Si faccia riferimento alla Figura 1 che consente un intuitivo confronto fra le due recenti crisi sopra evocate. La Figura rappresenta l'andamento del Prodotto interno lordo (PIL) dell’AE fra il 2007 e il 2022[1]. Il PIL funge da indicatore degli andamenti macroeconomici in periodi temporali diversi; e, per dare una misura immediata delle sue variazioni nel tempo, sull’asse verticale della Fig. 1 il PIL dell’AE nel 2007 (ossia immediatamente prima dello scoppio della crisi finanziaria internazionale) è stato posto uguale a 100.
È facile notare (anche grazie alle evidenziazioni nel grafico) che, fra la seconda metà del 2007 e la metà del 2009 così come fra l’ultimo trimestre del 2011 e la metà del 2013, il PIL dell’AE ha subito severe cadute. L’usuale lettura economica di tale fenomeno è nota. La crisi finanziaria internazionale (2007-2009) è stata una delle più gravi recessioni non solo del secondo dopoguerra ma addirittura degli ultimi due secoli, tanto da essere paragonabile alla grande crisi del 1929-’33. Se vista in ottica europea, questa fase macroeconomica negativa non si è conclusa nella seconda metà del 2009 (come è accaduto, invece, negli Stati Uniti) perché le difficoltà di Grecia (fine 2009), Irlanda e Portogallo (2010-’11) e il ‘contagio’ di Italia e Spagna (2011-’12) hanno innescato la crisi europea dei debiti sovrani e del settore bancario che è sfociata in una seconda recessione economica tra la fine del 2011 e la metà del 2013. Per l’AE quindi, il periodo problematico del 2007-2013 è stato ancora più grave della grande crisi del 1929-‘33 non foss’altro per la sua maggiore persistenza temporale.
Figura 1. Dinamica del PIL ‘reale’ nell’AE
La Figura 1 evidenzia, tuttavia, un’ulteriore fase di caduta del PIL dell’AE: la prima metà del 2020. Si tratta delle conseguenze imputabili allo shock esogeno della pandemia. L’aspetto rilevante da notare è che, in tale nuova fase, la depressione del PIL è stata molto più marcata di quella fatta registrare durante la già grave crisi economica della decade precedente. Questa semplice evidenza empirica suscita varie domande. Ci si potrebbe, per esempio, chiedere se gli economisti non abbiano sopravvalutato la portata della crisi finanziaria internazionale; e, se così non fosse, per quale ragione la pandemia abbia prodotto effetti economici tanto devastanti. L’andamento del PIL dell’AE nel 2020 e negli anni successivi sollecita, peraltro, una domanda ancora più intrigante: perché la profondità della depressione del primo semestre del 2020 si è accompagnata a un rimbalzo che si è realizzato in un tempo molto più ravvicinato di quello richiesto per uscire dalla crisi precedente. Nel secondo semestre del 2020 ci sono stati, infatti, marcati rialzi del PIL in molti paesi della UE. Vari economisti (incluso il sottoscritto) erano convinti che si fosse di fronte a rimbalzi temporanei perché l’impatto della pandemia avrebbe compromesso la crescita economica dell’AE già nella seconda metà del 2021. Viceversa, come i dati in esame mettono in chiaro, nel 2021 e per gran parte del 2022 quasi tutti i paesi dell'AE e l’area europea nel suo complesso hanno continuato a crescere.
La domanda essenziale, che la Figura 1 pone, è quindi la seguente: quali sono le differenze sostanziali che distinguono la crisi pandemica dalla crisi finanziaria internazionale? Le risposte possibili e ragionevoli sono molteplici. Si potrebbe, per esempio, insistere sulla diversa natura dei due shock oppure sui loro diversi effetti asimmetrici per i singoli stati membri. A mio avviso, queste spiegazioni – pur se plausibili – nascondono una risposta più di fondo anche se complementare alle altre e, dunque, non esaustiva: la diversità delle politiche economiche che sono state messe in campo dall’AE.
Durante la crisi finanziaria internazionale e la successiva crisi europea dei debiti sovrani e del settore bancario, la risposta di politica economica è stata affidata alla Banca centrale europea (BCE). Per ricordare l’efficace espressione di El Erian (a lungo capo di Pimco e attuale consulente economico di Allianz), specie nell’AE e nella UE, la politica monetaria è stata a lungo “l'unico gioco in città”. La politica di bilancio, che noi economisti denominiamo con un anglicismo politica fiscale[2], è stata pro-ciclica nel senso che ha avuto un’intonazione restrittiva o – al più – neutrale nonostante le fasi macroeconomiche recessive. Fra la fine del 2011 e la metà del 2012 e – soprattutto – fra la fine del 2014 e la fine del 2018, il contrasto alle crisi e il sostegno alla crescita sono provenuti dal progressivo abbassamento dei tassi di interesse di policy (che da metà del 2014 hanno iniziato ad assumere valori sempre più negativi) e da progressivi e ingenti aumenti della liquidità immessa dalla BCE nel sistema economico dell’AE mediante i tradizionali canali bancari e – poi – mediante strumenti non convenzionali.
La reazione delle istituzioni europee alla crisi pandemica è stata molto diversa. E’ vero che, da metà marzo 2020, la politica della BCE ha fortemente accentuato la sua intonazione espansiva e non convenzionale con il lancio di un programma aggiuntivo di emergenza per l’acquisto di titoli soprattutto pubblici (il PEPP) e con il temporaneo ampliamento e il rafforzamento dei rifinanziamenti (a tassi negativi) a favore soprattutto delle banche più virtuose in termini di crediti erogati. Tuttavia, tale continuità nella politica monetaria è stata accompagnata da politiche fiscali nazionali altrettanto espansive; anzi, grazie all’accresciuto e sistematico acquisto di titoli pubblici da parte della BCE, anche i paesi ad alto debito pubblico hanno avuto spazi per espandere la spesa pubblica e ridurre le imposte. Prova ne sia che i due grandi stati membri dell’AE con opposte situazioni di bilancio, ossia la Germania e l’Italia, hanno stanziato i più ingenti trasferimenti (in percentuale del loro PIL) a favore di famiglie e imprese durante il culmine della depressione pandemica.
A ciò va aggiunta la novità più importante: per la prima volta dalla nascita della UE e dell’unione monetaria, le istituzioni europee hanno varato un’ingente – pur se temporanea – politica fiscale centralizzata. Innanzitutto, durante la primavera del 2020, sono stati approvati il cosiddetto ‘Temporary Framework’ per l’allentamento dei vincoli rispetto agli aiuti di stato e le ‘clausole di sospensione’ delle regole fiscali (il ‘Patto di stabilità e crescita’). Questa politica si è, poi, concretizzata in due iniziative a favore dei paesi dell’AE: una linea di credito per il sostegno di spese sanitarie, offerta dal Meccanismo europeo di stabilità e rimasta inutilizzata; un finanziamento per l’erogazione di redditi ai lavoratori in stato di temporanea disoccupazione (il SURE), che ha invece ottenuto un pieno successo. Soprattutto, a luglio del 2020, vi è stata l’approvazione dell’iniziativa di Next Generation-EU (NGEU) che ha allocato 750 miliardi di euro (a prezzi di fine 2018) per finanziare con prestiti e trasferimenti i vari stati membri della UE. Tali finanziamenti hanno lanciato una prima e consistente politica fiscale europea che, d’ora in poi, sarà denominata capacità fiscale centralizzata (CFC).
Il più importante programma di NGEU è costituito dal ‘Recovery and Resilience Facility’ (RRF) che ha assorbito circa il 90% delle risorse totali per destinarle, nella forma di prestiti e di trasferimenti (grant), ai singoli paesi della UE in base non solo alla dimensione delle rispettive economie ma anche – e soprattutto – alla vulnerabilità rispetto allo shock pandemico e alle preesistenti fragilità. L’accesso a questi fondi ha richiesto l’elaborazione di Piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR) da parte di ogni stato membro interessato. A partire dalla fine di aprile del 2021, i PNRR sono stati sottoposti al vaglio della Commissione europea e alla successiva approvazione da parte del Consiglio della UE. Ciascuno dei PNRR è stato tenuto a specificare i traguardi qualitativi e gli obiettivi intermedi quantitativi da realizzare in ogni trimestre o semestre fino al termine del programma (2026). L’effettivo accesso alle quote semestrali di fondi, destinati ai singoli stati membri e da essi richiesti in base al PNRR, è stato subordinato al conseguimento di tali traguardi e obiettivi.
L’Italia è il maggior beneficiario, in valore assoluto, dei fondi del RRF; ed è l’unico grande paese ad aver richiesto, fin dal PNRR iniziale, l’intera allocazione dei fondi a esso destinati. Finora l’Italia ha rispettato gli impegni assunti, incassando il 35% del finanziamento europeo totale di propria spettanza (sotto forma di un anticipo del 13% nella tarda estate del 2021 e delle prime due tranche di fine 2021 e di metà 2022); se, come appare molto probabile, la Commissione accerterà che anche i traguardi e gli obiettivi di fine 2022 sono stati raggiunti, la quota salirà al 43%.