Saggio
Il concordato di gruppo*
Luciano Panzani, già Presidente della Corte d’Appello di Roma
31 Ottobre 2020
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Sommario:
1 . Concordato di gruppo e le conseguenze del rinvio del Codice della crisi
2 . Il concordato di gruppo nel CCII. Sintesi della normativa ed osservazioni preliminari
3 . Giurisdizione. I limiti della disciplina unitaria
4 . La nozione di gruppo e la legittimazione a proporre la domanda di concordato di gruppo
5 . Accesso al concordato di gruppo. La legittimazione
6 . Concordato di gruppo in continuità e regime della “prevalenza”
7 . Il miglior soddisfacimento dei creditori e le operazioni infragruppo. La tutela dei soci
Era ormai patrimonio acquisito che la grande maggioranza delle attività d’impresa si svolge attraverso la veste giuridica del gruppo di società, che meglio consente di differenziare l’investimento e di ridurre le responsabilità. Dottrina e giurisprudenza di legittimità avevano costantemente escluso, nel vigore della legge fallimentare del 1942, la configurabilità di un’insolvenza di gruppo e di una procedura di gruppo [2]. La tradizione italiana, come del resto quella della maggior parte degli ordinamenti di diritto continentale, considerava le società come soggetti di diritto autonomi e non consentiva di trattare il gruppo insolvente come un’entità unica. Tuttavia era avvertita l’esigenza di evitare che l’apertura di procedure concorsuali che investissero una o più società del gruppo facesse venir meno l’unità di direzione e coordinamento che caratterizzava il gruppo finché le società erano in bonis. Se la necessità di garantire la piena tutela dei creditori di ogni società assicurando la separazione delle masse attive e passive rimane un punto fermo, occorre tuttavia che il progetto di ristrutturazione o il programma di liquidazione delle attività le investa in modo unitario, essendo evidente che altrimenti le possibilità di conservazione dell’impresa o di liquidazione in termini tali da assicurare la massimizzazione del valore degli asset risulterà gravemente compromessa, con conseguenze pregiudizievoli proprio per i creditori. Di qui la scelta del legislatore di introdurre nel nostro ordinamento una procedura unitaria di concordato di gruppo, che si affianca ad analoghe norme relative agli accordi di ristrutturazione di gruppo ed ad una procedura unitaria di liquidazione giudiziale. Il legislatore non si è fermato qui perché ha anche previsto norme che riguardano le procedure relative a singole imprese facenti parte di un gruppo, che disciplinano il contenuto della domanda di accesso ad una procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza (art. 289 CCII) e norme comuni che disciplinano le azioni revocatorie e le azioni di responsabilità, regolando anche all’art. 292 CCII la postergazione dei crediti relativi ai finanziamenti infragruppo.
Questa disciplina è stata salutata con favore da Giovanni Lo Cascio in uno dei suoi ultimi scritti [3], che ha osservato come la nuova disciplina in materia di gruppi di imprese fosse particolarmente apprezzabile perché si era posto rimedio ad una rilevante lacuna della nostra legislazione “tutelando l’interesse di tutti i creditori e adottando il principio dell’autonomia delle masse e dell’unitarietà sostanziale della procedura”.
In effetti l’Italia era stata uno dei primi Paesi ad introdurre per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi con la c.d. Legge Prodi (L. 3 aprile 1979, n. 95) una disciplina dell’insolvenza di gruppo, poi estesa con principi sostanzialmente analoghi all’insolvenza delle imprese bancarie e assicurative. Tale disciplina partiva dall’esigenza di preservare l’autonomia patrimoniale di ogni società ed il diritto dei creditori di concorrere separatamente sulle relative masse ed affrontava proprio i temi che si sono ora indicati.
Pur antesignana nel registrare la necessità di una disciplina dell’insolvenza di gruppo e pur mantenendo tale disciplina nelle successive revisioni della Legge Prodi (D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, e D.L. 23 dicembre 2003, n. 347) [4], l’Italia aveva poi ritardato nell’estendere queste regole alle procedure concorsuali ordinarie relative alle imprese commerciali. La riforma organica del diritto societario [5] aveva già dettato, peraltro, una disciplina generale dei gruppi, tuttora in vigore, che, pur astenendosi da una definizione generale, riconosce il fenomeno dell’attività di direzione e coordinamento di più società, presupponendo in capo alla holding il potere di imprimere la direzione unitaria al gruppo, dettando principi generali a presidio del corretto esercizio – sul piano “societario e imprenditoriale” - di tale potere e prescrivendo specifiche regole sulla pubblicità della soggezione alla direzione e coordinamento, sulla motivazione delle decisioni dalla stessa influenzate, sui finanziamenti infragruppo e sul diritto di recesso dei soci esterni al gruppo.
Nel frattempo non soltanto diversi Paesi europei si sono dotati di una disciplina in materia, ma è intervenuto il Reg. UE 2015/848 del 20 maggio 2015 relativo alle procedure di insolvenza, di revisione della disciplina dell’insolvenza transfrontaliera già regolata dal Reg. UE 1346/2000. Esso prevede una disciplina dell’insolvenza di gruppo, che presenta rilevanti differenze rispetto alle regole previste dal nostro legislatore, a partire dalla nozione stessa di gruppo, che il codice della crisi detta tra le definizioni previste dall’art. 2 (lett. h) CCII, differenze che si spiegano almeno in parte perché il Regolamento detta norme di diritto internazionale privato e si fonda essenzialmente sulla collaborazione tra gli organi delle procedure facenti capo alle diverse società del gruppo, ivi compresi gli organi giudiziari, mentre le norme interne in commento sono norme di diritto positivo, direttamente vincolanti sul piano nazionale. La nozione di gruppo adottata dal codice della crisi non coincide peraltro neppure con quella prevista dalla disciplina dell’amministrazione straordinaria (artt. 80 ss., L. 8 luglio 1999, n. 270).
Il progetto di introdurre nel nostro ordinamento una disciplina del concordato di gruppo ha subito, com’è noto, una battuta di arresto in conseguenza della pandemia da Covid-19 e della decisione, adottata con l’art. 5, D.L. 8 aprile 2020, n. 23, conv. in L. 5 giugno 2020, n. 40, di rinviare l’entrata in vigore del Codice della crisi al 1° settembre 2021.
Com’è noto, prima dell’approvazione del Codice della crisi la giurisprudenza aveva sostanzialmente respinto i tentativi di dar vita a concordati di gruppo.
Poiché, come si è già osservato, il nostro ordinamento non conosceva al di fuori dell’amministrazione straordinaria, una disciplina dell’insolvenza o della crisi di gruppo [6], si erano verificati casi in cui più società erano state ammesse a distinte procedure di concordato preventivo, formalmente autonome ma in realtà coordinate, ove il piano di risanamento di ogni società faceva parte di un unico piano di gruppo ed ove i commissari giudiziali preposti alle diverse procedure erano le medesime persone, così come unico era il giudice delegato. Si era assistito ad un coordinamento di fatto delle diverse procedure, evidentemente legate anche sul piano dei finanziamenti concessi dalle banche ai fini della ristrutturazione sia delle capogruppo sia delle controllate. Le decisioni di merito avevano peraltro sottolineato che le procedure relative alle diverse società facenti parte del gruppo rimanevano separate e andava rispettata l’autonomia patrimoniale delle singole masse [7]. La Cassazione aveva poi ritenuto che la disciplina sostanziale del gruppo di società contenuta negli artt. 2497 ss. c.c., che si sostanzia nel fenomeno della c.d. direzione unitaria, non potesse giustificare deroghe alla normativa processuale, che del gruppo non teneva conto alcuno. Pertanto se il gruppo poteva venire in considerazione come substrato economico di fatto di un piano di concordato, esso non poteva giustificare in alcun modo un procedimento unitario [8]. In realtà questa giurisprudenza reagiva a pratiche di ingegneria societaria dirette alla creazione di nuovi soggetti ed al trasferimento di asset ed obbligazioni da una società all’altra, per poi presentare una domanda di concordato relativa, a seconda dei casi, alla società conferitaria o alla società conferente.
Il rinvio dell’entrata in vigore del codice della crisi ha riproposto all’interprete la possibilità di configurare una procedura di gruppo in difetto di espressa previsione normativa. La Cassazione [9], nonostante in altre occasioni avesse ritenuto di poter anticipare in chiave interpretativa le soluzioni adottate dal Codice della crisi, non ancora in vigore, ma già facente parte del corpus legislativo, ha ritenuto che una soluzione di questo tipo non fosse praticabile. Solo con il Codice della crisi in via innovativa a far data dalla sua piena efficacia, è stato previsto un complesso di regole (artt. 284-292 CCII, sub titolo VI, dedicato alle Disposizioni relative ai gruppi di imprese), che disciplinano la presentazione di un ricorso unitario per l’ammissione alla procedura concordataria delle società appartenenti ad un medesimo gruppo, il contenuto del piano o dei piani di gruppo ed infine il procedimento del concordato di gruppo. “Una tale complessità di regolazione”, ha osservato la Suprema Corte, “non poteva certo essere ricavata in via di principio dalla legislazione esistente”, il che conferma che l’intervento legislativo per disciplinare il concordato di gruppo era indispensabile, stante la “impossibilità di trovare un’unica e soddisfacente ricostruzione dello stesso procedimento e degli effetti dei suoi atti”.
Non resta quindi che prendere atto della persistente mancanza nel nostro ordinamento di una disciplina del concordato di gruppo ed auspicare che il legislatore voglia eventualmente valutare l’opportunità di anticipare l’entrata in vigore di alcuni istituti del codice della crisi rispetto alla ancora lontana scadenza del settembre 2021. Tale anticipazione sarebbe sicuramente opportuna in considerazione dell’elevato numero di procedure che prevedibilmente interesserà i nostri tribunali per effetto della crisi ingenerata dalla pandemia. Va comunque tenuto presente che i caveat della Cassazione non impediscono in assoluto la presentazione di proposte di concordato di gruppo, a condizione che per ogni società venga presentata una distinta domanda di concordato, corredata da un piano che, nel tener presente la complessa situazione del gruppo e l’interazione tra le operazioni di ristrutturazione di ogni società, potrà essere considerato come unitario o come complesso di piani collegati, in modo sostanzialmente non diverso da quanto previsto dal codice della crisi. Dovranno poi essere rispettati i principi di autonomia delle masse e di separazione del voto dei creditori per ogni società o impresa del gruppo. Infine non si potranno derogare le regole in materia di competenza territoriale portando le domande alla cognizione di un unico ufficio giudiziario, anche qui senza sostanziali differenze rispetto alla soluzione individuata dal codice della crisi.
Va sottolineato che il legislatore, conformemente alla tradizione giuridica italiana, ha dettato norme che regolano essenzialmente il procedimento unitario di concordato (come anche delle altre procedure di composizione della crisi e dell’insolvenza per cui è prevista la disciplina di gruppo: la liquidazione giudiziale e gli accordi di ristrutturazione). Non si è fatto luogo nel nostro ordinamento ad ipotesi di substantial consolidation che in altri sistemi giuridici permette di superare la separazione tra patrimoni [10]. Si afferma infatti all’art. 284, comma 3, che resta ferma l’autonomia delle masse attive e passive delle imprese facenti parte del gruppo [11].
Coerentemente con la natura essenzialmente procedimentale della disciplina l’art. 284 CCII consente alle imprese in stato di crisi o di insolvenza appartenenti al medesimo gruppo ed aventi il centro degli interessi principali nello Stato italiano la facoltà di proporre con un unico ricorso, nelle forme previste dall’art. 40 CCII, la domanda di accesso al concordato preventivo, con un piano unitario o con piani reciprocamente collegati ed interferenti.
Il procedimento unitario consente di derogare agli ordinari criteri di competenza territoriale, di nominare, in caso di accoglimento del ricorso, un unico giudice delegato ed un unico commissario giudiziale per tutte le imprese del gruppo e di disporre la costituzione di un unico fondo per le spese di giustizia.
Il piano o i piani di gruppo possono prevedere la continuazione dell’attività di alcune imprese e la liquidazione di altre (art. 285, comma 1, CCII).
Essi debbono essere idonei a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria di ciascuna impresa ed assicurare il riequilibrio complessivo della situazione finanziaria di ognuna (art. 284, comma 5, CCII). Il requisito della prevalenza del ricavato prodotto dalla continuità aziendale, stabilito per il concordato individuale dall’art. 84, comma 3, CCII è diversamente disciplinato. Si applica al concordato di gruppo la sola disciplina del concordato in continuità, senza necessità pertanto di prevedere il rispetto delle percentuali minime in favore dei creditori chirografari previste dall’art. 84, ultimo comma, quando “confrontando i flussi complessivi derivanti dalla continuazione dell’attività con i flussi complessivi derivanti dalla liquidazione, risulta che i creditori delle imprese del gruppo sono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta” [12] (art. 285, comma 1, CCII).
La domanda deve illustrare le ragioni di maggiore convenienza della scelta di presentare il piano unitario o i piani reciprocamente collegati ed interferenti invece di un piano autonomo per ciascuna impresa. Tale maggiore convenienza va valutata in funzione del miglior soddisfacimento dei creditori delle singole imprese. I creditori di ciascuna delle imprese, suddivisi per classi qualora ciò sia previsto dalla legge o dal piano, votano in maniera contestuale e separata sulla proposta presentata dalla società loro debitrice. Il concordato è approvato quando le proposte delle singole imprese sono approvate dalla maggioranza prevista dall’art. 109 CCII per il concordato individuale. Segue l’omologazione da parte del tribunale secondo le regole ordinarie della disciplina del concordato. In sede di omologazione, come meglio si vedrà più avanti, il tribunale decide anche sulle opposizioni dei creditori e, in particolare, ai sensi dell’art. 285, comma 4, omologa il concordato quando ritiene, sulla base di una valutazione complessiva del piano o dei piani collegati, che i creditori possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto otterrebbero dalla liquidazione giudiziale della singola impresa. L’opposizione può essere proposta dai creditori dissenzienti appartenenti ad una classe dissenziente o, nel caso di mancata formazione delle classi, dai creditori dissenzienti che rappresentano almeno il 20% dei creditori ammessi al voto. Anche i soci possono far valere la lesione dei loro diritti per quanto concerne il pregiudizio arrecato dalle operazioni previste nel piano alle singole società, ma esclusivamente nelle forme dell’opposizione all’omologazione (art. 285, comma 5, CCII). Con ciò il legislatore ha escluso altre forme di tutela dei soci previste dal diritto societario ed in particolare l’impugnazione delle delibere relative alle operazioni straordinarie sul capitale.
Il concordato di gruppo non può essere risolto od annullato quando i presupposti per la risoluzione o l’annullamento si verificano soltanto rispetto ad una o a alcune imprese del gruppo, a meno che ne risulti significativamente compromessa l’attuazione del piano anche nei confronti delle altre imprese (art. 286, comma 7, CCII).
La disciplina dettata dal codice non si riferisce al gruppo come entità autonoma, ma alle imprese. Quindi non soltanto alle società, ma del resto l’art. 2497 c.c. considera l’attività di direzione o coordinamento posta in essere da “società o enti”, con l’esclusione, se non a livello di concorso nella responsabilità di chi esercita la direzione e il controllo, ai sensi del secondo comma della norma, della persona fisica. Il concordato o l’accordo di ristrutturazione ha ad oggetto pertanto un piano o, come si vedrà, un insieme di piani coordinati, riferiti alle imprese del gruppo, non al gruppo in quanto tale, la cui tutela è pertanto indiretta, anche se la Relazione governativa sottolinea che “...Quando si è in presenza di un gruppo di imprese ...è frequente che la crisi investa tutte o molte delle imprese facenti parte del gruppo ed è indispensabile affrontarle in un’ottica unitaria, laddove la frammentazione delle diverse procedure si rivela disfunzionale”. Non va comunque dimenticato che l’intera disciplina è diretta a prevedere esclusivamente l’unitarietà del procedimento.
Va notato che gli artt. 284 e 287 CCII conoscono il concordato di gruppo, l’accordo di ristrutturazione di gruppo, la liquidazione giudiziale di gruppo, ma non affrontano il quesito se possa essere proposto un piano di gruppo che preveda per talune imprese il ricorso al concordato o all’accordo e per altre la liquidazione giudiziale. L’art. 285 CCII consente la presentazione di un concordato che sia in parte in continuità ed in parte liquidatorio, per talune imprese del gruppo. Non pare invece che sia possibile presentare, stando almeno alla lettera della legge, una domanda di apertura di una procedura che preveda per talune imprese il concordato o l’accordo di ristrutturazione e per altre la liquidazione giudiziale. Del pari il legislatore non ha preso in considerazione la possibilità che la domanda per talune imprese preveda il concordato e per altre preveda l’omologazione di accordi di ristrutturazione sulla base di piani connessi. Va però sottolineato sin d’ora che ove non si possa far luogo alla procedura di gruppo, rimarrà applicabile l’art. 288 CCII relativo alle procedure autonome di gruppo, che prevede soltanto obblighi di collaborazione tra gli organi delle diverse procedure.
Un ultimo rilievo preliminare concerne il fatto che la disciplina della procedura di gruppo è unitaria [14] nel senso che prevede alcuni requisiti sostanziali comuni alle imprese del gruppo, non soltanto in ordine all’esistenza del gruppo nei termini di cui alla nozione presa a riferimento dal codice, ma anche in termini di risultati previsti per ciascuna delle imprese coinvolte dall’unico piano o dai plurimi piani collegati. Essa è poi unitaria dal punto di vista procedimentale per gli specifici profili che sono considerati dal legislatore (ad esempio l’unicità della domanda, la deroga alle regole ordinarie in tema di competenza, la nomina di un unico organo della procedura). Per il resto però ciascuna procedura è autonoma e valgono, in quanto non derogati, i generali criteri previsti dalla disciplina ordinaria per ciascun tipo di procedura per così dire monistica. Il legislatore del resto ha cura nel terzo comma dell’art. 284 di ribadire, in conformità alla legge delega, che resta ferma l’autonomia delle rispettive masse attive e passive delle imprese coinvolte. Mutatis mutandis pertanto il procedimento di gruppo non rappresenta una novità assoluta per il nostro ordinamento, non soltanto perché vi sono i precedenti previsti dalla disciplina dell’amministrazione straordinaria, ma perché un altro punto di riferimento è rappresentato dal procedimento previsto per il fallimento dei soci illimitatamente responsabili dall’art. 147 L. fall. ed ora per la liquidazione giudiziale dei medesimi dall’art. 256 CCII. L’evoluzione giurisprudenziale ci dirà se conclusioni analoghe potranno essere assunte anche per le procedure familiari di risoluzione della crisi da sovraindebitamento aperte su istanza dei membri di una stessa famiglia (art. 66 CCII). La scarna disciplina dettata dal legislatore non permette allo stato di raggiungere conclusioni certe, anche se pure in questo caso la domanda riguarda una pluralità di soggetti e prevede un unico progetto di ristrutturazione della crisi da sovraindebitamento.
È evidente il riferimento alla nozione di direzione e coordinamento espressa dal codice civile. Il legislatore ha ripreso il meccanismo presuntivo previsto in quella sede dall’art. 2497-sexies c.c. Va però osservato che nella disciplina del codice civile l’utilizzo della presunzione giova a colui che l’invoca per ottenere un risultato a sé favorevole contro il soggetto nei cui confronti la presunzione è fatta valere, ad esempio il riconoscimento della responsabilità per danni di chi esercita la direzione e coordinamento. Nel caso del concordato e dell’accordo di ristrutturazione poiché la procedura si apre soltanto su domanda delle imprese del gruppo, la presunzione giova a chi ha esercitato o subito la direzione e coordinamento, che invoca il fatto presunto in proprio favore [16]. La presunzione verrà opposta nei confronti del giudice che nutra dubbi sulla sussistenza del rapporto di direzione o coordinamento ovvero dei creditori che ritengano di essere più garantiti da una procedura non di gruppo. Salvo casi particolari sembra improbabile che la dichiarazione di sussistenza del rapporto di direzione e coordinamento, oggetto in sostanza di una dichiarazione confessoria contenuta nel ricorso unitario, possa essere facilmente impugnata dai terzi che ne possano essere pregiudicati.
La circostanza che la procedura unitaria investe soltanto le imprese che chiedono di parteciparvi [17] toglie rilievo al quesito di quale sia la sorte del soggetto che, trovandosi al vertice del gruppo ed esercitando la direzione unitaria, non chieda l’apertura della procedura di concordato nei propri confronti. Va però detto che i creditori potrebbero non approvare una soluzione che mandi esente da responsabilità il vertice del gruppo. Ovviamente nel caso della liquidazione giudiziale la questione assume caratteristiche del tutto differenti.
Va ancora osservato che nella sostanza la scelta di chiedere l’apertura di procedure di gruppo coordinate (questo in sintesi può ritenersi essere il concordato o l’accordo di ristrutturazione di gruppo) è rimessa all’imprenditore. Essa ha un senso nel caso di gruppo verticale, quando si tratta ai fini della ristrutturazione o della liquidazione, di ricreare l’unità di gestione che esisteva finché le imprese erano in bonis. In altre ipotesi (gruppo paritetico, gruppo orizzontale, ecc.) quest’esigenza non sussiste o non è così forte e può quindi bastare l’obbligo di cooperazione ed informazione reciproca), che va rispettato anche quando non si fa luogo alla procedura di gruppo.
La domanda di concordato o di omologazione degli accordi di ristrutturazione deve essere proposta da tutte le imprese del gruppo aderenti e richiede pertanto che gli amministratori di ogni società od ente o la persona fisica che fa parte del gruppo manifestino una volontà in tal senso nelle forme previste dall’art.40 CCII. Ne deriva che, a differenza di quanto è previsto per l’amministrazione straordinaria e per la liquidazione giudiziale di gruppo dall’art. 287, ultimo comma, CCII, non vi può essere un’estensione del concordato di gruppo ad altre imprese che non l’abbiano richiesto.
La premessa è doverosa per intendere la portata dell’art. 286, comma 4, che dispone che “Il commissario giudiziale, con l’autorizzazione del giudice, può richiedere alla Commissione nazionale per le società e la borsa - Consob o a qualsiasi altra pubblica autorità informazioni utili ad accertare l’esistenza di collegamenti di gruppo e alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote ad esse intestate. Le informazioni sono fornite entro quindici giorni dalla richiesta”. Tale possibilità di richiedere informazioni sarà utile per gli accertamenti che il commissario giudiziale dovrà effettuare con riferimento ad eventuali atti infragruppo o ad atti in frode, o anche relativamente ai requisiti di ammissibilità della domanda ed alle ipotesi di conflitto d’interessi ed esclusione dei creditori dal voto. Non servirà invece per estendere il perimetro della procedura di gruppo.
La scelta di limitare la possibilità di procedura di gruppo alla domanda delle imprese di gruppo (nel caso di concordato tutte le imprese coinvolte), che va ricordato non è soltanto del legislatore delegato, ma della legge delega, è coerente con la generale impostazione della disciplina del concordato preventivo, che esclude che la procedura possa aprirsi su domanda di un soggetto diverso dallo stesso debitore. Per la liquidazione giudiziale rappresenta invece una limitazione dei poteri del curatore di una delle procedure rispetto alle diverse scelte operate dal legislatore nel caso dell’amministrazione straordinaria.
La scelta di limitare il concordato di gruppo o l’accordo di ristrutturazione di gruppo alle sole imprese che ne fanno domanda, senza prevederne l’estensione ad altre società o imprese o persone fisiche all’interno del gruppo, discende dalla logica del legislatore di prevedere che il procedimento sia unitario su base esclusivamente volontaria. La scelta si presta a comportamenti opportunistici delle imprese debitrici che potrebbero deliberatamente lasciare alcune imprese al di fuori del perimetro del concordato o dell’accordo. Questa soluzione trova un correttivo nel fatto che il tribunale deve comunque valutare la fattibilità del piano o piani coordinati che debbono portare al miglior soddisfacimento dei creditori. Ove una o più imprese siano state lasciate fuori per salvare delle attività in favore del socio di controllo, il tribunale potrà ritenere leso il principio del miglior soddisfacimento dei creditori e in ogni caso i creditori potranno esprimersi negativamente in sede di votazione sottolineando che il piano o i piani coordinati non sono convenienti.
La norma della legge delega non si occupa del concordato di gruppo. Il legislatore delegato ha pertanto dovuto estendere la nozione di prevalenza al concordato di gruppo, dettando norme parzialmente derogatorie rispetto a quelle previste per il concordato individuale.
Come si è già accennato l’art. 285 CCII prevede per il concordato di gruppo una disciplina della prevalenza diversa da quella prevista per il concordato individuale dall’art. 84, comma 3, CCII. La norma dunque va intesa come regola di maggior favore rispetto alla soluzione prevista dal legislatore per il concordato individuale. Nel concordato relativo ad una singola impresa l’art. 84 richiede che i creditori siano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato dalla continuità diretta o indiretta, salva la presunzione di legge nel caso in cui il piano preveda che per i due anni successivi alla presentazione del ricorso all’impresa siano addetti lavoratori in misura pari alla metà di quelli in forza nel biennio antecedente. In difetto il concordato è liquidatorio e di conseguenza i creditori chirografari debbono essere soddisfatti in misura non inferiore al 20% ed il concordato è ammissibile a condizione soltanto che vengano previste risorse aggiuntive idonee a garantire il soddisfacimento dei medesimi creditori nella misura del 10% in più rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale (art. 84, comma 4). Al contrario nel concordato di gruppo si guarda ai flussi complessivi derivanti dalle società in continuità che non debbono essere necessariamente superiori ai flussi derivanti dalla liquidazione, richiedendosi invece che i creditori siano soddisfatti prevalentemente dal ricavato derivante dalla continuità aziendale. Non pare che il calcolo della maggioranza dei creditori che debbono essere soddisfatti dai flussi derivanti dalla continuità debba esser effettuato per masse. Non vi è nella norma alcun riferimento in tal senso. Pertanto, se i creditori delle società destinate alla liquidazione sono pochi o comunque di minor ammontare, il concordato rimane un concordato in continuità perché la maggioranza dei creditori è soddisfatta dal ricavato della continuità, sia essa diretta o indiretta.
Va ricordato che lo schema di decreto correttivo ha escluso dal calcolo, tanto per il concordato individuale che per il concordato di gruppo, il ricavato dalla cessione del magazzino. Ciò, come chiarisce la Relazione allo schema di decreto correttivo, perché “il soddisfacimento dei creditori derivi in misura prevalente dalla prosecuzione dell’attività d’impresa e dal ricavato proveniente dalla continuità aziendale diretta o indiretta e non dalle scorte presenti in magazzino”, la cui alienazione, si ritiene, avrebbe carattere liquidatorio.
Si pone il quesito se, dato che il legislatore ha fatto riferimento ad una nozione atecnica richiedendo la comparazione dei flussi, occorra guardare ai flussi generati dalle imprese per cui si procede alla liquidazione per compararli con quelli generati dalle imprese per cui è invece prevista la continuità o se invece occorra scomporre i flussi in ragione della loro causa genetica e quindi se essi derivino dalla prosecuzione dell’attività ovvero dalla liquidazione di asset e ciò anche se, per avventura, si tratti di attività liquidate facenti capo ad una società per cui il piano unitario o i piani coordinati prevedano la prosecuzione dell’attività. L’art. 285 non fa riferimento alle società, ma ai “flussi complessivi” generati rispettivamente dalla continuità o dalla liquidazione. Non mi pare pertanto dubbio che occorra scorporare i flussi dell’uno o dell’altro tipo per poi effettuare la comparazione indipendentemente dal fatto che essi possano ritenersi far capo a una società per cui il piano di concordato prevede la continuità o meno. È indubbio che l’espressione “ricavato” impiegata dal legislatore nell’art. 285, comma 1, ultima parte, e nell’art. 85 CCII, è imprecisa. Trattandosi peraltro nella specie di comparazione all’interno di un gruppo occorrerà sommare tutto ciò che deriva dalla continuità aziendale per confrontarlo con ciò che deriva dalla liquidazione, ancorché si tratti di cespiti che fanno capo a società diverse. Da questo punto di vista la decisione assunta nello schema di decreto correttivo di espungere dal ricavato dalla continuità il provento della cessione del magazzino, va nel senso ora indicato.
Ci si può domandare se il ricavato dalla continuità debba essere considerato al netto dei costi incontrati per realizzarlo. La risposta a mio avviso è negativa perché, come si è già detto, si tratta di evitare che il concordato in continuità venga utilizzato in chiave strumentale per aggirare i vincoli posti all’accesso al concordato liquidatorio. Ne deriva che si tratta soltanto di verificare che effettivamente la causa di prosecuzione dell’attività d’impresa sia prevalente rispetto alla causa liquidatoria, con la conseguenza che a tal fine la considerazione dei costi è irrilevante. In dottrina si è osservato che l’art. 285, comma 1, non tiene conto ai fini della determinazione della prevalenza del criterio alternativo previsto dall’art. 84 CCII secondo il quale la prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuazione per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso [18]. L’A. ritiene che non sia accoglibile la tesi che il criterio in parola, non richiamato dall’art. 285, si applichi soltanto al concordato individuale. Sostiene pertanto che nel caso in cui vengano presentati piani coordinati si guarderà al loro specifico contenuto. Nel caso di piano unitario dovrà stabilirsi se esso sia in continuità diretta o indiretta, concludendo che si potrà parlare di continuità diretta nel solo caso in cui il ricavato prodotto dalla continuità diretta prevale sul ricavato dalla continuità indiretta. In questa seconda ipotesi potrebbe trovare applicazione l’art. 84, comma 2, con la conseguenza che dovrebbe guardarsi ai posti di lavoro conservati ed al rispetto del requisito del 50% della forza lavoro, calcolato però per le sole imprese del gruppo in continuità indiretta. Nonostante il valoroso sforzo esegetico, ci pare che questa ricostruzione richieda tali e tante forzature interpretative a fronte della totale carenza del dato normativo, da rendere assai più lineare la conclusione che il legislatore, proprio in ragione di queste difficoltà, per il concordato di gruppo abbia inteso prescindere totalmente dal requisito previsto dall’art. 84, comma 2, CCII.
Il criterio del miglior soddisfacimento dei creditori costituisce il costante punto di riferimento della disciplina della continuità aziendale sia nella legge fallimentare che nel codice della crisi. L’art. 186-bis L. fall. prevede che il piano concordatario debba contenere un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi e di altri elementi finanziari, unitamente alla relazione del professionista che attesti che la prosecuzione dell’attività d’impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. In questo modo adotta criteri molto differenti da quelli cui il legislatore aveva fatto ricorso nella procedura di amministrazione straordinaria, ove l’art. 63, L. n. 270/1999, prevede che nella vendita di aziende in esercizio il prezzo della vendita deve tener conto della redditività, anche se negativa, non soltanto all’epoca della stima, ma anche nel biennio successivo, sancendo, in tal modo, la prevalenza degli interessi alla continuazione dell’attività d’impresa rispetto agli interessi dei creditori. La legge delega, all’art. 3, comma 2, lett. f) proprio con riferimento ai gruppi di imprese, stabilisce che i criteri per la formulazione del piano unitario di risoluzione della crisi del gruppo, eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative intragruppo, debbano essere funzionali alla continuità aziendale e al migliore soddisfacimento dei creditori. Il principio del miglior soddisfacimento dei creditori è recepito per il concordato individuale dall’art. 87, comma 1, lett. f), CCII che subordina la continuità aziendale al miglior soddisfacimento dei creditori.
L’art. 112 CCII, con norma di carattere generale, relativa al concordato individuale, non contraddetta però, come già si è detto, dalla disciplina del concordato di gruppo (arg. art. 285, comma 4) limita il miglior soddisfacimento a quanto i creditori possono ottenere in sede di liquidazione giudiziale. La norma mira a favorire la ristrutturazione. Si potrebbe obiettare alla soluzione adottata dal legislatore che il confronto dovrebbe avvenire tra quanto il creditore può ottenere tramite il piano di gruppo e quanto può percepire da una procedura autonoma riferita alla sola impresa di cui è creditore. Ma va subito aggiunto che è verosimile che il piano autonomo non possa che portare alla liquidazione, perché vengono meno tutte quelle sinergie infragruppo che possono assicurare la prosecuzione dell’attività. Di regola pertanto il piano di gruppo è più favorevole ai creditori di ogni singola impresa, salvo il caso in cui si tratti di impresa nella quale vi sono cespiti il cui valore in caso di liquidazione rimane immutato oppure aumenta. Si tratta peraltro di ipotesi che si verifica oggi, quando le imprese sono fatte soprattutto di intangibles, meno frequentemente che in passato. In pratica l’ipotesi che può realizzarsi è che la singola impresa abbia in pancia un immobile industriale che grazie ad una operazione di riqualificazione edilizia può valere di più di quanto si otterrebbe dal mantenimento della originaria destinazione industriale. È accaduto in passato, potrebbe ancora accadere anche se oggi pare ipotesi non frequente.
Il secondo comma dell’art. 285 CCII prevede che sono possibili trasferimenti di risorse infra gruppo, operazioni contrattuali e riorganizzative, a condizione che un professionista indipendente attesti che tali trasferimenti ed operazioni sono necessari per la continuità aziendale delle imprese per cui è prevista nel piano e coerenti con l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo. Si tratta di una deroga alla regola sancita dall’art. 2740 c.c. per cui il debitore risponde nei confronti dei creditori con tutto il proprio patrimonio, presente e futuro. Il legislatore ammette che risorse possano essere spostate da una società ad un’altra in considerazione del fatto che occorre, nei limiti del possibile e del rispetto dell’autonomia patrimoniale delle singole società del gruppo, garantire che anche in caso di crisi o di insolvenza il gruppo possa operare come una struttura unitaria. Il trasferimento di risorse deve essere indispensabile per assicurare la continuità aziendale delle società per cui è prevista dal piano e deve inoltre garantire il miglior soddisfacimento di tutti i creditori.
Da queste premesse deriva che il piano di gruppo deve assicurare che ogni società possa darvi esecuzione per la sua parte garantendo il miglior soddisfacimento dei creditori avendo riguardo all’alternativa liquidatoria e deve assicurare la continuità aziendale per le società per cui essa è prevista. Lo schema di decreto correttivo ha inserito nel testo dell’art. 285, comma 4, la previsione che il piano o i piani reciprocamente collegati ed interferenti quantificano il beneficio stimato per i creditori di ciascuna impresa del gruppo, anche per effetto della sussistenza di vantaggi compensativi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo. Il beneficio stimato per i creditori di ciascuna impresa del gruppo è quantificato e certificato dal professionista attestatore (art. 284, comma 5). Com’è noto dottrina e giurisprudenza hanno aderito alla c.d. teoria dei vantaggi compensativi [20], che trova sanzione legislativa nell’art. 2497 c.c., che in tema di responsabilità della società e degli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di società, stabilisce che “non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento”. La direzione e coordinamento è lecita in quanto chi la esercita agisca secondo i principi di “corretta gestione societaria ed imprenditoriale” delle società soggette a direzione e coordinamento (art. 2497, comma 1, c.c.). In virtù della teoria dei vantaggi compensativi l’interesse individuale della singola società del gruppo può essere sacrificato in una logica di gruppo quando la società riceva per altro verso vantaggio dalla sua partecipazione al gruppo, purché, come ha specificato la giurisprudenza, l’amministratore sia in grado di provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta [21].
Nel concordato di gruppo il legislatore non fa soltanto applicazione della teoria dei vantaggi compensativi perché i creditori della società sacrificata non possono dolersi se non ricevono di meno di quanto essi potrebbero ottenere in caso di liquidazione giudiziale. Il legislatore riconosce la legittimità del depauperamento di una impresa ai danni di un’altra finché non vi è lesione dello zoccolo duro rappresentato da quanto il creditore potrebbe ottenere in sede di liquidazione giudiziale.
Resta a dire del trattamento dei soci della società o delle società in concordato di gruppo. L’ultimo comma dell’art. 285 CCII regola la tutela dei soci. Il legislatore ha inteso portare tale tutela all’interno della disciplina dell’opposizione all’omologazione del concordato, nelle forme processuali previste per l’opposizione, forme che in difetto di diversa disciplina specifica per il concordato di gruppo sono quelle previste dall’art. 48 del procedimento unitario.
Nell’affermare che i soci possono far valere il pregiudizio arrecato alle rispettive società dalle operazioni previste dal primo comma della norma (lo schema di decreto correttivo inserisce il richiamo anche del secondo comma, che poteva peraltro ritenersi implicito), in altri termini dal piano o dai piani di concordato di gruppo, il legislatore esclude che possa essere invocata altra forma di tutela e quindi l’azione di nullità o annullamento delle delibere assembleari che abbiano approvato operazioni straordinarie sul capitale. In questo senso del resto già si poneva l’art. 3, comma 2, lett. f) della legge delega prevedendo nella procedura unitaria che fosse “fatta salva la tutela in sede concorsuale per i soci e per i creditori delle singole imprese nonché’ per ogni altro controinteressato”. In questo senso si esprime anche la Relazione governativa che osserva che “è previsto di concentrare nel giudizio di omologazione anche la tutela dei soci eventualmente dissenzienti rispetto ad operazioni straordinarie previste nel piano di concordato”, citando espressamente il principio di delega. L’ultimo comma dell’art. 285 CCII precisa ancora che il tribunale omologa il piano di gruppo “se esclude la sussistenza di un pregiudizio in ragione dei vantaggi compensativi derivanti alle singole società dal piano di gruppo”. I soci sono dunque trattati come creditori, sia pur postergati, e il pregiudizio che essi possono lamentare è esclusivamente quello che può derivare dal depauperamento che il piano di gruppo può portare al patrimonio della singola società, pregiudizio che rimane escluso nel caso in cui il piano abbia previsto e comportato vantaggi compensativi per il depauperamento subito dalla società. In proposito è evidente il richiamo all’ultima parte del primo comma dell’art. 2497 c.c. che, com’è noto, dispone che non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento. Va sottolineato che l’art. 2497 prevede che la responsabilità della società che esercita l’attività di direzione e coordinamento nei confronti dei soci riguarda il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale. L’art. 285 fa riferimento ai vantaggi che compensano il depauperamento subito dalla società per effetto del piano e sembra quindi guardare al pregiudizio subito dal patrimonio della società, senza indagare se tale pregiudizio si sia riverberato sulla partecipazione. Come si è detto, i soci sono trattati come creditori, con la conseguenza che non vi è pregiudizio anche nell’ipotesi, statisticamente frequente, che essi non abbiano ragione di dolersi perché il patrimonio della società è comunque insufficiente a far fronte ai creditori, sì che nessun danno ne potrebbe derivare ai soci. Tale conclusione tuttavia, mentre è certamente valida nel caso di concordato liquidatorio, va valutata con attenzione maggiore nel caso di concordato in continuità, ove i soci possano mantenere un’utilità dalla prosecuzione dell’attività d’impresa avuto riguardo al possibile residuo valore della partecipazione.
Il dibattito sull’opportunità di inserire la relative priority rule è vivace. In suo favore si osserva che essa consente di predisporre piani con maggior flessibilità, che possono lasciare spazio ad una parziale tutela degli interessi degli azionisti o di talune categorie di creditori strategici altrimenti destinati a nulla ricevere, come possono essere certi fornitori (cfr. Considerando 56). Sarebbe quindi più facile raggiungere un accordo ed anche convincere i soci di riferimento ad investire ulteriormente nella società oggetto della ristrutturazione o mantenere fornitori strategici. La scelta di introdurre nel nostro sistema la relative priority rule consentirebbe in un numero maggiore di casi ai soci della società che partecipa ad un concordato di gruppo di lamentare una lesione del valore della partecipazione in funzione della lesione del patrimonio sociale per effetto del piano di concordato.
Il dubbio che sorge è se la scelta del legislatore di tutelare i creditori nei limiti di quanto essi possono percepire in sede di liquidazione della singola impresa sia costituzionalmente legittima. Com’è noto la Corte EDU ha ammesso che i diritti di credito possano trovare tutela ai sensi del primo paragrafo, parte prima, dell’art. 1, Prot. addizionale n. 1, CEDU, secondo il quale “Ogni persona fisicao giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni”. La Corte ha affermato che un “credito” può costituire un “bene” a mente della norma in parola a condizione che sia sufficientemente accertato per essere esigibile [22]. Ove si voglia ritenere che il principio in parola abbia portata generale esso potrebbe portare ad una declaratoria di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost., delle norme che vincolano la valutazione dell’interesse del creditore a quanto egli potrebbe ottenere in sede di liquidazione giudiziale anziché in ipotesi di realizzazione di un diverso piano di ristrutturazione (le alternative concretamente praticabili cui fa riferimento l’art. 181, comma 4, L. fall.).
*Il saggio è estratto da Il Fallimento 10/2020
Note:
Sul tema si veda D. Vattermoli, Gruppi insolventi e consolidamenti di patrimoni (substantive consolidation), in Riv. dir. soc., 2010, 586 ss. Ulteriori riferimenti in A. Nigro, I gruppi nel Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: notazioni generali, cit.