I saggi che compongono questo Volume e-book dal titolo “Dalla crisi all’emergenza: strumenti e proposte anti-Covid al servizio della continuità d’impresa” hanno l’ambizione di offrire una prima lettura al modo di singoli tasselli del mosaico rappresentato dalla legislazione dell’emergenza costituita dal susseguirsi di plurimi interventi a mezzo di decretazione d’urgenza (nessuno dei quali ha, ancora, superato il vaglio della conversione in legge) – di alcune disposizioni che direttamente o indirettamente si possono riflettere oggi e si rifletteranno domani e per un tempo non breve sulle crisi delle imprese. Crisi cagionate propriamente dal lockdown seguito all’emergenza, ovvero crisi che nel lockdown troveranno un infausto epilogo.
La lettura dei saggi che compongono il Volume e dei molti altri contributi che appaiono quotidianamente a ritmi serrati su una molteplicità di siti web (dalla più disparata affidabilità e autorevolezza, tant’è che anche nel microcosmo del diritto non latitano contributi omologhi a fake news) mostra un approccio tendenzialmente perplesso o critico, mentre appaiono marginali gli articoli di sostegno alle misure adottate.
La pubblicazione online di questi contributi ha una sua ragion d’essere precipua: il susseguirsi settimanalmente di decreti-legge (in disparte la normazione a mezzo dei DPCM) impedisce quasi sempre riflessioni approfondite e mette in campo, prima di tutto, il bisogno di capire cosa sta succedendo.
Ma se ciascun saggio merita di essere valutato nell’emergenza, parimenti a me pare che un eccesso di critiche risulti, forse appropriato, ma al contempo ingeneroso. Certo, l’impressione che traspare è che le soluzioni siano state assai poco condivise mentre un confronto con le più esperienze avrebbe potuto evitare la formazione di regole che rischiano, nella pratica, di divenire inattuali. In tal senso, le osservazioni che seguono nei saggi che partecipano al Volume auspicabilmente dovrebbero essere intesi a cogliere quei profili di criticità che potrebbero essere raccolti nel più disteso (ma comunque breve) tempo che trascorre dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto-legge alla sua conversione in legge.
Di fronte ad mutamento radicale delle prospettive del mercato globale da qui ad alcuni anni, in parallelo alle misure di contenimento dell’epidemia pandemica, molti Paesi europei (unionali e non) hanno presentato un canestro di misure. Nel nostro Paese ai primi interventi strettamente emergenziali, come talune moratorie sui pagamenti e, per quanto interessa al comparto Giustizia, alla sospensione, invero paralizzante della giurisdizione, non poteva mancare, in un intervento successivo, più strutturato, che accanto alla previsione di immissione di risorse finanziarie garantite dallo Stato, ma non secondo l’opzione del c.d. “Helicopter money” (M. Friedman, The Optimum Quantity of Money, 1969), un grappolo di norme relative alla gestione delle crisi (microeconomiche), in senso tecnico, delle imprese; sia per quelle che la crisi l’avevano già intercettata, sia per quelle che l’avrebbero subita per effetto dell’emergenza.
Esisteva, dunque, un tessuto sul quale disegnare le trame delle scelte domestiche, scelte che, nel comparto del diritto della crisi/insolvenza, si possono distinguere in due macro-aree: (i) le scelte sulla struttura finanziaria delle società (art. 6, 7 e 8); (ii) le scelte sui procedimenti concorsuali (art. 5, 9 e 10). Tutte le disposizioni vanno ricondotte ad una matrice comune, rappresentata dalla temporaneità dell’ambito di applicazione.
Queste due macro-aree, però, presuppongono il sostegno finanziario, sebbene, come detto, sotto forma di prestiti (per vero da rimborsare in un tempo non lungo, sei anni). Il pacchetto di disposizioni che vengono indagate nei contributi che seguono è, dunque, più ampio perché include l’esame dell’accesso al credito, delle moratorie sui pagamenti, delle deroghe fiscali.
Gli interventi sinora attuati, ma di certo provvisori perché molte altre iniziative sono in cantiere, mostrano un impatto attento all’estrema emergenza; si potrebbe definirli interventi da terapia intensiva per i quali si tratta di “Ha da passà 'a nuttata” (estratto da Napoli Milionaria). È chiaro, però, che pur nella emergenza, non si può fare a meno di avere una visione di sistema e, soprattutto, una visione prospettica e periferica: bisogna riattivare, al modo della medicina di territorio, i presìdi che consentano da un lato di offrire ossigeno alle imprese, ma dall’altro lato riconvertano le imprese non salvabili ad un mercato delle crisi che non immobilizzi ricchezze.
La lettura dei contributi che compongono il Volume mostra, all’evidenza, ricette molto diversificate e non potrebbe che essere così perché l’oscurità dello scenario non permette scelte sicure e performanti. Come sta accadendo nel mondo sanitario là dove ciascun esperto porta nel dibattito la sua ricetta, così pure nell’affrontare la gestione della crisi delle imprese, le soluzioni offerte sono le più variegate, talora davvero eccentriche e finanche bizzarre.
Tuttavia, non sono queste distanze a preoccupare ma l’impressione che continui a mancare il dialogo fra diritto ed economia.
Dalle riforme della legge fallimentare degli anni 2005 e successivi si è creata una frattura fra il mondo dell’economia e il mondo del diritto. L’economia teme l’invasione del diritto e il diritto teme la deriva verso l’illegalità. Questa frattura ha determinato, pervasivamente, un andamento sinusoidale della legislazione sulla crisi d’impresa, con un altalenante sequenza di aperture e restrizioni.
Questo modus operandi cela, perché il più delle volte i veri conflitti non vengono disvelati, una diffidenza di fondo fra i custodi della legalità e gli attori economici sulla base di una visione miope perché il presidio della legalità è al contempo pre-condizione per il mercato ma anche la difesa di una debolezza del Paese.
La debolezza del Paese è facilmente riscontrabile nell’eccesso di regole, come si è puntualmente verificato nella legislazione dell’emergenza (v. G.A. Stella, www.corriere.it). Certe scelte di sistema non si compiono perché si ha timore della deriva illegale e della criminalità organizzata, ma uno Stato non deve avere paura della criminalità, non si deve difendere ma deve com- batterla con grande forza senza, però, fermare il Paese per il timore della aggressione criminale. Queste notazioni giungono subito dopo le declamazioni giornalistiche (e forse non solo giornalistiche) sui movimenti delle mafie.
Si vuole irreggimentare l’afflusso di risorse per la paura che queste vengano distorte dal loro fine. La legislazione della crisi ne è un esempio.
La soluzione di differire l’entrata in vigore del codice della crisi (da molti auspicata) è stata autorevolmente criticata come una rinuncia dello Stato ad un modello nuovo. In verità, il nuovo modello e cioè l’allerta, frutto di una scommessa, era già stato rinviato, talché l’ordinamento concorsuale nuovo sarebbe entrato in vigore senza il decisivo puntello dell’allerta. Ci pare che la scelta di un rinvio sia più che saggia e che, al contempo, non debba intercettare prese di posizioni ideologiche (codice/sì, codice/no).
Si opina che, invece, la situazione di emergenza avrebbe addirittura giustificato una anticipazione delle misure di allerta, una soluzione irrealizzabile per la mancanza della struttura portante di quegli strumenti.
Tra il rinvio e l’anticipazione, nel mezzo troviamo gli istituti attuali, in particolare gli accordi di ristrutturazione e i piani attestati di risanamento strumenti che potrebbero prendere una inclinazione diversa e più coerente con l’emergenza; presuppongono una condivisione di fondo con gli intermediari finanziari e se le indicazioni che provengono da Banca d’Italia e A.B.I. hanno un peso, non si può escluderne una loro virtuosa applicazione.
Alcune aporie, però, vanno smaltite; a conferma di una visione ideologica delle regole, appare stridente negare all’imprenditore il “diritto” di fallire e consentire che il fallimento sia dichiarato solo ad iniziativa del pubblico ministero, tanto che all’indomani dell’entrata in vigore del D.L. 23, taluno ha adombrato l’escamotage di chiedere comunque il fallimento per innesca- re il circuito della segnalazione dal tribunale al pubblico ministero. Ci pare un espediente che dimostra il paradosso.
In questa precisa cornice e cioè quella di mettere in campo misure altre che siano, davvero, un sostegno alle imprese, e che ambiscano ad essere sistemiche, pur nella provvisorietà, mi pare che: (i) si debbano indagare le esigenze finanziarie delle imprese in difficoltà, con formulazione di ipotesi e di soluzioni avverse; (ii) si debba prefigurare l’erogazione di un credito responsabile, assicurare la gestione corrente e le protezioni per il sistema e la proporzione dell’intervento; (iii) si debba evitare di portare le imprese in difficoltà da lockdown necessariamente all’interno di un canale concorsualizzante, potendosi preferire uno snello micro-procedimento che impedisca ai creditori iniziative esecutive (individuali e collettive) per un breve periodo, ma al quale non corrisponda affatto il divieto di pagamenti da parte del debitore e ciò allo scopo di non paralizzare il circuito del credito finanziario e commerciale.
Come è stato segnalato in uno dei contributi, non potendoci fare illusioni che le risorse possano essere destinate a tutti, bisognerà avere il coraggio – ma solo lo Stato lo può imporre come garante della solidarietà – di operare delle selezioni e premiare dapprima tutti coloro che si sono trovati in difficoltà incolpevole (una nozione, è stato più volte ricordato in un altro dei saggi a seguire, del tutto nuova nel panorama della concorsualità), per poi passare alle imprese già in difficoltà ma oggettivamente risanabili anche grazie agli aiuti sovvenzionati dallo Stato, per poi a cascata gestire in modo socialmente accettabile i dissesti di imprese non risanabili.
Oggi l’orizzonte è distante e presenta una curvatura buia, ma esistono anche i presupposti per re-eticizzare il ruolo dell’impresa.
Introduzione, di Massimo Fabiani