarsi inefficiente, ed allora come in tante situazioni – in presenza di una lite - si cerca di incentivare soluzioni alternative a quella giudiziale, allo stesso modo si offrono ai protagonisti della scena della crisi e al debitore in particolare strumenti diversi per comporla. Parliamo della composizione negoziata e degli accordi in generale e dei concordati in particolare come modelli di regolazione convenzionale della crisi. Quando ciò accade si offre più spazio all’autonomia negoziale, tramite una sorta di contrattualizzazione oggi legittima, una volta superata la barriera ideologica dell’indisponibilità dell’insolvenza. In questi casi, talora le regole del contratto sono autosufficienti per regolare la crisi ma il principio della relatività degli effetti del contratto incontra, comunque, una deroga là dove a seguito del contratto si producono effetti anche verso i terzi, effetti che potrebbero risultare indirettamente pregiudizievoli; altre volte, invece, al contratto tra le parti si giustappone un controllo del giudice tendenzialmente rivolto a dare efficacia all’accordo anche rispetto ai terzi, forzando la loro volontà.
16 . Diritto ed economia
I rapporti, le relazioni e le interferenze fra economia e diritto sono sempre più intensi al punto che è consueto analizzare i fenomeni giuridici con gli strumenti dell’analisi economica, così come si cerca anche di valutare l’economia con strumenti a disposizione del giurista.
Molta parte della letteratura si va sempre più orientando nella direzione che vede il diritto come una disciplina servente rispetto all’economia; una disciplina che serve per regolare fenomeni economici in atto. È come se si assistesse ad un continuo inseguimento fra diritto ed economia ed è evidente come il dinamismo innato dell’economia rispetto alla naturale staticità del diritto non possa che fungere da traino per le innovazioni giuridiche.
È, poi, noto che i sistemi giuridici e l’organizzazione giudiziaria sono diventati parametri importanti per valutare la competitività di un Paese, specie dal punto di vista della capacità di attrarre investitori; così il diritto viene misurato con gli strumenti dell’economia ed è ovvio che certi profili che attengono a difetti di semplificazione possano risultare decisivi per una valutazione globale dell’ordinamento.
Per molti versi pare ormai quasi ineluttabile l’idea per cui il diritto dell’impresa - anziché strutturarsi come una scacchiera composta da regole al cui interno si debbano muovere le pedine dell’economia – sia destinato a formarsi come reazione al dinamismo dei fenomeni economici, con il rischio che le modificazioni del diritto commerciale seguano più l’onda dell’emergenza che uno schema di sistema.
Molte leggi delle ultime stagioni tendono a rendere più efficienti gli strumenti di tutela del credito una volta avvertito quale sia il devastante impatto sull’economia dei cc.dd. non performing loans; l’efficienza della legge è stata più volte piegata a questo, non si misura più con la lente d’ingrandimento del giurista ma con le tabelle dell’econometrista.
Le intersezioni diritto → economia rimandano all’etica degli affari e, nell’ambiente della crisi, non possiamo non pensare alla tutela penale. Così, al cospetto di una ampia, pur se non integrale, riforma della legge fallimentare, è rimasto, al momento, formalmente inalterato l’intero impianto dei reati fallimentari (anche se esiste un progetto di riforma).
Attorno al dissesto di un’impresa si muovono molti interessi, diversi dei quali sono pregiudicati dalla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale. Il cammino delle riforme ha portato ad una svalutazione dell’aspetto sanzionatorio del fallimento. Tuttavia, ancor oggi, nella coscienza sociale il fallimento (il termine “antico” è usato consapevolmente) è vissuto come un fatto spregevole che merita una sanzione penale, tant’è vero che nei progetti di riforma si discute di attenuazione dell’impatto penale ma mai si è pensato alla depenalizzazione della bancarotta.
Nel diritto della crisi e dell’insolvenza, l’interesse del mercato, pur nella più ampia accezione possibile, non può mai coincidere con quello dei soli creditori e dei creditori più “forti” (nella misura in cui si possa ritagliare uno spazio per questa categoria). Ci sono altri soggetti, non creditori – ma portatori di interessi di analogo spessore - che non vanno obliterati e la loro presenza deve suonare come un campanello di allarme ogniqualvolta certe soluzioni proposte risultino schiacciate sulle sole esigenze di creditori e debitore. In tal senso quando si pensa al potenziamento dell’autonomia privata, intesa come autoregolamentazione dei rapporti impresa vs. creditori, si avverte il pericolo che uno sproporzionato investimento sulle scelte dei privati possa condurre a soluzioni peggiori per eccesso di individualismo in un ambiente nel quale, invece, la pluralità delle componenti e degli interessi non è mai assente, quasi che ad una smisurata autonomia possa corrispondere, in negativo, una sorta di anomia sociale.
La materia della disciplina delle procedure concorsuali non sfugge, come accennato, a questo dilagante mito della prevalenza dell’economia sul diritto, prevalenza che solo talora si attenua per il fatto che quando certe iniziative economiche non sono gestibili con le regole della competizione, il diritto rientra in gioco (magari prepotentemente, ma sempre fuggevolmente) col ricorso alla autorità giudiziaria.
Questo modo di legiferare è fonte di vizi strutturali perché le normative si ammassano le une sulle altre e non si è più in grado di offrire ricomposizioni unitarie di un sistema ormai largamente destrutturato. Accade così che l’interprete si trovi, anche non volendolo, a esaminare un nuovo istituto più col microscopio che con la lente d’ingrandimento. Si tende a cercare nella norma la disciplina di diritto positivo di una fattispecie concreta possibile e si fatica a trovare il senso più profondo di una nuova disciplina.
La frantumazione del sistema normativo rende quasi inevitabile un approccio analitico e ci conduce al distacco dai principi, dalle rationes degli istituti. Questa naturale tendenza deve essere contrastata. Nello sviluppo del Volume si cercherà, proprio, di andare alla ricerca dei principi anche al costo, talora, di forzare le regole e ciò nella prospettiva di consentire il funzionamento del sistema.
17 . Tutela dei diritti
Come già enunciato, le procedure concorsuali realizzano in concreto la garanzia patrimoniale.
In tale cornice assume un particolare rilievo il modo attraverso il quale tale garanzia viene realizzata perché ciò impatta sulle posizioni giuridiche soggettive e sui relativi diritti del debitore, dei creditori e dei terzi. Diviene, allora, centrale l’analisi del tema della tutela dei diritti a vario titolo incisi o soltanto coinvolti nelle procedure concorsuali.
La comprensione del fenomeno della tutela dei diritti nelle procedure concorsuali presuppone la pre-cognizione del sistema di tutela dei diritti nel nostro ordinamento e ciò in funzione di verificare quanto dei principi generali possa essere espiantato nel sistema delle procedure concorsuali.
Orbene, nel guardare al fenomeno nella sua generalità, è facile avvedersi che è il Libro VI del codice civile che è dedicato alla tutela dei diritti. La tutela dei diritti, affermati nei Libri I-V (e naturalmente in tutte le leggi che disciplinano diritti), è affidata a una serie di istituti che attengono, per comune sentire, al diritto sostanziale: la trascrizione o l’ipoteca sono strumenti volti a conservare a chi vanti un diritto una certa tutela e tuttavia la parte che se ne avvale fa ricorso ad atti di propria iniziativa, senza scomodare l’autorità giudiziaria. Nell’ambito della garanzia patrimoniale è evidente che un peso importante è assunto dall’ipoteca e dal pegno.
In parte diverso è il discorso che pertiene alle prove: sono strumenti di tutela del diritto e per quanto possano formarsi fuori dal processo hanno un’evidente vocazione strumentale.
Se in relazione a un certo diritto non sorge una lite, la prova che sia stata raccolta sull’esistenza di quel diritto non assumerà mai rilievo, come prova, potendo valere ad altri fini (è questo il caso dell’atto scritto ad substantiam).
Il legislatore del 1942, diversamente dal suo predecessore, ha inteso completare la disciplina della tutela dei diritti inserendo anche una serie di disposizioni che costituiscono quello che è stato definito il ponte fra diritto sostanziale e processo (secondo la Relazione al Re al codice civile, n. 1184). Alcune di queste disposizioni (artt. 2911-2933 c.c.) pur se relative al processo esecutivo (e replicate in quello concorsuale) presentano una chiara matrice di diritto sostanziale.
Altre disposizioni, invece, anche se connotate da significativi rilievi sul piano del diritto sostanziale, assumono una vocazione processuale in quanto stabiliscono cosa può accadere quando attorno a un diritto sorge una lite. Chi assume di essere titolare di un certo diritto e ne lamenta una lesione all’esercizio o al godimento può reagire domandandone tutela secondo le norme di cui agli artt. 2907-2910 c.c.
L’inserzione nel codice civile di alcuni principi fondamentali del processo si spiega sia perché si voleva congiungere il diritto soggettivo con la sua tutela nel caso di una crisi di cooperazione tra le parti, sia perché, in verità, le disposizioni di cui agli artt. 2908 e 2909 c.c. sono orchestrate in modo tale da offrire una disciplina di raccordo degli effetti della decisione del giudice con la conseguenza che, al fondo, sono norme anche di diritto sostanziale: se da un lato stabiliscono cosa può fare il giudice, dall’altro regolano anche gli effetti dell’intervento del giudice sui rapporti sostanziali.
La norma di apertura del Titolo IV (art. 2907 c.c.) è, invece, differente. La regola affermata «alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria» è molto netta.
Orbene, esistono strumenti di tutela di un diritto che possono formarsi spontaneamente per volontà delle parti, come accade per l’ipoteca. Ma vi sono anche strumenti di tutela di un diritto che si possono realizzare quando il diritto è già sorto e si è già manifestata una crisi di cooperazione: pensiamo all’esercizio del diritto di ritenzione o alle forme di autotutela negoziale previste in materia contrattuale negli artt. 1460 e 1461.
Sennonché, al di fuori di queste ipotesi tipiche, previste in funzione di rafforzare la posizione di una parte, quando ci trova di fronte alla crisi di cooperazione, alla molestia o alla lesione di un diritto, per stabilire se il diritto esista e sia stato molestato o violato occorre rivolgersi al giudice. Soltanto un giudice può decidere sul diritto, tanto è vero che l’ordinamento ripudia forme di autotutela che siano invasive della posizione altrui.
Se è stato stipulato un contratto di mutuo e il mutuatario non adempie all’obbligazione di restituzione della somma, il mutuante non può recarsi nei luoghi del debitore e sottrarre il denaro (che pure gli spetti) ma deve rivolgersi al giudice.
Dalla legge sgorgano i diritti soggettivi; la loro attuazione, però, non è affidata solo alla legge ma è necessario l’intervento del giudice. A questo punto occorre essere più precisi e affermare che, quando si discute di diritti soggettivi e status, per «giudice» deve intendersi l’autorità giudiziaria.
In sostanza la prima parte dell’art. 2907 c.c. introduce una riserva di giurisdizione (il principio di statualità della giurisdizione a dimostrazione del fatto che il diritto processuale civile, pur se riferito a rapporti privati, è catalogato come una disciplina pubblicistica) nel senso che solo organi che esercitano attività giurisdizionali possono decidere le controversie che riguardano un diritto soggettivo, pur con qualche precisazione dovuta ad esempio alla giustizia arbitrale (art. 824-bis c.p.c.).
Dall’ampiezza della formula stilizzata nell’art. 2907 c.c., si desume che il nostro sistema non prevede più modelli di azioni tipiche come nel diritto romano, ma un solo modello di azione – un’azione neutra – che sarà poi declinato diversamente in relazione al tipo di diritto soggettivo o di situazione sostanziale. Quando si parla di un solo modello di azione si vuole avere riguardo alle c.d. «azioni dichiarative» e cioè a quelle azioni con le quali una parte si rivolge al giudice perché questi accerti se il diritto soggettivo (o la situazione sostanziale o lo status) esiste o non esiste. Le azioni dichiarative si esprimono sempre con un accertamento, al quale possono seguire ulteriori pronunce quando il solo effetto dichiarativo non offra la tutela richiesta. Si discute, quindi, di azioni di accertamento, di condanna e costitutive. Ma in ogni caso ci si pone sempre nella cornice della tutela dichiarativa e dell’azione di cognizione, il che peraltro non esclude che vi sono altre forme di tutela giurisdizionale, come la tutela cautelare (quando occorre dare alla parte una tutela provvisoria ma immediata per evitare il danno da infruttuosità o da ritardo), la tutela esecutiva (quando occorre dare alla parte la possibilità di ottenere coattivamente e cioè contro la volontà dell’obbligato il bene della vita cui ha diritto), e la tutela sommaria (quando con forme procedimentali diverse che possono articolarsi secondo modelli molto differenziati, si offre alla parte la possibilità di ottenere una tutela rapida, ontologicamente provvisoria, ma anche passibile di stabilità).
In linea di massima il giudice si occupa di diritti soggettivi e quindi investiga sui fatti sol perché dall’accertamento di un fatto potrà dipendere la nascita di un diritto. Talora, ma solo nei casi previsti per legge, il giudice conosce direttamente ed esclusivamente il fatto, senza che ad esso siano ricollegati diritti (si pensi al giudizio per querela di falso che ha per oggetto la falsità di un documento in funzione di escluderlo quale mezzo di prova).
In ogni caso, però, la tutela giurisdizionale non è data (e cioè a essa non si può far ricorso) quando non vi sia in chi la richiede uno specifico interesse. Infatti, per agire in giudizio occorre avervi interesse (art. 100 c.p.c.). Quando una parte che adisce il giudice chiede oltre all’accertamento sul diritto ulteriori provvedimenti (si pensi alle azioni di condanna e costitutive) è evidente in che cosa si sostanzi l’interesse ad agire: invece, quando l’azione è di accertamento mero è necessario che la parte dimostri di avere un interesse alla pronuncia del giudice e questo interesse presuppone che attorno a quel diritto sia sorta contestazione sulla sua titolarità.
L’incipit dell’art. 2907 c.c. può allora essere racchiuso nel broccardo ubi jus ibi remedium per significare che le quante volte si assuma esistere un diritto vi deve essere anche la possibilità di chiedere e ottenerne tutela.
In questa prospettiva la pur succinta formula che compare in tale disposizione sottintende altri principi fondamentali del nostro sistema processuale. Il presidio della tutela giurisdizionale non è offerto per dare una risposta purchessia, ma è mirato ad attribuire alla parte che si rivolge al giudice una decisione di merito, ovverosia una decisione con la quale si prende posizione sull’esistenza o inesistenza del diritto vantato; questa decisione deve poi avere uno spettro tale da offrire alla parte, qualora abbia ragione, tutto e proprio tutto ciò che le spetta.
Nelle normali relazioni fra due o più parti, sia che ci si trovi in una situazione di fisiologico sviluppo del rapporto, sia che invece ci si trovi in un contesto patologico di crisi di cooperazione, ciascuna parte sa di poter disporre di svariati rimedi sostanziali e processuali: taluni esprimono forme di autotutela, talché il soggetto che assume di essere titolare di un certo diritto soggettivo (o status) può perseguire un certo risultato senza bisogno di un intervento autoritativo esterno, ma nella maggior parte dei casi quel soggetto per ricevere tutela dovrà rivolgersi all’autorità giudiziaria chiedendo protezione per evitare che il diritto sia leso o per ripristinare la già avvenuta lesione del diritto.
In tutte queste circostanze sono invocabili i rimedi del diritto civile e del diritto processuale civile; il conflitto può essere sanato, composto o deciso prendendo in considerazione le sole posizioni giuridiche soggettive di cui sono titolari (o assumono di esserlo) le parti del conflitto. Può ben darsi che la risoluzione di quella lite possa produrre effetti riflessi sui terzi, ma questi terzi non sono coinvolti almeno sino a quando non vogliono esserlo.
Accade, però, che non sempre le relazioni conflittuali fra due o più parti possano trovare una regolamentazione senza che altri terzi ne siano, necessariamente, coinvolti. In tali evenienze gli strumenti del diritto civile e del diritto processuale civile si rivelano insufficienti ed occorre che altre regole disciplinari si giustappongano. Questo si verifica quando la tutela di un diritto intercetta altre posizioni giuridiche rilevanti, o perché sono coinvolti interessi superindividuali o perché, comunque, si ritiene che il diritto del singolo vada calibrato in relazione a diritti di altri singoli che meritano pari tutela.
Nell’ambito del diritto civile esistono, quindi, diversi fenomeni rispetto ai quali si forma una rete di rapporti e sorge la necessità di un coinvolgimento di più diritti. Si pensi ai diritti che sono sorti nel contesto di un rapporto obbligatorio formatosi fra un cittadino e una associazione riconosciuta (o una fondazione) e alla necessità che, nel caso di inadempimento dell’obbligazione dovuta dall’associazione e alla sua incapacità patrimoniale, segua un provvedimento dell’autorità amministrativa di liquidazione e poi di devoluzione delle risorse; si pensi al caso dell’eredità giacente.
Orbene, la presenza di interessi superindividuali è presunta dall’ordinamento quando un’attività economica viene esercitata in forma di impresa. Poiché la vocazione dell’impresa è quella di stare sul mercato, è naturale che attorno all’impresa si coagulino più soggetti e più rapporti giuridici, dimodoché quando sorge un conflitto è razionale che questo sia composto tenendo conto dei diritti e degli interessi anche di altri soggetti. Le regole del diritto civile e del diritto processuale civile possono rivelarsi non più sufficienti e diviene, quindi, necessario misurarsi con altre regole disciplinari.
Quando il debitore è un imprenditore commerciale a quella forma di tutela se ne aggiunge un’altra, in quanto entrano in campo i procedimenti di attuazione concorsuale della garanzia patrimoniale. Ed allora, la tutela dei diritti del singolo va calibrata in relazione alla tutela di altri diritti di cui sono portatori altri soggetti. Questo accade quando il soggetto-debitore è un’impresa che si trova in una condizione economica, patrimoniale o finanziaria di crisi o di insolvenza. Al cospetto della crisi di un’impresa, ai tipici rimedi di diritto comune, si sommano quelli propri del diritto dell’impresa e cioè del diritto commerciale che si sviluppano secondo metodiche procedimentali che, di solito, assumono contorni del tutto particolari in quanto il procedimento è naturalmente destinato ad accogliere le posizioni di terzi coinvolti.
Pertanto, la necessità di ponderare ed equilibrare più interessi omogenei o più interessi eterogenei rende indispensabile coordinare i molteplici diritti coinvolti. Questo coordinamento viene realizzato su due piani diversi.
Da una parte, sul piano sostanziale, il diritto di ciascuno si modifica in quanto quel singolo diritto va tutelato nel rispetto di alcune (diverse) regole che mirano a comporre i più interessi; basti pensare alla sospensione del corso degli interessi sui crediti chirografari (artt. 154 CCII).
Dall’altra parte, la tutela dei diritti nell’ambito di procedimenti concorsuali esige che il principio generale, sopra enunciato, della neutralità del mezzo di tutela sfumi, dal momento che il diritto non può essere affidato ad un modello di tutela generico ma deve essere fatto valere all’interno di procedimenti tipici che spesso deviano, e non poco, dal sistema del diritto processuale civile.
Questo è giustificato, proprio, dalla complessità degli interessi coinvolti che impone la predisposizione di procedimenti ad hoc, idonei a contenere, quanto meno nelle potenzialità che sono offerte alle parti ma spesso da queste non sfruttate, gli spazi per la tutela di posizioni differenziate e talora confliggenti.
In linea di massima nei procedimenti endo-concorsuali si ritrovano frammenti della tutela di accertamento e, più raramente, della tutela costitutiva, mentre appare decisamente marginale, se non del tutto evanescente, la tutela di condanna e ciò in quanto è coessenziale alla concorsualità della procedura che non si creino posizioni di privilegio processuale.
Questi principi nati nel sistema dell’impresa sono esportati, con non irrilevanti differenze, nell’ambito dei rapporti patologici che riguardano anche il c.d. “debitore civile”.
18 . Tutela del diritto di credito
Quando si discute di tutela dei diritti ed in particolare dei diritti di credito ci si chiede come la tutela possa realizzarsi in concreto, in modo che il creditore possa ricevere quanto gli spetta.
A questo interrogativo occorre fornire risposta dopo avere preliminarmente precisato che si può discutere in astratto se la stessa presenza della giurisdizione non possa rivelarsi uno strumento anti-competitivo in ottica economica.
Colui che vanta una pretesa di credito insoddisfatta e che aspira a vederla attuata, deve dotarsi di un titolo esecutivo per poter avviare il processo espropriativo; non sempre è necessario che il prius sia costituito da una decisione del giudice (vista la presenza dei titoli esecutivi stragiudiziali), ma ciò che è ineludibile è l’impossibilità di procedere ad una esecuzione coattiva del diritto senza che una pretesa sia stata in qualche modo, officiosamente o spontaneamente, riconosciuta. Nessuna esecuzione è ammessa senza un titolo (art. 474 c.p.c.).
Quando, invece, ci si situa all’interno dei procedimenti concorsuali, le cose cambiano perché prima si aggredisce il patrimonio del debitore e poi si discute su chi possa soddisfarsi su di esso. Una vera e propria inversione cronologica che, comunque, trova una spiegazione. In verità si forma un titolo esecutivo contro il debitore, rappresentato dalla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, ma questo titolo giustifica l’espropriazione in massa, poiché ciascun creditore che ambisce a partecipare alla espropriazione deve legittimarsi facendone richiesta.
È, proprio, in tale ottica che si è soliti associare alla liquidazione giudiziale l’idea che si tratti di un procedimento di attuazione della responsabilità patrimoniale. Con la liquidazione giudiziale e lungo la sequenza delle varie fasi, il creditore dovrebbe ottenere tutto e proprio tutto ciò che un debitore inadempiente non ha voluto corrispondergli.
19 . Possibili derive a-concorsuali
Sul piano delle riflessioni generali è doveroso far cenno al tema della tutela del credito a seconda del diverso procedimento concorsuale. È, infatti, innegabile che là dove si cerca di superare la crisi dell’impresa facendo affidamento sugli istituti di regolazione concordata, si pongano nuove questioni che attengono alla distribuzione sempre più asimmetrica delle risorse. Anzi, in ossequio alla Direttiva UE 2019/1023, nel nostro sistema è stato necessario importare strumenti che negano la presenza di regole di distribuzione e che si fondano sul mero consenso dei creditori.
La tendenza inarrestabile alla a-concorsualità del concordato preventivo ( fatta di plurime deviazioni dalle regole antiche sulla parità di trattamento) pone in primo piano la necessità di declinare in modo limpido i rapporti di forza fra creditori; impone un controllo da una posizione di terzietà sugli accordi fra debitore e creditori a protezione di quelli meno professionali; rende più che legittimo il bisogno di fissare il baricentro della concorsualità.
Come si era paventata la deriva amministrativa e autoritativo-statalista dell’amministrazione straordinaria (e di quella “speciale” in particolare) per la pretermissione del ruolo dei creditori, ora con riguardo alle nuove procedure si dovrebbe manifestare altrettanto allarme per il pericolo che la tutela del credito diventi un valore evanescente.
È necessario acquisire la consapevolezza che vi sono state scelte normative volte a valorizzare il mercato (o, forse, una certa idea di mercato) con l’effetto di relegare il diritto in un angolo angusto, ma allora bisogna auspicare l’affermarsi di una cultura dei valori della legalità che possa competere con le regole dinamiche dell’economia.
Così, quando si affronteranno nei loro risvolti disciplinari gli istituti che concorrono ad offrire tutela giurisdizionale, più che concentrarsi sul grado di tutela che i diversi procedimenti sembrano assicurare (certo assai più elevato che in passato), sarà ancor più centrale difendere i diritti e segnatamente il diritto di credito prima che ai nuovi contenitori (cioè i nuovi procedimenti) sia sottratto il contenuto.
Il baricentro fra tutela del mercato che reagisce alla crisi di un’impresa (latamente inteso e come tale comprensivo dell’opportunità di una salvaguardia dei valori imprenditoriali residui) e tutela di coloro che sono entrati in contatto con l’impresa, deve essere calibrato in modo che i procedimenti di attuazione della garanzia patrimoniale possano assicurare che nessuno dei creditori abbia a lamentarsi dalla apertura di una procedura concorsuale e non debba rimpiangere un sistema, purtroppo, clamorosamente inefficiente quale è stato quello degli ultimi trent’anni.
La tutela del diritto di credito dovrà essere, allora, sapientemente riletta alla luce dell’art. 24 Cost., una disposizione che, per vero, non può rappresentare l’unica stella polare di riferimento, posto che altrettanto rilievo viene offerto, soprattutto nelle operazioni concordatarie, al diritto di proprietà di cui all’art. 42 Cost.
20 . Etica, solidarietà, responsabilità sociale
Le procedure concorsuali, intese nel senso più lato possibile, sono state vissute quali “luoghi” nei quali ciascuno cerca di conseguire il massimo profitto, “ambienti” nei quali vi è spazio per speculazioni e per costruire ricchezze là dove, invece, la “povertà” creata da un dissesto reclamerebbe ben altri comportamenti. Chi ha maturato anni di esperienza si avvede che la cultura della legalità è spesso oscurata dagli affari, che manca un approccio etico alla gestione della crisi, che non vi sono pulsioni nella direzione di una visione solidaristica che faccia emergere valori più alti di quelli strettamente correlati ai rapporti debito/credito. Parimenti, non vi è stata sino ad ora alcuna attenzione al tema della responsabilità sociale dell’impresa in crisi, a quello della sicurezza del lavoro e dell’ambiente; sono argomenti molto delicati che, però, non ci si può più permettere di accantonare per una ragione molto semplice: come si avrà modo di vedere, è sempre più diffusa l’idea che la continuità dell’impresa che si trova in una situazione di crisi sia la soluzione più equilibrata per conservare valore. In tale contesto è ovvio che ci saranno sempre più imprese in situazione di crisi che proseguiranno la loro attività d’impresa ed allora questa prosecuzione di attività non potrà essere più, soltanto, finalizzata ad assicurare la massima “recovery” per i creditori; dovranno essere ponderati quei valori, non strettamente misurabili in termini economici, sui quali deve fondarsi uno Stato moderno che voglia – senza alcun ritorno allo statalismo – ambire ad una crescita sostenibile nelle situazioni di crisi che ruoti (anche) attorno ai valori dell’etica, della solidarietà e della responsabilità sociale.
Il codice della crisi, soprattutto nella sua versione più aggiornata, mostra di voler intraprendere un percorso ispirato anche a questi valori: nel piano di concordato preventivo si prevede una specifica attenzione ai temi della sicurezza sul lavoro e della tutela dell’ambiente (art. 87 CCII).
L’etica e la solidarietà compaiono nell’art. 4 CCII là dove vengono declinati i doveri del debitore e dei creditori a dimostrazione del fatto che una ottusa visione puramente patrimonialistica può dirsi (si spera) superata.

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