Come già anticipato la giurisprudenza che si era venuta ad affermare nel corso dei nove anni antecedenti l’introduzione del D.L. 21 ottobre 2021 n. 146 si fondava su un equivoco già peraltro disvelato dal giudice di legittimità, con il miliare arresto a Sezioni Unite 24 dicembre 2019, n. 34447. In tale occasione la Corte, occupandosi del tema della ripartizione della competenza giurisdizionale tra giudice ordinario e giudice tributario, in ciò sollecitata da un intervento della Corte costituzionale, aveva affermato il seguente principio di diritto: “ove, in sede di ammissione al passivo fallimentare, sia eccepita dal curatore la prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento... [omissis] ... viene in considerazione un fatto estintivo dell’obbligazione tributaria di cui deve conoscere il giudice delegato ... [omissis] ...”[8].
In ragione della ripartizione della giurisdizione che così ne derivava, restavano di competenza del giudice tributario, non solo le questioni riguardanti l’an e il quantum della pretesa, ma anche quelle riguardanti fatti impeditivi, modificativi o estintivi verificatisi antecedentemente la formazione definitiva del titolo.
Infatti, come aveva affermato la Corte costituzionale nella sentenza che aveva determinato l’intervento delle Sezioni Unite che si sta illustrando, “la linea di demarcazione della giurisdizione [è] posta dalla cartella di pagamento... [omissis] ... fino a questo limite la cognizione degli atti dell’amministrazione, espressione del potere di imposizione fiscale, è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario; a valle, la giurisdizione spetta al giudice ordinario e segnatamente al giudice dell’esecuzione”[9].
Se, dunque, già dall’arresto della Consulta del maggio 2018 era chiaro che la notifica della cartella era un fatto rilevante ai fini della giurisdizione non poteva essere altrettanto chiaro che l’ammissione al passivo del credito erariale fatto valere dall’Agente della riscossione, se si fosse continuato a decretarla sulla base del semplice estratto di ruolo, avrebbe determinato un’intollerabile compressione del diritto di difesa del curatore a far valere fatti impeditivi, modificativi o estintivi, sopravvenuti successivamente alla formazione del titolo, quali la prescrizione, l’intervenuto pagamento, la compensazione, etc..
Non si sarebbe potuto, quindi, almeno dal 24 dicembre 2019 (se non dal maggio 2018, cioè dalla data della sentenza della Corte costituzionale) continuare a negare la necessità, ai fini della partecipazione al concorso dell’Agente della riscossione, della cartella notificata. Nella sostanza, l’ammissione al passivo dell’Agente della riscossione in assenza del titolo esecutivo sarebbe valsa come messa in pristino della norma tributaria abrogata per difetto di costituzionalità.
Sulla circostanza, poi, che le contestazioni ex art. 615 c.p.c. fossero esperibili anche in sede di opposizione allo stato passivo, le Sezioni Unite del dicembre 2019 erano state trancianti, non potendosi dubitare “della natura di procedura esecutiva di carattere universale della procedura concorsuale”. Il tema, dunque, non avrebbe richiesto ulteriori approfondimenti.
Non poteva non essere evidente l’eccessiva semplificazione del ragionamento che per lungo tempo aveva indotto una parte della giurisprudenza di legittimità a ritenere l’estratto del ruolo costituire prova dell’esistenza del credito tributario: se l’art. 87 del D.P.R. 602/73 dispone che l’Agente s’insinui sulla base del ruolo il suo estratto non può non costituire la prova dell’esistenza del credito azionato; non comprendendo, però, che il ruolo ha solo la funzione di legittimare l’Agente a incedere nella riscossione e non a non fornire la prova del credito azionato per conto della mandante Agenzia delle Entrate.
Ciò nonostante, come abbiamo visto, ancora nel 2021 le medesime Sezioni Unite hanno continuato a predicare antinomicamente la non necessarietà della cartella ai fini dell’ammissione al passivo del credito tributario fatto valere dall’Agente della riscossione.
A ben vedere, però, si poteva giungere ad affermare il contrario semplicemente attingendo alla giurisprudenza delle “sezioni tributarie” della medesima Corte di cassazione, anche in assenza della pronuncia del 2019 sul tema della giurisdizione, che, per altro, come si è visto, è stata successivamente ignorata nella sua portata generale.
Infatti, queste erano già intervenute con mano ferma e decisa sulla natura dell’estratto di ruolo, negandone, non solo, una qualsivoglia natura esecutiva, ma ritenendolo un documento ignoto all’ordinamento e pertanto privo di qualsiasi valore giuridico e funzione processuale. In particolare avevano affermato che: “Il ‘documento’ denominato ‘estratto di ruolo’, tale indicato dallo stesso concessionario che lo rilascia, non è specificamente previsto da nessuna disposizione di legge vigente” motivo per il quale esiste una “differenza sostanziale tra ‘ruolo’ ed ‘estratto di ruolo’ (termini talvolta impropriamente utilizzati come sinonimi): il ‘ruolo’ (atto impositivo espressamente previsto e regolato dalla legge, anche quanto alla sua impugnabilità ed ai termini perentori di impugnazione) è un ‘provvedimento’ proprio dell’ente impositore (quindi un atto potestativo contenente una pretesa economica dell’ente suddetto); l’‘estratto di ruolo’, invece, è (e resta sempre) solo un ‘documento’ (un ‘elaborato informatico... contenente gli... elementi della cartella’, quindi unicamente gli ‘elementi’ di un atto impositivo) formato dal concessionario della riscossione, che non contiene (né, per sua natura, può contenere) nessuna pretesa impositiva, diretta o indiretta”[10]; e ciò in continuità con l’orientamento delle Sezioni Unite del 2015 espresso nell’ambito di un contenzioso tributario[11].
Da tali affermazioni le “sezioni tributarie” della Corte ne facevano già derivare - in totale disaccordo con le gemelle civili - la “non impugnabilità” dell’estratto di ruolo in quanto non avrebbe “alcun senso l’eliminazione dal mondo giuridico” di un documento privo di qualsiasi valore legale, in quanto non previsto dall’ordinamento.
La domanda che, dunque, doveva già sorgere spontanea dopo questi arresti era se un documento privo di qualsiasi valore legale potesse essere idoneo a fornire prova dell’esistenza del credito erariale.
La risposta non poteva che essere negativa ancora prima dell’intervento delle Sezioni Unite sul tema della giurisdizione: se il documento denominato “estratto di ruolo” non esiste “nel mondo giuridico”, esso non può certo fornire alcuna valida prova per ottenere l’ammissione al concorso fallimentare del credito erariale iscritto a ruolo.
Ed è questo il principio cardine del diritto tributario ignorato dalla giurisprudenza fallimentare di merito e di legittimità a partire dal 2013 sino ad oggi.
Se il documento “estratto di ruolo” è ontologicamente cosa diversa dal “ruolo” occorreva, allora, interrogarsi come potesse realizzarsi in concreto la disposizione dell’art. 87, D.P.R. n. 602/1973 - sulla cui falsa interpretazione si era formato il revirment della giurisprudenza di legittimità a partire dal 2013 - che prevede che il concessionario della riscossione si insinui al passivo del fallimento sulla base del ruolo. In sostanza quale documento può rappresentare il ruolo, se il suo estratto non assolveva a tale funzione, essendo scrittura estranea all’ordinamento?
La risposta, era, ed è, assai semplice; cioè quella che aveva sempre fornito la dottrina tributaria: l’unico documento riconosciuto dall’ordinamento come rappresentativo del ruolo è la cartella di pagamento. Infatti, ai sensi dell’art. 25, D.P.R. n. 602/1973, la sua notificazione al contribuente, ossia la messa a conoscenza dello stesso della pretesa tributaria, avviene unicamente tramite la cartella di pagamento.
La riscossione tramite ruoli, infatti, si fonda - ed è questa la limitata portata della disposizione dell’art. 87, D.P.R. n. 602/1973, non colta per lunghi nove anni - sulla scissione tra titolarità del credito, che resta in capo all’Agenzia delle entrate, e la titolarità dell’azione esecutiva. Quest’ultima, infatti, viene affidata ad un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, l’Agente per la riscossione, per l’appunto, il quale, abilitato in forza di apposito provvedimento amministrativo, svolge in modo professionale le attività finalizzate al recupero dei tributi.
Il ruolo, infatti, altro non è che un mero atto interno - la consegna dell’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute - tra il titolare del credito e il delegato alla riscossione, atto che non costituisce autonomo titolo per procedere nell’esecuzione forzata speciale[12]. Infatti, l’Agente, per poter incedere nell’esecuzione forzata, deve eseguire, ai sensi dell’art. 25, D.P.R. n. 602/1973, entro precisi termini decadenziali, la notifica della cartella di pagamento, ossia la notifica del documento con il quale il soggetto che cura la riscossione per conto dell’Agenzia delle entrate comunica al debitore l’avvenuta iscrizione a ruolo e gli intima il relativo pagamento, anche al fine di consentirgli l’impugnativa. Senza la notifica della cartella l’Agente non può procedere alla riscossione coattiva dei crediti iscritti a ruolo[13].
Non esiste altro modo per estrinsecare nel mondo giuridico la pretesa tributaria iscritta a ruolo, avevano sempre ben spiegano i supremi giudici tributari, laddove precisavano che l’estratto di ruolo non è atto impugnabile, salvo che tramite la sua contestazione non si fosse voluto ottenere l’annullamento dell’atto impositivo notificato tramite la cartella di pagamento o laddove si fosse voluto contestare vizi della medesima[14], ma non certo quelli successivi o quelli relativi all’idoneità del titolo a fondare l’esecuzione.
Non essendo obbligatoria l’impugnativa dell’estratto di ruolo, poi, la stessa ammissione con riserva al passivo fallimentare del credito relativo non avrebbe prodotto alcun effetto concreto per l’istante Erario, giacché, come avevamo già osservato alcuni anni fa, la riserva - in assenza di un contenzioso - non potrebbe mai essere sciolta. Un corto circuito anfibologico che non poteva essere certo il risultato di un’interpretazione meditata e organica che avesse, come avrebbe dovuto avere, il primario obiettivo della rimozione delle antinomie e delle irrazionalità sistematiche[15].
Più in generale, ci si sarebbe già dovuti domandare, costituendo la notifica della cartella al contribuente un obbligo imposto dalla legge al concessionario - obbligo cui lo stesso deve adempiere in funzione di un’attività costituzionalmente rilevante - perché gli si dovesse consentire - tra l’altro solo nel fallimento - di omettere tale sostanziale formalità che, come con risolutezza hanno affermato le “sezioni tributarie” della Cassazione, è l’unico modo riconosciuto dall’ordinamento con cui il ruolo può essere portato a conoscenza del debitore.
Sotto questo profilo il giudice tributario, nella sua più alta composizione, aveva, infatti, ben valorizzato il principio espresso anni fa dal Consiglio di Stato secondo cui “il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento ed ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”[16].
In altre parole, ci si sarebbe dovuti interrogare, già prima dell’arresto in commento, sul perché l’Agente della riscossione potesse celare la legittimità concorsuale delle proprie pretese dietro un documento - l’estratto di ruolo - misconosciuto dall’ordinamento, quando il giudice amministrativo aveva affermato esistere in capo allo stesso un obbligo di ostensione della cartella di pagamento e della relativa relata di notifica.
Anche questa questione era stata già risolta dall’intervento delle Sezioni Unite del 2019, le quali, seppure apparentemente solo tramite alcuni obiter dictum desumibili dal complesso corpo motivazionale della sentenza, avevano sposato appieno la posizione della loro “componente tributaria”, sostenendo che “neppure si potrebbe individuare l’atto da impugnare... [omissis] ...nell’estratto di ruolo rilasciato dal concessionario ... [omissis] ... la cui impugnazione è stata ammessa [solo] per consentire a quest’ultimo [il contribuente] di impugnare la cartella di pagamento di cui non abbia avuto notizia a causa della invalidità o mancanza della relativa notifica”[17]. Col che la cartella avrebbe dovuto, in ogni caso, entrare a far parte del processo di formazione dello stato passivo.
A tale proposito la dottrina tributaria aveva fatto rilevare, unanimemente e con estrema persuasività, come: o l’atto tributario se non impugnato diviene definitivo, o se non lo diviene non è atto fisiologicamente idoneo a produrre effetti pregiudizievoli per il contribuente; tertium non [era] datur, si sosteneva.[18]
Su questa linea, le Sezioni Unite del 2019 hanno giustamente sostenuto che “il processo tributario è annoverabile tra i processi di “impugnazione-merito”, in quanto, pur essendo diretto alla pronuncia di una decisione sul merito della pretesa tributaria, postula pur sempre un atto da impugnare in un termine perentorio e da eliminare dal mondo giuridico ...[omissis] ...che sarebbe arduo ricercare quando il debitore intenda far valere fatti estintivi della pretesa erariale maturati successivamente alla notifica della cartella, come la prescrizione, al sol fine di paralizzare la pretesa esecutiva dell’ente creditore”.
Come cartina di tornasole sovveniva anche un successivo arresto della Corte nel quale si affermava che la cartella notificata oltre il termine di prescrizione ne interrompe il corso se non tempestivamente impugnata[19].
A questo punto dell’excursus una questione s’impone con forza: quella della “giustiziabilità” dei diritti dei creditori pretermessi dalla soddisfazione concorsuale in conseguenza dell’ammissione al passivo di un credito erariale antergato fondato su un titolo inidoneo.