Saggio
Fallimento per estensione del socio e risoluzione degli accordi di composizione della crisi ex art. 12, comma 5, L. n. 3/2012*
Massimo Montanari, Ordinario di diritto processuale civile nell'Università di Parma
10 Giugno 2021
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Sommario:
Non è chi non veda come una siffatta spiegazione postuli come acquisita l’assoggettabilità alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento di chi rivesta detta qualità di socio illimitatamente responsabile, assoggettabilità di cui, invero, potrebbe discutersi, siccome riferita a soggetto fallibile ai sensi della norma ult. cit. e, dunque, suscettibile di incorrere nella preclusione opposta alle procedure in questione dall’art. 7, comma 2, lett. a), della menzionata L. n. 3 del 2012. Quella che si è posta dando per assodata tale opzione ermeneutica, non pare tuttavia una premessa azzardata o, addirittura, arbitraria. La tesi predicante l’apertura delle procedure di sovraindebitamento anche ai soci esposti al rischio del fallimento per extensionem di cui all’art. 147 L. fall. non soltanto ha trovato diversi riscontri nella giurisprudenza di merito[2], registrando altresì il consenso di un ampio, ed anzi maggioritario, schieramento nella letteratura di settore[3]; ma soprattutto ha ricevuto decisivo avallo dalla riforma, già nella fase della delega all’uopo rilasciata all’autorità di governo, con la direttiva impartita a livello dell’art. 9, lett. a), della L. 19 ottobre 2017, n. 155 – “comprendere nella procedura i soci illimitatamente responsabili”[4] -, e poi con l’art. 2, lett. e), del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) che ne è scaturito (D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14): dove la qualifica di consumatore e, dunque, di soggetto ammesso alle procedure de quibus figura riconosciuta anche a chi sia socio di una delle società ricadenti entro l’orbita applicativa, oggi, dell’art. 147 L. fall. e domani, con l’entrata in vigore del Codice, del relativo art. 256[5].
Insomma, come può fallire chi, per definizione, non può fallire e, proprio perché non può fallire, è soggetto a una procedura di sovraindebitamento?
Secondo quello che appare il corrente avviso dei commentatori, infatti, la norma andrebbe letta e compresa, se non esclusivamente certo principalmente, in relazione a una differente eventualità, come quella che abbia a registrare, da un lato, l’inadempimento, da parte del debitore, nei confronti dei creditori così estranei all’accordo (in quanto divenuti tali successivamente all’omologa[11]) come ad esso vincolati, dall’altro, il superamento, successivamente all’omologa e nel corso della fase di esecuzione dell’accordo medesimo, delle soglie dimensionali di fallibilità ovvero, trattandosi originariamente di imprenditore agricolo, la trasformazione della sua attività da agricola in commerciale con annesso superamento delle soglie dimensionali predette, ovvero ancora, trattandosi in origine di soggetto non esercente attività d’impresa, l’avvio, da parte di quest’ultimo, di un’attività commerciale sopra-soglia: così che, a fronte della situazione di insolvenza in cui il debitore abbia a versare nonostante la stipula dell’accordo con i creditori, il rimedio non possa che essere quello della domanda di fallimento[12].
In relazione a ciò, è altresì concordemente riconosciuto[15] che, nel fallimento apertosi senza essere stato preceduto dalla risoluzione del concordato, i creditori direttamente coinvolti nella procedura negoziale avviata dal loro comune debitore concorrono necessariamente per la sola percentuale concordataria e non per l’intero ammontare delle loro originarie spettanze. Ma se questo significa che gli effetti del concordato omologato sopravvivono nel, e a dispetto del, sopravvenuto fallimento, sì da doversi escludere che la relativa declaratoria possa di per se rilevare come causa di risoluzione del concordato medesimo, è di solare evidenza come la fattispecie sia assoggettata a una disciplina di tenore diametralmente antitetico a quanto postulato dal suddetto art. 12, comma 5, L. n. 3 del 2012, con riguardo all’accordo di composizione della crisi, dove, si ribadisce, è testualmente previsto che “la sentenza di fallimento…risolv[a] l’accordo”.
Ora, che nel passaggio dalle procedure ordinarie o maggiori, che dir si voglia, alle procedure di sovraindebitamento, due fattispecie sostanzialmente analoghe debbano risultare soggette a regimi così drasticamente divaricati – perché nell’un caso il fallimento non comporta la risoluzione dell’accordo concluso con i creditori e nell’altro caso sì, invece -, ecco, questa mi sembra proprio una conclusione dalla quale si debba, per quanto possibile, rifuggire. Concediamo pure che, in ipotesi di inadempimento nei confronti dei creditori estranei all’accordo di composizione della crisi, possa aversi fallimento del debitore che nel frattempo abbia smarrito le connotazioni soggettive del debitore minore per assumere quelle dell’imprenditore commerciale sopra-soglia. Ma non può essere questa la fattispecie presa in considerazione dalla norma che è ora sotto la nostra lente di ingrandimento. O meglio, potrebbe anche esserla ma alla sola condizione di non potersi offrire, di quella disciplina, una valida spiegazione alternativa, quale, al contrario, è ben possibile somministrare, rinviando a quel fallimento in estensione dalla società ai soci di cui s’è detto sin dalle battute introduttive di questo lavoro.
La questione non avrebbe ragione di essere qualora, spostando il discorso entro l’area presidiata dalle procedure concorsuali tradizionali, si dovesse escludere la ravvisabilità, nella fattispecie, degli estremi per poter far luogo alla dichiarazione di fallimento senza bisogno della previa risoluzione del concordato preventivo: e questo perché sarebbe irragionevole o, quantomeno, contrario a quell’istanza di coerenza all’interno del sistema concorsuale globalmente considerato di cui s’è detto poco sopra, che la violazione degli impegni contratti in sede di concordato preventivo non possa essere causa di fallimento senza previa risoluzione di quegli impegni medesimi, mentre, in caso di inadempimento degli obblighi consacrati nell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, non solo il fallimento si troverebbe la strada spianata (beninteso, in quanto, alla data della relativa apertura e in conseguenza di eventi sopravvenuti all’omologa dell’accordo, il debitore sia ascrivibile al novero degli imprenditori fallibili: v. supra) ma sarebbe, anzi, destinato a venire in gioco come causa di risoluzione dell’accordo rimasto inadempiuto.
A deporre nel senso indicato è il dato testuale della norma in discorso, dove la risoluzione dell’accordo viene in gioco come conseguenza obbligata e automatica del fallimento intervenuto successivamente all’omologa, senza precisazioni o distinzioni di sorta: precisazioni e distinzioni che, viceversa, s’impongono nel caso di fallimento determinato dall’inesecuzione dell’accordo di composizione della crisi, dove la risoluzione ex post di quest’ultimo sarebbe predicabile, in forza delle stesse ragioni dedotte da Cass. n. 26002/2018 quanto all’omologa fattispecie legata all’inesecuzione del concordato preventivo, nella sola eventualità di fallimento dichiarato in pendenza del termine di cui all’art. 14, comma 3, L. n. 3/2012[22]. Senza contare che, in questa specifica eventualità, la risoluzione dell’accordo non coinvolgerebbe tutti i creditori interessati allo stesso, come formalmente risulta dalla norma in esame: e questo perché la scelta, compiuta dal creditore istante per la dichiarazione di fallimento, di reagire all’inadempimento dell’accordo da parte del debitore senza servirsi dello strumento all’uopo congegnato dalla legge, vale a dire, appunto, la risoluzione, non potrebbe sortire, almeno nei suoi confronti, lo stesso risultato che si sarebbe potuto conseguire ove detto strumento fosse stato debitamente utilizzato[23].
Il discorso non si presta a uno svolgimento unitario. Nulla quaestio, invero, quanto al piano del consumatore, ché ragioni per assoggettare questa procedura a un trattamento diverso da quello che la norma prevede, ove fallisca la società di cui il debitore sovraindebitato sia socio illimitatamente responsabile, per gli accordi di composizione della crisi, non sono, queste ragioni, obbiettivamente ravvisabili. Ma identicamente è a dirsi anche per la liquidazione del patrimonio di cui all’art. 14-ter ss. L. n. 3 del 2012? Credo proprio di no[24]; e i motivi che impongono questa differente conclusione sono presto esplicitati.
La disposizione, mutato quel che vi sarebbe stato da mutare – e, cioè, sostituiti i riferimenti all’accordo di composizione della crisi e al fallimento con quelli al concordato minore e alla liquidazione giudiziale – non è stata riprodotta all’interno del Codice della crisi. Non riesco, tuttavia, a capire perché mai, nel passaggio dalle procedure regolate dall’attuale legislazione a quelle introdotte, in loro vece, dalla riforma, si dovrebbe assistere a un ribaltamento dei rispettivi rapporti, così da doversi affermare l’insensibilità del concordato minore omologato a fronte della liquidazione giudiziale aperta nei confronti della società e del fenomeno di estensione della procedura ai soci, secondo quanto disciplinato dall’art. 256 CCII in perfetta assonanza al suddetto art. 147 L. fall. La sopravvivenza della disposizione nell’ordinamento riformato (con quella delle accessorie previsioni di cui al secondo e terzo periodo dello stesso art. 12, comma 5) appare, pertanto, fondatamente predicabile, ad onta della sua omessa trascrizione nel novello Codice.
* Il presente lavoro costituisce il testo, alquanto rielaborato e integrato con gli opportuni riferimenti giurisprudenziali e bibliografici, della relazione presentata all’Incontro di studi sul tema La nuova disciplina in materia di sovraindebitamento. Questioni di diritto concorsuale, organizzato in data 18 marzo 2021 presso l’Università degli Studi di Trento.
Note: