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Saggio

Dagli assetti organizzativi alla responsabilità degli organi sociali nel Codice della crisi (Appunti per una lezione)*

Antonio Rossi, Associato di diritto commerciale nell’Università di Bologna

13 Giugno 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’A. indaga in parallelo i piani dell’adeguatezza degli assetti organizzativi e dei paradigmi della responsabilità degli organi sociali, in un quadro che valorizza l’evoluzione del sistema.
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1 . L’esordio degli assetti, con il D.Lgs. n. 6/2003
Pochi istituti del diritto dell’impresa sono stati recentemente tanto dibattuti quanto quello degli assetti organizzativi. Nel presente scritto, dunque, se ne discetterà per sommi capi e solo in funzione di una loro correlazione con le novità introdotte nel Codice della Crisi (“CCII”) e con gli eventuali nuovi (o solo riveduti) profili di responsabilità degli organi sociali emergenti dal Codice medesimo.
Un rapido excursus del dato normativo ci consentirà tuttavia di cogliere meglio la traiettoria lungo la quale si è mosso il legislatore negli ultimi anni.
L’introduzione nel sistema normativo della S.p.A., come novellato dal D.Lgs. n. 6/2003, del dovere di istituire un “assetto organizzativo, amministrativo e contabile … adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” previsto dall’art. 2381 c.c. aveva esplicitato uno standard di diligenza dell’azione amministrativa sino ad allora implicito, ovvero quello per cui l’organizzazione (interna) dell’impresa dovrebbe essere adeguata agli scopi cui è indirizzata l’attività economica svolta tramite l’organizzazione stessa: remunerare i fattori della produzione (a prescindere dal lucro), creare valore, generare prodotti ed esternalità positive, restare sul mercato e guardare al futuro. Con fare paternalistico, non estraneo alle trame del diritto dell’impresa (v. infra, a proposito della disciplina codicistica sulle scritture contabili), il legislatore imponeva all’imprenditore di darsi un’adeguata organizzazione interna, dovere che non sarebbe comunque sfuggito a qualunque “diligente” imprenditore, anche senza l’intervento normativo.
Si poteva cogliere, tra le righe della novella del 2003, l’incipit di un “principio di adeguatezza” che, per via interpretativa, potrebbe spingersi oltre gli assetti organizzativo, amministrativo e contabile, per attingere il livello dell’adeguatezza della struttura finanziaria (pur essa necessaria al conseguimento degli scopi genericamente testé delineati) e dell’agente decisore (in termini di dovere di competenza, se non anche di perizia) [1].
Il legislatore del 2003 aveva dunque già posto il tema dell’organizzazione interna dell’impresa al centro dei compiti dell’organo di amministrazione della S.p.A., anteponendolo addirittura alla pianificazione strategica e al generale andamento della gestione e, soprattutto, facendone oggetto di confronto intra-organico nel rapporto tra organi delegati e consiglio di amministrazione. L’art. 2403 c.c., poi, lasciava già intendere – sin dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6/2003 - che l’adeguatezza degli assetti organizzativi fosse espressione di un principio di corretta amministrazione, così elevando questo standard dal diritto della società per azioni a quello dell’impresa tout court, organizzata in forma societaria, collettiva o individuale.
Il fatto stesso di avere a che fare con uno standard lasciava comunque irrisolti dubbi di grande portata circa gli assetti, da “a cosa servono” a (e quindi) “cosa sono”.
Probabilmente non spetta al legislatore sciogliere questi dubbi né il giurista – quanto meno lo scrivente – è normalmente in grado di aggiungere molto di più agli scopi sopra sommariamente delineati e attinenti al funzionamento in generale dell’impresa, mentre sulla individuazione concreta degli assetti, all’interno della più complessa organizzazione d’impresa, non può che riprendere qualche affermazione di più consapevoli studiosi aziendalisti ovvero a questi riferirsi.
In via interpretativa, e quindi su un terreno più consueto, si può intanto constatare che l’ordinamento positivo pone in sé già qualche precetto in tema di assetti organizzativi. Se l’impresa, infatti, è strutturata in forma societaria e se, in particolare, configura un tipo capitalistico, non può dubitarsi che la disciplina degli organi societari e delle rispettive funzioni attenga ad un assetto organizzativo. È vero, infatti, che nella dimensione societaria dell’impresa possono intravedersi due diverse sfere organizzative, l’una attinente al soggetto (formato dai suoi organi), l’altra attinente all’impresa in sé e ai suoi fattori della produzione (tale a prescindere dalla forma – collettiva o individuale – del soggetto imprenditore). Ma è certo che anche l’organizzazione del soggetto (e dei suoi organi) attinga il concetto di assetto organizzativo e, dunque, la stessa possa essere declinata in termini di adeguatezza o meno.
Se si condivide questa affermazione, l’intera disciplina inderogabile, specie offerta dal sistema normativo della S.p.A. (più ancora se emittente strumenti finanziari quotati), riguardante i meccanismi di funzionamento e le funzioni di assemblea, consiglio di amministrazione, organo di controllo, soggetto revisore, tra l’altro, esplicitano un assetto minimo ed imprescindibile, che si forma, ad esempio e quanto meno, di distribuzione delle competenze, di regole di convocazione del C.d.A., di dislocazione della funzione di controllo tra C.d.A. e collegio sindacale, di flussi informativi minimi interni al C.d.A. e nei rapporti tra questo e gli organi delegati, di attribuzione del potere di amministrazione tramite il meccanismo delle deleghe.
Ma un altro importante scampolo di disciplina posta in materia di assetti organizzativi ovvero, più in particolare, di assetto contabile è quella offerta dagli art. 2214 ss. c.c. in tema di scritture contabili obbligatorie. Anche qui il legislatore aveva imposto all’imprenditore – se si vuole, già con fare paternalistico - di dotarsi di quelle scritture contabili che qualunque buon imprenditore avrebbe comunque tenuto per conoscere l’andamento della propria attività economica, e il contenuto effettivo del dovere non è limitato a libro giornale e libro degli inventari, ma si estende a tutte le “altre scritture” richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa,  correlando quindi, sin dal 1942, l’assetto contabile minimo a quel parametro di valutazione dell’adeguatezza degli assetti oggi previsto dall’art. 2086, comma 2, c.c.
Dunque, difficilmente si può discettare in termini assoluti di esistenza vs. inesistenza degli assetti organizzativi, salvo immaginare, in via di mera, irrealistica ipotesi, un imprenditore che, se società di capitali, non sia dotato dell’organizzazione interna prescritta dalla legge e non tenga le scritture contabili obbligatorie ex art. 2214 c.c.
2 . Gli assetti nella disciplina della crisi d’impresa
Questa la situazione degli assetti dopo l’entrata in vigore della riforma del diritto delle società di capitali introdotta dal D. Lgs. n. 6/2003, il legislatore della crisi si appropria del concetto per farne un perno centrale dell’esigenza di tempestiva emersione della crisi e di appropriata reazione alla stessa. Così, l’art. 14.1.b) della L. n. 155/2017 prevedeva la necessità che il codice civile ponesse il dovere “dell’imprenditore e degli organi sociali” di istituire adeguati assetti organizzativi, nella consapevolezza che le esternalità negative conseguenti all’inadeguata organizzazione interna, spesso inverate nella crisi dell’impresa, possano manifestarsi tanto nell’impresa individuale quanto in quella collettiva e, quindi, non facendo alcuna differenza, nella previsione del precetto, a seconda della forma del soggetto imprenditore. Tale ispirato approccio, tuttavia, veniva modificato con il D.Lgs. n. 14/2019, che della delega dava prima attuazione. Come noto, infatti, la prescrizione contenuta nell’art. 14 cit. veniva attuata innanzitutto nell’art. 2086, comma 2, c.c., entrato in vigore sin dal 16.03.2019, che confinava l’obbligo di istituire adeguati assetti entro il perimetro delle imprese “in forma societaria o collettiva”, ancora una volta (come già per decenni fatto dall’art. 1, comma 2, dell’originale legge fallimentare) confondendo la forma del soggetto (imprenditore) con la dimensione (e complessità) dell’impresa.
Il novellato art. 2086 c.c., inoltre, prevede espressamente che gli adeguati assetti organizzativi debbano essere istituiti “anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita di continuità aziendale”. Non viene escluso che anche altri possano essere gli scopi al cui perseguimento possano e debbano essere piegati gli assetti organizzativi (quelli, di ampio respiro, miranti al persistente successo dell’impresa) ma ne vengono esplicitati solo quelli che gravitano attorno al momento dell’insuccesso, che prende le vestigia della crisi e della perdita di continuità aziendale (che alla crisi comunque si riconduce, anche per come tipicamente definita dall’art. 2.a CCII). D’altra parte, la novella è il frutto di un legislatore che, in forza della delega ricevuta, si muove lungo il ristretto angolo visuale della crisi d’impresa e all’interno di questa prospettiva non può che rimanere.
Il criterio posto dall’art. 14 cit., inoltre, viene tradotto anche all’interno dello stesso Codice della Crisi, in un art. 3 che, all’origine, è formato da soli due commi, entrambi di pregnante rilievo sistematico.
Con il primo viene recuperato lo spirito delle origini, allorquando, nella legge delega del 2017, il dovere di istituire adeguati assetti organizzativi riguardava tutti gli imprenditori, individuali o collettivi che fossero, solo che al posto degli “assetti” troviamo “misure”, pur esse destinate a “rilevare tempestivamente lo stato di crisi”. È giocoforza, dunque, immaginare che il differente lessico utilizzato dal legislatore corrisponda a diversi enunciati normativi e, comunque, sembrerebbe doveroso interrogarsi sul significato della differenza. Lo sforzo, tuttavia, risulta tanto apprezzabile, nella ricerca dell’ordine delle cose, quanto sterile, se profuso nell’esegesi di un testo normativo che non brilla, qui come altrove, per rigore lessicale. Cercando di puntare al contenuto della regola, più che alla ricostruzione dell’ordine, sembra che il dovere imposto agli imprenditori non sia particolarmente dissimile, siano essi individuali o collettivi, e non debba quindi attribuirsi importanza eccessiva alla differenza tra gli “assetti” del comma 2 e le “misure” del comma 1 dell’art. 3 CCII. Possiamo sempre immaginare che il legislatore abbia avuto chiara la consapevolezza della differenza tra le due diverse sfere organizzative, l’una riguardante il soggetto imprenditore nella sua consistenza organica, l’altra riguardante l’assemblaggio coordinato dei fattori della produzione, entrambe (gli “assetti”) proprie dell’imprenditore in forma societaria, esclusivamente la seconda (le “misure”) riferibile anche all’imprenditore persona fisica.
Ma anche il comma 2 dell’art. 3 CCII lascia dietro di sé una traccia sistematica, nel momento in cui la funzione degli assetti organizzativi viene (questa volta) limitata soltanto (sparisce la congiunzione “anche”, presente invece nell’art. 2086, comma 2, c.c.) alla “rilevazione dello stato di crisi”, cui si aggiunge la “assunzione di idonee iniziative” [2]. Nel Codice della Crisi lo scopo degli assetti è esclusivamente concentrato al (migliore e più efficace) trattamento della situazione patologica del funzionamento dell’impresa, sembrando così che l’unico rischio degno di essere monitorato dagli assetti sia quello “esistenziale” correlato alla crisi che, se concretizzato, potrebbe portare l’impresa alla dissoluzione.  Restano così trascurati sullo sfondo gli scopi più “alti” degli assetti organizzativi, che l’ampiezza dell’art. 2381 c.c. poteva ancora indirizzare al governo del fisiologico rischio (non “esistenziale”) d’impresa, concretizzantesi nella possibilità che l’attività economica generi perdite (senza per questo andare in crisi), invece che utili. Insomma, il Codice della Crisi fornisce degli assetti una visione crisi-centrica, che rischia di ridurre la rilevanza degli assetti organizzativi al momento della patologia, mentre la loro maggiore incidenza nella vita dell’impresa dovrebbe riguardare la sua fisiologia e renderli funzionali alla più corretta gestione e programmazione dell’attività.
3 . Gli assetti nel CCII dopo il D.Lgs. n. 83/2022: da uno standard ad una rule (striminzita)
L’angolo di visuale degli assetti, già ristretto dal D. Lgs. n. 14/2019 (e dall’art. 3 CCII più ancora che dall’art. 2086, comma 2, c.c.), si riduce ulteriormente con le modifiche al Codice della Crisi introdotte (in parte qua, non sembra per esigenze di attuazione della Direttiva c.d. Insolvency) dal D.Lgs. n. 83/2022, ed infine entrate in vigore (con l’intero Codice) il 15.07.2022. Per quanto interessa il tema in corso di esame, all’art. 3 CCII vengono aggiunti due commi (il 3 ed il 4), invariato il resto.
Il comma 3 affina ulteriormente la funzione delle misure e degli assetti organizzativi, i quali, “al fine di prevedere tempestivamente l’emersione della crisi d’impresa … devono consentire …” di intercettare i presupposti, rispettivamente, per l’accesso al percorso di composizione negoziata della crisi (gli “squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario” di cui alla lettera “a” del comma 3: v. art. 12 CCII), o agli strumenti di regolazione della crisi che presuppongono una situazione di crisi tipica (crisi alla quale si riferiscono “la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale almeno per 12 mesi successivi” di cui alla lettera “b” del comma 3: cfr. art. 2.a CCII). Sempre in funzione dell’accesso al percorso di composizione negoziata, gli assetti devono altresì consentire di “ricavare le informazioni necessarie a utilizzare la lista di controllo particolareggiata e a effettuare il test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento” (comma 3 cit., lett. c”), così permettendo all’imprenditore di ottemperare alle prescrizioni propedeutiche alla richiesta di nomina dell’esperto, fornite dal “Decreto Dirigenziale” [3]. 
Il nuovo comma 4 dell’art. 3 CCII, invece, introduce alcuni “segnali per la previsione” (“di cui al comma 3” e, quindi,) dell’emersione della crisi d’impresa. Detti segnali ricordano gli “indicatori della crisi” di cui all’art. 13 del Codice 2019, spariti con il D.Lgs. n. 83/2022 per riemergere in parte, per l’appunto, nel novellato art. 3 cit. Costituiscono, quindi, “segnali per la previsione” l’esistenza di debiti qualificati da: (i) natura dei creditori [4]; (ii) scadenza [5]; (iii) incidenza percentuale o assoluta sulla massa passiva [6].
Come anticipato, non si ha a che fare con un testo normativo che consenta di andare per il sottile con il lessico utilizzato. Così, lascia perplessi che si possa “prevedere tempestivamente l’emersione della crisi d’impresa” quando, al limite, si prevede tempestivamente la crisi d’impresa e al più se ne agevolano l’emersione e (soprattutto) il tempestivo governo. Parimenti, i “segnali” di cui al comma 4 non sono funzionali a “prevedere” la crisi ma a “vedere” una crisi già manifesta ovvero, comunque, una situazione di squilibrio già degna di essere regolata tramite l’accesso alla composizione negoziata [7].
Ma qual è l’incidenza dei nuovi commi 3° e 4° dell’art. 3 CCII sul tema degli assetti organizzativi? Si tratta di commi apparentemente innocui ma potenzialmente nocivi alla corretta rilevanza da attribuire agli assetti in sé. Di primo acchito, infatti, si può affermare che lo standard (dell’art. 2381 c.c.) ha ceduto il passo ad una rule (dell’art. 3 CCII 2022), tanto dettagliata quanto striminzita e di corto respiro. Da assetti che dovevano proiettare un’impresa vitale nel futuro della competizione dei mercati ad assetti che devono essere in grado (“consentire”) di intercettare dati contabili minuti (soprattutto, l’ammontare e la scadenza dei debiti di cui al comma 4°), senz’alcun riferimento neppure a quella proiezione di cassa che era evocata dal DSCR previsto tra gli “indici di allerta” dal documento elaborato dal CNDCEC (in ossequio a quanto già previsto dall’originale art. 13 CCII 2019) nell’autunno del 2019. Lo svilimento degli assetti provocato dai nuovi commi 3 e 4 dell’art. 3 CCII è vieppiù evidente se si considera che, per intercettare i “segnali per la previsione” di cui al comma 4, è sufficiente l’impianto contabile minimo imposto dall’art. 2214 c.c. a qualunque imprenditore commerciale non piccolo.
Certo, si potrà (e si dovrà!) sostenere che gli assetti organizzativi sono altro e che la loro adeguatezza non può essere parametrata esclusivamente alle funzioni loro assegnate dal novellato art. 3 cit. ma resta pure evidente che, alla contestazione di inadeguatezza degli assetti (anche in un’eventuale azione di responsabilità, su cui infra), ci si dovrà attendere la replica di loro “adeguatezza” in quanto idonei allo svolgimento dei compiti loro specificamente assegnati dal legislatore, con riferimento alla capacità di rilevare i menzionati “segnali per la previsione”.
Non si vuole qui prendere posizione sull’ennesimo tentativo del legislatore di ridurre gli spazi di discrezionalità affidati (nella individuazione dello stato di crisi e degli squilibri di cui all’art. 12 CCII) ad imprenditori, professionisti e giudici, ma constatare che la regola è stata probabilmente introdotta nel posto sbagliato, con effetti potenzialmente nefasti sulla portata sistematica degli assetti organizzativi, meglio avendo potuto trovare collocazione – ad esempio – in prossimità dell’art. 12 CCII o dell’art. 25 octies CCII.
4 . La disciplina degli assetti quale ulteriore fonte di responsabilità degli organi sociali (con qualche dubbio)
Le numerose riflessioni in materia di assetti organizzativi fatte (soprattutto, sinora) in dottrina si sono accompagnate alla comprensibile esigenza di capire come il dovere di loro istituzione, in termini di adeguatezza, possa tradursi, in caso di inadempimento, in responsabilità degli organi sociali. Adattata la governance delle società, con l’attribuzione di tale dovere, in via esclusiva e trans-tipica, all’organo di amministrazione (con esclusione, dunque, soprattutto di soci ed assemblea: cfr. artt. 2257, 2380 bis, 2409 novies, 2475 c.c.), e con l’eliminazione – in tal modo – di ogni ambiguità circa l’individuazione dei responsabili (dall’organo di amministrazione all’organo di controllo), il dubbio che maggiormente ha diviso gli interpreti ha riguardato le condizioni di sindacabilità della (in)adeguatezza degli assetti e, pertanto, di imputazione della relativa responsabilità.
Infatti, dall’un lato, alcuni hanno valorizzato l’introduzione di uno specifico dovere, nell’art. 2086, comma 2, c.c., tale per cui la sua violazione, a seguito dell’accertamento dell’inadeguatezza degli assetti relativamente “alla natura e alle dimensioni dell’impresa”, determinerebbe sempre la responsabilità degli organi tenuti alla loro istituzione (e l’ordinamento sul punto è implacabile, perché l’art. 2381 c.c. coinvolge organi delegati e consiglio di amministrazione nella cura degli assetti – comma 5° -  e nella valutazione della loro adeguatezza – comma 3° -, mentre l’art. 2403 c.c. onera esplicitamente di detta valutazione anche l’organo di controllo). Non ci sarebbe Business judgment rule (“BJR”) che tenga, con l’attribuzione all’autorità giudiziaria di valutare il merito delle scelte gestionali in punto di organizzazione interna dell’impresa, proprio perché riferito ad uno specifico dovere dell’imprenditore e, quindi, degli organi sociali.
Dall’altro lato, altri hanno osservato che l’istituzione degli assetti organizzativi è parte integrante della gestione dell’impresa, anche considerata la difficoltà di distinguere tra una gestione “interna” (gli atti di organizzazione) ed una gestione “esterna” (gli atti dell’organizzazione), con la conseguente attrazione della sindacabilità dell’adeguatezza degli assetti entro i confini tracciati, anche nel nostro ordinamento, dalla c.d. BJR. In tal modo, a grandi linee, l’inadeguata configurazione degli assetti potrebbe essere giustiziata solo se: (i) adottata senza l’adozione delle cautele informative propedeutiche al compimento di qualunque atto di gestione; (ii)  del tutto irrazionale, specie relativamente alle informazioni di cui il decisore disponeva o avrebbe dovuto disporre al momento del compimento della scelta gestionale; (iii) non contraria a norme di legge o di statuto.
In questo secondo senso si è orientata una prima giurisprudenza di merito, per la quale “la funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e … deve necessariamente essere esercitata impiegando un insopprimibile margine di libertà, per cui le decisioni relative all’espletamento della stessa vengono incluse tra le decisioni strategiche. In altre parole, la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere … In definitiva, la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente al merito gestorio” [8].
Confesso la preferenza per questa seconda opzione interpretativa: ogni decisione attinente agli assetti comporta una scelta di allocazione di risorse limitate da esercitarsi nell’ambito di un’amplissima discrezionalità. Non esiste (quanto meno per l’impresa in generale; discorso parzialmente diverso potrebbe farsi per quei settori speciali, quale quello dell’impresa bancaria, nei quali fiorisce una normazione secondaria, spesso riconosciuta dal legislatore primario) un “manuale delle istruzioni” nel quale gli assetti organizzativi (personale, sistemi informatici, assetto contabile, segregazione e flussi informativi, programmazione e chi più ne ha più ne metta) siano specificamente individuati in relazione alla attività e alle dimensioni di ogni impresa, e dove c’è discrezionalità amministrativa – o merito della gestione che dir si voglia – lì dubito che il giudice (o un ausiliario, per quanto esperto sia nella materia) possa sostituire la propria sensibilità a quella del gestore. Anche l’istituzione degli assetti, poi, ha un costo-opportunità che non può essere trascurato: un euro investito in un sistema informatico o in una persona addetta allo stesso non potrà essere investito altrove, ad esempio nell’implementazione della rete commerciale o nel dipartimento ricerca e sviluppo: la migliore organizzazione interna dell’impresa, dunque, potrebbe incidere negativamente sulla sua redditività, e il rischio di overdeterrence (con l’erezione di perfetti e costosi assetti organizzativi, a scapito delle altre numerose fasi dell’attività economica), in caso di sindacabilità nel merito dell’adeguatezza degli assetti, sarebbe ovviamente dietro l’angolo.
Vero che questo è soltanto un argomento ab inconvenienti, che potrebbe valere più de jure condendo che de jure condito, ma è in sé in grado di contribuire a spiegare perché, se si vuole guardare all’efficienza economica delle opzioni interpretative, le esternalità positive conseguenti ad assetti sempre adeguati potrebbero essere (più che?) compensate dalle esternalità negative conseguenti alla minore redditività delle imprese [9].
In linea più generale, sarebbe poco comprensibile perché il giudice potrebbe entrare nel merito degli assetti organizzativi ma non in quello di altre scelte organizzative o dell’adeguatezza della struttura finanziaria dell’impresa, ad esempio, con una marcata distonia sistematica.
Non convince, invece, la “terza via”, pur suggerita dal Tribunale di Roma, ovvero quella per cui, pur consentendosi la sindacabilità dell’adeguatezza degli assetti solo alle condizioni della c.d. BJR, sarebbe invece sempre imputabile agli organi sociali “la mancata adozione di qualsivoglia misura organizzativa” (Trib. Roma, 15 settembre 2020). Come visto, infatti, il rispetto in sé delle regole poste a presidio del funzionamento delle società di capitali impedisce che queste possano essere prive di “qualsivoglia misura organizzativa”, condizione che implicherebbe di per sé la violazione di altre inderogabili regole, quali quelle riguardanti la tipica organizzazione societaria ovvero la tenuta delle minime scritture contabili (sì che la responsabilità degli organi sociali deriverebbe in tal caso dalla violazione di queste inderogabili regole, non dall’inesistenza/inadeguatezza degli assetti organizzativi).
Lo sforzo degli interpreti circa il problema dei limiti di sindacabilità dell’(in)adeguatezza degli assetti organizzativi, tuttavia, rischia di perdere d’importanza se si riconosce che nella normalità dei casi assetti non adeguati costituiscono un antecedente causale remoto, e così spesso non efficiente, dell’eventus damni. Assumendosi, infatti, che il danno sia conseguenza di un atto di gestione, la responsabilità degli organi sociali “da assetti” potrebbe configurarsi solo se l’atto sia stato deciso e compiuto: (i) previa adozione delle necessarie cautele; (ii) in maniera razionalmente coerente con le informazioni ricevute; (iii) aderenza alla legge e allo statuto. Mancando infatti una di queste tre condizioni, la responsabilità deriverebbe dalla sindacabilità in sé dell’atto di gestione, non più “coperto” dalla c.d. BJR. Il problema, però, sta nel fatto che gli assetti organizzativi servono (ben oltre gli scopi loro assegnati dall’art. 3 CCII) soprattutto e proprio a dotare l’organo di amministrazione delle informazioni necessarie ad assumere razionali decisioni gestorie, sì che si danno le seguenti alternative:
a) se gli amministratori hanno compiuto l’atto di gestione, nonostante la presenza di adeguati assetti, senza osservare le propedeutiche e necessarie cautele (o a prescindere da queste), gli stessi saranno responsabili delle conseguenze negative dell’atto dannoso per violazione del dovere di agire in modo informato ex art. 2381, comma 6, c.c. o, se si preferisce, per l’assenza di una condizione di operatività della c.d. BJR;
b) se l’atto di gestione è stato compiuto senza l’osservanza delle propedeutiche e necessarie cautele (o a prescindere da queste), anche a causa dell’inadeguatezza degli assetti organizzativi, gli amministratori saranno responsabili delle conseguenze negative dell’atto dannoso sempre per violazione del dovere di agire in modo informato ex art. 2381, comma 6, c.c. (o, se si preferisce, per l’assenza di una condizione di operatività della c.d. BJR), e l’inadeguatezza degli assetti sarà antecedente causale irrilevante;
c) se l’atto di gestione è stato compiuto con l’osservanza delle propedeutiche e necessarie cautele, a prescindere dall’inadeguatezza degli assetti organizzativi, dubito che gli amministratori potranno essere ritenuti comunque responsabili, perché assetti organizzativi più adeguati avrebbero loro fornito le stesse basi informative già altrove raccolte, ancora una volta venendo meno un nesso causale tra inadeguatezza degli assetti ed evento dannoso.
In realtà, un’indagine sull’adeguatezza degli assetti, finalizzata all’accertamento di responsabilità degli organi sociali, può avere un senso solo nell’ipotesi sub “b” e al fine di estendere la responsabilità dagli amministratori esecutivi (ai quali è imputabile la decisione sul compimento dell’atto) a quelli non esecutivi e ai componenti dell’organo di controllo, ai quali si potrà imputare che l’inosservanza delle necessarie cautele è stata causata (in termini di “più probabile che non”) dall’inadeguatezza degli assetti organizzativi.
Dunque, a prescindere dalle condizioni di sindacabilità degli assetti che si vorranno adottare e fermo che l’inadeguatezza degli assetti in sé non genera un danno e quindi responsabilità, si riscontra un margine (pur se non amplissimo) di utilità nell’allegazione dell’eventuale inadeguatezza degli assetti, finalizzata all’imputazione estesa della responsabilità conseguente al compimento di un atto di gestione in sé a sua volta sindacabile.
5 . Assetti e responsabilità ex art. 25 octies CCII
Un altro profilo di responsabilità degli organi sociali che il Codice della Crisi lascia intravedere a proposito di assetti organizzativi (e della loro disciplina) attiene alla c.d. allerta interna, di cui oggi resta traccia nell’art. 25 octies CCII. Qui il legislatore ha introdotto un dovere di segnalazione dell’organo di controllo, a beneficio dell’organo di amministrazione, che ha ad oggetto “la sussistenza dei presupposti” per la presentazione dell’istanza di nomina dell’esperto funzionale alla composizione negoziata della crisi, presupposti enunciati dall’art. 12 CCII. Si tratta, anche in questo caso, di un assetto organizzativo ex lege, che codifica e formalizza flussi informativi inter-organici. Il comma 2 dell’art. 25 octies cit. precisa – se mai ce ne sia bisogno – che la tempestiva segnalazione dell’organo di controllo all’organo amministrativo è “valutata” ai fini della responsabilità del primo [10]. Ovviamente, dacché il comma 1° onera l’organo di amministrazione di “riferire in ordine alle iniziative intraprese” a seguito della segnalazione, anche questo è destinatario di un dovere specifico (quanto meno circa l’obbligo di reazione, ferma la discrezionalità nella scelta dell’iniziativa da intraprendere), il cui inadempimento può generare responsabilità.
Gli obblighi posti dalla norma diventano poi ancor più precisi se li si correla a quanto prescritto dal comma 4 dell’art. 3 CCII. Se, infatti, i “segnali per la previsione” di cui al comma cit. colgono l’esistenza di “squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario” (art. 3 cit., comma 3, lett. “a”), allora è facile dedurre che il superamento di uno dei livelli di indebitamento elencati nel comma 4 cit. corrisponderà altresì ad uno squilibrio rilevante ex art. 12 CCI, che per l’appunto costituisce un [11] presupposto per l’accesso alla composizione negoziata (e quindi un presupposto “per la presentazione dell’istanza di cui all’art. 17”, come recita l’art. 25 octies CCII).
Combinando gli artt. 25 octies e 3 CCII, dunque, risulta che il dovere di segnalazione e di reazione codificato dal primo si attiva (quanto meno) al superamento di una delle soglie di indebitamento previste dal comma 4 del secondo, sì che diventa agevolmente verificabile il suo adempimento. Resta, tuttavia, che, la responsabilità ha bisogno anche di un danno che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, ciò che – nel caso di specie – non è invece così agevolmente riscontrabile, come invece nei casi di violazione dell’obbligo di gestione conservativa imposto dall’art. 2486 c.c. in caso di perdita del capitale sociale ovvero dell’obbligo di instare per l’apertura “in proprio” della liquidazione giudiziale, se si riscontra uno stato d’insolvenza. A queste violazioni, infatti, consegue un danno da illecita prosecuzione dell’attività economica la cui esistenza è spesso in re ipsa e la cui quantificazione fruisce oggi dell’equità speciale di cui al comma 3 dell’art. 2486 cit., ma se il superamento delle soglie di indebitamento di cui al comma 4 cit. non si accompagna ad una delle due situazioni tipiche testé descritte (e non dovrebbe accompagnarsi, se si è convinti che dette soglie costituiscano “segnali per la previsione” e non per la “visione” della crisi o della sua probabilità), allora non è così semplice specificare (non il dovere di segnalazione ma) il dovere di reazione e, in particolare, quale sia il danno “immediato e diretto” conseguente alla sua violazione.
Il danno, infatti, potrebbe essere soltanto la conseguenza dell’assenza di alcuna “iniziativa” da parte dell’organo di amministrazione (se del caso, con il concorso dell’organo di controllo che non provveda alla dovuta segnalazione), la scelta della quale, tuttavia, sconta sempre la presenza di quella discrezionalità gestionale che attiva la c.d. BJR, senza dire della difficoltà di quantificare un danno che corrisponda alla differenza tra la situazione in cui si sarebbero trovati società e creditori se fosse stata adottata la reazione “giusta” alla situazione di squilibrio e la situazione in cui invece si sono trovati  in mancanza di questa reazione. Onere probatorio improbo, sembra, che incombe sul curatore che eventualmente agisca in responsabilità e che conferma che, tutto sommato, il Codice della Crisi non dischiude praterie a quelle Procedure che, attraverso le azioni di responsabilità, ambiscano a rimpinguare i loro attivi.

Note:

[1] 
Non si potrà certo immaginare che il successo dell’impresa – o anche solo la reazione tempestiva all’insuccesso – dipenda dalla sola adeguatezza degli assetti organizzativi e, dunque, se si vuole dare un senso al principio di adeguatezza, non si potrà che estenderlo ad altri fattori incidenti sull’andamento dell’impresa (dalla struttura finanziaria, per l’appunto, all’agente decisore).
[2] 
Inutile ricercare, in questa sede, le ragioni – se ce ne sono – per cui l’assunzione di idonee iniziative nell’art. 2086, comma 2, c.c., così come nel comma 1 dell’art. 3 CCII, sia oggetto di uno specifico dovere dell’imprenditore, mentre nel comma 2 dell’art. 3 cit. diventi una finalità degli assetti. Anche in questo caso, non andrei a sopravvalutare il dato testuale; la regola, infatti, è chiara: l’imprenditore deve reagire tempestivamente ed adeguatamente alla percezione della crisi e gli assetti devono agevolarlo nella percezione e nella reazione.
[3] 
Si tratta del decreto adottato dalla D.G. del Ministero della Giustizia il 28.09.2021, aggiornato con decreto D.G. del 21.03.2023.
[4] 
Rispettivamente: lavoratori subordinati (lettera “a”), fornitori (lettera “b”), banche ed altri intermediari finanziari (lettera “c”), creditori pubblici qualificati ex art. 25 novies CCII (lettera “d”). 
[5] 
Rispettivamente scaduti da: almeno 30 giorni (lettera “a”), almeno 90 giorni (lettera “b”), più di 60 giorni (e perché in alcuni casi i giorni siano “almeno” in altri “più di” non è dato comprendere) (lettera “c”), oltre 90 giorni (lettera “d”). I segnali riferiti ai debiti per retribuzioni (lettera “a”) e ai debiti verso fornitori (lettera “b”) non sono altro che quelli di cui al vecchio art. 13 CCII, ridotti di 30 giorni forse perché – in maniera abbastanza ingenua - destinati a “prevedere”, piuttosto che a “indicare”, la crisi.
[6] 
Rispettivamente: pari a oltre la metà dell’ammontare complessivo delle retribuzioni (lettera “a”), di ammontare superiore ai debiti non scaduti (lettera “b”), rappresentanti almeno il 5% del totale delle esposizioni (lettera “c”), superiori agli importi analiticamente individuati dall’art. 25 novies CCII (lettera “d”).
[7] 
Situazione che – si ricorda – può corrispondere anche soltanto ad una “probabilità di crisi” ex art 12 CCII.
[8] 
Trib. Roma, 15 settembre 2020, decreto pronunziato all’esito di un procedimento ex art. 2409 c.c., che ha fatto seguito a Trib. Roma, 8 aprile 2020, in Società, 2020, p. 1339 ss.
[9] 
In realtà, l’analisi economica delle scelte interpretative si presta a catene logico-deduttive tanto lunghe quanto difficilmente verificabili, e spesso sterili. Nel caso di specie, ad esempio, all’obiezione della distrazione di risorse causata dal desiderio degli amministratori di tutelarsi da responsabilità investendo più sull’organizzazione interna che su altri settori dell’impresa, si potrebbe replicare che assetti adeguati non impediscono soltanto la crisi, e quindi la distruzione di risorse degli imprenditori che si relazionano con l’imprenditore in crisi, ma – se si va oltre le ridotte funzioni loro assegnate dall’art. 3 CCII -  servono anche alla più corretta programmazione dell’attività d’impresa e, quindi, a consentirle una più stabile e duratura  generazione di reddito nel futuro. Sono tutte tesi e antitesi, peraltro, che spesso non si accompagnano ad un’effettiva quantificazione monetaria delle loro conseguenze sul sistema economico nazionale e che, dunque, ai fini di un’interpretazione “efficiente” (omessa ogni considerazione sul significato dell’aggettivo), lasciano il tempo che trovano.
[10] 
Senza dimenticare che analoga “valutazione” dovrebbe investire l’organo di controllo in caso di omessa presentazione di istanza per l’apertura della liquidazione giudiziale in presenza di una situazione di insolvenza, visto il potere (/dovere) riconosciutogli all’art. 37, comma 2, CCII. E dubito che la sola segnalazione all’organo di amministrazione ex art. 25 octies CCII da parte dell’organo di controllo, allorché la situazione di crisi sia già degenerata in vera insolvenza, corrisponda sempre ad esatto adempimento dei doveri di vigilanza.
[11] 
Probabilmente “il” presupposto per l’accesso alla composizione negoziata, perché se c’è squilibrio c’è sempre anche (e quanto meno) probabilità della crisi e se non risulta neppure ragionevole il perseguimento del risanamento dell’impresa allora la situazione è ben più grave della probabilità della crisi, essendo presente una vera insolvenza “irreversibile”.

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