Saggio
Gli obblighi ambientali del curatore fallimentare. Note a margine di C. Stato 3/2021*
Giulia Gabassi, Avvocato in Udine
14 Aprile 2021
Cambia dimensione testo
Sommario:
Una compiuta ricostruzione della problematica non può prescindere dalla considerazione “a monte” che la difficoltà maggiore risiede nell’operare un giusto bilanciamento tra i due principali interessi generali coinvolti in ogni vicenda simile – la tutela ambientale e la gestione concorsuale delle insolvenze – che lungi da porsi in contrasto tra loro, purtuttavia possono in certi frangenti collidere o quantomeno necessitare di un adattamento.
Il caso sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato e la scelta interpretativa offertane consentono dunque di evidenziare i diversi profili problematici e di interrogarsi sulla soluzione offerta, per valutare se essa rappresenti il miglior esito possibile e se un diverso trade-off fosse, o sia ancora, auspicabile.
La vicenda processuale nasceva dall’impugnazione, da parte di una curatrice fallimentare, di un’ordinanza resa da un Comune del nord-est ai sensi degli artt. 192[1] D.Lgs. n. 152 del 2006 e 50, c. 3[2] D.Lgs. n. 267 del 2000, che le ingiungeva di provvedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, a seguito dell’accertamento della presenza di rifiuti abbandonati presso la sede dell’impresa fallita. La curatrice, rilevata l’assenza di fondi nella massa attiva sufficiente a coprire i costi dell’intervento richiesto, comunicava la circostanza al Comune e impugnava l’ordinanza sindacale invocando l’insussistenza della legittimazione passiva rispetto all’ordine dell’Autorità.
Il T.A.R. Veneto con sentenza n. 744 del 19.6.2019 accoglieva l’impugnazione annullando l’ordinanza sindacale. Avverso il predetto provvedimento proponeva ricorso in appello il Comune e la sezione quarta del Consiglio di Stato, rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito alla legittimazione passiva del curatore rispetto all’ordinanza del Sindaco di smaltimento e rimozione dei rifiuti emessa ai sensi del 3° co. dell’art. 192 T.U. Ambiente, rimetteva la decisione all’Adunanza Plenaria[3]. Contrasto giurisprudenziale che, in estrema sintesi, vede opporsi chi[4] sostiene che non gravino sul curatore gli obblighi di ripristino e smaltimento dei rifiuti e conseguentemente questi non abbia legittimazione passiva rispetto alle ordinanze sindacali che a tali adempimenti obblighino, dovendo essere trattato semmai alla stregua di un “proprietario incolpevole”, e altra parte della giurisprudenza[5] che, invece, ammette la legittimazione passiva del curatore proprio in ragione della considerazione che tali obblighi gravino anche sulla curatela fallimentare.
Prima di approfondire i diversi orientamenti, appare opportuno fin da subito circoscrivere l’ambito fattuale oggetto della pronuncia e del presente contributo, che vede il curatore non essere lui stesso “produttore” dei rifiuti (ad esempio nell’esercizio provvisorio dell’impresa ex art. 104 L. fall.) bensì “subire” la presenza di rifiuti prodotti prima della dichiarazione di fallimento dall’impresa, che quest’ultima non abbia correttamente smaltito prima dell’accesso alla procedura concorsuale. Ci si riferisce quindi a beni “prodotti” dall’impresa e che sono l’esito del suo processo produttivo, sgombrando quindi il campo di indagine anche dalla diversa ipotesi in cui negli immobili detenuti dalla curatela fallimentare siano situati rifiuti prodotti o abbandonati da terzi, in relazione ai quali la Procedura si pone quale “terzo incolpevole” che ai sensi dell’art. 192 T.U. Ambiente può essere obbligato al ripristino (e quindi destinatario dell’ordinanza sindacale) solo in presenza di dolo o colpa[6].
La precisazione è necessaria, in quanto il fulcro della problematica, così come della decisione del Consiglio di Stato e delle decisioni contrastanti che ne hanno reso necessario l’intervento, sta nello stabilire su chi ricada la responsabilità della condotta inquinante “commessa” dal fallito e su chi, quindi, gravi l’obbligo dell’eliminazione delle conseguenze dannose quando a essere chiamato a risponderne non sia chi ha effettivamente commesso l’illecito, bensì il curatore nominato a seguito della dichiarazione di fallimento.
Nella ricerca di una soluzione al riguardo non si può prescindere dal principio di matrice europea[7] cui ci si riferisce con la locuzione “chi inquina paga” che, usando le parole del primo considerando della dir. 2008/98/CE, implica che “i costi dello smaltimento dei rifiuti siano sostenuti dal detentore dei rifiuti, dai detentori precedenti o dai produttori del prodotto causa dei rifiuti”[8].
L’obiettivo è quello di creare una “società del riciclaggio”[9] basata su un sistema economico nel quale le conseguenze negative della produzione di rifiuti, derivanti dal loro necessario smaltimento, debbano necessariamente ricadere su colui che abbia ottenuto il vantaggio patrimoniale dall’attività che quei rifiuti ha prodotto. Ma cosa accade, dunque, quando l’impresa diviene insolvente e fallisce? Quale dev’essere il rapporto con il principio della soddisfazione dei creditori e con la gestione concorsuale dell’impresa?
Solo attraverso la corretta applicazione del principio “chi inquina paga” e nella più adeguata considerazione degli obiettivi della procedura concorsuale risiede, dunque, la risposta al quesito inerente la responsabilità del curatore e se “a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192” T.U. Ambiente.
Sgombrato dunque il campo dal rischio di configurare una successione del curatore nella posizione che era propria del fallito “inquinatore”[13], l’Ad. Plen. può ciononostante inferire l’esistenza della responsabilità in ragione del rapporto gestorio del curatore rispetto ai rifiuti prodotti dall’impresa il cui patrimonio è chiamato ad amministrare.
Sulla base, pertanto, della qualificazione del curatore come detentore dei beni (immobili su cui insistono i rifiuti) del soggetto che ha posto in essere la condotta inquinante, esclude l’Ad. Plen. che questi possa essere assimilato al “proprietario incolpevole”[22] al quale l’art. 192 T.U. Ambiente impone gli obblighi di rimozione, avvio a recupero o smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido solo a condizione che ad esso tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa. L’elemento soggettivo del curatore non assume infatti importanza, dovendosi sostanzialmente configurare una responsabilità “da posizione” o semi-oggettiva, derivante dal più volte detto rapporto di detenzione e di potere gestorio.
Il ragionamento seguito dall’Ad. Plen., però, sembra trascurare che ciò che pare consentire di distinguere tra il curatore e il proprietario incolpevole[23] non sembra tanto essere la detenzione dell’immobile, di certo presente anche con riferimento al predetto proprietario incolpevole, bensì il nesso eziologico tra l’attività d’impresa e la produzione dell’inquinamento, che non viene meno in ragione della dichiarazione di fallimento. Come chiaramente espresso dall’ordinanza di rimessione[24] “la curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all’art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall’attività imprenditoriale cessata”: ciò che sembra contare, dunque, è l’”identità di impresa e patrimonio” del soggetto prima e dopo la dichiarazione di fallimento.
Giunta a queste conclusioni sul piano teorico, l’Ad. Plen. si trova a dover risolvere la problematica della possibile incapienza dell’attivo fallimentare a far fronte ai costi necessari alla bonifica: sul punto il giudicante osserva che trattasi di “evenienza di mero fatto”, inidonea a modificare l’affermazione dell’ “imputabilità al fallimento dell’obbligo di porre in essere le attività strumentali alla bonifica”, poiché in tali così – così come avverrebbe anche a prescindere dal fallimento – sarà il Comune a intervenire a rivalersi poi sul patrimonio dell’impresa con l’insinuazione al passivo che godrà del privilegio di cui all’art. 253 T.U. Ambiente[25].
Così come mera eventualità di fatto, afferma l’Ad. Plen., è la possibilità che il curatore rinunci ad acquisire il bene ai sensi dell’art. 42, co. 3 L. fall.[26], norma che comunque non si applicherebbe ai casi “quale quello all’esame del Collegio – in cui il bene, cioè l’immobile inquinato, risulti di proprietà dell’imprenditore al momento della dichiarazione di fallimento”[27].
Quale ultima argomentazione, l’Ad. Plen. – pur senza approfondire la questione – rileva che l’affermazione del principio della responsabilità della curatela rispetto agli obblighi di bonifica a prescindere dall’accertamento dell’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno contestato sarebbe coerente con la giurisprudenza comunitaria formatasi sull’applicazione della dir. 2004/35/CE “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale” in particolare con l’ultima lettura offertane dalla Corte di Giustizia[28] secondo cui “Le disposizioni della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, lette alla luce degli articoli 191 e 193 TFUE devono essere interpretate nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, esse non ostano a una normativa nazionale che identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato l’inquinamento illecito, un’altra categoria di persone solidamente responsabili di un tale danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che occorra accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei proprietari e il danno constatato, a condizione che tale normativa sia conforme ai principi generali di diritto dell’Unione, nonché ad ogni disposizione pertinente dei Trattati UE e FUE e degli atti di diritto derivato dell’Unione”.
Al contempo, stante la possibilità che la curatela non abbia la liquidità per procedere all’esecuzione delle opere, afferma l’Ad. Plen., “il Comune, qualora intervenga direttamente esercitando le funzioni inerenti all’eliminazione del pericolo ambientale, potrà poi insinuare le spese sostenute per gli interventi nel fallimento, spese che godranno del privilegio speciale sull’area bonificata a termini dell’art. 253, comma 2, d.lgs. n. 152-2006”.
Note: