Il diritto della crisi d’impresa rappresenta un tema da sempre centrale nel dibattito pubblico e che, soprattutto oggi, alla luce della drammatica esperienza pandemica, necessita di una seria considerazione da parte del legislatore.
In questo senso, istituire un foro di confronto multilaterale e di riflessione condivisa, per discutere dello stato dell’arte del diritto della crisi d’impresa, ripercorrendo le riforme susseguitesi negli anni, e per interrogarsi su quelli che saranno gli scenari e le prospettive di rilancio delle imprese italiane nel futuro post-pandemico, credo rappresenti davvero un segnale importante. Ciò dimostra il costante e proattivo impegno dei più autorevoli studiosi italiani sul tema ad offrire il loro contributo scientifico alla collettività, in vista della individuazione da parte delle istituzioni di soluzioni normative valide, equilibrate ed efficaci per assicurare la ripresa economica del Paese.
Sappiamo bene che questa materia è senz’altro complessa e composita, intrecciandosi profili tanto economici quanto giuridici, i quali a loro volta interessano diversi rami del diritto, tra cui quello penale. Tuttavia, basta volgere lo sguardo alle riforme intervenute negli ultimi quindici anni[1] per comprendere come, dalla prospettiva del penalista, si sia trattato di interventi incompleti.
Invero, all’autentica rivoluzione del comparto civilistico della legge fallimentare non è seguito – salvo alcuni isolati interventi – il conseguente adeguamento delle disposizioni penali, che sono rimaste ancorate al disvalore del fallimento risalente agli scenari precedenti alle riforme inaugurate dagli anni duemila. Ciò inevitabilmente ha comportato un insostenibile disallineamento nell’universo del diritto delle procedure concorsuali tra la disciplina sostanziale e quella sanzionatoria[2] che, di certo, non potrà essere colmato attraverso l’operazione di mera sostituzione lessicale che determinerà la futura entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
Per altro verso, l’assenza di un compiuto intervento riformatore ha lasciato inalterate le ormai tradizionali problematiche che si annidano nella struttura dei reati di bancarotta e che neppure gli sforzi ermeneutici della giurisprudenza possono risolvere.
Seguendo le direttrici che ho appena tracciato, intendo articolare le riflessioni che seguono in due parti, cercando di dare risposta agli interrogativi che emergono.
Nella prima, ripercorrerò cursoriamente le principali tappe di riforma della disciplina civilistica che hanno progressivamente e inesorabilmente ampliato il divario con le disposizioni penali, ricordando altresì i – seppur infruttuosi – tentativi di revisione dei reati di bancarotta che sono stati esperiti nonché i due isolati interventi di adeguamento della disciplina penale al mutato assetto civilistico, consistenti nell’introduzione delle esenzioni di cui all’art. 217 bis l.fall. e del delitto di falso dell’attestatore di cui all’art. 236 bis l.fall. Dedicherò infine un rapido sguardo alle novità di interesse penalistico previste nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza e ai riflessi che alcune disposizioni, seppur apparentemente estranee al diritto penale, sono suscettibili di determinare sul perimetro della posizione di garanzia di amministratori e sindaci societari.
Definito così lo scenario attuale della materia in esame, passerò al secondo versante prima evocato, ponendo in risalto le principali criticità della struttura dei reati di bancarotta e tentando di individuare gli aspetti su cui, a mio parere, dovrebbe indirizzarsi l’opera del futuro legislatore, al fine di supportare le imprese nella fase di superamento della recessione, senza tuttavia sacrificare gli ulteriori interessi in gioco né le indispensabili esigenze di legalità nell’economia.
Prendendo dunque le mosse dalle origini, ho già ricordato che la legge fallimentare, nella sua originaria impostazione, non si era emancipata da quello stesso stigma, connesso alla “rottura del banco”, che caratterizzava la crisi d’impresa in epoca medioevale. La relativa disciplina, volta a tutelare le ragioni dei creditori esclusivamente mediante procedure concorsuali finalizzate all’espulsione dell’imprenditore dal mercato e caratterizzate dalla centralità del ruolo del giudice, altro non era che un’estrinsecazione normativa del brocardo “decoctor, ergo fraudator”. Essa era, quindi, permeata da una logica punitiva dell’imprenditore decotto che rischiava talora di riecheggiare le pericolose logiche del diritto penale d’autore.
È su questo substrato che si incardinavano le fattispecie di bancarotta, caratterizzate da una risposta punitiva draconiana – da tre a dieci anni di reclusione per la forma fraudolenta – che le collocava al vertice della piramide punitiva del diritto penale economico.
Come sappiamo però, il nucleo essenziale della normativa fallimentare-civilistica è stato profondamente modificato da alcuni interventi di riforma succedutisi a partire dal 2005, finalizzati ad agevolare la gestione della crisi aziendale assicurando ampio spazio all’autonomia privata. Il riferimento è, in particolare, all’introduzione dei piani attestati di risanamento di cui all’art. 67, terzo comma, lett. d) l.fall., degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.fall, del concordato preventivo in continuità aziendale ai sensi dell’art. 186-bis l.fall. e del concordato in bianco o con riserva ex art. 161, sesto e decimo comma, l.fall., nonché, infine, della disciplina del sovraindebitamento di cui alla legge 21 gennaio 2012, n. 3.
Interventi, questi, che hanno determinato un autentico mutamento di paradigma nella disciplina fallimentare in cui la finalità liquidatoria ha lasciato il posto all’obiettivo di recupero della continuità aziendale, per il raggiungimento del quale non ci si affida più soltanto al giudice ma si favorisce l’autonomia privata, assicurando al contempo la regolarità e la fattibilità di tali percorsi alternativi attraverso l’istituzione della figura del professionista attestatore. Si è andato cristallizzando inoltre, accanto all’insolvenza, un nuovo concetto – quello di “crisi” – che si identifica in quella fase di squilibrio economico-finanziario, non ancora allarmante, e che segna il momento a partire dal quale l’ordinamento invita l’imprenditore a porre rimedio alla sua situazione, mediante il ricorso a uno degli strumenti di composizione della crisi.
Di fronte a un simile scenario, il legislatore, consapevole dell’interdisciplinarietà della materia fallimentare ha tentato in più occasioni di operare una riforma della materia proprio al fine di coordinare la parte precettiva con quella sanzionatoria[3].
Ritengo, in particolare, degno di nota il disegno di legge presentato, in due versioni, dalla Commissione Trevisanato nel 2003 che tuttavia, a causa della difformità di vedute sulle linee politico-criminali da seguire in relazione alla revisione dei reati fallimentari, non raggiunse i risultati sperati[4]. Al contrario, si decise di stralciare la parte del testo relativa alla riforma delle disposizioni penali e di conferire mandato al Governo esclusivamente per la redazione di un decreto legislativo riguardante le procedure concorsuali; con ciò evidentemente ampliando quello stesso divario che si intendeva colmare.
Severi al riguardo i commenti della dottrina ove si è parlato di “riforma dimezzata”, di “assurdo bicefalismo”[5] e che hanno dato impulso, specie a seguito delle innovazioni dei primi anni duemila cui prima ho fatto cenno, a ulteriori tentativi organici di omogeneizzazione della disciplina concorsuale, anch’essi rivelatisi infruttuosi.
A questo punto, l’unica strada percorribile per assicurare il necessario raccordo tra i nuovi strumenti privatistici di risoluzione della crisi d’impresa e i reati di bancarotta è stata individuata nell’innesto di una disposizione ad hoc, peraltro attraverso il ricorso alla decretazione d’urgenza.
Nel 2010, si affida dunque all’art. 217 bis l.fall., rubricato “Esenzioni dai reati di bancarotta”, il compito di fornire il c.d. scudo penale, rispetto ad eventuali incriminazioni a titolo di bancarotta semplice e preferenziale, all’imprenditore (e ai suoi creditori) che esegua pagamenti in esecuzione di uno degli strumenti offerti dall’ordinamento per la composizione della crisi, cui malauguratamente segua il dissesto dell’impresa[6].
In modo dunque ‘frettoloso’, settoriale e, per certi versi, discutibile – alla luce delle criticità interpretative sollevate dalla disposizione in esame – si è scelto di porre rimedio a un problema alquanto complesso che avrebbe senz’altro meritato una riflessione maggiormente ponderata.
Sempre secondo un simile approccio, nel 2012 si è preso atto del delicato ruolo attribuito ai professionisti attestatori nell’ambito delle soluzioni concordate della crisi, prevedendo una specifica ipotesi di falso all’art. 236 bis l.fall.[7].
Una situazione per certi versi analoga si ripropone oggi con la riforma che ha dato vita al Codice della crisi. Se, invero, il d.lgs. n. 14/2019 costituisce certamente, sul piano civilistico, il punto di arrivo del complesso percorso di riforme intrapreso dal legislatore a partire dal 2005, che radica l’idea secondo cui l’insolvenza rappresenta una «evenienza fisiologica nel ciclo vitale di un’impresa da prevenire ed eventualmente da regolare al meglio»[8]; d’altra parte, come ben evidenziato dalla Commissione Rordorf nella Relazione illustrativa allo schema di legge delega, esso perde l’occasione di un restyling complessivo della normativa penal-fallimentare.
Il Codice della crisi si limita a intervenire sul versante penalistico per rendere più appetibile al debitore il ricorso alle innovative procedure di c.d. early warning, prevedendo, a talune condizioni, delle misure premiali in suo favore (art. 25, secondo comma, C.C.I.), secondo una ratio sostanzialmente analoga a quella sottesa all’art. 217 bis l.fall. In particolare, nell’ambito delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, si introduce una causa speciale di non punibilità, per le diverse ipotesi di bancarotta e ricorso abusivo al credito, limitatamente alle condotte poste in essere prima dell’apertura della procedura, quando il danno cagionato è di speciale tenuità e l’imprenditore si sia tempestivamente attivato per porre rimedio alla propria situazione di crisi, facendo ricorso a uno degli strumenti codicistici.
Anche fuori dai casi in cui il danno sia di speciale tenuità, il Codice ha scelto di prevedere, sempre secondo una logica premiale, una circostanza attenuante a effetto speciale (che determina una diminuzione di pena fino alla metà) a favore del debitore che si sia comunque adoperato tempestivamente, a condizione che sia possibile soddisfare gli interessi di una determinata quota di creditori e, comunque, il danno complessivo cagionato non superi l’importo di due milioni di euro.
Si tratta, a ben vedere, di previsioni la cui entrata in vigore è stata da ultimo posticipata al 31 dicembre 2023, per effetto del decreto-legge 24 agosto 2021, n. 118 (convertito nella legge 24 ottobre 2021, n. 147) adottato dal Governo a seguito dell’emergenza pandemica, tuttavia le prospettive di applicabilità sembrerebbero alquanto scarse – specie con riferimento alla causa di non punibilità – essendo limitata, come si legge nella Relazione illustrativa, ai casi in cui la condotta determini «effetti depauperativi del patrimonio estremamente modesti e con una incidenza minima se non quasi nulla sul soddisfacimento dei creditori»[9]. Casi, dunque, che sembrano di difficile riscontro pratico, anche in considerazione della ben nota tendenza della giurisprudenza a limitare il riconoscimento dell’omonima attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, l. fall. alle situazioni in cui il danno sia di consistenza particolarmente trascurabile ovvero del tutto assente[10].
Per altro verso, sulla falsariga dell’art. 236-bis l. fall., sono state aggiunte, nella fase finale dell’approvazione della bozza di decreto legislativo, due fattispecie criminose agli artt. 344 e 345 C.C.I., che puniscono, rispettivamente, il falso nel procedimento di esdebitazione e il falso nelle attestazioni dei componenti dell’Organismo di composizione della crisi di impresa (OCRI).
Per completezza, sebbene si tratti di disposizioni nominalmente estranee dalla materia penalistica, vale la pena accennare all’introduzione, da parte del Codice, di incisivi obblighi organizzativi e di segnalazione a carico, rispettivamente, di amministratori (o imprenditore) e sindaci, nella misura in cui essi determinano un ampliamento della posizione di garanzia di tali soggetti[11].
Sotto il primo versante, il legislatore del 2019 introduce un secondo comma all’art. 2086 c.c. che configura a carico dell’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, tanto il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, funzionale anche alla rilevazione tempestiva della crisi, quanto il dovere di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.
Quanto alla figura dei sindaci, l’art. 14 del Codice grava tali soggetti (nonché i revisori) dell’obbligo di verificare che gli amministratori monitorino costantemente, anche attraverso l’adozione di iniziative idonee, l’adeguatezza dell’assetto organizzativo dell’impresa, il suo equilibrio economico-finanziario e il prevedibile andamento della gestione, nonché del dovere di «segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi».
In definitiva, è evidente che la normativa di nuovo conio intenda assegnare una valenza determinante al risk management, secondo una prospettiva affine a quella che da un ventennio anima il corpus di disciplina sulla responsabilità da reato degli enti di cui al d.lgs. n. 231/2001, imponendo ab origine la predisposizione di assetti societari volti alla individuazione e gestione di difficoltà economico-finanziarie, ormai ritenute una fisiologica eventualità[12].
Così facendo, la nuova disciplina determina un’estensione degli obblighi di corretta gestione e di controllo della società che potrebbero ripercuotersi sul piano della responsabilità penale di amministratori (perlopiù non esecutivi) e sindaci per non aver impedito, in violazione dei suddetti obblighi, la realizzazione dei fatti di bancarotta da parte degli organi delegati[13]. Come del resto ci insegna un Maestro del diritto penale commerciale, Cesare Pedrazzi, è il corredo di poteri-doveri gravante sul singolo soggetto qualificato a segnare invalicabilmente la sua sfera di intervento[14].
Al di là dunque di questi possibili effetti indiretti sui confini della responsabilità penale e degli istituti premiali che ho prima illustrato, il legislatore delegato, in assenza di delega sul punto, lascia inalterati i delitti di bancarotta, rispetto ai quali si aggiorna soltanto sul piano letterale il riferimento alla nuova procedura concorsuale della liquidazione giudiziale – che prende il posto del fallimento –, specificandosi la continuità normativa con le precedenti figure di reato.
Mi pare però che le iniziative recentemente assunte a livello governativo testimonino come l’esigenza di mettere mano all’ordito di disciplina dei reati fallimentari sia chiaramente avvertita: il Ministro della Giustizia Cartabia ha opportunamente istituito una Commissione ministeriale che, entro il 31 gennaio 2022, dovrà elaborare proposte di revisione dei reati fallimentari nonché adeguare le fattispecie penali alla nuova disciplina sostanziale, «al fine di renderle funzionali, oltre che alla garanzia delle ragioni dei creditori, anche alla prevenzione della crisi d’impresa e al recupero della continuità aziendale».
Un compito, quest’ultimo, di assoluto rilievo e che non può certamente essere rimesso all’interprete, alla luce della molteplicità degli interessi in gioco e dei riflessi della materia in esame sul tessuto sociale ed economico.
Peraltro, e vengo così alla seconda parte delle mie riflessioni, nelle indicazioni provenienti dal Guardasigilli mi pare emerga chiaramente, al di là delle necessità di allineamento di cui si è detto, il riferimento all’esigenza di riformare la struttura dei reati fallimentari, foriera di molteplici profili di criticità dei quali da sempre si discute ma su cui, nei fatti, non si è mai proficuamente indirizzata l’opera del legislatore.
Il principale ordine di problematiche con cui la Commissione dovrà confrontarsi concerne, a mio parere, la selezione delle condotte, poste in essere dall’imprenditore nel ciclo di vita dell’impresa, suscettibili di rilevare a titolo di bancarotta. Esso, in altre parole, ha a che fare con la costruzione di talune fattispecie in chiave di reati di pericolo e con la vexata quaestio circa l’esatta qualificazione giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento.
Sappiamo infatti che vi sono alcune ipotesi di bancarotta configurate come reati di evento in cui si puniscono determinate condotte nella misura in cui abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società: mi riferisco, ad esempio, alla c.d. bancarotta da reato societario rispetto a cui il problema de quo non sussiste dal momento che, almeno sulla carta, il giudice potrà ritenere rilevanti a titolo di bancarotta solo quelle condotte eziologicamente collegate all’esito fallimentare (e che siano altresì oggetto di rappresentazione e volizione da parte dell’agente); inoltre, è pacifico che, in simili evenienze, la dichiarazione di fallimento si atteggi ad evento del reato.
Per converso, la maggioranza delle incriminazioni di bancarotta è strutturata come reato di pericolo, in cui si punisce l’imprenditore che, prima (o a seguito) dell’apertura della procedura fallimentare, ponga in essere una delle condotte incriminate dagli artt. 216 e ss. l.fall. Con particolare riguardo alle ipotesi di bancarotta prefallimentare, tradizionalmente si discute del ruolo da assegnare alla sentenza di fallimento (in particolare, se si tratti di una condizione obiettiva di punibilità estrinseca, come sostenuto dalla dottrina[15] e da qualche recente, minoritaria pronuncia[16] ovvero, secondo la prevalente e tradizionale giurisprudenza, di un elemento costitutivo sui generis, in quanto svincolato dal legame eziologico con la condotta ed escluso dal fuoco del dolo[17]); tuttavia, si è concordi, ad eccezione di un unico e isolato precedente giurisprudenziale del 2012[18], nell’escludere che la declaratoria fallimentare sia qualificabile come evento del reato.
Ciò troverebbe un solido ancoraggio nel fatto che ove il legislatore ha inteso attribuire alla sentenza de qua un siffatto ruolo, vi ha provveduto espressamente qualificando, come prima ricordavo, il dissesto quale evento del reato[19].
È di tutta evidenza dunque che, nelle ipotesi di bancarotta prefallimentare costruite come reati di pericolo in cui non è previsto un legame causale tra le condotte e il fallimento, sorge l’esigenza di circoscrivere temporalmente il perimetro del rimprovero penale in quanto il comportamento del debitore può intervenire in un momento anche molto precedente rispetto alla dichiarazione di fallimento. In altre parole, una volta intervenuta la declaratoria fallimentare non è possibile estendere le maglie della contestazione a titolo di bancarotta ad ogni singolo atto di gestione posto in essere nel corso della vita dell’impresa, bensì occorre selezionare i soli comportamenti antidoverosi che siano commessi in quello che Nuvolone definiva un “periodo di rischio”[20]. Solo rapportando la condotta alla coeva e specifica congiuntura economico-finanziaria dell’impresa potrà apprezzarsi la sua pericolosità per le ragioni dei creditori.
Ed è proprio su questo aspetto che i molteplici progetti di riforma susseguitisi negli anni hanno appuntato la loro attenzione, talvolta proponendo la riformulazione delle ipotesi di bancarotta alla stregua di reati di evento talaltra ancorando il compimento delle condotte al contemporaneo stato di insolvenza ovvero al concreto pericolo del suo incombere.
Una simile lettura – che mi auguro sia ripresa dai lavori della Commissione recentemente istituita – mi pare rifletta bene l’essenza dei reati di bancarotta che trovano, come noto, fondamento nel bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione e gli interessi patrimoniali dei creditori: invero, la logica d’impresa ci insegna che in determinate situazioni l’imprenditore è chiamato a compiere delle operazioni rischiose che possono risolversi, nel breve periodo, in un decremento dell’attivo ma che, nel lungo periodo, si rivelano salvifiche per l’impresa, assicurando la ripresa delle attività nonché il soddisfacimento del ceto creditorio. Bisogna quindi respingere ogni tipo di accertamento improntato alla logica del “senno del poi” alla luce dell’intervenuta insolvenza, ovvero circoscritto all’analisi della condotta di bancarotta isolatamente intesa, dovendosi al contrario considerare attentamente la dinamica economica in cui essa si inserisce e l’evoluzione complessiva della gestione che potrebbe aver neutralizzato i suoi riflessi negativi ovvero averli mantenuti o amplificati fino a degenerare in uno stato di insolvenza.
Peraltro, una logica siffatta sembra aver trovato da tempo conforto nell’istituto, nato nella prassi, della c.d. bancarotta riparata, in base a cui si esclude la punibilità dell’imprenditore che abbia annullato gli effetti di un precedente depauperamento attraverso un’attività di segno contrario che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento.
Come è stato giustamente osservato[21], il ragionamento alla base della bancarotta riparata imperniato sul comportamento dell’imprenditore come fattore di neutralizzazione del pericolo di depauperamento generato da una certa condotta rappresenta null’altro che una species del più ampio genus di accadimenti economici, anche estranei alla sfera di controllo dell’imprenditore, che possono sortire effetti positivi sull’attivo dell’impresa e di cui bisogna avere considerazione nella valutazione delle condotte penalmente rilevanti, al fine di intercettare i soli comportamenti realmente offensivi degli interessi dei creditori e, pertanto, meritevoli di sanzione penale.
Anche in relazione a questi aspetti, ritengo sia imprescindibile il puntuale intervento del legislatore. Sebbene si intravedano talvolta delle timide aperture della giurisprudenza verso una applicazione delle fattispecie di bancarotta maggiormente garantista e ispirata ai principi cardine del sistema penale di offensività e colpevolezza, non mancano letture che tuttora sono improntate a soluzioni che rischiano in taluni casi di dar luogo ad ‘automatismi’ sanzionatori.
Riformando il diritto penale fallimentare, e adeguando la sua essenza alla stessa ratio riabilitativa che oggi caratterizza il versante civilistico, si assicurerebbe non solo una coerenza interna della complessiva disciplina fallimentare, certamente fondamentale in termini di certezza e prevedibilità del diritto, ma anche una maggiore fiducia degli operatori economici nella giustizia. Peraltro, ciò dovrebbe a mio avviso essere accompagnato da una seria riflessione sul tema della specializzazione del giudice, alla luce della complessità della materia fallimentare che si intreccia sempre più con profili di ordine economico.
La necessità di una riforma, d’altronde, non può che risultare particolarmente sentita oggi, in ragione del gran numero di piccole e medie imprese (pilastri del sistema produttivo italiano) cadute in stato di crisi – e dunque direttamente interessate dalle previsioni della disciplina fallimentare – per effetto della recessione globale innescata dalla pandemia da Covid-19 e del conseguente, significativo, crollo del PIL italiano (dell’8,9 %) registrato nel 2020.
Al riguardo, dobbiamo certamente apprezzare le misure da ultimo adottate dal Governo con il d.l. n. 118/2021 (convertito nella legge n. 147/2021) che hanno condotto all’introduzione di una nuova forma di composizione negoziata per la crisi d’impresa[22] e alla corrispondente previsione di un’esenzione dagli addebiti a titolo di bancarotta semplice e preferenziale, sulla falsariga dell’art. 217 bis l.fall.
Tuttavia, credo che, al di là di provvedimenti, per così dire emergenziali, volti alla gestione di esigenze contingenti, sia davvero giunto il momento di dare vita a una riforma di più ampio respiro che in modo organico, ponderato ed equilibrato adegui il diritto penale fallimentare al moderno diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza e che, facendo tesoro delle indicazioni della più autorevole dottrina, intervenga sulla problematica struttura dei reati di bancarotta.
L’obiettivo è certamente complesso, ma la stagione di straordinarie riforme del sistema penale (e non solo) inaugurata negli ultimi mesi credo offra un quadro davvero promettente.