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Saggio

Gli obblighi ambientali del curatore fallimentare. Note a margine di C. Stato 3/2021*

Giulia Gabassi, Avvocato in Udine

14 Aprile 2021

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il contributo analizza la problematica inerente gli obblighi del curatore fallimentare in materia ambientale, in particolare a seguito della pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2021 che ha affermato il principio per cui “ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 D.Lgs. n. 152-2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”. 
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1 . Introduzione: il caso di specie
La recente pronuncia del Consiglio di Stato n. 3 del 26 gennaio 2021, resa in Adunanza Plenaria, fornisce l’occasione per affrontare un tema molto dibattuto per le rilevanti questioni teoriche che sono coinvolte e per le importanti conseguenze pratiche che ne discendono. Ci si riferisce alla problematica della gestione dei rifiuti e, in generale, dei siti inquinati, da parte del curatore fallimentare dell’impresa che di tali condotte inquinanti sia stata l’artefice.
Una compiuta ricostruzione della problematica non può prescindere dalla considerazione “a monte” che la difficoltà maggiore risiede nell’operare un giusto bilanciamento tra i due principali interessi generali coinvolti in ogni vicenda simile – la tutela ambientale e la gestione concorsuale delle insolvenze – che lungi da porsi in contrasto tra loro, purtuttavia possono in certi frangenti collidere o quantomeno necessitare di un adattamento.
Il caso sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato e la scelta interpretativa offertane consentono dunque di evidenziare i diversi profili problematici e di interrogarsi sulla soluzione offerta, per valutare se essa rappresenti il miglior esito possibile e se un diverso trade-off fosse, o sia ancora, auspicabile.
La vicenda processuale nasceva dall’impugnazione, da parte di una curatrice fallimentare, di un’ordinanza resa da un Comune del nord-est ai sensi degli artt. 192[1] D.Lgs. n. 152 del 2006 e 50, c. 3[2] D.Lgs. n. 267 del 2000, che le ingiungeva di provvedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, a seguito dell’accertamento della presenza di rifiuti abbandonati presso la sede dell’impresa fallita. La curatrice, rilevata l’assenza di fondi nella massa attiva sufficiente a coprire i costi dell’intervento richiesto, comunicava la circostanza al Comune e impugnava l’ordinanza sindacale invocando l’insussistenza della legittimazione passiva rispetto all’ordine dell’Autorità.
Il T.A.R. Veneto con sentenza n. 744 del 19.6.2019 accoglieva l’impugnazione annullando l’ordinanza sindacale. Avverso il predetto provvedimento proponeva ricorso in appello il Comune e la sezione quarta del Consiglio di Stato, rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito alla legittimazione passiva del curatore rispetto all’ordinanza del Sindaco di smaltimento e rimozione dei rifiuti emessa ai sensi del 3° co. dell’art. 192 T.U. Ambiente, rimetteva la decisione all’Adunanza Plenaria[3]. Contrasto giurisprudenziale che, in estrema sintesi, vede opporsi chi[4] sostiene che non gravino sul curatore gli obblighi di ripristino e smaltimento dei rifiuti e conseguentemente questi non abbia legittimazione passiva rispetto alle ordinanze sindacali che a tali adempimenti obblighino, dovendo essere trattato semmai alla stregua di un “proprietario incolpevole”, e altra parte della giurisprudenza[5] che, invece, ammette la legittimazione passiva del curatore proprio in ragione della considerazione che tali obblighi gravino anche sulla curatela fallimentare.
Prima di approfondire i diversi orientamenti, appare opportuno fin da subito circoscrivere l’ambito fattuale oggetto della pronuncia e del presente contributo, che vede il curatore non essere lui stesso “produttore” dei rifiuti (ad esempio nell’esercizio provvisorio dell’impresa ex art. 104 L. fall.) bensì “subire” la presenza di rifiuti prodotti prima della dichiarazione di fallimento dall’impresa, che quest’ultima non abbia correttamente smaltito prima dell’accesso alla procedura concorsuale. Ci si riferisce quindi a beni “prodotti” dall’impresa e che sono l’esito del suo processo produttivo, sgombrando quindi il campo di indagine anche dalla diversa ipotesi in cui negli immobili detenuti dalla curatela fallimentare siano situati rifiuti prodotti o abbandonati da terzi, in relazione ai quali la Procedura si pone quale “terzo incolpevole” che ai sensi dell’art. 192 T.U. Ambiente può essere obbligato al ripristino (e quindi destinatario dell’ordinanza sindacale) solo in presenza di dolo o colpa[6].
La precisazione è necessaria, in quanto il fulcro della problematica, così come della decisione del Consiglio di Stato e delle decisioni contrastanti che ne hanno reso necessario l’intervento, sta nello stabilire su chi ricada la responsabilità della condotta inquinante “commessa” dal fallito e su chi, quindi, gravi l’obbligo dell’eliminazione delle conseguenze dannose quando a essere chiamato a risponderne non sia chi ha effettivamente commesso l’illecito, bensì il curatore nominato a seguito della dichiarazione di fallimento.
Nella ricerca di una soluzione al riguardo non si può prescindere dal principio di matrice europea[7] cui ci si riferisce con la locuzione “chi inquina paga” che, usando le parole del primo considerando della dir. 2008/98/CE, implica che “i costi dello smaltimento dei rifiuti siano sostenuti dal detentore dei rifiuti, dai detentori precedenti o dai produttori del prodotto causa dei rifiuti”[8].
L’obiettivo è quello di creare una “società del riciclaggio”[9] basata su un sistema economico nel quale le conseguenze negative della produzione di rifiuti, derivanti dal loro necessario smaltimento, debbano necessariamente ricadere su colui che abbia ottenuto il vantaggio patrimoniale dall’attività che quei rifiuti ha prodotto. Ma cosa accade, dunque, quando l’impresa diviene insolvente e fallisce? Quale dev’essere il rapporto con il principio della soddisfazione dei creditori e con la gestione concorsuale dell’impresa?
Solo attraverso la corretta applicazione del principio “chi inquina paga” e nella più adeguata considerazione degli obiettivi della procedura concorsuale risiede, dunque, la risposta al quesito inerente la responsabilità del curatore e se “a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192” T.U. Ambiente.
2 . La decisione del Consiglio di Stato, Ad. Plen., 26 gennaio 2021, n. 3: la responsabilità del curatore
Invertendo la progressione logica, si riporta il principio di diritto espresso dall’Ad. Plen. secondo cui “ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152-2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”.
Per giungere a tale conclusione l’Ad. Plen. muove dalla considerazione che il curatore, tramite l’inventario dei beni dell’impresa medesima ex artt. 87 e ss. L. fall., diviene detentore del sito ove sono collocati i rifiuti e, conseguentemente, detentore anche di questi ultimi: dalla mera detenzione dei beni, dunque, discende l’onere di bonifica e di ripristino.
Sarebbe dunque la posizione di “detentore” a fondare la responsabilità del curatore, “detenzione” la cui definizione non deve essere ricavata dal diritto nazionale e dalla ivi presente differenziazione tra detenzione e possesso, bensì sulla base dell’art. 3 della dir. 2008/98/CE che definisce appunto il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti o rectius, sottolinea l’Ad. Plen., dei beni immobili su cui essi insistano. La detenzione si sostanzierebbe, dunque, da un lato nella disponibilità materiale dei beni e dall’altro nell’esistenza di un rapporto giuridico con il bene che attribuisca al titolare il potere/dovere di amministrarli e, conseguentemente, di metterli in sicurezza ed eventualmente “gestire” i rifiuti che vi siano collocati[10].
Diventa irrilevante, quindi, al fine definitorio individuare il titolo giuridico che attribuisce al detentore tale qualifica, essendo sufficiente che egli – non essendo produttore – abbia un qualsivoglia potere gestorio del bene su cui i rifiuti sono stati abbandonati.
La definizione europea della “detenzione”, idonea a ricomprendere secondo l’Ad. Plen. anche il curatore fallimentare, consente peraltro al Consiglio di Stato di precisare che il curatore non può qualificarsi come “avente causa del fallito” né che, con il fallimento, si crei un “fenomeno successorio sul piano giuridico”, sul punto tagliando alla radice le possibili obiezioni di quella parte della giurisprudenza che aveva escluso la legittimazione passiva del curatore rispetto agli obblighi di ripristino e rimozione proprio facendo leva sulla considerazione che il curatore “non è rappresentante, nè successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge"[11]  così escludendo la responsabilità al curatore fallimentare ritenendo che essa avrebbe  “fratturato il sistema” e finito “con l'addossare al curatore una responsabilità che neppure sarebbe stata del proprietario incolpevole, e ciò sulla scorta di una riconducibilità al medesimo dello statuto del "detentore" che non risponde alla funzione espletata dal curatore medesimo”[12].
Sgombrato dunque il campo dal rischio di configurare una successione del curatore nella posizione che era propria del fallito “inquinatore”[13], l’Ad. Plen. può ciononostante inferire l’esistenza della responsabilità in ragione del rapporto gestorio del curatore rispetto ai rifiuti prodotti dall’impresa il cui patrimonio è chiamato ad amministrare. 
Sebbene però l’Adunanza Plenaria chiarisca che “la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare ‘beni negativi’), ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di proprietà dell’imprenditore) su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti” ciò che in realtà sembra assumere rilevanza, in molti passaggi della sentenza, è come si è già precisato la circostanza che i rifiuti siano il prodotto[14] (l’esternalità negativa di produzione, usando le parole della stessa Ad. Plen.) dell’attività di impresa e che quindi i costi per il loro smaltimento debbano essere sopportati da chi ha tratto il beneficio economico dall’attività che ne è stata l’origine[15].  Siccome obbligato a effettuare le operazioni di smaltimento e ripristino è, in primo luogo, colui che ha prodotto il rifiuto, allora l’obbligo deve gravare o sullo stesso imprenditore o su chi ne sia chiamato a gestire il patrimonio, dopo l’accesso alla procedura concorsuale[16], posto che peraltro la disciplina europea non prevede alcuna eccezione per il curatore fallimentare.
Affinché, dunque, il costo dell’attività inquinante non ricada sulla collettività e rimanga invece a carico di chi tale condotta ha posto in essere, il Consiglio di Stato fa applicazione del già citato principio “chi inquina paga” secondo cui (art. 14 della dir. 2008/98/CE[17]) “i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti”[18] affermando la legittimazione passiva del curatore rispetto agli obblighi di ripristino ambientale, coercibili anche dall’ente pubblico attraverso l’adozione della più volte citata ordinanza ai sensi dell’art. 192 T.U. Ambiente. 
È evidente che l’addossare la responsabilità e i costi delle attività di rimozione o ripristino alla curatela fallimentare dell’impresa produttrice comporta necessariamente la traslazione di quei medesimi costi sul ceto creditorio[19] ed è proprio su questa conseguenza che si instaura una delle più concrete differenze tra l’orientamento ora accolto dal Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria e quello opposto: per il primo in tal modo si applica effettivamente il Polluter Pays Principle, per il secondo si ha invece una violazione di tale principio, perchè il costo è ribaltato non su chi ha posto in essere la condotta inquinante, ma su terzi “incolpevoli” che nessuna influenza avevano o potevano avere sulla gestione dell’impresa[20].
Al contempo, dunque, vengono attribuiti al curatore obblighi ulteriori rispetto alla pura gestione del patrimonio fallimentare nell’ottica liquidatoria per la soddisfazione dei creditori, trovandosi infatti incaricato di “politiche attive” di ripristino ambientale normalmente connesse all’esercizio dell’attività di impresa[21] ma che, dunque, per effetto della “detenzione” dei beni dell’impresa e del potere di amministrazioni sugli stessi si configurano anche in capo al curatore fallimentare. 
Sulla base, pertanto, della qualificazione del curatore come detentore dei beni (immobili su cui insistono i rifiuti) del soggetto che ha posto in essere la condotta inquinante, esclude l’Ad. Plen. che questi possa essere assimilato al “proprietario incolpevole”[22] al quale l’art. 192 T.U. Ambiente impone gli obblighi di rimozione, avvio a recupero o smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido solo a condizione che ad esso tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa. L’elemento soggettivo del curatore non assume infatti importanza, dovendosi sostanzialmente configurare una responsabilità “da posizione” o semi-oggettiva, derivante dal più volte detto rapporto di detenzione e di potere gestorio.
Il ragionamento seguito dall’Ad. Plen., però, sembra trascurare che ciò che pare consentire di distinguere tra il curatore e il proprietario incolpevole[23] non sembra tanto essere la detenzione dell’immobile, di certo presente anche con riferimento al predetto proprietario incolpevole, bensì il nesso eziologico tra l’attività d’impresa e la produzione dell’inquinamento, che non viene meno in ragione della dichiarazione di fallimento. Come chiaramente espresso dall’ordinanza di rimessione[24] “la curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all’art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall’attività imprenditoriale cessata”: ciò che sembra contare, dunque, è l’”identità di impresa e patrimonio” del soggetto prima e dopo la dichiarazione di fallimento.
Giunta a queste conclusioni sul piano teorico, l’Ad. Plen. si trova a dover risolvere la problematica della possibile incapienza dell’attivo fallimentare a far fronte ai costi necessari alla bonifica: sul punto il giudicante osserva che trattasi di “evenienza di mero fatto”, inidonea a modificare l’affermazione dell’ “imputabilità al fallimento dell’obbligo di porre in essere le attività strumentali alla bonifica”, poiché in tali così – così come avverrebbe anche a prescindere dal fallimento – sarà il Comune a intervenire a rivalersi poi sul patrimonio dell’impresa con l’insinuazione al passivo che godrà del privilegio di cui all’art. 253 T.U. Ambiente[25].
Così come mera eventualità di fatto, afferma l’Ad. Plen., è la possibilità che il curatore rinunci ad acquisire il bene ai sensi dell’art. 42, co. 3 L. fall.[26], norma che comunque non si applicherebbe ai casi “quale quello all’esame del Collegio – in cui il bene, cioè l’immobile inquinato, risulti di proprietà dell’imprenditore al momento della dichiarazione di fallimento”[27].
Quale ultima argomentazione, l’Ad. Plen. – pur senza approfondire la questione – rileva che l’affermazione del principio della responsabilità della curatela rispetto agli obblighi di bonifica a prescindere dall’accertamento dell’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno contestato sarebbe coerente con la giurisprudenza comunitaria formatasi sull’applicazione della dir. 2004/35/CE “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale” in particolare con l’ultima lettura offertane dalla Corte di Giustizia[28] secondo cui “Le disposizioni della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, lette alla luce degli articoli 191 e 193 TFUE devono essere interpretate nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, esse non ostano a una normativa nazionale che identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato l’inquinamento illecito, un’altra categoria di persone solidamente responsabili di un tale danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che occorra accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei proprietari e il danno constatato, a condizione che tale normativa sia conforme ai principi generali di diritto dell’Unione, nonché ad ogni disposizione pertinente dei Trattati UE e FUE e degli atti di diritto derivato dell’Unione”.
a . Tutela ambientale e disciplina concorsuale
La decisione dell’Adunanza Plenaria risulta fondarsi principalmente, come si è visto, sulla riconduzione del curatore fallimentare alla figura di un “detentore” per gli effetti della dir. 2008/98/CE o comunque di un soggetto che ha la “materiale disponibilità” dei beni immobili e, conseguentemente, dei rifiuti ivi abbandonati: occorre dunque chiedersi se questa desunzione, benché potenzialmente idonea a far rientrare il curatore nella definizione “letterale” europea di detentore, sia anche compatibile con il senso di tale definizione, ai fini della tutela ambientale.
Appare necessario, innanzitutto, mettere un po’ di ordine (seppur necessariamente non esaustivo data la natura del contributo) nel complesso quadro che interessa la materia ambientale, evidenziando alcuni punti fermi che consentano comunque di comprendere che cosa “ci chiede l’Europa” di fare o non fare e che cosa ci lascia liberi di scegliere: solo una volta piantati questi paletti, dunque, sarà possibile con consapevolezza invocare principi europei per giustificare scelte (legislative o giudiziarie) interne.
Ricordando il disposto dell’art. 117 Cost., infatti, “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.” e, in ottica europea, la legittimità della normativa nazionale va valutata non solo in raffronto con i Trattati, ma anche con riferimento al diritto derivato, stante il primato del diritto europeo.
Partendo, dunque, dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, osserviamo che esso contiene il Titolo XX, che si apre con l’art. 191 e che attribuisce e disciplina la competenza dell’Unione Europea in materia ambientale[29]. Nel farlo stabilisce alcuni principi ai quali le politiche europee devono orientarsi: si tratta in particolare dei principi della precauzione e dell'azione preventiva, del principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché del principio "chi inquina paga"[30].
Nell’esercizio della competenza in materia ambientale, l’Unione Europea può quindi adottare misure di armonizzazione[31], dacché l’adozione della ampiamente invocata dir. 2008/98/CE e della dir. 2004/35/CE, che gli Stati Membri sono (stati) obbligati ad attuare. Nel T.U. Ambiente, dunque, troviamo una disciplina della “materia ambientale” che è in parte attuazione di diritto derivato[32], in parte invece risultato esclusivo della legiferazione domestica. Una delle difficoltà da affrontare risiede, dunque, nello stabilire il confine tra la corretta trasposizione delle direttive europee e il legittimo esercizio del potere legislativo per quanto non rinunciato a favore della potestà eurounionale.
Muovendo, dunque, dalla dir. 2004/35/CE, essa “istituisce un quadro per la responsabilità ambientale, basato sul principio «chi inquina paga», per la prevenzione e la riparazione del danno ambientale” (art. 1) e prevede obblighi di facere a fini preventivi e/o riparativi del danno cagionato a carico dell’”operatore”, definito come “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale oppure, quando la legislazione nazionale lo prevede, a cui è stato delegato un potere economico decisivo sul funzionamento tecnico di tale attività, compresi il titolare del permesso o dell'autorizzazione a svolgere detta attività o la persona che registra o notifica l'attività medesima”. Il destinatario delle previsioni di tale direttiva è quindi solo l’operatore, e non già ad esempio il “proprietario incolpevole” dell’immobile sul quale siano stati abbandonati i rifiuti. Tuttavia l’art. 16 dispone che la direttiva “non preclude agli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, comprese l'individuazione di altre attività da assoggettare agli obblighi di prevenzione e di riparazione previsti dalla presente direttiva e l'individuazione di altri soggetti responsabili”. Ciò significa che, se lo Stato Membro adotta una normativa interna che impone obblighi di prevenzione e/o riparazione del danno ambientale a soggetti diversi rispetto all’operatore così come definito dalla direttiva lo può fare sulla base della clausola contenuta nell’art. 16 (che sostanzialmente precisa che si tratta di direttiva non esaustiva), ma – e qui si inserisce la pronuncia della Corte di Giustizia 13 luglio 2017, in C- 129/16 citata dall’Ad. Plen. – “a condizione che tale normativa sia conforme ai principi generali di diritto dell’Unione, nonché ad ogni disposizione pertinente dei Trattati UE e FUE e degli atti di diritto derivato dell’Unione
Ciò premesso e vedendo al caso in esame si può innanzitutto osservare che o si afferma che il curatore fallimentare si identifica con l’operatore così come definito dalla dir. 2004/35/CE (ma ciò non pare sostenere l’Ad. Plen.) o si ritiene che il curatore fallimentare rientri in un’altra categoria di soggetti cui la legislazione italiana attribuisce la responsabilità utilizzando la clausola di non esaustività dell’art. 16, ma in tal caso occorre dimostrare che l’estensione al curatore della responsabilità sia conforme ai principi “europei” in tema ambientale. 
Ove si decidesse, comunque, per l’assimilazione curatore fallimentare-operatore, in una sorta di immedesimazione organica tra il gestore della procedura e l’impresa gestita, qual che si trattasse di una qualsiasi successione nel ruolo di legale rappresentante (ove si sta parlando di un ente), occorre però notare che le responsabilità previste dalla direttiva si applicano solamente se sussiste un nesso causale tra l’attività dell’operatore e l’inquinamento[33], nesso eziologico che può essere anche presunto, ma che dev’essere accertato. Il che significa, applicando il principio al nostro sistema, che il Comune per poter emettere una valida ordinanza nei confronti dell’operatore-curatore dovrà in primo luogo accertare che i rifiuti di cui ordina lo smaltimento siano stati causalmente determinati dall’attività economica esercitata dall’impresa (ora fallita).
Vi è poi la dir. 2008/98/CE relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, su cui l’Ad. Plen. basa la maggior parte della motivazione, il cui art. 14 in particolare precisa che: “Secondo il principio «chi inquina paga», i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti”. Dalla più volte citata considerazione del curatore quale “detentore” discenderebbe, dunque, la sua responsabilità per la gestione dei rifiuti.
Se è vero, però, che la direttiva 2008/98/CE non pone “eccezioni” per il curatore fallimentare con riferimento agli obblighi di “gestione” dei rifiuti[34], è altrettanto vero che la stessa direttiva non pone indicazioni specifiche relative alle modalità e alle misure che devono essere adottate in relazione a tale gestione: precisati gli obiettivi che l’azione degli Stati Membri deve attuare, resta poi a questi ultimi scegliere e adottare le misure necessarie per ottenerli[35]. Ciò ci consente di dire che l’osservazione del Consiglio di Stato circa l’assenza di una previsione di esclusione per il curatore degli obblighi di rimozione o ripristino pare priva di particolare significato: non è l’Unione Europea che “ci chiede” di considerare il curatore come destinatario delle ordinanze sindacali che impongono il ripristino e lo smaltimento dei rifiuti. Né ce lo chiede il principio eurounitario “chi inquina paga”: dalla regola per cui i costi per lo smaltimento o la rimozione dei rifiuti devono gravare sul patrimonio di colui che ha posto in essere la condotta illecita non sembra potersi inferire che si debba necessariamente imporre un obbligo di facere al soggetto incaricato del munus publicum della gestione dell’impresa insolvente.
Quello che il principio “chi inquina paga”, invece, sembra imporre è che il patrimonio che si è formato grazie alla produzione o abbandono illeciti di rifiuti o che non abbia subito i costi dello smaltimento non si avvantaggi per effetto di questa condotta: se si leggono infatti gli obblighi ambientali anche alla luce dell’obiettivo della creazione di un mercato unico europeo nel quale sia esercitata la libera concorrenza nel cui quadro si muovono anche le politiche europee in materia ambientale, destinate a creare un sistema regolatorio che favorisca quelle attività economiche che sono in grado di ridurre l’impatto ambientale del loro ciclo produttivo o di riciclare gli scarti, rendendo il rifiuto un “bene”, ci è chiaro che l’impresa che ha mal gestito i rifiuti non deve avere un vantaggio concorrenziale derivante dalle spese non sopportate e, pertanto, i costi dello smaltimento che non sia stato correttamente effettuato devono “gravare sulla massa” con ciò intendendo che le spese devono essere sopportate dal patrimonio di chi ha posto in essere la condotta. Fin qui ci porta l’argomento europeo, e peraltro anche l’orientamento giurisprudenziale cui l’Adunanza Plenaria si oppone, che aveva negato che il curatore potesse essere destinatario dell’ordinanza di rimozione emessa dal Sindaco, non aveva però di certo al contempo escluso che le spese che l’ente pubblico avesse dovuto sopportare per il ripristino “in surroga” non potessero essere ammesse al passivo[36]. Né tale esclusione sarebbe stata concepibile, posto che è lo stesso T.U. Ambiente all’art. 253 a prevedere che “Le spese sostenute per gli interventi di cui al comma 1 sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2748, secondo comma, del codice civile. Detto privilegio si può esercitare anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull'immobile”.
Quando, dunque, l’orientamento ora accolto dall’Ad. Plen. sostiene che sia indispensabile considerare il curatore quale legittimato passivo dell’ordinanza sindacale di rimozione e ripristino per evitare che i relativi costi rimangano a carico “della collettività” e per applicare il principio “chi inquina paga” non sembra cogliere nel segno: il credito dell’ente pubblico (che rappresenta la “collettività”) per le spese necessarie alla bonifica può essere infatti ammesso al passivo (con la sopra indicata causa legittima di prelazione) e ciò indipendentemente dal fatto che il curatore possa essere o meno destinatario dell’ordinanza di ripristino o smaltimento.
A quanto sin qui detto deve aggiungersi un’altra considerazione, quella per cui la dir. 2008/98/CE stabilisce “misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana prevenendo o riducendo gli impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti, riducendo gli impatti complessivi dell’uso delle risorse e migliorandone l’efficacia” (art. 1), dando agli stati Membri la possibilità di adottare misure per “rafforzare il riutilizzo, la prevenzione, il riciclaggio e l’altro recupero dei rifiuti” (art. 8) o, per esempio, “per promuovere il riutilizzo dei prodotti e le misure di preparazione per le attività di riutilizzo”. 
La disciplina europea in materia ambientale ha quindi un focus propositivo, nel senso già indicato, di voler favorire una crescita sostenibile, in cui il rispetto dell’ambiente non solo sia doveroso per l’imprenditore, ma anche gli convenga: per raggiungere tale obiettivo la prima soluzione è dunque quella di rendere economicamente non conveniente un’attività che comporti costi ambientali elevati. Qui, tuttavia, si spezza il filo sotteso alla decisione del Consiglio di Stato: quale obiettivo ambientale o di politica economica virtuosa viene raggiunto imponendo alla curatela fallimentare – che è gestore pubblico di un’impresa insolvente – obblighi di ripristino ambientale la cui inosservanza comporta anche una responsabilità personale penale del curatore?
Del tutto omesso, infatti, dalle motivazioni sia della pronuncia dell’Ad. Plen. che della successiva decisione del 19.2.2021 della sezione quarta è il profilo sanzionatorio penale, che discende dall’aver affermato che il curatore è da qualificarsi “detentore” e possibile destinatario dell’ordinanza sindacale[37], la cui inottemperanza costituisce una contravvenzione, sanzionata dall’ultimo comma dell’art. 255 del T.U. Ambiente il quale prevede che: “Chiunque non ottempera all'ordinanza del Sindaco, di cui all'articolo 192, comma 3, o non adempie all'obbligo di cui all'articolo 187, comma 3, è punito con la pena dell'arresto fino ad un anno. Nella sentenza di condanna o nella sentenza emessa ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato alla esecuzione di quanto disposto nella ordinanza di cui all'articolo 192, comma 3, ovvero all'adempimento dell'obbligo di cui all'articolo 187, comma 3.”[38]. La mancata ottemperanza all’ordinanza del sindaco potrebbe avere, dunque, delle conseguenze personali sul curatore quale “detentore” dei siti inquinati destinatario dell’ordinanza sindacale che appaiono ingiustificate, soprattutto nei casi in cui egli sia nell’impossibilità di adempiere, stante l’assenza di attivo o di attivo sufficiente[39]. Altro, infatti, è affermare (condivisibilmente) che i costi del “danno ambientale” devono essere sopportati in primo luogo dal patrimonio fallimentare, del tutto diverso è paventare una responsabilità penale personale di un soggetto che riveste un ufficio pubblico nell’interesse della collettività e si trova a dover sopportare le conseguenze della condotta altrui.
In mancanza di una espressa presa di posizione del Consiglio di Stato in relazione a questa tematica non resta, dunque, che esprimersi in anticipo su quello che ancora non si è detto, nell’ottica che prevenire è meglio che curare, così nell’ambiente[40] come nella gestione delle procedure concorsuali. Soprattutto se “curare” può significare, per colui o colei che della “cura” o “curatela” sono chiamati all’ufficio, possa trasformarsi in una responsabilità di posizione senza “via di uscita”. E ciò, dev’essere sottolineato, non tanto nell’interesse del singolo professionista, quanto nella tutela dell’interesse della collettività: in ragione, infatti, della considerazione che il diritto dev’essere – innanzitutto – soluzione giusta di un problema pratico, allora non ci si può non avvedere che proprio le situazioni che presentano problematiche ambientali gravi sono quelle che di più necessitano di una “cura”, che dev’essere seguita con professionalità e diligenza, ma non certo sotto la spada di Damocle di una responsabilità oggettiva e inevitabile, che può avere solo l’effetto (negativo) di lasciare la situazione da risolvere priva di qualcuno deputato a risolverla, considerato che potrebbe crearsi un effetto deterrente rispetto all’assunzione di incarichi che comportino rischi (personali) “da posizione” per fatti altrui.
Non bisogna dimenticare, infatti, che si sta parlando qui di condotte “inquinanti” non già poste in essere dalla curatela, ma dal fallito prima dell’accesso alla procedura concorsuale: occorre, dunque, considerare che vi è una soluzione di continuità tra le due “persone”[41] che deve necessariamente implicare che sull’una non possano traslarsi de plano le responsabilità dell’altra; occorre altresì tenere presente che vi è soluzione di continuità temporale, tra ciò che è accaduto prima e ciò che accade dopo la dichiarazione di fallimento. Affermare, invece, che un fatto accaduto prima della dichiarazione di fallimento – l’abbandono dei rifiuti – produce effetti dopo quel limite temporale significa non avvedersi dello iato, temporale e funzionale.
b . Prededuzione e privilegio ex art. 253 T.U. Ambiente
Proseguendo nella disamina delle conseguenze del principio affermato dall’Ad. Plen., si rileva che, nel momento in cui viene affermato che i costi per le opere di ripristino “devono gravare sulla massa fallimentare” implicitamente il Consiglio di Stato sembra affermare che l’onere di smaltimento/ripristino gravante sulla curatela, in quanto proprio della Procedura e sorto nel corso della procedura concorsuale, dovrebbe qualificarsi come credito prededucibile e le spese necessarie all’adempimento dovrebbero essere sopportate dalla Curatela in adempimento dell’ordinanza emessa a carico della società fallita quali spese di procedura. Si tratterebbe, dunque, di spese da soddisfarsi prima di ogni altra, in quanto sorte in occasione o in funzione della procedura concorsuale.
A questa conclusione, peraltro, era giunta anche una non remota pronuncia della Cassazione civile[42] la quale (seppur facendo applicazione della precedente normativa, ma sul tema identica all’attuale) aveva affermato che: “la spesa relativa alla bonifica si qualifica come prededucibile alla luce del principio sancito da questa Sezione secondo il quale «ai fini della prededucibilità dei crediti nel fallimento, il necessario collegamento occasionale o funzionale con la procedura concorsuale, ora menzionato dall'art. 111 legge fall., va inteso non soltanto con riferimento al nesso tra l'insorgere del credito e gli scopi della procedura, ma anche con riguardo alla circostanza che il pagamento del credito, ancorché avente natura concorsuale, rientri negli interessi della massa e dunque risponda agli scopi della procedura stessa, in quanto utile alla gestione fallimentare. Invero, la prededuzione attua un meccanismo satisfattorio destinato a regolare non solo le obbligazioni della massa sorte al suo interno, ma anche tutte quelle che interferiscono con l'amministrazione fallimentare ed influiscono sugli interessi dell'intero ceto creditorio””[43], specificando poi che la prededucibilità, peraltro, assiste soltanto il credito per costi di bonifica che avvantaggiano gli immobili acquisiti alla massa[44] e che la bonifica del sito consente di escludere che gli immobili acquisiti alla massa vengano alienati in sede di liquidazione dell'attivo gravati dall’onere reale (di cui ora al 253 T.U. Ambiente).
Al contempo, stante la possibilità che la curatela non abbia la liquidità per procedere all’esecuzione delle opere, afferma l’Ad. Plen., “il Comune, qualora intervenga direttamente esercitando le funzioni inerenti all’eliminazione del pericolo ambientale, potrà poi insinuare le spese sostenute per gli interventi nel fallimento, spese che godranno del privilegio speciale sull’area bonificata a termini dell’art. 253, comma 2, d.lgs. n. 152-2006”.
Le spese sopportate dalla curatela per il ripristino, dunque, godrebbero della prededuzione, mentre se di quelle spese si fa carico l’ente pubblico, nella sua attività sostitutiva ex art. 253 T.U. Ambiente[45], il credito di rivalsa godrebbe del privilegio immobiliare sulle aree bonificate[46]. Relativamente al privilegio immobiliare speciale, il riferimento operato dalla norma all’art. 2748, 2° co. non sembra poter avere altro significato, se non quello di inutilmente ribadire che tale credito prevale anche sulle ipoteche iscritte. 
La prima osservazione da farsi al riguardo è che, diversamente da quanto sembra dedursi dalla decisione dell’Ad. Plen., il riconoscimento del privilegio speciale immobiliare anche al credito per il recupero delle spese anticipate per “l’esecuzione in danno dei soggetti obbligati” ex art. 192 T.U. Ambiente non sembra potersi dare per scontata: questo privilegio, infatti, è previsto dall’art. 253 T.U.A. per le spese di bonifica eseguite dall’ente pubblico ai sensi degli artt. 250[47] e 252, comma 5[48]. 
L’art. 253 si inserisce, infatti, nella parte IV del T.U. Ambiente, “Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati”, Titolo VI “Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani”, il cui ambito di applicazione è definito dall’art. 239, il quale esplicitamente rileva che: “le disposizioni del presente titolo non si applicano: a) all'abbandono dei rifiuti disciplinato dalla parte quarta del presente decreto. In tal caso qualora, a seguito della rimozione, avvio a recupero, smaltimento dei rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato, si accerti il superamento dei valori di attenzione, si dovrà procedere alla caratterizzazione dell'area ai fini degli eventuali interventi di bonifica e ripristino ambientale da effettuare ai sensi del presente titolo [omissis]”. Il riferimento, dunque, è proprio ai divieti di abbandono e deposito di cui all’art. 192 T.U. Ambiente di cui si discute.
Pertanto o diviene necessario applicare estensivamente l’art. 253 T.U. Ambiente, oppure vi deve essere una “connessione” tra le due procedure di risanamento, ex art. 192 e di bonifica ex art. 242 ss. T.U. Ambiente[49].
Ad ogni modo, dando per risolto il punto e che al credito del Comune per le spese anticipate ex art. 192 T.U. Ambiente sia attribuibile il privilegio ex art. 253 T.U. Ambiente[50], discenderebbe dalla lettura data dall’Ad. Plen. che le opere di ripristino ai sensi dell’art. 192 (in via volontaria o coattiva su ordinanza del Sindaco) dovrebbero essere sopportate dalla curatela in prededuzione[51], mentre nel caso di insinuazione al passivo del Comune delle spese sopportate in sostituzione per le medesime opere il credito verrebbe soddisfatto con precedenza rispetto agli altri sul ricavato dell’immobile “sanato” restando invero per il resto assimilato ai chirografari.
Purtuttavia appare anomala l’interpretazione offerta dall’Ad. Plen. per cui le stesse “spese” cambierebbero “natura” a seconda del soggetto che le ponga in essere: prededucibili se sopportate dalla curatela, privilegiate se sopportate dal Comune. Ebbene tale incoerenza può essere risolta, ove si intenda che anche il Comune possa insinuarsi al passivo in prededuzione e con il privilegio di cui all’art. 253 T.U. Ambiente, considerando che quest’ultima norma attribuisce la prelazione in ragione della natura del credito, mentre la prededuzione è sancita sulla base dell’art. 111-bis L. fall. essendo il credito sorto “in occasione o in funzione della procedura concorsuale”. L’attribuzione, dunque, del privilegio speciale immobiliare avrebbe come effetto quello di regolare l’ordine di pagamento dei prededucibili, come previsto dall’art. 111-bis L. fall. Ciò potrebbe valere, però, solo per spese sopportate dal Comune dopo la dichiarazione di fallimento, restando invece garantite dal solo art. 253 T.U. Ambiente le spese eventualmente sopportate prima della dichiarazione. 
Se, dunque, la bonifica e il ripristino costituiscono una spesa, è chiaro che questa debba essere sopportata dalla curatela, se ha le disponibilità, e se il Comune si sostituisce alla curatela deve essergli rimborsato l’esborso in prededuzione. La legge attribuisce il privilegio, come ogni privilegio, in base alla causa del credito; quando poi quel credito è sorto in occasione o in funzione della procedura diventa prededucibile, ma la prededucibilità non si sostituisce al privilegio né apporta una novazione del credito; è solo un fattore esterno che opera all’interno delle procedure concorsuali, nelle quali, ove l’attivo sia insufficiente a soddisfare tutte le prededuzioni, si fa una graduatoria a norma dell’art. 111-bis L. fall.
Ciò chiarito, appare necessario però interrogarsi su un altro tema, che è stato trattato dal Consiglio di Stato en passant liquidandolo quale “mera situazione di fatto”. Cosa accade, dunque, se il curatore non dispone di attivo o non dispone di attivo sufficiente a coprire le spese necessarie per eseguire le opere richieste?  L’Ad. Plen., nell’esprimere il principio di diritto indicato, ha ritenuto che nessuna rilevanza avesse la circostanza che la Procedura abbia o non abbia l’attivo necessario – inteso la liquidità – per porre in essere le opere di ripristino volontariamente o a seguito di ordinanza del sindaco.  L’irrilevanza sembra essere tale da qualificarsi solo come “accidente”, inteso come mera circostanza fattuale, tant’è che si dice “Ciò che rileva nella presente sede è l’affermazione dell’imputabilità al fallimento dell’obbligo di porre in essere le attività strumentali alla bonifica. In caso di mancanza di risorse, si attiveranno gli strumenti ordinari azionabili qualora il soggetto obbligato (fallito o meno, imprenditore o meno) non provveda per mancanza di idonee risorse.”. Sarà il Comune, dunque, in assenza di liquidità a intervenire direttamente per eliminare il pericolo ambientale, insinuando poi come già si è detto le spese sostenute al passivo con il privilegio ex art. 253 T.U. Ambiente. 
Se la liquidazione del bene appaia manifestamente non conveniente si farà applicazione del 104-ter, 8° co. di cui si parlerà nel paragrafo seguente, ma come ci si dovrà comportare nell’ipotesi in cui l’immobile su cui insistono i rifiuti abbia un presumibile valore di realizzo superiore ai costi da sopportare per la bonifica, ma la curatela non disponga di attivo sufficiente per procedere alla stessa nel momento in cui essa divenga destinataria dell’ordinanza sindacale[52]? Preclusa da un lato la possibilità di “abbandonare” il bene ai sensi dell’art. 104-ter 8° co.[53], al contempo la Procedura non sarebbe in grado di adempiere all’ordinanza sindacale che ordini il ripristino o la rimozione nell’immediatezza o comunque prima della vendita del bene. In questo “stallo” dunque l’ente pubblico dovrebbe procedere in proprio alla bonifica per poi insinuarsi al passivo (in prededuzione e?) col privilegio ex art. 253 T.U. e questo risolverebbe il problema sul piano ambientale e sul piano dell’applicazione del principio “chi inquina paga”, purtuttavia potrebbe lasciare irrisolta la questione inerente l’eventuale responsabilità della curatela (anche penale) in relazione al mancato adempimento dell’ordinanza sindacale.
D’altronde, ove manchi l’attivo sufficiente a dare immediato seguito all’eventuale ordinanza di ripristino, non sembra ammissibile una condotta attendista, che ad esempio contempli la concessione di un termine alla curatela per procedere alle operazioni di bonifica sino dopo alla vendita e una volta acquisito l’attivo necessario[54] in quanto, in primo luogo, non esiste una disposizione di legge che lo preveda e, in secondo luogo, una volta venduto il bene la curatela non ne avrebbe più né la detenzione né avrebbe il potere giuridico di disporne, senza contare che questa ipotesi sarebbe certamente meno opportuna dal punto di vista ambientale, visto che si dovrebbero attendere i tempi delle vendite per poter avere la bonifica. 
Resterebbe altrimenti[55] l’ipotesi – spesso seguita – di procedere alla vendita fallimentare del bene con precisazione nel bando dei lavori di bonifica da eseguirsi: la possibilità non sembra doversi escludere, a condizione ovviamente che la perizia di stima indichi con esattezza e trasparenza la presenza di rifiuti ed eventualmente l’esistenza di un’ordinanza sindacale di bonifica, con onere comunque per i potenziali acquirenti di attivare una environmental due diligence[56], considerato peraltro che lo stesso art. 253 T.U. Ambiente prevede che gli interventi di bonifica “costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d'ufficio dall'autorità competente” e che “l'onere reale viene iscritto nei registri immobiliari tenuti dagli uffici dell'Agenzia del territorio a seguito della approvazione del progetto di bonifica e deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica”. 
Stanti, dunque, le molteplici problematiche indotte da una situazione di presenza di rifiuti da smaltire, occorrerà, dunque, che il curatore presti particolare attenzione alla fase prodromica all’emissione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 192, co. 3 T.U. Ambiente. Primo presupposto per la sua legittima emanazione è, innanzitutto, l’aver comunicato al curatore l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 240 del 1991: in tale sede potrà il curatore dimostrare eventualmente l’assenza dei presupposti di applicazione dell’art. 192 T.U. Ambiente che legittimano l’emissione dell’ordinanza. In particolare il curatore dovrà sin da subito informare della situazione gli organi della procedura e soprattutto il Giudice delegato, se del caso anche offrendo al Comune l’evidenza che nessuna spesa potrebbe essere sopportata dal curatore in merito al ripristino. A fronte, dunque, di un provvedimento del Giudice delegato che neghi l’autorizzazione a porre in essere le opere di ripristino ambientale[57] alcuna condotta negligente o colpevole potrà essere imputata al curatore[58]. Salvo che, addirittura, non si “giochi d’anticipo” considerando ammissibile per il curatore richiedere un provvedimento d’urgenza che ordini al Sindaco la rimozione dei rifiuti[59].
c . L’“abbandono” ex art. 104 ter, comma 8, L. fall.
Ove il curatore, dunque, rilevi l’esistenza di rifiuti o altre sostanze inquinanti situati negli immobili di cui è proprietario il fallito, dovrà porre in essere tutte le condotte necessarie al fine di meglio realizzare l’attivo fallimentare, risolvere le problematiche ambientali e, al contempo, evitare di incorrere in responsabilità personali.
Di fronte, quindi, alla presenza nell’attivo fallimentare di un immobile in cui insistano rifiuti da smaltire o rimuovere il curatore per prima cosa verificherà i costi per tale attività e, in caso di bilancio sfavorevole rispetto al presumibile valore di realizzo, potrà (rectius dovrà), con l’autorizzazione del comitato dei creditori ai sensi dell’8° co. dell’art. 104-ter L. fall. non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare il bene, se l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente. Così facendo, dunque, il curatore andrà esente da responsabilità e l’ente pubblico che provvederà alla bonifica (dandosi, nella stragrande maggioranza dei casi, che a ciò non provveda l’impresa fallita nella cui disponibilità è tornato l’immobile “abbandonato” dalla Procedura) si ritroverà a dover tentare il recupero del proprio credito non già nell’ambito di una procedura concorsuale organizzata e comunque funzionale alla liquidazione dei beni, ma agendo con un’esecuzione individuale nei confronti dell’impresa già fallita. 
E che sussista la possibilità di ricorrere all’ “abbandono” ai sensi dell’art. 104-ter co. 8 non sembra poter essere revocato in dubbio[60], seppur l’Adunanza Plenaria[61] non faccia alcun riferimento alla disposizione, ma solo al 3° co. dell’art. 42 L. fall. il quale prevede che il curatore possa rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi. Sul punto l’Ad. Plen. ha rilevato come “l’evenienza prevista da tale art. 42, comma 3, costituisce una mera eventualità di fatto, riguardante la gestione della procedura fallimentare e il ventaglio di scelte accordate dal legislatore al curatore e non incide sul rapporto amministrativo e sui principi in materia di bonifica come sopra rappresentati. In secondo luogo, e soprattutto, il medesimo comma 3 si riferisce ai beni – quali ad esempio quelli derivanti da eredità o in forza di donazioni, le vincite ai giochi, i diritti d’autore – che entrano a diverso titolo nel patrimonio dell’imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e che sono oggetto di spossessamento: esso comunque comporta che, a seguito della rinuncia del creditore, l’imprenditore stesso gestisca i medesimi beni che restano suoi e comunque non si applica ai casi – quale quello all’esame del Collegio – in cui il bene, cioè l’immobile inquinato, risulti di proprietà dell’imprenditore al momento della dichiarazione del fallimento.”. Ebbene a questi ultimi effettivamente non si applica il 3° co. del 42, bensì l’8° co. del 104-ter L. fall., ma poco cambia: al curatore è rimessa la scelta (con l’autorizzazione degli organi fallimentari) di non acquisire o rinunciare a liquidare un bene nel momento in cui tale attività non è conveniente. Ove, dunque, i costi per la bonifica superino il presumibile valore di realizzo il curatore procederà ad abbandonare il bene e ciò a maggior ragione ove possano discendere conseguenze sanzionatorie (personali per il curatore ma che diventano anche economiche per la Procedura) nel caso in cui non si dia attuazione all’ordinanza sindacale. Con l’abbandono ai sensi del 104-ter, 8° co. L. fall., pertanto, si spezza il filo della detenzione dell’immobile e del potere giuridico e materiale di disporre del bene e di rimando dei rifiuti ivi presenti, e conseguentemente cade il presupposto oggettivo per l’emissione dell’ordinanza del Sindaco. 
Dal silenzio dell’Ad. Plen. sul tema non pare neppure potersi inferire che l’art. 104-ter, 8° co. e la possibilità di derelictio ivi prevista siano superati dal principio europeo del “chi inquina paga”[62] – così come inteso dal Consiglio di Stato – con la conseguenza che il curatore (rectius la Procedura) detentore di immobili sui quali insistano rifiuti non sarebbe legittimato ad abbandonarli, ma dovrebbe in ogni caso smaltirli o procedere altrimenti alla soluzione della problematica ambientale, con una sorta di applicazione di un principio di nuovo conio semel detentor semper detentor, applicato al curatore fallimentare con riferimento ai rifiuti, quasi che la qualificazione come “detentore” – una volta acquisita per la semplice apprensione all’attivo dei beni – non potesse più essere persa. E ciò a maggior ragione se tale apprensione all’attivo fosse identificata nella semplice dichiarazione di fallimento o se la qualifica di detentore fosse acquisita dal curatore con l’accettazione dell’incarico[63]. Trattandosi, infatti, di beni immobili il riferimento dell’Adunanza Plenaria alla inventariazione dei beni ex artt. 87 e ss L. fall. quale momento determinativo dell’acquisizione della qualifica di detentore da parte del curatore appare impropria: essendo le vicende traslative di beni immobili soggette a pubblicità, gli immobili “sono” nel patrimonio fallimentare per il solo fatto che un atto che trasferisce il diritto di proprietà opponibile a terzi è trascritto nei registri immobiliari a favore del soggetto fallito, tant’è che dei beni immobili nella prassi di molti tribunali non si fa neppure una ricognizione con il cancelliere, né la trascrizione della sentenza di fallimento assume rilevanza di pubblicità dichiarativa, ma solo di mera informazione ai terzi, senza che alcuna conseguenza giuridica in termini di validità od opponibilità della procedura fallimentare o dei negozi dipenda dalla sua mancanza[64].
L’Ad. Plen., si è detto, ha del tutto omesso di tenere in considerazione l’art. 104-ter, 8° co., e pertanto di motivare sui rapporti tra le due norme e di tale omissione si dovrà far carico la giurisprudenza futura. In ottica preventiva, sembra potersi dire che l’art. 104-ter, 8° co. L. fall. sia una norma di sistema rispetto all’intera concezione del fallimento che non possa essere suscettibile di abrogazione[65] implicita o disapplicazione: essa, infatti, concretizza il senso della funzione della procedura concorsuale e dell’ufficio del curatore[66], cioè la liquidazione dell’attivo per la soddisfazione dei creditori. 
Argomenti in contrario non sembrano derivare neanche dal Codice della Crisi di prossima entrata in vigore, il cui art. 213, 2° co. precisa che: “Il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente. In questo caso, il curatore ne da' comunicazione ai creditori i quali, in deroga a quanto previsto nell'articolo 150, possono iniziare azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore. Si presume manifestamente non conveniente la prosecuzione dell'attività di liquidazione dopo sei esperimenti di vendita cui non ha fatto seguito l'aggiudicazione, salvo che il giudice delegato non autorizzi il curatore a continuare l'attività liquidatoria, in presenza di giustificati motivi.”. Rispetto all’attuale formulazione dell’art. 104-ter, 8° co. il legislatore ha aggiunto la presunzione di non convenienza della liquidazione, dopo l’esperimento di sei tentativi “deserti”. Si ritiene che tale presunzione debba essere intesa quale limite in concreto delle attività di liquidazione quando essa in astratto ed ex ante fosse stata ritenuta conveniente, ciò a dire al curatore che – benché la liquidazione del bene sembrasse favorevole ai creditori – quando però la realtà dei fatti dimostra diversamente (e sei tentativi senza aggiudicazione sono per il legislatore indice, seppur superabile, della circostanza) allora l’attività liquidatoria deve essere interrotta e abbandonata. Sei tentativi rappresentano, peraltro, presunzione di manifesta non convenienza – che impone, per la prosecuzione dell’attività liquidatoria, l’autorizzazione del G.D. – ma ciò non esclude che la non convenienza si ravvisi fin dall’inizio o dopo un numero di tentativi inferiore e per ragioni diverse rispetto alla domanda di mercato del bene[67]. Sembra potersi ritenere, dunque, che anche nel futuro vigore del C.C.I. resterà doveroso per il curatore effettuare fin dal principio una valutazione di convenienza dell’attività liquidatoria che, ove abbia ad oggetto immobili sui quali insistano problematiche ambientali, non potrà che coinvolgere anche i costi da sopportare per la soluzione delle stesse.
Nel vigore attuale della legge fallimentare o in quello futuro del C.C.I., di fatto, dunque, la decisione dell’Ad. Plen. rischia di rendere più difficile l’attuazione di quegli stessi interessi “generali” per la cui tutela ha invocato la responsabilità della curatela fallimentare. Ben si sarebbe potuto, infatti, negare la legittimazione passiva del curatore rispetto alle ordinanze sindacali di ripristino, sapendo che comunque il curatore è responsabile ove con incuria tralasci la situazione ambientale pensando di non esserne responsabile, posto che una condotta negligente sarebbe in ogni caso sanzionabile o sotto il profilo della diligenza nell’espletamento dell’incarico o addirittura proprio sulla base della normativa ambientale, ove l’inerzia o l’omissione nella gestione della questione ambientale configurino un dolo o una colpa, con disciplina analoga a quella già vista per il “proprietario incolpevole”. Decidendo, invece, che il curatore è responsabile dello smaltimento dei rifiuti “sempre e comunque” solo in ragione della detenzione e soprattutto che può essere destinatario di ordinanze sindacali di ripristino, si è resa preferibile e spesso necessaria proprio la scelta “immediata” dell’abbandono del bene, soluzione che sarà inevitabile ogni qual volta non vi sia attivo per farsi carico dello smaltimento dei rifiuti, al contempo liberando da responsabilità anche l’ente pubblico preposto alla tutela ambientale, che emettendo l’ordinanza di ripristino scaricherà sul curatore la soluzione del problema: problema che non è, si condivide il punto, della collettività, tanto che il credito di rivalsa per le spese resesi necessarie potrà essere ammesso al passivo, ma nella situazione di emergenza – quale è quella di un imprenditore che è incorso nell’insolvenza lasciando abbandonati i rifiuti – deve essere gestito dall’ente pubblico che rappresenta la collettività proprio per la tutela di quest’ultima.
Se, dunque, si potrà affermare la possibilità per la procedura fallimentare di non inventariare o non liquidare il bene ai sensi dell’art. 104-ter, 8° co L. fall., ciononostante la scelta di concepire la legittimazione passiva del curatore rispetto all’ordinanza ex art. 192, 3° co. L. fall. comporta una serie di problematiche di incerta definizione con riferimento all’esercizio del diritto di “abbandono” ex art. 104-ter, 8° co. L. fall. Il primo quesito da porsi riguarda la successione temporale che deve intercorrere (se deve intercorrere) tra rinuncia ex art. 104-ter 8° co. ed eventuale ordinanza sindacale di ripristino o smaltimento: la rinuncia deve intervenire prima dell’ordinanza sindacale, affinché possa sortire l’effetto? E se la Procedura rinuncia ex 104-ter 8° co. dopo l’emissione dell’ordinanza restano a carico degli organi, in particolare del curatore, le possibili conseguenze sanzionatorie? Al riguardo, in assenza di disposizioni precise, occorre fare applicazione dei principi generali e osservare che il “rimedio” dell’art. 104-ter, 8° co. L. fall. consente al curatore, con le debite autorizzazioni, di non acquisire o comunque rinunciare a liquidare un bene di proprietà del fallito ove l’attività risulti manifestamente non conveniente senza apporre limiti di sorta o eccezioni, per cui se ne deve ricavare che tale valutazione di non convenienza deve essere concessa alla Procedura indipendentemente da attività di terzi, quali l’emissione dell’ordinanza sindacale. Diversamente, infatti, si dovrebbe ritenere che l’ordinanza del sindaco in qualche modo imprima sulla curatela fallimentare lo status di “detentore“, con le conseguenze in termini di smaltimento e ripristino già sopra evidenziate.
Non viene inoltre affrontata l’ulteriore ipotesi in cui il fallimento intervenga dopo che il Comune ha già emesso l’ordinanza di smaltimento e recupero: in questo caso dunque, se si ritiene tout court che la curatela subentri negli obblighi di bonifica per il solo fatto di trovarsi nella materiale e giuridica disponibilità dei beni, allora necessariamente dovrebbe ritenersi efficace anche nei suoi confronti l’ordinanza[68] seppur emessa ante fallimento. 
4 . Conclusioni
A fronte di una presa di posizione sì netta dell’Adunanza Plenaria in tema di responsabilità del curatore in relazione agli obblighi di smaltimento e ripristino dei rifiuti e conseguente legittimazione passiva in ordine alle ordinanze sindacali emesse ai sensi dell’art. 192, 3° co. L. fall. le procedure fallimentari dovranno ancor più sensibilizzarsi[69] rispetto alle problematiche ambientali connesse ai rifiuti già prodotti o abbandonati dall’impresa prima dell’accesso alla procedura concorsuale.
In un’ottica, appunto, di induzione alle “politiche attive” può forse leggersi il rigore con cui il Consiglio di Stato ha voluto far gravare su un soggetto evidentemente incolpevole e a tratti impossibilitato le conseguenze di condotte svolte da altri. Purtuttavia non si intende che il fine giustifichi i mezzi: il curatore “non diligente” che colpevolmente lasci gli immobili inquinati per anni abbandonati avrebbe potuto diversamente essere “sanzionato”.
Nei fatti, invece, il principio espresso rischia di creare effettivamente una frattura nel sistema, finendo per essere motivo di un incremento di “abbandoni” ex art. 104ter 8° co. degli immobili su cui insistono i rifiuti il cui smaltimento avrebbe un costo superiore al presumibile realizzo, con nocumento finale per lo stesso ente pubblico costretto ad operare la bonifica “in surroga”, il quale potrà poi sì rivalersi sul ricavato della vendita dell’immobile, ma dopo essere stato costretto ad attivare una procedura esecutiva individuale con i correlativi costi e tempi (normalmente più dilatati rispetto alla vendita fallimentare, se non altro per la necessità di munirsi del titolo esecutivo) anziché “godere” dei risultati della procedura concorsuale[70].
E ciò sempre che si condivida, a monte, la correlazione (apparentemente “scontata” per l’Ad. Plen.) tra detenzione dell’immobile e detenzione dei rifiuti ivi presenti: se infatti si concepisse la possibilità per il curatore di abbandonare ex 104ter 8° co. solo i rifiuti (quali res derelictae) senza dover abbandonare anche l’immobile su cui essi insistano[71], allora l’intero sistema di protezione finirebbe per incrinarsi.
Sembra dunque tuttora maggiormente condivisibile l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza che esclude la legittimazione passiva del curatore con riferimento all’ordinanza del sindaco emessa ai sensi dell’art. 192, 3° co., in quanto consente di applicare compiutamente il principio europeo del “chi inquina paga” offrendo un privilegio di grado massimo all’Ente pubblico per il credito relativo alle spese di bonifica – così facendo gravare l’”esternalità negativa” dell’inquinamento sulla massa attiva con preferenza rispetto agli altri creditori – evitando al contempo le “storture” che si verrebbero a creare assimilando il curatore fallimentare a un qualsiasi imprenditore o legale rappresentante del soggetto fallito e “inquinatore”.
Tale interpretazione, peraltro, appare sicuramente tenere in maggiore considerazione il particolare ruolo del curatore fallimentare, che non subentra nella posizione del fallito, né gli succede; che assume il potere di amministrare il patrimonio, ma non ne acquisisce la titolarità “in sostituzione” del fallito; su cui gravano i doveri che la legge gli impone, ma su cui non possono essere automaticamente traslati gli obblighi facenti capo all’impresa quando era ancora in bonis.
In conclusione, appare dunque che al fine di raggiungere il principale obiettivo della legislazione interna ed europea in materia – prevenire le situazioni “pericolose” dal punto di vista ambientale e punire i colpevoli delle condotte lesive – la soluzione più incisiva non sia quella di gravare di oneri (spesso inattuabili) le curatele fallimentari imponendo costose difese sul piano amministrativo o penale o costringendole di fatto ad abbandonare i beni, nel frattempo lasciando lo stato dei luoghi nella situazione inquinata che si vuole evitare, quanto piuttosto di imporre agli enti pubblici preposti alla tutela ambientale una pronta e risolutiva reazione, con altrettanto immediata insinuazione al passivo del fallimento del credito per il rimborso delle spese sostenute per la bonifica. 
D’altronde occorre ricordare come l’art. 36 della dir. 2008/98/CE imponga agli Stati Membri di adottare “le misure necessarie per vietare l’abbandono, lo scarico e la gestione incontrollata dei rifiuti” e al contempo di emanare “le disposizioni relative alle sanzioni da irrogare in caso di violazione delle disposizioni della presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie per assicurarne l’applicazione. Le sanzioni previste sono efficaci, proporzionate e dissuasive”: vi è da chiedersi, dunque, se sanzionare il curatore fallimentare chiamato nell’interesse pubblico a gestire il patrimonio dell’impresa possa considerarsi corretta applicazione dei principi europei, o se non si sia incorsi invero in un misunderstanding.
E’ chiaro infatti che, nell’ottica di creare un mercato compatibile con l’ambiente, in cui in sostanza abbia un vantaggio competitivo l’impresa “ecologica” che non generando rifiuto nel proprio ciclo produttivo (o generando rifiuto che diventi “bene” di valore) vede il proprio conto economico “pulito” dai costi di smaltimento, poco funzionale pare addossare la responsabilità della esternalità negativa ai creditori o al gestore pubblico dell’impresa insolvente, lasciando invece l’autore della condotta inquinante privo di sanzione[72] rischiando peraltro di non stimolare i controlli preventivi che molti enti sarebbero tenuti ad eseguire.

Note:

[1] 
Il quale prevede che: “1.    L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2.    È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee.
3.    Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.
4.    Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni.”
[2] 
Secondo cui: “[omissis] 3.    Salvo quanto previsto dall'articolo 107 essi [il sindaco e il presidente della provincia, ndr] esercitano le funzioni loro attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti e sovrintendono altresì all'espletamento delle funzioni statali e regionali attribuite o delegate al comune e alla provincia. [omissis]”.
[3] 
C. Stato., ord. 15 settembre 2020, n. 5454. 
[4] 
Ex pl. T.a.r. Toscana, sez. II, 8 gennaio 2010, n. 8; C. Stato, 16 giugno 2009, n. 3885, in Riv. giur. ambiente, 2010, p. 156 con nota di Peres, Obbligo di bonifica, accertamenti istruttori e presunzioni; C. Stato, 29 luglio 2003, n. 4328; T.a.r. Sardegna, sez. II, 11 marzo 2008, n. 395; T.a.r. Lazio, 12 marzo 2005, n. 304; T.a.r. Abruzzo, 17 dicembre 2004, n. 1393; T.a.r. Toscana, sez. II, 1° agosto 2001, n. 1318.
[5] 
Tra cui C. Stato, Sez. IV, 25 luglio 2017, n. 3672, in Il Fall. 2018, p. 586, con nota di D’Orazio, Il curatore fallimentare e lo smaltimento dei rifiuti. Un sospiro di sollievo; T.a.r. Lombardia Brescia, Sez. I, 12 maggio 2016, n. 669. 
[6] 
Nello stesso senso Pizza, Le regole per attribuire al curatore la qualifica di “detentore dei rifiuti” e per addossare i connessi oneri economici alla massa fallimentare, in ilfallimentarista, 23 marzo 2021. 
[7] 
Il tema della gestione dei rifiuti da parte del soggetto che svolge la funzione di curatore fallimentare è un argomento ovviamente non solo italiano. Una valutazione comparatistica esula dal presente contributo, ma per qualche cenno si rinvia a Carrera, La Corte UE (de)limita l’incidenza del diritto europeo sulla disciplina delle bonifiche, nota a Corte Giust. UE, 4 marzo 2015, in C- 534-13, Fipa, in Urb. e app., 2015, e la ivi citata bibliografia, part. nota 26. Per uno spunto sulla situazione finlandese v. De Cesari-Montella, Il Fall., 2018, p. 1351. 
[8] 
Il principio europeo “chi inquina paga” è sancito in primo luogo nell’art. 191 del TFUE quale criterio di indirizzo dell’attività legislativa europea: “Di conseguenza, dal momento che l’articolo 191, paragrafo 2, TFUE, che contiene il principio «chi inquina paga», è rivolto all’azione dell’Unione, detta disposizione non può essere invocata in quanto tale dai privati al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale, quale quella oggetto della causa principale, emanata in una materia rientrante nella politica ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa dell’Unione adottata in base all’articolo 192 TFUE, che disciplini specificamente l’ipotesi di cui trattasi” (Corte Giust. UE, 13 luglio 2017, in C-129/16, Túrkevei). Il principio, pertanto, può essere invocato dai privati se e solo se la situazione oggetto del giudizio sia contemplata da una disposizione di diritto europeo derivato che è attuazione delle politiche eurounionali in ambito ambientale, ai sensi dell’art. 192 TFUE.  Sulla “genesi” del principio si rinvia a Vipiana Perpetua, La soluzione “all’italiana” della posizione del proprietario di un sito inquinato non responsabile dell’inquinamento: il suggello della Corte di Giustizia, nota Corte Giust. UE, 4 marzo 2015, in C-534/13, Fipa, in Giur. it., 2015, p. 1485.
[9] 
Considerando 28 della dir. 2008/98/CE. 
[10] 
C. Stato, Sez. IV, 25 luglio 2017, n. 3672, op. cit.; conf. C. Stato 5454/2020, ordinanza di rimessione all’Ad. Plen. in commento.
[11] 
Così Cass. civ., Sez. 1^, 23 giugno 1980, n. 3926; in termini analoghi v. anche Cass. civ., Sez. 1^, 14 settembre 1991, n. 9605.
[12] 
V. C. Stato, 4 dicembre 2017, n. 5668, in Il Fall., 2018, p. 586, con nota di D’Orazio, op. cit.; C. Stato, 30 giugno 2014, n. 3274, in Il Fall., 2015, p. 488 con nota di Aprile, Amministrazione del patrimonio del fallito e obblighi del curatore in materia di ripristino ambientale, e in Riv. giur. ambiente, 2014, p. 758, con nota di Vitiello, Obblighi di bonifica e fallimento dell’inquinatore. Aprile si pone in maniera parzialmente critica rispetto alle conclusioni del Consiglio di Stato, soprattutto in casi – come quello interessato dalla pronuncia – in cui il curatore subentri in un rapporto contrattuale pendente. Nel caso di specie infatti la curatela era subentrata in un contratto di locazione e avrebbe “ereditato” l’ordine di rimozione e rispristino già emesso nei confronti dell’impresa ancora in bonis.
[13] 
Pur potendo il curatore subentrare in alcune posizioni giuridiche del fallito (v. art. 72 ss. L. fall. o la situazione in generale di esercizio di un diritto già presente nella sfera del fallito) l’affermazione tout court del “subentro” del curatore nella posizione giuridica del fallito, seppur in questo ristretto ambito, avrebbe potuto comportare una generalizzata apertura al concetto di “successione” tra imprenditore e curatore fallimentare nominato dagli incerti confini ed altrettanto incerte conseguenze, ad esempio in campo fiscale o in relazione a qualsiasi obbligo posto dalla legge in capo all’imprenditore.
[14] 
Nel medesimo senso Pizza, op. cit., il quale evidenza come l’Ad. Plen. sembri sostenere che “l'obbligo giuridico di gestire i rifiuti prodotti dalla attività di impresa “nasce” ex lege, come obbligo di facere che implica dei costi, nel patrimonio dell'imprenditore nel momento i cui i rifiuti vengono prodotti” con la conseguenza che si verrebbe a creare in capo al curatore una obbligazione ex lege di “gestione dei rifiuti””. 
[15] 
Con applicazione di una ratio affatto dissimile da quella sottesa, ad esempio, da disposizioni domestiche quali l’art. 2050 c.c.
[16] 
V. C. Stato, ord. 15 settembre 2020, n. 5454.
[17] 
Il “Polluter Pays Principle”, si è detto, è consacrato nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, art. 191, che regola le linee generali della politica europea in materia ambientale.
[18] 
Per una efficace descrizione del principio si v. C. Stato, 16 giugno 2009, n. 3885, cit., ove si dice: “Il principio "chi inquina paga" consiste, in definitiva, nell'imputazione dei costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell'impresa) al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita (poiché esiste una compromissione ecologica lecita data dall'attività di trasformazione industriale dell'ambiente che non supera gli standards legali).
Ciò, sia in una logica risarcitoria ex post factum, che in una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di incentivare - per effetto del calcolo dei rischi di impresa - la loro generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci, e, quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi di alterazione dell'ambiente (con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l'ambiente)”.
[19] 
Che questo sia il risultato finale dell’interpretazione dell’Ad. Plen. è ben evidenziato da Pizza, op. cit., secondo cui tale argomento “sembra evocare l'idea per cui, se da un lato l'imprenditore è il soggetto la cui attività materiale produce rifiuti, dall'altro i creditori dell'imprenditore che esercita tale attività materiale potrebbero essere qualificati come soggetti a cui tale produzione è – quantomeno in via mediata - “giuridicamente riferibile””.
[20] 
Tra le tante che, proprio motivando sul rischio di violazione del principio “chi inquina paga”, hanno escluso la responsabilità del curatore fallimentare e di conseguenza sulla carenza di legittimazione passiva rispetto alle ordinanze sindacali v. T.a.r. Salerno, -Campania-, sez. II, 11 settembre 2015, n. 1987 secondo cui: “in tema di smaltimento di rifiuti speciali, fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità della curatela fallimentare sull'abbandono dei rifiuti, quest'ultima non può essere destinataria a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinanti, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tale via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti; per il che non può accettarsi che la legittimazione passiva in subiecta materia sia della Curatela, in quanto ciò determinerebbe un sovvertimento del principio "chi inquina paga" scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con l'inquinamento”; conf. T.a.r. Milano, -Lombardia-, sez. III, 3 marzo 2017, n. 520; Tribunale di Milano, 08 Giugno 2017, in DeJure
[21] 
Ragione (a contrario) per cui ad es. Ta.r. Sicilia-Catania, 23 dicembre 2019, n. 3061 aveva affermato che: “Non è sostenibile che il curatore fallimentare sia "detentore dei rifiuti" come definito dalla normativa europea e che, quindi, in quanto tale ben potrebbe essere destinatario di ordinanze ripristinatorie ai sensi dell'art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152/2006. Il curatore - pur avendo "l'amministrazione del patrimonio fallimentare" (cfr. l'art. 31, comma 1, Legge fallimentare) - non può tuttavia essere considerato un "detentore di rifiuti" ai sensi dall'art. 3, par. 1, n. 6), Direttiva 2008/98/CE e dalla relativa norma nazionale di recepimento, costituita dall'art. 183, comma 1, lett. h), D.Lgs. n. 152/2006. Difatti alla luce della sentenza della Corte di Giustizia Ue 4 marzo 2015, n. 534, il principio "chi inquina paga", desumibile dall'art. 191, par. 2, TFUE, comporta una preclusione alla normativa interna di imporre ai singoli costi per lo smaltimento dei rifiuti che non si fondino su di un ragionevole legame con la produzione dei rifiuti medesimi. Inoltre, ai fini dell'applicazione della normativa europea e della normativa nazionale di recepimento, la produzione di rifiuti è innegabilmente connessa all'esercizio di un'attività imprenditoriale, attività che - salva l'ipotesi dell'esercizio provvisorio ai sensi dell'art. 104, R.D. n. 267/1942 (in cui il curatore esercita attività di impresa) - non viene proseguita dal curatore, che ha il limitato compito di liquidare i beni del fallito per soddisfare i creditori ammessi al passivo (compito al quale è strettamente connessa "l'amministrazione del patrimonio fallimentare")”.
[22] 
Sul cui “ruolo” nella disciplina portata dal T.U. Ambiente ci si permette di rinviare all’ampio lavoro di dottorato della dott.ssa Mariachiara Vanini “Il proprietario “incolpevole” nei procedimenti di bonifica”. Benché, ai nostri fini, la problematica del “proprietario incolpevole” non possa essere approfondita, merita segnalare che anch’essa è foriera di problematiche non del tutto chiarite e che dipendono, in prima istanza, dall’interpretazione del diritto europeo, in particolare della dir. 2004/35/CE, per quanto l’ipotesi non rientri nel campo di applicazione di quest’ultima, e delle pronunce della Corte di Giustizia che hanno in diversi momenti affrontato la questione. Sul punto non si può che rinviare, senza pretese di completezza, alle sentenze e ai contributi più recenti: Corte Giust. UE, 13 luglio 2017, in C-129/16, Túrkevei, in Urb. e app., 2017, p. 815 con nota di Carrera, La posizione di garanzia del proprietario del sito alla luce del principio “chi inquina paga”; Corte Giust. UE, 4 marzo 2015, in C-534/13, Fipa, in Urb. e app., 2015, p. 635, con nota di Carrera, La Corte UE (de)limita l’incidenza del diritto europeo sulla disciplina delle bonifiche e in Giur. It., 2015, p. 1480 con nota di Vivani, Chi non inquina non paga? La Corte di Giustizia ancora sulla responsabilità ambientale, e di Vipiana Perpetua, La soluzione “all’italiana” della posizione del proprietario di un sito inquinato non responsabile dell’inquinamento: il suggello della Corte di Giustizia, nonché in Amb. e svil., 2015, p. 557, con nota di Atzori, Chi (non) inquina, paga? La giurisprudenza più recente sugli obblighi del proprietario incolpevole.   
[23] 
Su cui come si è detto non gravano gli obblighi in discorso, se non nel caso in cui ne sia accertato il dolo o la colpa grave.
[24] 
C. Stato ord. 15 settembre 2020, n. 5454.
[25] 
Art. 253 T.U. Ambiente che dispone: “1.    Gli interventi di cui al presente titolo costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d'ufficio dall'autorità competente ai sensi degli articoli 250 e 252, comma 5. L'onere reale viene iscritto nei registri immobiliari tenuti dagli uffici dell'Agenzia del territorio a seguito della approvazione del progetto di bonifica e deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica.
2.    Le spese sostenute per gli interventi di cui al comma 1 sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2748, secondo comma, del codice civile. Detto privilegio si può esercitare anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull'immobile.
3.    Il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell'inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell'autorità competente che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità.
4.    In ogni caso, il proprietario non responsabile dell'inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l'osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall'autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell'inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute e per l'eventuale maggior danno subito.
5.    Gli interventi di bonifica dei siti inquinati possono essere assistiti, sulla base di apposita disposizione legislativa di finanziamento, da contributi pubblici entro il limite massimo del cinquanta per cento delle relative spese qualora sussistano preminenti interessi pubblici connessi ad esigenze di tutela igienico-sanitaria e ambientale o occupazionali. Ai predetti contributi pubblici non si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 2.” Per le recenti modifiche apportate alla norma v. D.L. 16 luglio 2020, n. 76 convertito con modificazioni dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120.
[26] 
Art. 42, 3° co. L. fall. che dispone: “[omissis] 3. Il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi.”
[27] 
Come si avrà modo di approfondire infra, l’Ad. Plen., così come la successiva (conforme) pronuncia del Consiglio di Stato n. 1480 del 19 febbraio 2021, non trattano dell’art. 104-ter, co. 8° L. fall. che prevede: “Il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente. In questo caso, il curatore ne dà comunicazione ai creditori i quali, in deroga a quanto previsto nell'articolo 51, possono iniziare azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore. [omissis]”.
[28] 
Corte Giust. UE, 13 luglio 2017, in C- 129/16, cit.
[29] 
In questa sede ci si limita a riferirsi all’ultimo atto giuridico in vigore.
[30] 
Per un primo esame dei diversi principi v. Nunziata, I principi europei di precauzione, prevenzione e “chi inquina paga”, in Giorn. dir. amm., 2014, p. 656.
[31] 
Osservando la procedura prevista dall’art. 192 TFUE.
[32] 
Riferimento alla dir. 2004/35/CE vi è già nell’epigrafe del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Codice dell’Ambiente), il riferimento all’attuazione della dir. 2008/98/CE si rinviene passim
[33] 
Il considerando 20 della direttiva recita infatti: “Non si dovrebbe chiedere ad un operatore di sostenere i costi di misure di prevenzione o riparazione adottate conformemente alla presente direttiva in situazioni in cui il danno in questione o la minaccia imminente di esso derivano da eventi indipendenti dalla volontà dell'operatore.”. 
[34] 
Argomento utilizzato dall’Ad. Plen. e dalla successiva sent. 1480 del 2021 per affermare la responsabilità del curatore, in quanto “non esclusa” dal diritto europeo.
[35] 
E’ sufficiente, per convincersene, leggere la direttiva che, come tale, pone obiettivi, ma lascia ai legislatori nazionali la valutazione delle misure specifiche da adottare.
[36] 
Sottolineava, infatti, ad es. T.a.r. Veneto Venezia, 19 giugno 2019, n. 744 (primo grado della controversia oggetto della pronuncia del Consiglio di Stato) che dall’impostazione per cui il curatore non potrebbe essere destinatario degli obblighi di rimozione e ripristino non deriverebbe “una diminuzione della tutela ambientale, poiché in mancanza di altri soggetti obbligati ai sensi dell'art. 192, D.Lgs. n. 152 del 2006, gli obblighi di rimozione ed avvio al recupero sono posti in capo al Comune, che potrà rivalersi delle spese sostenute insinuandosi nel passivo fallimentare”.
[37] 
Trattandosi di un reato proprio, può essere commesso solo da chi è destinatario dell’ordinanza sindacale (v. ex pl. Cass. pen. 4 giugno 2019, n. 31310).
[38] 
Sempre che non ricorrano, peraltro, i presupposti per il reato di cui all’art. 256 T.U. Amb. (Attività di gestione di rifiuti non autorizzata) o del delitto di cui all’art. 452 terdecies c.p. - Omessa bonifica il quale dispone: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un'autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 a euro 80.000”. Per un commento alla disposizione si v. Prati, Il reato di omessa bonifica ex art. 452-terdecies: una norma problematica di dubbia giustizia sostanziale, in Amb. e svil., 2017, p. 22.
[39] 
Sulla responsabilità penale del curatore per la condotta di abbandono dei rifiuti v. invece Cass. pen. Sez. III, 1 ottobre 2008, n. 37282.
[40] 
Principio al quale è improntata tutta la disciplina europea in materia ambientale.
[41] 
Per persone intendendo la curatela fallimentare e l’impresa fallita.
[42] 
Cass., 7 marzo 2013, n. 5705. 
[43] 
Cass., 5 marzo 2012, n. 3402.
[44] 
Legando quindi la prededucibilità della spesa al vantaggio che la massa ne trae, potendo vendere un bene più appetibile, in quanto non gravato dall’onere reale della bonifica. Il legame vantaggio/sopportazione del costo si spezza, ovviamente, quando il bene non sia acquisito all’attivo o si rinunci alla sua liquidazione ai sensi dell’art. 104-ter, 8° co. L. fall., su cui ampiamente si dirà infra.
[45] 
Il quale prevede che: “1.    Gli interventi di cui al presente titolo costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d'ufficio dall'autorità competente ai sensi degli articoli 250 e 252, comma 5. L'onere reale viene iscritto nei registri immobiliari tenuti dagli uffici dell'Agenzia del territorio a seguito della approvazione del progetto di bonifica e deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica.
2.    Le spese sostenute per gli interventi di cui al comma 1 sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2748, secondo comma, del codice civile. Detto privilegio si può esercitare anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull'immobile.
3.    Il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell'inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell'autorità competente che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità.
4.    In ogni caso, il proprietario non responsabile dell'inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l'osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall'autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell'inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute e per l'eventuale maggior danno subito.
5.    Gli interventi di bonifica dei siti inquinati possono essere assistiti, sulla base di apposita disposizione legislativa di finanziamento, da contributi pubblici entro il limite massimo del cinquanta per cento delle relative spese qualora sussistano preminenti interessi pubblici connessi ad esigenze di tutela igienico-sanitaria e ambientale o occupazionali. Ai predetti contributi pubblici non si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 2.”
[46] 
Così Tribunale di Milano, sez. II, 16 settembre 2010, in Amb. e Svil., 2011, con nota di Prati, La responsabilità soggettiva per inquinamento e bonifica in danno della procedura fallimentare (nota a Trib. Milano n. rg. 10655/2010).
[47] 
Art. 250 T.U. Ambiente: “Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all'articolo 242 sono realizzati d'ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l'ordine di priorità fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica. Al fine di anticipare le somme per i predetti interventi le regioni possono istituire appositi fondi nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio”. 
[48] 
Art. 252, co. 5 T.U. Ambiente: “Nel caso in cui il responsabile non provveda o non sia individuabile oppure non provveda il proprietario del sito contaminato né altro soggetto interessato, gli interventi sono predisposti dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, avvalendosi dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (APAT), dell'Istituto superiore di sanità e dell'E.N.E.A. nonché di altri soggetti qualificati pubblici o privati”.
[49] 
V. per es. T.a.r. Brescia, (Lombardia) sez. I, 07 febbraio 2020, n.114, secondo cui: “È legittima la scelta di associare all'ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati un ordine di caratterizzazione dell'area interessata dall'abbandono dei rifiuti. La caratterizzazione è, infatti, il punto di congiunzione tra la fase di allontanamento dei rifiuti, necessariamente collocata nell'immediatezza della scoperta, e la fase successiva ed eventuale di bonifica dell'area. La presenza di rifiuti incontrollabili è un potenziale veicolo di trasferimento degli inquinanti nelle matrici ambientali e dunque nel momento in cui si effettua la rimozione occorre accertare se vi sono situazioni di contaminazione. In questo senso può essere interpretato l'art. 239, comma 1 — a, d.lgs. n. 152/2006, che disciplina le verifiche da svolgere a seguito della rimozione dei rifiuti” considerato peraltro che (dalla motivazione): “Sul rapporto tra rimozione dei rifiuti e bonifica.  26. La bonifica riguarda operazioni distinte dalla rimozione dei rifiuti abbandonati, e si fonda sul diverso presupposto del superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). Oltretutto, l'individuazione del responsabile della contaminazione, soggetto tenuto alla bonifica, rientra nella competenza della Provincia (v. art. 242-244 del Dlgs. 152/2006). 27. In concreto, tuttavia, esiste continuità tra la rimozione dei rifiuti abbandonati e l'analisi della contaminazione delle matrici ambientali. I rifiuti non controllati devono infatti essere presi in esame come potenziali cause di superamento delle CSC, o come fattori di un rischio imminente di contaminazione. È quindi necessario un coordinamento tra le amministrazioni che hanno competenza sui rifiuti e quelle che hanno competenza sulla bonifica. In questo quadro, è legittimo, come si è visto sopra, che l'ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati sia associato a un ordine di caratterizzazione.”. 
[50] 
Mentre il ragionamento è valido naturalmente ogni volta che si tratti propriamente di bonifica ai sensi del titolo VI.
[51] 
Facendole gravare sia sulla massa mobiliare che su quella immobiliare, nella ricostruzione offerta da Pizza, op. cit. L’affermazione tuttavia meriterebbe un approfondimento, poiché trattandosi di spesa speciale dovrebbe dirsi gravare solo sull’immobile cui si riferisce e non già anche sugli altri beni. 
[52] 
Ad esempio perché l’immobile su cui insistono i rifiuti è l’unico bene della procedura o comunque non vi è la liquidità necessaria per affrontare le spese necessarie al ripristino.
[53] 
Anche se sul piano pratico si potrà immaginare l’abbandono ex 104ter, 8° co anche in quelle ipotesi in cui il presumibile valore di realizzo del bene immobile sia sufficiente esclusivamente a soddisfare il credito dell’ipotecario.
[54] 
Come avviene, per esempio, per il pagamento dell’IMU sugli immobili acquisiti all’attivo.
[55] 
Per il vero altre soluzioni potrebbero essere immaginabili, anche se foriere di difficoltà applicative, come ad esempio contrarre un finanziamento per le spese necessarie ad eseguire le opere di bonifica.
[56] 
Potrebbe a tal fine valutarsi l’inserimento, nei bandi di vendita, di una clausola che specifichi che sono a carico degli interessati le valutazioni circa l’esistenza o la possibile sopravvenienza di contestazioni ai sensi del T.U. Ambiente. Sull’importanza della valutazione preventiva dei rischi ambientali si v., senza pretese di completezza, Felici – Barlassina, Onere reale e circolazione immobiliare delle aree inquinate, in Imm. e propr., 2009, p. 687. 
[57] 
Per una delle ragioni sopra viste, assenza di attivo oppure autorizzazione agli atti conformi al programma di liquidazione nel quale sia affrontata la problematica ed espressamente esclusa. Il provvedimento del G.D. cui ci si riferisce è appunto quello di autorizzazione agli atti conformi al programma di liquidazione (o del supplemento del programma di liquidazione) già approvato dal comitato dei creditori ex art. 104-ter, u.c. L. fall.    
[58] 
Il quale potrà, se necessario, invocare sul piano penale la scriminante dell’inesigibilità della condotta o dell’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p. Sul punto occorre tuttavia precisare che la giurisprudenza (v. Cass., 2 luglio 2020, n. 13597) ha affermato il principio per cui “Ai fini della responsabilità del curatore fallimentare, risulta irrilevante l'eventuale autorizzazione del giudice delegato, la quale può semmai rilevare ai fini di un concorso di responsabilità dell'organo giudiziale”, anche se tale principio è stato normalmente espresso in casi in cui il curatore, revocato per violazioni del proprio incarico e della diligenza professionale, intendeva fare scudo delle proprie responsabilità in ragione dell’autorizzazione del G.D. La fattispecie che qui interessa appare differente, in quanto si tratta di stabilire se il curatore possa essere definito responsabile, quando gli organi fallimentari – in applicazione delle norme della legge fallimentare, in particolare artt. 111 ss. per mancanza di attivo sufficiente (anche di presunta futura realizzazione) a pagare tutte le prededuzioni – valutino che non vi siano le condizioni di legge per gli esborsi necessari a sopportare le spese di ripristino ambientale.  
[59] 
D’Orazio, Il curatore fallimentare e lo smaltimento dei rifiuti ..., op. cit., p. 601.
[60] 
In senso contrario, tuttavia, D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2021, p. 250-251; Giorgi, Rinuncia all'acquisizione e siti contaminati: derelizione dei beni o 'abbandono' … dei creditori?, in Dir. fall., 2019, I, p. 131ss. 
[61] 
E neanche la successiva sentenza n. 1480 del 2021, che ha ribadito i principi espressi dall’Ad. Plen., la quale però in motivazione, sottolineando le analogie con il caso già trattato dall’Ad. Plen., precisa che “In considerazione di queste precisazioni di fatto, la Sezione rileva che il casus pratico è sovrapponibile a quello già deciso, perché anche in quel caso la custodia aveva riguardato beni del fallito senza continuazione dell’attività imprenditoriale e, soprattutto, non oggetto di successiva rinuncia rispetto alla massa”. Non si può che condividere il giudizio di Lamanna, Il Consiglio di Stato considera il curatore sempre tenuto a smaltire i rifiuti inquinanti prodotti dal fallito, in ilfallimentarista, 23 marzo 2021, il quale osserva che: “mi preme qui rimarcare ciò che invece il S. Giudice amministrativo – inspiegabilmente - non ha affatto detto né esaminato, così incorrendo in una gravissima omissione. Il Consiglio di Stato, infatti, nel pervenire alla sua decisione, ha del tutto omesso di considerare quella che doveva invece considerarsi la norma più importante, conferente e dirimente ai fini del decidere, ossia l'art. 104 ter, comma 8, L.fall [omissis] Quale che sia la ragione di tale omissione (ignoranza “semplice” o addirittura “intenzionale”?) essa appare comunque grave, inficiando integralmente la decisione del Consiglio di Stato e, di conserva, il principio di diritto in cui essa si compendia”.
[62] 
É stato ipotizzato in dottrina Lamanna, op. cit.: “Ben potrebbe infatti ipotizzarsi, quantomeno su un piano puramente teorico, che sulla predetta norma fallimentare possano comunque prevalere in parte de qua le norme del Codice dell'ambiente, ad esempio in ragione della loro emanazione in data successiva al D.Lgs. n. 5/2006, che ha introdotto l'art. 104 ter (“lex posterior derogat priori”), o in base al criterio di prevalenza per specialità (“lex specialis derogat generali”) -, e via discorrendo, secondo la variabilmente fervida immaginazione degli interpreti e l'assai generoso trovarobato del tradizionale armamentario argomentativo, anche se, naturalmente, a ciascun argomento favorevole alla prevalenza delle norme ambientali potrebbero contrapporsene altri di segno contrario, ugualmente plausibili”. 
[63] 
Così legge le parole dell’Ad. Plen. Pizza, Le regole per attribuire al curatore la qualifica di “detentore dei rifiuti” e per addossare i connessi oneri economici alla massa fallimentare, in ilfallimentarista, 23 marzo 2021.
[64] 
Gli atti dispositivi del fallito intervenuti dopo la dichiarazione di fallimento sarebbero infatti inopponibili alla massa anche in mancanza di trascrizione della sentenza di fallimento.
[65] 
V. Lamanna, op. cit., nota 52. 
[66] 
Per un excursus sulla posizione del curatore fallimentare v. D’Orazio, op. cit., p. 597.
[67] 
Diversamente, infatti, si dovrebbe ritenere che la presunzione di manifesta non convenienza dopo sei tentativi di vendita senza aggiudicazione rappresenti l’unica ipotesi di derelizione contemplata dal CCI, con ciò precludendo al curatore (con le autorizzazioni di legge) di “abbandonare” il bene per motivazioni diverse dall’appetibilità sul mercato (quali le ragioni ambientali) e prima di aver effettuato i sei tentativi di vendita. Tale conclusione, tuttavia, non appare condivisibile, soprattutto nell’interesse dei creditori, considerato che imporre attività inutile e dispendiosa (quali sono le vendite) quando ex ante è già possibile valutarne la non convenienza significherebbe spostare l’obiettivo dell’attività liquidatoria dalla soddisfazione dei creditori ad altri indirizzi, cui purtuttavia il fallimento – così come la futura liquidazione giudiziale – non sono destinati. La norma, invece, sembra destinata al contrario a evidenziare la massima rilevanza della orientamento della procedura concorsuale alla soddisfazione del ceto creditorio, come d’altronde sembra evincersi anche dalla relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante il CCI ove si sottolinea, con riferimento alle ragioni che hanno indotto il legislatore a inserire il predetto nuovo comma, che: “E’ infatti evidente che, nella generalità dei casi, il prolungato disinteresse del mercato rispetto al bene è sintomatico del suo scarso valore, sicché la prosecuzione dell’attività liquidatoria aggrava inutilmente il passivo ed incide negativamente sulla durata della procedura”.
[68] 
In senso contrario la già citata pronuncia del Consiglio di Stato n. 3274 del 2014.
[69] 
Se un pregio, infatti, si vuol dare a tale decisione è decisamente quello di aver imposto a tutti i curatori la best practice di affrontare la problematica ambientale.
[70] 
Nella quale potrebbe sì comunque insinuarsi, ma senza godere del privilegio immobiliare. 
[71] 
Così T.a.r. Toscana, 1° agosto 2001, n. 1318 secondo cui va osservato in liea di principio che “i rifiuti prodotti dall'imprenditore fallito non costituiscano "beni" da acquisire alla procedura fallimentare (e, quindi non formino oggetto di apprensione da parte del curatore)”.
[72] 
Così. C. Stato 5668 del 2017, cit., secondo cui addossare al curatore “responsabilità (anche solidale) per l'inquinamento prodottosi vanificherebbe la cogenza dei superiori principi e finirebbe con il produrre un effetto di manleva automatica nei confronti dei "veri" responsabili dell'inquinamento (id est, in tesi: i soggetti muniti di responsabilità gestoria nei confronti dell'impresa inquinante)” considerando che “nessuna impresa (e per essa i suoi vertici responsabili) avrebbe interesse a stanziare investimenti volti ad attenersi a politiche di stretto rispetto delle disposizioni in materia ambientale, ove avesse consapevolezza che gli eventuali danni all'ambiente prodotti sarebbero successivamente ripianati in danno dei creditori, mercè l'utilizzo dei residui attivi della gestione di impresa.”

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