Con il nuovo decreto correttivo, D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136, spasmodicamente atteso dopo un’insolita dilazione della pubblicazione sulla G.U. che era seguita all’approvazione definitiva del CdM, l’iter legislativo del nuovo codice della crisi è finalmente compiuto. Dopo una legge delega, una direttiva europea, tre diversi decreti correttivi, il codice dovrebbe aver assunto la sua veste definitiva.
Ha attraversato tre legislature, Governi di vario colore, maggioranze politiche differenti. Sono passati sette anni dall’approvazione della legge delega, sette anni di vacche grasse almeno dal punto di vista delle innovazioni legislative. Ci auguriamo sette anni di vacche magre sempre dallo stesso punto di osservazione, ma dobbiamo dar atto che all’orizzonte si profilano nuovi possibili interventi legislativi.
Da un lato l’Unione Europea ha in cantiere una nuova Direttiva di armonizzazione della disciplina concorsuale[1], che questa volta non riguarda le procedure di ristrutturazione, ma la disciplina della liquidazione. La proposta di Direttiva, sulla quale la nuova Commissione deve ancora esprimere le proprie valutazioni, tocca temi importanti quali la disciplina della revocatoria, i procedimenti semplificati, il c.d. pre-pack, la responsabilità degli amministratori. Dall’altro sembra che la scelta del legislatore di non rivedere con il codice della crisi la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, e D.L. 23 dicembre 2003, n. 347 e successive modificazioni) non sia definitiva. Un possibile intervento legislativo è allo studio e potrebbe riguardare anche la composizione negoziata della crisi per le imprese assoggettabili ad amministrazione straordinaria.
Vorremmo cercare di individuare i punti fondanti della nuova disciplina del codice, guardando al codice nel suo complesso più che agli interventi dell’ultimo decreto correttivo, che vanno letti e visti nel quadro complessivo della nuova disciplina. Ovviamente il dibattito che seguirà, nelle sue varie tavole rotonde, guarderà inevitabilmente di più al decreto correttivo, ma dobbiamo ricordare che tra pochi mesi nessuno ragionerà più guardando soltanto al decreto invece che al codice. Il risultato finale, il nuovo testo legislativo, è ciò che conta.
Guardando all’attuazione della Direttiva Insolvency da parte dei 27 Stati della Ue (la Polonia ancora non ha provveduto, anche se è in dirittura d’arrivo) l’Italia è tra gli Stati che più hanno modificato la loro legislazione. Non si tratta necessariamente di un fattore positivo. Bisognerà guardare al risultato complessivo, anche alla luce del fenomeno, ben noto, della concorrenza tra ordinamenti.
Un panel di questo Convegno, coordinato da Giorgio Corno, past president di Insol Europe, con Kathlene Burke, chair della delegazione Ceril al Working Group V dell’Uncitral di cui ho l’onore di far parte, e Michael Veder, professore all’Università di Nimega, si occupa del fenomeno delle procedure parallele. Apertura di uno scheme of arrangement secondo il diritto inglese a Londra, riconoscimento della procedura in Olanda con apertura di una procedura riconosciuta automaticamente in tutta la UE. Certamente un caso di forum shopping, ma si dice, di buon forum shopping. E’ davvero così? E l’Italia, che ha visto aprire una procedura parallela nella nota procedura Cimolai, è consapevole del fenomeno e lo governa?
Di certo il codice della crisi negli artt. 11 e 26 si occupa di giurisdizione internazionale, ma con norme che sono generalmente ritenute non sufficienti, così com’è insufficiente la vecchia legge n. 218/1995.
Torniamo al codice della crisi. Il titolo del nostro convegno fa riferimento alle opportunità colte e alle occasioni perdute. Incominciamo da queste ultime.
Il primo dato che va considerato è che la riforma attuata dal legislatore è incompleta per espressa scelta del legislatore delegato perché non tutta la delega ha ricevuto attuazione. La legge delega prevedeva che si ponesse mano alla riforma organica delle procedure concorsuali, della disciplina sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento e alla revisione del sistema dei privilegi e delle garanzie.
Quest’ultimo tema è rimasto lettera morta per l’intrinseca difficoltà di sfrondare un sistema di protezioni che affonda le proprie radici nella tutela di interessi radicati. Abbiamo rinunciato ad affiancarci a Paesi come la Germania che dell’eliminazione o riduzione delle categorie di creditori privilegiati aveva fatto un pilastro di un sistema più efficiente nell’individuazione delle soluzioni della crisi d’impresa. A tale omissione si è cercato di rimediare, almeno in parte, recependo nel nostro sistema come criterio di soddisfacimento dei creditori il controverso istituto della relative priority rule, con risultati che sono ancora tutti da verificare.
Un secondo punto inattuato della legge delega ha riguardato la revisione della geografia giudiziaria con riduzione del numero dei tribunali competenti in materia di crisi d’impresa. Anche in questo caso il rifiuto della riduzione che avrebbe consentito di dare più facilmente attuazione all’indicazione della Direttiva Insolvency a favore della specializzazione del giudice, rappresenta certamente un costo per il sistema Paese, cui offre soltanto parziale rimedio la previsione dell’art. 358 CCII che i tribunali possano nominare alle cariche di curatore, commissario giudiziale e liquidatore anche professionisti al di fuori del circondario al quale appartiene il singolo ufficio giudiziario.
Infine la terza previsione della legge delega che non ha avuto attuazione, o meglio che è stata depennata dal testo legislativo ancor prima che questo divenisse legge, riguarda l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, che è rimasta al di fuori della disciplina del codice, con un vulnus al principio della riforma organica sul quale la riforma si è fondata.
E’ un vulnus parziale perché l’amministrazione straordinaria riguarda soltanto le imprese insolventi, non quelle in crisi, anche se è stato sostenuto che la nozione di insolvenza propria dell’amministrazione straordinaria non ne richiederebbe la manifestazione con inadempimenti o altri fatti esteriori e potrebbe quindi comprendere, almeno parzialmente, anche le situazioni di crisi[2]. E va ricordato che il D.L. 18 gennaio 2024, n. 4, modificando l’art. 2, comma 2, del D.L. 347/2003, ha disposto che dalla data di presentazione dell’istanza del socio al Mimit per l’apertura dell’amministrazione straordinaria speciale di imprese che gestiscono uno o più stabilimenti di interesse strategico nazionale, e fino alla chiusura di tale procedura, non può essere proposta la domanda di accesso alla composizione negoziata.
Questo intervento ha sollevato numerose reazioni tra i commentatori, perché sembra indicare la persistente convinzione della politica che la crisi delle grandi imprese richieda strumenti speciali, tanto da vedere come ostacolo anche un procedimento di mera composizione negoziale su base volontaria, che avrebbe tuttavia forse consentito di richiedere una misura protettiva che avrebbe avuto l’effetto di impedire la pronuncia giudiziale su un’istanza di amministrazione straordinaria.
Vanno tuttavia registrati i buoni risultati che i tavoli speciali, istituiti al Mimit per affrontare su base volontaria crisi nazionali e locali, hanno riportato.
Resta tuttavia che l’amministrazione straordinaria si fonda su criteri del tutto diversi da quelli che regolano gli istituti previsti dal codice della crisi e non rispetta il principio fondamentale della tutela del diritto di credito, come diritto costituzionalmente protetto, affermato dalla giurisprudenza della Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 1 del Protocollo Aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fatto proprio dalla Corte Costituzionale. Tale principio si è tradotto nel recepimento nella Direttiva Insolvency della regola, di diversa origine, del creditor no worse off.
Questo principio è uno dei pilastri su cui si fonda la disciplina del codice della crisi. Tutti gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza affermano infatti il principio che il trattamento dei creditori dissenzienti non può essere inferiore a quanto essi potrebbero ricevere in caso di liquidazione giudiziale aperta alla data della domanda di accesso alla diversa procedura di cui si tratta. E’ una regola fondamentale perché comporta che la tutela dei diversi e numerosi interessi tutelati dagli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza non può andare a discapito del diritto di cui è titolare ciascun creditore, nei limiti concreti in cui esso trova protezione nell’ipotesi di avvio della procedura liquidatoria, che è l’unica per la quale il creditore ha il potere di iniziativa in sede di esecuzione individuale e collettiva.
Beninteso il legislatore ha mostrato di voler tutelare molteplici interessi oltre a quello dei creditori. E’ questa certamente un’opportunità colta dal codice.
L’art. 84, comma 2, CCII afferma con chiarezza che il concordato in continuità tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro. Oltre a questi due interessi, espressamente menzionati, gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e la composizione negoziata tutelano il debitore in crisi o insolvente, del resto protetto anche dal sistema della liquidazione giudiziale e della successiva esdebitazione. La prosecuzione dell’attività d’impresa attraverso il suo risanamento o la cessione a terzi nel caso di continuità indiretta sono anch’essi interessi tutelati, come emerge dal principio affermato dall’art. 7, comma 2, CCII in forza del quale nel caso di proposizione di più domande il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata, salvo i casi di inammissibilità della domanda o di manifesta inadeguatezza del piano. La norma menziona anche l’assenza di pregiudizio per i creditori in caso di concordato in continuità, che va peraltro intesa nei limiti del principio del no creditor worse off. Non rappresenta invece un interesse tutelato, ma un limite esterno, la menzione della sicurezza sul lavoro e della tutela dell’ambiente (artt. 56, comma 2, lett. gbis; art. 87, comma 1, lett. f).
Una seconda opportunità colta riguarda l’opzione per una disciplina organica delle procedure concorsuali. Essa ha segnato un importante progresso del codice della crisi rispetto alla normativa che l’ha preceduto. E si tratta di un risultato cui il nuovo decreto correttivo ha largamente contribuito.
La normativa sul sovraindebitamento è diventata parte integrante del codice con la conseguenza che anche le procedure in materia sono soggette ai principi generali esposti nei primi articoli di legge, in primis agli obblighi in materia di diritti e doveri delle parti regolati dall’art. 4 CCII. Se permane un trattamento differenziato da quello dell’imprenditore commerciale per quanto concerne gli imprenditori agricoli e per i soggetti che non sono imprenditori, la disciplina del sovraindebitamento vede il ricorso alle medesime nozioni di crisi ed insolvenza per quanto concerne i presupposti oggettivi, il rinvio alle norme in tema di concordato preventivo per quanto attiene al concordato minore (art. 74, comma 4, CCII). Inoltre le norme in tema di liquidazione giudiziale e liquidazione controllata sono inserite nel medesimo Titolo V, mentre l’art. 270 richiama, quanto agli effetti della sentenza di apertura della procedura, gli artt. 142 e 143 in quanto compatibili e gli artt. 150 e 151. Sono richiamate le norme in materia di procedimento unitario. Infine il regime dell’esdebitazione, ormai compiuto e potremmo dire maturo, si fonda su principi in parte comuni.
Insolvenza e crisi rimangono con il codice un’endiade incrollabile quale presupposto di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Questa scelta storicamente fu effettuata dal legislatore nel lontano 2005, con il D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, che aggiunse un secondo comma all’art. 160 L. fall. che affermava che, ai fini della disciplina del concordato preventivo allora appena novellata dalla riforma Vietti, per stato di crisi s’intendeva anche lo stato di insolvenza.
Il legislatore dell’ultimo correttivo (D.Lgs. n. 136/2024) è intervenuto a modificare l’art. 12 CCII per chiarire che tra i presupposti di accesso alla composizione negoziata rientrano tanto la crisi che l’insolvenza, oltre che lo stato di pre-crisi.
Le recenti disposizioni che hanno esteso anche alla composizione negoziata la disciplina della transazione fiscale e hanno rivisto il relativo regime con riguardo a tutti gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, hanno come ragione fondante l’esistenza di un numero rilevante di imprese insolventi che non possono giungere alla sistemazione della situazione in cui si trovano senza un abbattimento del debito fiscale (e contributivo al di fuori della composizione negoziata).
E’ peraltro evidente che il mantenimento della parificazione delle conseguenze tra crisi ed insolvenza, ancorché il decreto dirigenziale 28.9.2021, modificato dal successivo decreto 21.3.2023, emanato ai sensi dell’art. 13 CCII, chiarisca molto bene la differenza tra le due situazioni e la necessità di interventi da parte dell’imprenditore di tipo diverso, che possono arrivare alla cessione dell’azienda, rappresenta un elemento dissonante nella disciplina legislativa, che favorisce il permanere di cattive abitudini, ostacola il tempestivo redressement e danneggia i creditori.
Tuttavia, il codice ha tratto beneficio dall’inserimento al suo interno della composizione negoziata che rappresenta a tutt’oggi il tentativo più serio, almeno parzialmente riuscito, di assicurare un serio sforzo dell’imprenditore per raggiungere un accordo con i creditori e risanare l’impresa. I dati diffusi da Unioncamere dimostrano un 20% di composizioni negoziate che hanno sortito un esito positivo, non tanto dal punto di vista del raggiungimento di un accordo con i creditori, ma della creazione delle condizioni per l’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e della contestuale salvaguardia di un rilevante numero di posti di lavoro.
E’ questo un tema che sarà ampiamente trattato nella tavola rotonda conclusiva del Convegno, che indagherà sulle prospettive di riuscita di ogni strumento di regolazione della crisi.
Rimane confermato il ruolo essenziale del controllo giudiziario negli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Il legislatore ha preso atto delle difficoltà a regolare in termini di certezza il tema del controllo di fattibilità del piano. Su questo tema specifico l’art. 112, con riguardo al concordato preventivo, prevede opportunamente che, se il concordato ha carattere liquidatorio, il controllo di fattibilità vada inteso come riferito alla non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi del piano. Nel caso del concordato in continuità si richiede nuovamente di accertare che il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza. Tuttavia, non ne deriva affatto un arretramento del controllo giudiziale, non tanto e non soltanto perché a differenza della Direttiva Insolvency il legislatore non limita il controllo soltanto ad alcuni casi[3], ma perché il controllo si esercita con le autorizzazioni degli atti di straordinaria amministrazione, del pagamento dei debiti pregressi, dei finanziamenti, e perché ad esso si aggiungono le competenze in materia di misure protettive, tipiche ed atipiche, e di misure cautelari, secondo la disciplina innovativa degli artt. 54 e 55 CCII.
Tale tipo di controllo, sia pur con diverse sfumature, riguarda anche la composizione negoziata, dove si estende anche alla cessione d’azienda ove il cessionario voglia rilevarla libera dai debiti pregressi. La giurisprudenza che si è formata e che si sta formando sul contenuto delle misure protettive e cautelari ha tratti fortemente innovativi, anche se talvolta opinabili, ed assume le caratteristiche di una giurisprudenza pretorile in forte evoluzione.
L’altro profilo del controllo giudiziario riguarda il fronte del procedimento con riserva. Qui le modifiche dell’art. 44 CCII hanno come conseguenza che se il debitore non allega alla domanda quantomeno un progetto di regolazione della crisi e dell’insolvenza redatto in conformità alle disposizioni che disciplinano lo strumento prescelto, progetto che dovrebbe comprendere tanto la proposta che il piano, si producono gli effetti stabiliti dall’art. 46 per la presentazione della domanda piena di concordato preventivo. Ne segue quindi la nomina del commissario giudiziale, che negli accordi di ristrutturazione rimane facoltativa, e soprattutto la necessità dell’autorizzazione per gli atti urgenti di straordinaria amministrazione, il cui compimento non autorizzato comporta la revoca del decreto di concessione del termine per la presentazione della proposta e del piano. Il progetto è necessario anche per il raddoppio del termine di presentazione della domanda piena dagli iniziali sessanta giorni.
La ristrettezza del termine, il regime di vigilanza rigorosa, rendono poco appetibile il ricorso a questa forma di accesso agli strumenti di regolazione della crisi, nonostante la sospensione delle norme a garanzia del capitale sociale e la possibilità di beneficiare delle misure protettive. E’ evidente il favor del legislatore per la diversa opzione rappresentata dalla composizione negoziata.
La scelta del legislatore di richiedere la predisposizione di un progetto di piano di risanamento per l’accesso alla composizione negoziata (art. 17, comma 3, lett. b) e un progetto di regolazione della crisi e dell’insolvenza da accompagnare alla domanda con riserva di accesso agli strumenti di regolazione della crisi per evitare il regime di controllo più accentuato è coerente con la previsione di assetti adeguati che riguarda ogni impresa e, in particolare, quelle organizzate in forma collettiva.
La predisposizione del progetto di piano e la necessità dell’attestazione del professionista, non indispensabile peraltro nel caso di composizione negoziata, comportano che esista uno spazio di tempo tra il manifestarsi della crisi o dell’insolvenza ed il maturare delle condizioni di accesso alla composizione negoziata o agli strumenti di regolazione della crisi, in pratica il tempo dedicato alla redazione del progetto di piano ed, eventualmente, alle prime indispensabili verifiche con i creditori, nel corso del quale il debitore non è in grado di ottenere protezione.
Il ricorso alla nomina dell’esperto, la necessità della presenza del commissario giudiziale cui si aggiunge, nel caso del concordato semplificato liquidatorio, la nomina dell’ausiliario (l’ausiliario può essere nominato anche durante la composizione negoziata, ai sensi dell’art. 22, comma 2, CCII quando il tribunale sia richiesto di autorizzare finanziamenti prededucibili o la cessione dell’azienda), l’obbligatorietà dell’attestazione del professionista indipendente, il ricorso assai frequente, anche su richiesta di creditori forti, alla figura dell’advisor, la presenza obbligatoria del liquidatore nel concordato preventivo liquidatorio e facoltativa, ma non troppo, nel concordato in continuità, rappresentano una scelta di fondo per un tipo di accesso alla negoziazione e alla composizione della crisi fondata sull’apporto di competenza tecnica in misura rilevante. Anche la disciplina della transazione fiscale, disseminata in numerosi articoli collocati nell’ambito della normazione specifica di ogni istituto, fa ricorso all’attestazione del professionista indipendente.
Tutto ciò incide sui costi di accesso sia alla composizione negoziata che agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, costi che in gran parte beneficiano della prededuzione. L’obiettivo di riduzione dei costi, che era contenuto nella legge delega, ne esce sostanzialmente ridimensionato.
Nel caso del concordato in continuità il legislatore ha introdotto molte novità, in parte notevole indotte dal recepimento della Direttiva Insolvency. La maggior parte di tali innovazioni rappresentano scelte dirette a facilitare la redazione della proposta e la sua approvazione da parte dei creditori e del tribunale.
La scelta della ripartizione dell’attivo tra i creditori, suddivisi obbligatoriamente per classi, secondo il criterio della relative priority rule, ma soltanto per la parte di attivo che eccede il valore di liquidazione, consente, secondo le intenzioni dei compilatori del codice, di predisporre un piano che offra a ciascuna classe di creditori il trattamento più conveniente, tale da favorire l’espressione di un voto favorevole.
Per contro la ripartizione del valore non eccedente quello di liquidazione, nozione di cui il legislatore si è preoccupato di chiarire il contenuto con riferimento a tutti i possibili esiti dell’alternativa eventuale della liquidazione giudiziale, secondo la regola della absolute priority rule, mira ad evitare che il principio del creditor no worse off, possa subire deroghe.
La possibilità di proporre opposizione è tuttavia riservata ai creditori appartenenti alle classi dissenzienti.
In realtà questa disciplina va vista alla luce del complesso sistema di voto adottato, diretto a favorire il risultato positivo della votazione. La proposta può essere approvata da tutte le classi all’unanimità, approvazione che non significa che tutti i creditori siano consenzienti perché l’art. 109, comma 5, CCII considera sufficiente che all’interno di ciascuna classe abbiano votato favorevolmente i due terzi dei crediti dei creditori votanti purché abbiano votato almeno la metà del totale dei crediti della medesima classe, il che corrisponde al 33% dei crediti dei creditori della classe. In difetto è sufficiente che la proposta sia stata approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una classe sia composta da creditori privilegiati capienti, ovvero anche da una sola classe di creditori, a condizione che si tratti di creditori che nel caso di liquidazione giudiziale ed applicando la regola di priorità assoluta, riceverebbero soddisfacimento parziale del loro credito non soltanto sul valore di liquidazione, ma anche sul valore eccedente. Occorre, cioè, che si tratti di creditori in the money, che optano per la soluzione concordataria rinunciando ad un effettivo trattamento utile in caso di liquidazione giudiziale.
Si tratta quindi in quest’ultimo caso, com’è ben stato evidenziato, del voto favorevole di una minoranza, fermo restando il diritto dei creditori dissenzienti di opporsi all’omologazione.
Va sottolineato che l’art. 112, comma 2, lett. b) pone un ulteriore requisito perché richiede che il valore eccedente quello di liquidazione sia distribuito tra le classi in modo tale che i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole di quello delle classi di grado inferiore, salvo che si tratti di crediti di lavoro per i quali deve sempre e comunque essere applicata la regola della priorità assoluta. La medesima regola è espressa anche dall’art. 84, comma 6, CCII.
Il principio è tratto dalla Direttiva Insolvency che all’art. 11, §1, b, ii richiede appunto che, nel caso in cui il piano non sia approvato da tutte le classi, possa essere approvato dall’autorità giudiziaria su proposta del debitore o con l’accordo del debitore e diventi vincolante per le classi dissenzienti quando assicura che le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori.
Il risultato, peraltro, è che l’utilizzo della regola della relative priority rule ne esce depotenziato perché diventa più difficile prevedere un trattamento differenziato delle varie classi, conforme alla ratio stessa della formazione delle classi che è trattare in modo uguale crediti simili, prevedendo trattamenti diversi per crediti che appartengono a diverse classi, in modo da offrire ad ogni gruppo di creditori il trattamento che dovrebbe assicurare il loro consenso.
Le classi dello stesso rango debbono avere ugual trattamento, sia pur guardando, come stabilisce il nostro codice, al trattamento complessivo, mentre i crediti di rango inferiore debbono avere un trattamento meno favorevole. Tuttavia, l’art. 84, comma 6, CCII, nel testo licenziato dal decreto correttivo n. 136/2024 ha cura di precisare che la regola in esame si applica ai fini del giudizio di omologazione, consentendo così la previsione in sede di presentazione della proposta e del piano di criteri di formazione delle classi che possono discostarsi dallo standard normativo, nella ragionevole previsione di un possibile consenso delle classi di creditori interessate.
Una scelta importante della legge delega, di cui forse inizialmente non era stato preso in considerazione il rilevante impatto, è stata la previsione di un procedimento unitario. A dire il vero l’art. 2 della legge n. 155/2017 dava mandato al legislatore delegato di adottare un unico modello processuale per l'accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore, in conformità all'articolo 15 L. fall. e con caratteristiche di particolare celerità, anche in fase di reclamo. Prevedeva inoltre di uniformare e semplificare, in raccordo con le disposizioni sul processo civile telematico, la disciplina dei diversi riti speciali previsti dalle disposizioni in materia concorsuale. La costruzione del procedimento unitario è avvenuta per fasi successive, immaginando un unico contenitore processuale, regolato da principi comuni, che tuttavia assume connotazioni differenti a seconda che si tratti di domande di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza o di accesso alla liquidazione giudiziale, dove il diritto di difesa del debitore comporta il rispetto di principi rigorosi in tema di contraddittorio.
Il risultato va ben oltre l’individuazione di un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza e la previsione di un unico rito in luogo della molteplicità dei riti esistenti. Esiste ora una disciplina processuale completa, coordinata e coerente, che ricomprende anche le norme che regolano le misure provvisorie e cautelari. E’ stato fatto uno sforzo notevole per riportare nella sedes materiae, vale a dire il Titolo III del codice, se non tutte, quasi tutte le norme di carattere processuale. Soltanto le norme processuali in tema di piano di ristrutturazione del consumatore, di concordato minore e di liquidazione controllata sono rimaste prevalentemente al di fuori della disciplina del procedimento unitario, anche se l’art. 65, comma 2, CCII, richiama le disposizioni del Titolo III in quanto compatibili, ad eccezione dell’art. 44 relativo alla domanda con riserva.
Il giudizio sulla scelta operata dal legislatore, che non riguarda soltanto la collocazione delle norme processuali, ma la loro rivisitazione e riscrittura in un insieme ordinato, è positivo, anche se è ovvio che le differenze tra un procedimento a carattere contenzioso e un procedimento a contraddittorio differito ed eventuale sono rilevanti ed evidenti. Sicuramente tale giudizio positivo sarà più facilmente condiviso in futuro, quanto gli operatori si abitueranno al nuovo sistema del codice che è molto diverso da quello della vecchia legge fallimentare, potremmo dire speculare, mettendo al centro non il fallimento, ma la negoziazione e gli strumenti di regolazione della crisi.
Il giudizio complessivo che emerge, a nostro avviso, dalla sommaria rassegna dei temi più interessanti ed attuali che il definitivo assessment del codice della crisi solleva, è certamente positivo.
Il nuovo codice rappresenta uno strumento certamente più moderno ed efficace per la gestione della crisi ed insolvenza ed ha il merito di abbinare alle procedure di ristrutturazione sia in continuità diretta che indiretta, un serio strumento di negoziazione con i creditori, il tutto nel quadro di una disciplina organica, che non manca di affermare principi generali che possono guidare le parti nelle trattative. A tutto ciò si affianca un efficace sistema di misure protettive e cautelari, sufficientemente snelle, senza che per questo si sia rinunciato al controllo del giudice.
Il prezzo da pagare per tutto ciò è costituito dalla complessità delle nuove norme, dall’esistenza di un sistema di controlli in qualche misura sovrabbondante, dalla necessità di numerose figure di professionista che provocano certamente un aumento dei costi ed il lievitare della prededuzione. E’ certamente positivo che sia possibile attraverso la rivista transazione fiscale inserire anche i crediti tributari (e per certa parte contributivi) nell’ambito delle trattative con i creditori. L’altro nodo è costituito dalle norme di vigilanza prudenziale delle banche, anche se l’espressa previsione negli artt. 16 e 18 CCII di un regime di prosecuzione delle linee di credito in corso, sia in caso di accesso alla composizione negoziata sia in caso di richiesta delle misure protettive, dovrebbe temperare le conseguenze automatiche della decisione di avvalersi della composizione stessa. Tutto dipende, in definitiva, dalla maggiore o minore elasticità con cui la banca applica la normativa di vigilanza prudenziale, anche se il riconoscimento della prededuzione sui finanziamenti autorizzati dal tribunale in pendenza di composizione negoziata rappresenta certamente un utile strumento.
Nonostante gli sforzi del legislatore, il percorso rimane complesso. I recenti numeri diffusi da Unioncamere sull’andamento degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e della composizione negoziata, mostrano che i concordati preventivi sono in diminuzione, i concordati semplificati sono poco praticati, gli accordi di ristrutturazione sono stazionari. Solo le composizioni negoziate crescono in qualche misura, anche se non ancora come sarebbe augurabile.
Vi sono inoltre notevoli differenze sul piano geografico tra le varie regioni nell’accesso alle procedure e nel ricorso alla composizione negoziata.
Tutto ciò è certamente conseguenza delle condizioni in cui versano le imprese. Siamo infatti ancora lontani da un mondo in cui la maggior parte degli imprenditori si siano dati assetti adeguati e si siano abituati a controllare l’andamento della tesoreria e della liquidità a 12 mesi. Sono invece frequentissime le situazioni di debito rilevante nei confronti dell’Erario e degli enti previdenziali e di esaurimento del credito bancario.