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Saggio

Fallimento per estensione del socio e risoluzione degli accordi di composizione della crisi ex art. 12, comma 5, L. n. 3/2012*

Massimo Montanari, Ordinario di diritto processuale civile nell'Università di Parma

10 Giugno 2021

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Diverse sono state le fattispecie addotte dai commentatori per dare ragione della particolare disposizione di cui all’art. 12, comma 5, primo periodo, L. n. 3 del 2012, a tenore della quale la sentenza di fallimento pronunciata nei confronti di debitore che abbia concluso un accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento con i propri creditori è causa di risoluzione dell’accordo medesimo. L’a. si prefigge di dimostrare come la norma sia stata concepita avendo come esclusivo riferimento l’eventualità di fallimento della società di cui il debitore risulti socio illimitatamente responsabile, soggetto al fallimento per estensione di cui all’art. 147 L. fall. 
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1 . Introduzione
Il titolo sotto cui figura l’intervento che mi è stato in questa sede assegnato ne disvela già l’assunto interpretativo di cui s’intende offrire dimostrazione, anticipandone dunque, in certo modo, le conclusioni. L’intervento mira a prestare un contributo all’esegesi della disposizione, se non proprio bistrattata o misconosciuta, certo non fatta oggetto di soverchie attenzioni da parte dei commentatori, di cui all’art. 12, comma 5, primo periodo, L. 27 gennaio 2012, n. 3, la quale, inserita nel quadro delle regole che presiedono all’omologazione degli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento ed ai relativi effetti, stabilisce che “la sentenza di fallimento pronunciata a carico del debitore risolve l’accordo”[1]. E l’accenno che compare nel titolo al fallimento per estensione del socio – intendendosi, ovviamente, il socio illimitatamente responsabile di società cui si applichi l’istituto, giusta le previsioni dell’art. 147, comma 1, L. fall. – lascia chiaramente intendere che sia soltanto in relazione e nell’ottica di quell’istituto specifico che può trovare spiegazione, secondo quanto, appunto, si vuol qui dimostrare, la singolare disposizione di legge testé richiamata.
Non è chi non veda come una siffatta spiegazione postuli come acquisita l’assoggettabilità alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento di chi rivesta detta qualità di socio illimitatamente responsabile, assoggettabilità di cui, invero, potrebbe discutersi, siccome riferita a soggetto fallibile ai sensi della norma ult. cit. e, dunque, suscettibile di incorrere nella preclusione opposta alle procedure in questione dall’art. 7, comma 2, lett. a), della menzionata L. n. 3 del 2012. Quella che si è posta dando per assodata tale opzione ermeneutica, non pare tuttavia una premessa azzardata o, addirittura, arbitraria. La tesi predicante l’apertura delle procedure di sovraindebitamento anche ai soci esposti al rischio del fallimento per extensionem di cui all’art. 147 L. fall. non soltanto ha trovato diversi riscontri nella giurisprudenza di merito[2], registrando altresì il consenso di un ampio, ed anzi maggioritario, schieramento nella letteratura di settore[3]; ma soprattutto ha ricevuto decisivo avallo dalla riforma, già nella fase della delega all’uopo rilasciata all’autorità di governo, con la direttiva impartita a livello dell’art. 9, lett. a), della L. 19 ottobre 2017, n. 155 – “comprendere nella procedura i soci illimitatamente responsabili”[4] -, e poi con l’art. 2, lett. e), del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) che ne è scaturito (D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14): dove la qualifica di consumatore e, dunque, di soggetto ammesso alle procedure de quibus figura riconosciuta anche a chi sia socio di una delle società ricadenti entro l’orbita applicativa, oggi, dell’art. 147 L. fall. e domani, con l’entrata in vigore del Codice, del relativo art. 256[5].      
E qualora ciò non dovesse bastare, ad avvalorare la soluzione assunta come premessa del ragionamento che s’intende qui sviluppare, sovviene lo stesso art. 12, comma 5, L. n.3 del 2012 sul quale dovremmo ora intrattenerci, nella misura in cui possa sostenersi – come, appunto, ci si ripromette di dimostrare – che sia soltanto nell’ipotesi di fallimento per extensionem del debitore addivenuto all’accordo di composizione della crisi di poi omologato, che la norma sia suscettiva di diretta applicazione: quanto, beninteso, si dice nella consapevolezza dei dubbi di circolarità che un siffatto modo di argomentare può alimentare ma anche avendo ben presente, e con la tranquillità d’animo che ne deriva, che si tratta di argomentazione svolta ad abundantiam, a conforto di una lettura normativa che già ed ampiamente può dirsi a monte suffragata.
2 . L’apparente aporia della norma in rassegna
Previsione singolare, si è detto poc’anzi, quella dell’art. 12, comma 5, primo periodo, L. n. 3 del 2012, e tale, addirittura, da sembrare dar corpo a un’autentica aporia, se e in quanto possa suonare come contraddizione in termini la conversione in fallimento di una procedura, come quella fondata sull’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, che necessariamente si è aperta sul presupposto dell’esclusione dall’area della fallibilità, ossia sul presupposto della non fallibilità, del soggetto nei cui confronti essa procedura sia stata instaurata. 
Insomma, come può fallire chi, per definizione, non può fallire e, proprio perché non può fallire, è soggetto a una procedura di sovraindebitamento? 
La risposta non va sicuramente cercata nelle forme camerali che rivestono il provvedimento di omologa dell’accordo, quali idonee a determinarne la revocabilità ai sensi dell’art. 742 c.p.c. o, comunque, l’incapacità a fare stato sui presupposti della procedura con forza di giudicato[6]. Le ragioni che tipicamente presiedono all’incontrovertibilità degli accertamenti giurisdizionali su cui si radicano le procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza non possono infatti, in questa sede, valere con minor forza che altrove. E che si abbia, nella specie, a che fare con un provvedimento esibente i tratti di stabilità propri della sentenza in senso sostanziale, lo attestano i più recenti interventi della giurisprudenza di legittimità sul versante contiguo dell’omologa del piano del consumatore, nell’affermazione della rispondenza del provvedimento – beninteso, all’esito del reclamo ex art. 12-bis, comma 5, L. n. 3 del 2012 (che rinvia, a sua volta, al reclamo di cui al precedente art. 12, comma 2, contro l’omologa dell’accordo di composizione della crisi) - ai requisiti, classicamente integranti quella nozione, della definitività e decisorietà, come presupposto della riconosciuta esperibilità nei suoi confronti del ricorso straordinario in cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.[7]
La chiave che consenta lo scioglimento della paventata aporia va quindi rinvenuta altrove, puntando nella direzione dianzi indicata del fallimento per estensione ex art. 147 L. fall. Ma andiamo con ordine.
3 . La soluzione comunemente proposta
Che (mi si passi l’espressione un poco enfatica) l’enigma posto dalla declaratoria di fallimento nei confronti di debitore che al fallimento dovrebbe essere per definizione sottratto, vada decifrato nei termini di quella che dovrebbe essere la necessitata ripercussione nei suoi confronti del fallimento che sia venuto successivamente ad aprirsi nei confronti della società di cui esso figuri come socio illimitatamente responsabile – e questo, merita precisare, indipendentemente da che si tratti di ripercussione a norma del comma 1 dell’art. 147 L. fall. come dei successivi commi 4 e 5[8] -, non rappresenta certo una proposta inedita o innovativa. Al tempo stesso, però, occorre rilevare come essa non si ritrovi in tutte le analisi dottrinali che la presente sezione della l. n. 3/2012 hanno avuto ad oggetto; e, soprattutto, come anche quando ve ne sia traccia o esplicito riscontro[9], non si tratta mai, invero, della chiave di lettura primaria della norma di cui stiamo discorrendo[10]. 
Secondo quello che appare il corrente avviso dei commentatori, infatti, la norma andrebbe letta e compresa, se non esclusivamente certo principalmente, in relazione a una differente eventualità, come quella che abbia a registrare, da un lato, l’inadempimento, da parte del debitore, nei confronti dei creditori così estranei all’accordo (in quanto divenuti tali successivamente all’omologa[11]) come ad esso vincolati, dall’altro, il superamento, successivamente all’omologa e nel corso della fase di esecuzione dell’accordo medesimo, delle soglie dimensionali di fallibilità ovvero, trattandosi originariamente di imprenditore agricolo, la trasformazione della sua attività da agricola in commerciale con annesso superamento delle soglie dimensionali predette, ovvero ancora, trattandosi in origine di soggetto non esercente attività d’impresa, l’avvio, da parte di quest’ultimo, di un’attività commerciale sopra-soglia: così che, a fronte della situazione di insolvenza in cui il debitore abbia a versare nonostante la stipula dell’accordo con i creditori, il rimedio non possa che essere quello della domanda di fallimento[12]. 
 Ciò posto, è su questo punto che deve aprirsi la discussione, non parendomi questa la soluzione corretta del problema ermeneutico che la disposizione in rassegna solleva. Con ciò, intendiamoci bene, non voglio assolutamente dire che, in una situazione come quella che s’è appena tratteggiata, l’approdo non possa essere la dichiarazione di fallimento. Quello che voglio dire è un’altra cosa e, precisamente, che non è quella appena tratteggiata la fattispecie cui i conditores della L. n. 3 del 2012 hanno pensato nel redigere il quinto comma dell’art. 12 o, almeno, non può essere quella la fattispecie cui la norma si riferisce, se vogliamo proporne una lettura in linea con i dettami dell’interpretazione sistematica.
4 . Critica della communis opinio in argomento
Considerata la fattispecie nel suo solo nucleo oggettivo, dell’incapacità del debitore di far fronte alle pretese dei creditori, e circoscrivendo per il momento l’attenzione al caso che a rimanere insoddisfatte siano le pretese dei creditori estranei all’accordo, in quanto successivi alla relativa omologa – così da potersi parlare di “nuova e sopravvenuta insolvenza”[13] - , ci accorgiamo immediatamente come la fattispecie non sia fondamentalmente dissimile da quella che, in sede di concordato preventivo e sua intervenuta omologazione, rappresenta la sola ipotesi ove sia concordemente riconosciuta l’ammissibilità del c.d. fallimento omisso medio, vale a dire senza l’intermediazione della previa risoluzione del concordato medesimo[14]. 
In relazione a ciò, è altresì concordemente riconosciuto[15] che, nel fallimento apertosi senza essere stato preceduto dalla risoluzione del concordato, i creditori direttamente coinvolti nella procedura negoziale avviata dal loro comune debitore concorrono necessariamente per la sola percentuale concordataria e non per l’intero ammontare delle loro originarie spettanze. Ma se questo significa che gli effetti del concordato omologato sopravvivono nel, e a dispetto del, sopravvenuto fallimento, sì da doversi escludere che la relativa declaratoria possa di per se rilevare come causa di risoluzione del concordato medesimo, è di solare evidenza come la fattispecie sia assoggettata a una disciplina di tenore diametralmente antitetico a quanto postulato dal suddetto art. 12, comma 5, L. n. 3 del 2012, con riguardo all’accordo di composizione della crisi, dove, si ribadisce, è testualmente previsto che “la sentenza di fallimento…risolv[a] l’accordo”. 
Ora, che nel passaggio dalle procedure ordinarie o maggiori, che dir si voglia, alle procedure di sovraindebitamento, due fattispecie sostanzialmente analoghe debbano risultare soggette a regimi così drasticamente divaricati – perché nell’un caso il fallimento non comporta la risoluzione dell’accordo concluso con i creditori e nell’altro caso sì, invece -, ecco, questa mi sembra proprio una conclusione dalla quale si debba, per quanto possibile, rifuggire. Concediamo pure che, in ipotesi di inadempimento nei confronti dei creditori estranei all’accordo di composizione della crisi, possa aversi fallimento del debitore che nel frattempo abbia smarrito le connotazioni soggettive del debitore minore per assumere quelle dell’imprenditore commerciale sopra-soglia. Ma non può essere questa la fattispecie presa in considerazione dalla norma che è ora sotto la nostra lente di ingrandimento. O meglio, potrebbe anche esserla ma alla sola condizione di non potersi offrire, di quella disciplina, una valida spiegazione alternativa, quale, al contrario, è ben possibile somministrare, rinviando a quel fallimento in estensione dalla società ai soci di cui s’è detto sin dalle battute introduttive di questo lavoro. 
5 . Un’ulteriore proposta di lettura della norma alternativa a quella facente capo alla ripercussione sui soci del fallimento societario: critica
Di quanto professato in chiusura del precedente paragrafo, si potrebbe, invero, dubitare avendo riguardo alla fattispecie in certo modo eguale e contraria a quella sinora presa in considerazione, vale a dire, a quella dell’incapacità del debitore di tener fede agli impegni presi con l’accordo omologato, rivelandosi così inadempiente nei confronti dei creditori che ad esso accordo risultino astretti.
La questione non avrebbe ragione di essere qualora, spostando il discorso entro l’area presidiata dalle procedure concorsuali tradizionali, si dovesse escludere la ravvisabilità, nella fattispecie, degli estremi per poter far luogo alla dichiarazione di fallimento senza bisogno della previa risoluzione del concordato preventivo: e questo perché sarebbe irragionevole o, quantomeno, contrario a quell’istanza di coerenza all’interno del sistema concorsuale globalmente considerato di cui s’è detto poco sopra, che la violazione degli impegni contratti in sede di concordato preventivo non possa essere causa di fallimento senza previa risoluzione di quegli impegni medesimi, mentre, in caso di inadempimento degli obblighi consacrati nell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, non solo il fallimento si troverebbe la strada spianata (beninteso, in quanto, alla data della relativa apertura e in conseguenza di eventi sopravvenuti all’omologa dell’accordo, il debitore sia ascrivibile al novero degli imprenditori fallibili: v. supra) ma sarebbe, anzi, destinato a venire in gioco come causa di risoluzione dell’accordo rimasto inadempiuto.
Nella realtà, però, le cose stanno diversamente da come si sono testé convenzionalmente ipotizzate. La tesi dell’ammissibilità del fallimento omisso medio nell’ipotesi di violazione degli obblighi concordatari riscuote infatti il consenso di larga parte della dottrina[16] e, soprattutto, ha, almeno sino ad oggi[17], incontrato il favore della giurisprudenza di legittimità[18]. Questo, probabilmente, non basterebbe a riaprire la questione se si dovesse convenire su ciò, che in ogni caso, nel fallimento inaugurato senza passare dalla risoluzione dello strumento convenzionale precedentemente attivato, i creditori potrebbero far valere le proprie ragioni soltanto nella misura risultante dalla falcidia concordataria: quanto varrebbe a perpetuare quell’incolmabile fossato rispetto alla regola dettata dall’art. 12, comma 5, primo periodo, l. n. 3/2012, in considerazione del quale s’è precedentemente negato che la chiave esplicativa di quella disposizione vada cercata nell’inadempimento, e conseguente fallimento, verso i creditori estranei all’accordo. 
Nel processo di affinamento delle sue posizioni in materia, la Suprema Corte appare, però, diversamente orientata. Il riferimento è a Cass., 17 ottobre 2018, n. 26002[19], a tenore della quale è necessario, in proposito, distinguere a seconda il fallimento sia stato dichiarato in pendenza del termine concesso ai fini dell’istanza di risoluzione del concordato ex art. 186 L. fall. oppure quando detto termine sia già scaduto e il piano concordatario sia venuto, pertanto, a consolidarsi: soltanto in questa seconda ipotesi, afferma il giudice di legittimità, resterebbero salvi gli effetti esdebitatòri del concordato e i creditori, cui la legge accordava, per sottrarsi a quegli effetti, un potere di risoluzione del quale hanno ritenuto di non doversi avvalere, non potrebbero che concorrere nella misura delle loro ragioni risultante dalla defalcazione concordataria; laddove, nell’ipotesi precedentemente considerata, detta falcidia non avrebbe giustificazione alcuna, poiché “sarebbe incoerente che il credito da ammettere al passivo  [la] debba subire […], senza che il creditore – che l’aveva dovuta accettare nella prospettiva dell’attuazione del piano e di un celere, seppur parziale, realizzo – abbia potuto proporre la domanda di risoluzione del piano stesso, pur pendendo ancora il termine di cui alla L. fall., art. 186”[20].
Trasponendo queste conclusioni sul terreno, dove si svolge l’attuale discorso, degli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento, ne discenderebbe, allora, che, in caso di fallimento decretato omisso medio  in pendenza del termine di risoluzione di cui all’art. 14, comma 3, l. n. 3 del 2012, avremmo le stesse conseguenze caducatorie degli effetti di esdebitazione dell’accordo implicitamente comminate dal precedente art. 12, comma 5, nel sancire la risoluzione dell’accordo medesimo. E a favore di questa illazione ricostruttiva gioca il confronto con quella che dovrebbe essere la ratio di detto art. 12, comma 5, ove letto in relazione all’eventualità di propagazione verso il debitore del fallimento dichiarato nei confronti della società di cui esso sia socio illimitatamente responsabile. Dell’apertura, nella circostanza, della procedura fallimentare, doveroso, infatti, è parlare come di autentico fulmine a ciel sereno, che investe i creditori senza che gli stessi abbiano potuto disporre in precedenza di un potere di risoluzione che consentisse loro di rimuovere gli effetti esdebitatòri dell’accordo: sicché è giusto che l’eliminazione di tali effetti, quale insita alla risoluzione dell’accordo, si produca come naturale involgimento del fallimento sopravvenuto. Proprio ed esattamente quanto è venuta a dire la cit. Cass. n. 26002/2018 in ordine al fallimento aperto in pendenza del termine di risoluzione del concordato, descritto, tale fallimento, quale “evento traumatico e destabilizzante”, tale da rendere impossibile l’attuazione del piano concordatario e, così, emancipare i creditori dai vincoli che ne scaturiscono.
I rilievi che precedono non valgono, tuttavia, a smuovermi dal convincimento, dianzi espresso, che la disposizione di legge oggetto delle presenti riflessioni sia stata concepita e confezionata avendo come proprio esclusivo riferimento l’ipotesi del fallimento del debitore per estensione di quello societario ai sensi dell’art. 147 L. fall.; e che, se lecito è affermarne l’attitudine a trovare applicazione anche a fronte di altre fattispecie, questo può essere solamente in nome delle ragioni dell’analogia legis[21].
A deporre nel senso indicato è il dato testuale della norma in discorso, dove la risoluzione dell’accordo viene in gioco come conseguenza obbligata e automatica del fallimento intervenuto successivamente all’omologa, senza precisazioni o distinzioni di sorta: precisazioni e distinzioni che, viceversa, s’impongono nel caso di fallimento determinato dall’inesecuzione dell’accordo di composizione della crisi, dove la risoluzione ex post di quest’ultimo sarebbe predicabile, in forza delle stesse ragioni dedotte da Cass. n. 26002/2018 quanto all’omologa fattispecie legata all’inesecuzione del concordato preventivo, nella sola eventualità di fallimento dichiarato in pendenza del termine di cui all’art. 14, comma 3, L. n. 3/2012[22]. Senza contare che, in questa specifica eventualità, la risoluzione dell’accordo non coinvolgerebbe tutti i creditori interessati allo stesso, come formalmente risulta dalla norma in esame: e questo perché la scelta, compiuta dal creditore istante per la dichiarazione di fallimento, di reagire all’inadempimento dell’accordo da parte del debitore senza servirsi dello strumento all’uopo congegnato dalla legge, vale a dire, appunto, la risoluzione, non potrebbe sortire, almeno nei suoi confronti, lo stesso risultato che si sarebbe potuto conseguire ove detto strumento fosse stato debitamente utilizzato[23]. 
6 . Il problema dell’operatività extratestuale della norma
L’occasione può essere propizia anche per verificare le prospettive di applicazione in via analogica della disposizione quivi in rassegna nella direzione delle procedure di sovraindebitamento ivi non espressamente considerate.
Il discorso non si presta a uno svolgimento unitario. Nulla quaestio, invero, quanto al piano del consumatore, ché ragioni per assoggettare questa procedura a un trattamento diverso da quello che la norma prevede, ove fallisca la società di cui il debitore sovraindebitato sia socio illimitatamente responsabile, per gli accordi di composizione della crisi, non sono, queste ragioni, obbiettivamente ravvisabili. Ma identicamente è a dirsi anche per la liquidazione del patrimonio di cui all’art. 14-ter ss. L. n. 3 del 2012? Credo proprio di no[24]; e i motivi che impongono questa differente conclusione sono presto esplicitati. 
La regola per cui tale procedura, al pari di quella gravitante sull’accordo di composizione della crisi, dovrebbe per forza di cose cedere il passo di fronte al fallimento decretato nei confronti dello stesso debitore come socio illimitatamente responsabile di società a sua volta fallita si dimostra, ad osservare le cose con un minimo di attenzione, come l’espressione tangibile di una logica – quella della così definibile vis attractiva del fallimento societario, ossia della necessaria confluenza nell’alveo di quella delle distinte procedure aperte anche in separata sede nei confronti dei soci - che il sistema, già a far data dalla riforma organica di cui al D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, ha completamente ripudiato e superato. Mi riferisco con ciò all’art. 9-ter L. fall., norma introdotta in occasione di quell’intervento riformatore ai fini di una espressa regolamentazione, in precedenza mancante, delle fattispecie di conflitto positivo di competenza in sede di dichiarazione di fallimento. Ebbene, se questa norma stabilisce che, “quando il fallimento è stato dichiarato da più tribunali, il procedimento prosegue avanti al tribunale competente che si è pronunciato per primo”, ne discende, con tutta evidenza, che, quando un determinato soggetto sia stato dichiarato fallito a titolo di imprenditore individuale, non possa aversi nei suoi confronti una seconda pronuncia di fallimento per estensione di quello societario; e laddove ciò accadesse, a prevalere sarebbe sempre e comunque il primo fallimento[25].
È vero che qui il fallimento successivamente inaugurato nei confronti della società non verrebbe a rapportarsi con altra procedura fallimentare, bensì con una liquidazione del patrimonio. Ma che le sorti di tale procedura, che condivide del fallimento l’identica fisionomia strutturale di espropriazione a carattere collettivo e universale, debbano essere, nella fattispecie data, radicalmente diverse, al punto da essere brutalmente tolta di mezzo anziché proseguire indisturbata nel suo cammino, questo, francamente, stento ad immaginarlo[26]. Sarebbe quello, certo, un approdo inevitabile qualora fosse da escludere che, nella liquidazione del patrimonio del socio apertasi anticipatamente rispetto al fallimento della società, non fosse consentita la deduzione delle ragioni dei creditori sociali, quale necessitata (o almeno possibile) implicazione dell’inammissibilità, in quella sede, di dichiarazioni tardive di credito[27]. Ma nel momento in cui occorre dare atto, con il decisivo conforto del Codice della crisi e del relativo art. 273, comma 7 (quale inserito, in coda alla norma, dal D. Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147 – decreto correttivo del Codice), che ad esse dichiarazioni tardive compete piena cittadinanza anche nel sistema della liquidazione del patrimonio, a dispetto della totale mancanza di riferimenti testuali nella disciplina della relativa fase di verificazione dello stato passivo, il problema, testé affacciato, di una ipotetica impossibilità di far valere, nella procedura in questione, la responsabilità del debitore per i crediti che siano vantati verso la società successivamente fallita, si rivela privo di oggettivo fondamento.
7 . Conclusioni
Volendo tirare le fila del complessivo ragionamento qui svolto, confido di aver dimostrato che la fattispecie tenuta presente dal legislatore nel mettere a punto la regola di cui all’art. 12, comma 5, primo periodo, L. n. 3 del 2012 non sia stata quella dell’inadempimento, sopravvenuto all’omologa di un accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, degli impegni assunti in quella sede dal debitore o delle obbligazioni successivamente contratte, in una all’intercorsa perdita, da parte di quello stesso soggetto, dei requisiti per essere trattato come debitore non fallibile; bensì quella della propagazione nei suoi confronti, ai sensi di quanto previsto dall’art. 147 L. fall., del fallimento dichiarato nei confronti di società di cui esso sia socio illimitatamente responsabile.
La disposizione, mutato quel che vi sarebbe stato da mutare – e, cioè, sostituiti i riferimenti all’accordo di composizione della crisi e al fallimento con quelli al concordato minore e alla liquidazione giudiziale – non è stata riprodotta all’interno del Codice della crisi. Non riesco, tuttavia, a capire perché mai, nel passaggio dalle procedure regolate dall’attuale legislazione a quelle introdotte, in loro vece, dalla riforma, si dovrebbe assistere a un ribaltamento dei rispettivi rapporti, così da doversi affermare l’insensibilità del concordato minore omologato a fronte della liquidazione giudiziale aperta nei confronti della società e del fenomeno di estensione della procedura ai soci, secondo quanto disciplinato dall’art. 256 CCII  in perfetta assonanza al suddetto art. 147 L. fall. La sopravvivenza della disposizione nell’ordinamento riformato (con quella delle accessorie previsioni di cui al secondo e terzo periodo dello stesso art. 12, comma 5) appare, pertanto, fondatamente predicabile, ad onta della sua omessa trascrizione nel novello Codice.



 * Il presente lavoro costituisce il testo, alquanto rielaborato e integrato con gli opportuni riferimenti giurisprudenziali e bibliografici, della relazione presentata all’Incontro di studi sul tema La nuova disciplina in materia di sovraindebitamento. Questioni di diritto concorsuale, organizzato in data 18 marzo 2021 presso l’Università degli Studi di Trento. 

Note:

[1] 
Oltre a quello d’esordio testé riportato, la norma consta di altri due periodi, che, con riferimento alla procedura fallimentare sopravvenuta, prescrivono, rispettivamente, che atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo sarebbero sottratti ad eventuali azioni revocatorie e che i crediti derivanti da finanziamenti effettuati in esecuzione o in funzione dell’accordo medesimo beneficerebbero del regime della prededucibilità. Qualche cenno, in prosieguo di trattazione, non mancherà neppure a questo specifico riguardo. 
[2] 
Cfr. Trib. Rimini, 22 marzo 2018, in www.ilcaso.it; Id., 12 marzo 2018, in www.unijuris.it; Trib. Prato, 16 novembre 2016, in www.ilcaso.it; Trib. Mantova, 28 aprile 2016, ibidem.
[3] 
Nigro – Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, 3a ed., Bologna, 2014, p. 541; Macario, La nuova disciplina del sovra-indebitamento e dell’accordo di ristrutturazione per i debitori non fallibili, in Contratti, 2012, p. 231; Pacchi, I procedimenti concorsuali per la crisi da sovraindebitamento, in Caiafa – Romeo, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, III, Padova, 714; Trisorio Liuzzi, I procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e la liquidazione del patrimonio del debitore civile, in Id. (a cura di), Diritto delle procedure concorsuali, Milano, 2013, p. 490; Bertacchini, sub Art. 7 L. n. 3/2012, in Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, 6a ed., Padova, 2013, p. 2031; Falcone, I procedimenti per la composizione delle crisi da sovraindebitamento, in Didone (a cura di), La riforma delle procedure concorsuali, II, Milano, 2016, p. 2113; Guiotto, La nuova procedura per l’insolvenza del soggetto non fallibile: osservazioni in itinere, in Il Fall., 2012, p. 23; Masturzi, La composizione delle crisi da sovraindebitamento mediante accordo di ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei crediti, in Dir. fall. e soc. comm., 2014, I, p. 681; Piccinini, Il sovraindebitamento del debitore civile (il fallimento del consumatore), in Cagnasso – Panzani (diretto da), Crisi d’impresa e procedure concorsuali, III, Milanofiori Assago, 2016, p. 3810; per ulteriori indicazioni, anche di segno contrario, cfr. Michelotti, I soci illimitatamente responsabili e le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, in Il Fall., 2020, p. 317, nt. 17.
[4] 
Sulla diretta rilevanza che la direttiva è destinata ad assumere anche nell’ottica dell’ordinamento attualmente vigente, Michelotti, op. cit., p. 318.
[5] 
Che regola la propagazione ai soci della liquidazione giudiziale delle società secondo le stesse dinamiche previste, per il fallimento, dal ripetutamente menzionato art. 147 L. fall. Sul significato che la norma riveste nella prospettiva non soltanto della procedura riservata al consumatore bensì della generalità delle procedure di sovraindebitamento, cfr. Ranucci, Il consumatore e il socio nella l. 3/2012 modificata dalla l. 176/2020, § 7, in Irrera – Cerrato (diretto da) e F. Pasquariello (coordinato da), La nuova disciplina del sovraindebitamento, in corso di pubblicazione per la casa ed. Zanichelli.
[6] 
Dell’eventualità che il fallimento sia dichiarato all’esito dell’accertamento che il debitore sia stato erroneamente ammesso alla procedura di sovraindebitamento, hanno peraltro parlato Costa, Profili problematici della disciplina della composizione delle crisi da sovraindebitamento, in Dir. fall. e soc. comm., 2014, I, p. 669; Frascaroli Santi, Procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio, in Vassalli – Luiso – E. Gabrielli (diretto da), Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, IV, Torino, 2014, p. 574. Né, anzi, è mancato chi ha sostenuto che quella sarebbe l’unica plausibile spiegazione della norma de qua o, almeno, quella dotata di maggior concretezza: così, rispettivamente, D’Attorre, Concordato omologato e fallimento successivo, ivi, 2016, II, p. 1360; e Falcone, op. cit., p. 2126 s. In termini critici avverso questa proposta di lettura della norma, Nigro – Vattermoli, op. cit., p. 567.
[7] 
Cfr. Cass., 10 aprile 2019, n. 10095, in Il Fall., 2020, p. 57, annotata da Baccaglini – Silvestri, Procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento e ricorso straordinario in Cassazione, alla vigilia del Codice della crisi e dell’insolvenza; Cass., 23 gennaio 2018, n. 4451. Sulla predicabilità degli stessi requisiti con riguardo alla figura, che qui direttamente interessa, dell’omologa degli accordi di composizione della crisi, v., per ogni altro, Lo Cascio, L’ennesima modifica alla legge sulla composizione della crisi da sovraindebitamento (L. 27 gennaio 2012, n. 3), in Il Fall., 2013, p. 819; Fabiani, Primi spunti di riflessione sulla regolazione del sovraindebitamento del debitore non fallibile, in Foro it., 2012, V, c. 98; Donzelli, Prime riflessioni sui profili processuali delle nuove procedure concorsuali in materia di sovraindebitamento, in Dir. fall. e soc. comm., 2013, I, p. 621.
[8] 
Il riferimento, sotto l’ultimo dei profili appena indicati nel testo, è all’ipotesi di chi, in veste di imprenditore individuale sotto-soglia, sia addivenuto a un accordo di composizione della crisi e poi emerga che l’attività d’impresa sarebbe in realtà riferibile a una società, il cui fallimento verrebbe a trar seco, giusta il citato art. 147, comma 5, quello del socio che in precedenza abbia concluso l’accordo.
[9] 
V. Nigro – Vattermoli, loc. ult. cit.; Macario, op. cit., p. 231, nt. 16; Costa, op. cit., p. 669 s.; Guglielmucci, Diritto fallimentare, 8a ed., a cura di Padovini, Torino, 2017, p. 457; Falcone, op. cit., pp. 2113 s. e 2126; Masturzi, loc. cit.
[10] 
Un’eccezione in tal senso può essere rappresentata da Pacchi, op. cit., p. 714 s., e Piccinini, loc. cit., ma non certo all’esito della confutazione di altre e concorrenti o alternative chiavi di lettura, quale, viceversa, s’intende qui offrire.
[11] 
Sul fatto che non possano considerarsi estranei all’accordo, ancorché aventi diritto al pagamento in prededuzione, i creditori le cui pretese siano legittimamente sorte in corso di procedura, siccome pretese la cui genesi sarebbe stata contemplata dal piano in vista del miglior soddisfacimento dei creditori, cfr., seppur nell’ottica del concordato preventivo, Casa, “Per la contraddizion che nol consente”: una critica ad una lettura anti-sistemica degli artt. 168 e 186 L. fall., in Il Fall., 2017, p. 983.
[12] 
Così Nigro – Vattermoli, loc. ult. cit.; Macario, op. cit., p. 231 s., nt. 16; Costa, op. cit., p. 669; Guglielmucci, loc. cit.; Fabiani, La gestione del sovraindebitamento del debitore “non fallibile”, in www.ilcaso.it, 2 gennaio 2012, p. 16; Celentano, La caducazione degli effetti dell’accordo omologato, in Il Fall., 2012, p. 1097; Masturzi, op. cit., p. 707 s.; Armeli, Speciale Decreto Sviluppo-bis - Giustizia digitale e composizione della crisi da sovraindebitamento: una prima lettura, in www.ilfallimentarista.it, 21 dicembre 2012, 35; Caron, L’omologazione dell’accordo e del piano, in F. Di Marzio – Macario – Terranova (a cura di), La “nuova” composizione della crisi da sovraindebitamento, Milano, 2013, p. 48; nonché, con riferimento limitato alle ipotesi di inadempimento verso i creditori estranei all’accordo, Bertacchini, sub Art. 12 L. n. 3/2012, in Maffei Alberti, Commentario, cit., 2046; e v. pure (anche se, nella visione dell’a., non si tratta della principale fattispecie di riferimento della norma in questione: supra, nt. 6) Falcone, op. cit., 2126. E’ probabilmente inutile osservare come, anche così ragionando, non sia posta in discussione l’attitudine, precedentemente ribadita, del decreto di omologa degli accordi a far stato sulla non fallibilità del debitore, quale indeclinabile presupposto di accesso alla procedura di sovraindebitamento. A consentire, nella fattispecie, l’apertura del fallimento sarebbe, infatti, la deduzione di circostanze sopravvenute all’omologa, come tali non coperte dal vincolo di giudicato promanante da detto provvedimento.
[13] 
Allo stesso modo in cui si fotografa questa fattispecie nella prospettiva, che immediatamente sarà dischiusa nel testo, dei rapporti tra fallimento e concordato preventivo omologato: v. Lamanna, Fallimento dell’impresa in concordato senza previa risoluzione: un problema ancora aperto, in www.ilfallimentarista.it, 5 maggio 2017, p. 5.
[14] 
Come dimostrato dal fatto che, sull’ammissibilità del fallimento omisso medio nell’eventualità appena richiamata nel testo di nuova insolvenza, si sono trovati d’accordo, o, comunque, non hanno espresso posizione apertis verbis contraria, anche coloro che, in termini generali, si sono pronunciati negativamente sulla possibilità di concedere cittadinanza all’istituto nel nostro ordinamento: cfr. Ambrosini, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva ?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, in www.ilcaso.it, 6 settembre 2017, pp. 8 e 10; Lamanna, loc. cit.; Casa, op. cit., p. 984; Rago, L’esecuzione del concordato preventivo, in Il Fall., 2006, p. 1098; Ratti – Pezzano, L’irrealizzabile esecuzione del concordato preventivo: il fallimento senza risoluzione, in Il Fall., 2018, p. 755; nella giurisprudenza di merito, Trib. Pistoia, 20 dicembre 2017, ibidem, p. 735, con nota cit. di Ratti – Pezzano.
[15] 
Nella misura in cui non constano prese di posizione di segno contrario e là dove il problema è stato espressamente affrontato, esso ha invariabilmente trovato la soluzione di cui appresso, nel testo: basti comunque, in proposito, il riferimento a Cass., 17 luglio 2017, n. 17703; alla di poco successiva Cass., 11 dicembre 2017, n. 29632, in Il Fall., 2018, p. 731, con nota cit. di Ratti - Pezzano; e già a Corte cost., 2 aprile 2004, n. 106, in Dir. fall. e soc. comm., 2004, II, p. 679; nonché, sul versante di coloro che vogliono ammesso il fallimento omisso medio nei soli casi, sopra indicati, di nuova insolvenza, Rago, loc. cit.; Ratti – Pezzano, loc. cit. 
[16] 
Cfr. D’Attorre, op. cit., p. 1349 ss.; Galletti, Fallimento del debitore concordatario in assenza o nell’impossibilità di pronunziare la risoluzione del concordato, in www.ilfallimentarista.it, 29 luglio 2015, p. 3 ss.; Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, 2017, p. 541; Lo Cascio, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, 10a ed., Milano, 2017, p. 728 s.;  Giurdanella, Inadempimento del concordato preventivo e mancata richiesta infrannuale di risoluzione, in Il Fall., 2016, p. 230 s.; Platania, La dichiarazione di fallimento senza preventiva risoluzione del concordato, in www.ilfallimentarista.it, 4 maggio 2017, p. 3 s.; Bosticco, Quando la dichiarazione di fallimento non è un diritto del debitore, ivi, 27 novembre 2020, spec. p. 5 s. Per nutrite indicazioni di conforme giurisprudenza di merito, si rinvia a Macagno, Effetti esdebitatori del concordato preventivo in pendenza del termine di risoluzione e sopravvenuta dichiarazione di fallimento, in Il Fall., 2019, p. 341, nt. 14, e Petronzi, E’ possibile il fallimento senza risoluzione del concordato ?, in EClegal, 28 novembre 2017, p. 2 s. 
[17] 
La precisazione si giustifica in relazione al fatto che, mostrandosi sensibile agli argomenti della dottrina contraria, sulla questione dell’ammissibilità del fallimento conseguente al concordato ineseguito e non risolto, Cass., 31 marzo 2021, n. 8919, ha ritenuto doveroso sollecitare l’intervento risolutivo delle Sezioni unite. 
[18] 
Si vedano in proposito le già menzionate Cass. n. 17703/2017 e 29632/2017.
[19] 
Vedila in Il Fall., 2019, 337, con nota critica cit. di Macagno.
[20] 
La medesima impostazione sceveratrice è stata successivamente recepita da Cass., 22 giugno 2020, n. 12085; nonché da Trib. Modena, 11 febbraio 2019, e, implicitamente, Trib. Reggio Emilia, 13 maggio 2019, entrambe inedite e citt. da Rasile, Concordato inadempiuto ma non risolto e successivo fallimento omisso medio, in www.ilfallimentarista.it, 20 agosto 2019, p. 4 s. In ordine alla leading decision Cass. n. 26002/2018, è bene, peraltro, rammentare quanto osservato, nelle battute conclusive del relativo commento, da parte di Macagno, op. cit., p. 344 s., il quale, rilevato come, nelle condizioni date, non fosse consentito alla Corte pronunciare direttamente sull’ammissibilità del fallimento omisso medio in pendenza dei termini di risoluzione, adombra al riguardo la possibilità che, ove un intervento sulla questione fosse stato possibile, la soluzione che ne sarebbe scaturita sarebbe stata di segno negativo: il che, almeno per ciò che quivi interessa, significherebbe il ritorno alla stazione di partenza, ovverosia l’intangibilità degli effetti esdebitatòri del concordato nel fallimento aperto senza preventiva risoluzione ex art. 186 L. fall. 
[21] 
Che, naturalmente, varrebbero anche per le disposizioni accessorie, in punto di esenzione dalla revocatoria e prededucibilità dei crediti funzionali all’accordo, di cui al secondo e terzo periodo dello stesso art. 12, comma 5.
[22] 
E sarebbero proprio queste ragioni a fungere da base, in applicazione della logica dell’ubi eadem ratio ibi eadem dispositio, per l’operazione analogica di cui s’è appena detto nel testo.
[23] 
Ciò, a meno di non ritenere, con la citata Cass. n. 12085/2020, in motiv., che la domanda di fallimento proposta in pendenza del termine per chiedere la risoluzione del concordato abbia a trascinare con sé la stessa domanda di risoluzione, come ad essa implicitamente sottesa, in forza del principio per cui “il più comprende il meno”: nel qual caso, però, non si tratterebbe più di autentico fallimento omisso medio, i cui estremi, per contro, sarebbero ravvisabili nelle sole ipotesi in cui la relativa domanda sia sopravvenuta all’integrale decorso dell’or menzionato termine, sì che inevitabilmente varrebbe quanto detto poc’anzi, in chiusura della prec. nt. 20. 
[24] 
Orientato in tal senso sembra anche Costa, op. cit., p. 670.
[25] 
Cfr., ex plurimis, De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, in Trattato di dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, LXIII, Padova, 2012, p. 135; Cecchella, La dichiarazione di fallimento: legittimazione, competenza, istruttoria, pronuncia e controlli, in Vassalli – Luiso- E Gabrielli (diretto da), Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, II, Torino, 2014, p. 52 s.; Vanzetti, sub Art. 9-ter, in Aa. Vv., Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, artt. 1-63, Milano, 2010, p. 214 s. 
[26] 
Contra, in nome del carattere assorbente dell’esecuzione fallimentare, Masturzi, op. cit., p. 681.
[27] 
Quanto si dice sul presupposto che tali dichiarazioni tardive dovrebbero costituire, almeno nella più parte dei casi, il veicolo necessario per la realizzazione di quelle ragioni nella procedura separatamente aperta contro il socio, considerato che, stante l’indole tipicamente sussidiaria della responsabilità di esso socio per le obbligazioni societarie, i crediti corrispondenti dovrebbero essere azionabili nei suoi confronti solamente una volta che sia stata accertata l’insolvenza della società (cfr. Michelotti, op. cit., p. 320)  e, dunque, in momento in cui già, presumibilmente, risulterebbe scaduto il termine assegnato dal liquidatore ai creditori, ai sensi dell’art. 14-sexies, lett. b), L. n. 3 del 2012, per l’insinuazione al passivo.

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