La rilevanza giuridica dell’istituto dell’accordo in esecuzione a piani attestati di risanamento è stata configurata dalla dottrina - già interpretando, la previdente disciplina contenuta nell’art. 67 della L. fall. – nel caso di insuccesso del piano e di incapacità ad ottenere la ripresa dell’impresa in stato di crisi e la sua deriva verso la conclamata decozione, con conseguente fallimento.
Si riteneva, infatti, che proprio occupandosi dalla esenzione da revocatoria, il legislatore avesse considerato l’istituto negoziale in commento unicamente per le conseguenze che in caso di fallimento ne sarebbero derivate [67].
L’art. 166, comma 3 lett. d), D.Lgs. n. 14/2019, riproduce con integrazioni e modifiche il precedente testo dell’art. 67, comma 3 lett. d) L. fall., e al cui commento si rinvia per una più ampio esame della fattispecie [68].
Alcuni cenni, tuttavia, anche per ragioni di sistematicità e completezza dell’esame dell’istituto, si svolgeranno nel presente commento all’art. 56 D.Lgs. n. 14/2019.
Anzitutto gli aspetti da analizzare riguardano il caso in cui il piano attestato non abbia successo e sfoci in una procedura di liquidazione giudiziale. In tal caso la disciplina è dettata dall’art. 166 D.Lgs. n. 14/2019.
La norma, infatti, prevede in tal caso un’espressa esenzione dalla revocatoria per gli atti, i pagamenti effettuati e le garanzie concesse su beni del debitore posti in essere in esecuzione del piano attestato di cui all'articolo 56 D.Lgs. n. 14/2019. Precisa, però, la norma – in ciò innovando il precedente testo dell’art. 67 L. fall. - che l’esclusione non opera in caso di dolo o colpa grave dell’attestatore o di dolo o colpa grave del debitore, quando il creditore ne era conoscenza al momento il compimento dell’atto, del pagamento o della costituzione della garanzia.
Occorre preliminarmente rilevare che tale ultima disposizione contiene un evidente errore.
Il legislatore erroneamente si riferisce al creditore, dimenticando che il rischio d’inefficacia degli atti di esecuzione di piani attestati di risanamento, oltre a poter coinvolgere il creditore che ottenga un pagamento o la costituzione di una garanzia in suo favore, coinvolgerà, allo stesso modo, soggetti che non sono creditori, e che abbiano ad esempio acquistato beni dell’impresa in crisi all’interno di un programma di dismissione previsto nel piano attestato.
La disposizione dovrà, quindi, in via interpretativa, essere estesa anche ai terzi, auspicandosi un intervento correttivo del legislatore al riguardo.
Nel merito, inoltre, si segnala che con l’integrazione alla pregressa disciplina il legislatore ha compiuto una precisa scelta.
Anche con riferimento alla previgente disciplina, la circostanza che i pagamenti, gli atti e le garanzie concesse su beni propri del debitore fossero posti in essere in esecuzione di un piano attestato di risanamento, non garantiva la totale intangibilità degli stessi ove lo strumento del piano attestato, fosse poi sfociato nel fallimento e tale istituto fosse stato utilizzato al solo scopo di danneggiare i creditori[69].
Il criterio di valutazione giudiziale per escludere l’esenzione da revocatoria, così come elaborato, almeno sino al 2016 dalla giurisprudenza, era volto a verificare se il piano attestato di risanamento, apparisse, con valutazione ex ante, assolutamente e manifestamente inidoneo al perseguimento dell’obiettivo di risanamento dei debiti e di recupero dell’equilibrio finanziario[70].
In tal caso l’atto contestato era revocabile.
Nel 2016, tuttavia, la Cassazione (con la sentenza 13.719 del 5 luglio 2016) ha ampliato fortemente i margini di contestabilità del piano attestato in caso di fallimento dell’imprenditore, elaborando il principio in forza del quale “Per ritenere esenti dalla domanda di revocatoria fallimentare proposta dalla curatela gli atti esecutivi di un piano attestato di risanamento a norma dell'art. 67, comma 3, lett. d), L. fall. (nel testo previgente al D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. Nella L. n. 134 del 2012), il giudice deve verificare, con giudizio "ex ante", la manifesta idoneità del piano medesimo, del quale gli atti impugnati costituiscono strumento attuativo, a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria della stessa”[71].
I primi commenti alla sentenza hanno rilevato che: “la “conseguenza obbligata” dell’interpretazione è che l’atto esecutivo di un piano attestato, non può dirsi con certezza esentato da revocatoria”[72].
Si trattava di uno stravolgimento dell’approccio giudiziale finalizzato a verificare l’applicabilità dell’esenzione da revocatoria riconosciuta dalla legge. Non più, dunque, l’accertamento dell’esistenza di macroscopici elementi di inidoneità, formale e sostanziale del piano, tali da rendere lo stesso assolutamente manifestamente inidoneo raggiungimento dello scopo prefissato. Come è stato rilevato in dottrina “occorre un quid pluris funzionale a verificare e dimostrare che il piano attestato era ab origine fondato su presupposti e prospettive veritieri e realizzabili da un punto di vista economico, finanziario, aziendale e giuridico”[73].
L’applicazione di tale principio avrebbe di fatto determinato la morte dell’istituto del risanamento mediante accordi di esecuzione di piani attestati[74].
Il legislatore della riforma prende espressa posizione sulla questione, ed elabora un principio di controllo dell’accertamento sull’abusivo utilizzo dell’istituto del piano attestato di risanamento che si pone in contrasto con l’indirizzo da ultimo seguito dalla cassazione.
Al fine di escludere l’esenzione da revocatoria e di ottenere la declaratoria di inefficacia dell’atto contestato occorrerà provare in giudizio la duplice circostanza che:
a) il debitore e/o l’attestatore abbiano agito (nella presentazione del piano, nella sua elaborazione e nel confezionamento) con dolo o colpa grave.
Non è quindi sufficiente la colpa. Occorre una negligenza grave ovvero l’intenzionalità di predisporre un piano non idoneo al risanamento aziendale per escludere l’esenzione da revocatoria prevista dall’art. 166, comma 3 lett. d) D.Lgs n. 14/2019. Non è quindi più prevista la valutazione sul piano che non appaia idoneo al risanamento. Occorre anche che tale inidoneità sia statavoluta dal debitore o dall’asseveratore, ovvero gravemente e negligentemente non ravvisata dagli stessi.
Ed ancora, occorre che si accerti anche un’ulteriore circostanza, ossia che
b) il creditore (che riceve il pagamento o riceve la costituzione della garanzia) ovvero il terzo (ad esempio acquirente di un bene venduto in esecuzione di un piano attestato) fosse consapevole di tale grave colpa o del dolo perseguito dal debitore o dall’attestatore.
Non vi è dubbio che, così facendo, il legislatore ha certamente voluto rafforzare la tenuta dell’esenzione, legislativamente ribadita, in aperto contrasto con la posizione assunta dalla Corte di Cassazione[75].
L’integrazione normativa alla previgente disciplina della legge fallimentare è stata, infatti, giustificata dal legislatore rilevando che il beneficio si giustifica solo in presenza di una seria iniziativa[76], serietà che può escludersi nella consapevolezza (o grave negligenza) dei soggetti coinvolti nell’accordo, nell’attestazione e nell’esecuzione del piano, del fatto he il piano non fosse realmente votato al risanamento aziendale.
È apprezzabile e da segnalare, inoltre, la volontà del legislatore della riforma di risolvere un dibattito che ha investito la dottrina e la giurisprudenza, sotto la vigenza della precedente disciplina, in merito ai profili di estensione oggettiva dell’esenzione da revocatoria per le operazioni poste in essere in esecuzione del piano attestato di risanamento. Ad un primo indirizzo[77] che riteneva di estendere l’esenzione non solo alla revocatoria fallimentare, ma, altresì, alle azioni relative all’accertamento della inefficacia degli atti contestati ex art. 64 e 65 L. fall. sino a ricomprendervi anche l’esenzione dall’azione revocatoria ordinaria[78], si contrapponeva un altro indirizzo più restrittivo[79] che ne limitata la portata applicativa unicamente alle azioni revocatorie fallimentari.
L’orientamento, assunto dalla Corte di Cassazione[80] recentissimamente, sulla esenzione di cui all’art. 67 comma 3 lett. d), è volto a sposare l’indirizzo maggiormente restrittivo, privilegiando una interpretazione letterale della norma ed escludendone, quindi, l’estensione anche alla revocatoria ordinaria[81].
Il legislatore della riforma risolve, invece, il dibattito optando per la soluzione opposta e prevedendo espressamente che l'esclusione opera anche con riguardo all'azione revocatoria ordinaria[82]. Nessun dubbio, quindi che gli atti, i pagamenti e le garanzie stipulate in esecuzione al piano di risanamento attestato sono oggetto dell’esenzione prevista dal legislatore del Codice della Crisi dell’impresa e dell’insolvenza.
Resta, tuttavia, da analizzare un ulteriore profilo non risolto dall’art. 166 D.Lgs. n. 14/2019: quale sia l’efficacia del piano attestato di risanamento nel caso in cui la società debitrice non sia sottoposta (in caso di insuccesso della procedura) alla liquidazione giudiziale e, dunque, se l’esenzione da revocatoria ordinaria operi anche al di fuori della procedura concorsuale.
I primi commenti alla nuova disciplina hanno indotto ad affermare che: “Probabilmente, inserendo la precisazione sopra riferita nel corpo delle lett. d) ed e) del terzo comma dell'art. 166 c.c.i., con riguardo agli atti ivi previsti il legislatore ha inteso “disattivare” anche la revocatoria ordinaria esercitata fuori da una procedura di insolvenza”[83] ed, inoltre, che “D'altro canto, come già messo in luce dalla dottrina all'indomani della riforma del 2005, sarebbe forse poco coerente una disciplina che assicurasse una tutela revocatoria ordinaria più intensa di quella esperibile nell'ambito di una procedura concorsuale”[84].
Si tratta di una soluzione convincente.
L’esenzione da revocatoria ordinaria potrà ritenersi estesa non solo alle ipotesi in cui l’impresa che ha fatto accesso all’istituto dell’accordo di esecuzione di un piano attestato sia dichiarata insolvente e sottoposta a liquidazione giudiziaria, ma, altresì, nel caso in cui si sia al di fuori di tale ultima procedura concorsuale, anche nei casi in cui l’imprenditore non sia soggetto fallibile.
E d’altra parte, anche non ritenendo di estendere esegeticamente l’esenzione ex art. 166 D.Lgs n. 14/2019, al di fuori dei casi di procedura di liquidazione giudiziale, e pur in assenza di una espressa disposizione normativa, la disciplina di cui all’art. 2901 c.c., consentirà di escludere la revocabilità di atti di trasferimento di beni del debitore in crisi per l’insussistenza del presupposto soggettivo in capo al terzo, previsto dal comma 1 n. 2 dell’art. 2901 c.c.
È, infatti, evidente che il terzo (che partecipi con il debitore alla conclusione di un atto che modifichi il patrimonio dell’impresa in crisi, all’interno di un piano attestato che sia finalizzata ad un risanamento aziendale e sulla base di una attestazione con la quale - anche sotto la responsabilità penale e personale del professionista attestatore- si accerti la fattibilità del piano) agisca con la consapevolezza che l’atto compiuto non possa arrecare un danno o pregiudizio ai creditori che con l’imprenditore in crisi hanno concluso un accordo.
Ciò, quindi, in ogni caso comporterà l’insussistenza dei presupposti dalla revocatoria ordinaria anche al di fuori della liquidazione giudiziale.