La disciplina fiscale è ancorata alla sostanza civilistica dello strumento finanziario partecipativo (SFP), stante il chiaro disposto letterale dell’art. 44, c. 2, Tuir: “Ai fini delle imposte sui redditi: a) si considerano similari alle azioni, i titoli e gli strumenti finanziari emessi da società ed enti di cui all'articolo 73, comma 1, lettere a), b) e d), la cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente o di altre società appartenenti allo stesso gruppo o dell'affare in relazione al quale i titoli e gli strumenti finanziari sono stati emessi. Le partecipazioni al capitale o al patrimonio, nonché i titoli e gli strumenti finanziari di cui al periodo precedente emessi da società ed enti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera d), si considerano similari alle azioni a condizione che la relativa remunerazione sia totalmente indeducibile nella determinazione del reddito nello Stato estero di residenza del soggetto emittente; a tale fine l'indeducibilità deve risultare da una dichiarazione dell'emittente stesso o da altri elementi certi e precisi (…)”.
Di riflesso, sul piano civilistico, è opportuno muovere anzitutto dall’art. 2346, ultimo comma, c.c..
Esso, come noto, riconosce la possibilità alle società per azioni di emettere titoli finanziari – appunto, c.d. “strumenti finanziari partecipativi”– di natura “ibrida”, ossia contraddistinti da caratteristiche giuridiche ed economiche intermedie tra l’“azione” (capitale di rischio) e l’“obbligazione” (capitale di credito) [3].
In altri termini, se vogliamo più semplicistici, dal punto di vista sostanziale essi (SFP) costituiscono uno strumento “atipico”, una sorta di “tertium genus” rispetto alle (i) azioni e (ii) obbligazioni, presentando connotati peculiari vuoi delle une, vuoi delle altre. Nondimeno, gli stessi strumenti sono poi al loro interno variamente classificabili, peraltro risultando la stessa disciplina diversamente disseminata nel corpo del Codice Civile (oltre al già citato art. 2346, ultimo comma, c.c., rilevano infatti anche l’art. 2349, c. 2, con riguardo ai dipendenti, nonché l’art. 2411, c. 3, ed infine l’art. 2447 ter, c. 1, lett. e), relativamente al patrimonio destinato allo specifico affare).
Al fine di individuare correttamente la natura dello SFP – e per l’effetto anche le conseguenze tributarie – necessita una valutazione ad hoc delle singole fattispecie, mediante un approfondito esame dei peculiari diritti patrimoniali ed amministrativi previsti dagli specifici regolamenti, insomma inquadrando la sostanza economica dello strumento; ciò, per qualificarlo come un’operazione di equity (con variazione del patrimonio netto) ovvero di indebitamento (con appostazione del relativo importo tra le passività del bilancio).
D’altro canto, come si vedrà, la stessa Amministrazione finanziaria, per valutare i profili tributari degli strumenti in esame, opera una disamina puntuale ed analitica dei requisiti sostanziali (ossia, i contenuti patrimoniali ed amministrativi) recati dagli SFP (di rischio, nel caso di specie, in quanto vedono la conversione dei debiti in equity).
In tale prospettiva, e comunque fermi i dettagli che saranno nel prosieguo forniti, vale da subito osservare che i parametri essenziali, individuati in letteratura per una corretta distinzione tra risorse di terzi e capitale di proprietà, sono sostanzialmente e principalmente riconducibili a due fattori, peraltro intimamente agganciati tra loro e rappresentati da: (i) grado di certezza della restituzione delle somme trasferite in azienda; e, parallelamente, (ii) livello di esposizione al rischio di impresa [4].
Per l’effetto, l’emissione di uno strumento finanziario contraddistinto da una certezza restitutoria e remuneratoria inciderà sull’ambito del capitale di prestito; al contempo, un apporto i cui conseguenti flussi in uscita risultino eventuali e meramente aleatori – perché saldamente ancorati ai risultati aziendali e dunque al rischio di impresa – interesserà il capitale di proprietà.
Questo, per quanto riguarda i profili civilistici sostanziali utili in questa sede, fermo restando che sussistono ulteriori, significativi temi; si pensi, a mero titolo esemplificativo: alla “fonte genetica” della possibilità di emettere gli strumenti (statuto, ecc.); alla competenza per la deliberazione degli strumenti, e così via [5].
Da quanto sin qui illustrato, discendono anche rilevanti profili contabili, in effetti strettamente connessi a quelli civilistici: ciò, a maggior ragione nell’ambito delle procedure concorsuali, se si pone mente – in primo luogo – al necessario conteggio dei voti dei creditori, che non può prescindere da una corretta qualificazione (anche contabile e bilancistica) delle poste passive del debitore e – in secondo luogo – alla necessità che la società, ad esito della ristrutturazione, recuperi il proprio patrimonio, in modo da non restare assoggettata agli obblighi legali derivanti dalla perdita del capitale. Ci si riferisce, in particolare, agli artt. 2446, 2447 2482-bis e 2482-ter, c.c., normativa di generale applicazione che è solo parzialmente derogata da disposizioni di carattere temporaneo (prevalentemente connesse all’esigenza di contenere gli effetti pandemici da Covid-19) o a discipline speciali di applicazione limitata a periodi ricompresi in particolari fasi della procedure di gestione della crisi – si veda da ultimo quanto previsto dall’art. 8, D.L 118 del 24 agosto 2021 [6].
Sotto tale versante, il dato da cui muovere è costituito dai principi contabili nazionali: essi, differentemente da quelli IAS/IFRS [7], contengono i principi generali che presiedono ad una corretta classificazione bilancistica degli strumenti finanziari ed alla distinzione tra capitale di rischio e capitale di finanziamento [8].
In particolare, l’OIC 19 (par. 26), così commenta la voce “Debiti verso soci per finanziamenti. La voce D3 contiene l’importo di tutti i finanziamenti concessi dai soci alla società sotto qualsiasi forma, per i quali la società ha un obbligo di restituzione. Non è rilevante ai fini della classificazione nella voce D3 la natura fruttifera o meno di tali debiti, né l’eventualità che i versamenti vengano effettuati da tutti i soci in misura proporzionale alle quote di partecipazione. L’elemento discriminante per considerare il debito un finanziamento e non un contributo va individuato esclusivamente nel diritto dei soci previsto contrattualmente alla restituzione delle somme versate (indipendentemente dalle possibilità di rinnovo dello stesso finanziamento). Infatti, per questa tipologia di versamenti il loro eventuale passaggio a patrimonio netto necessita della preventiva rinuncia dei soci al diritto alla restituzione, trasformando così il finanziamento in apporto di capitale”.
Ad evidenza, quindi, l’OIC 19 fissa come elemento discriminante per individuare la natura di capitale, piuttosto che di debito, il diritto alla restituzione dell’apporto.
Sempre 1’OIC 19, al paragrafo 4, definisce i debiti nella seguente maniera: “I debiti sono passività di natura determinata ed esistenza certa, che rappresentano obbligazioni a pagare ammontari fissi o determinabili di disponibilità liquide, o di beni/servizi aventi un valore equivalente, di solito ad una data stabilita. Tali obbligazioni sono nei confronti di finanziatori, fornitori e altri soggetti”.
Tanto evidenziato, il principale filone dottrinale aggancia la classificazione nel bilancio dell’emittente degli strumenti finanziari partecipativi ex art 2346, c. 6, c.c. alla “partecipazione” – o meno – al rischio d’impresa.
In tale ottica, un prezioso addentellato interpretativo è rappresentato dalle conclusioni del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti (cfr. “Profili contabili degli strumenti finanziari ex art. 2346, comma sesto, c.c.” Documento Aristeia n. 69, gennaio 2007), il quale stressa la causa del rapporto che si instaura tra sottoscrittore ed emittente ed individua il parametro distintivo tra strumenti finanziari partecipativi e non partecipativi nel concorso al rischio di impresa. Di talché, “qualora la sottoscrizione di un titolo comporti la piena partecipazione, da parte del possessore, al rischio economico sotteso all’attività aziendale, si perviene alla qualificazione di un’operazione appartenente al circuito del capitale di proprietà, assimilando così i1 titolo a quelli azionari; diversamente, laddove manchi tale esposizione, lo strumento rientra appieno nel circuito del capitale di prestito e, pertanto, è assimilato ad uno di debito.
L’individuazione del circuito di appartenenza si rivela di estrema importanza per la corretta rappresentazione contabile della fattispecie in esame. Ne consegue che la qualificazione dello strumento non può prescindere dall’a priori logico rappresentato dalla modalità attraverso cui si sostanzia l’operazione: in tal senso, nel tentativo di adottare un parametro classificatorio che segni il confine di tali strumenti, appare plausibile ricorrere a quello relativo alla verifica del grado di certezza delta “restituzione”; e parallelamente, al livello di esposizione al rischio.
In forza di quest’ultimo, in linea generale, qualora 1’emissione di uno strumento si caratterizzi per la certezza restitutoria e remuneratoria, a prescindere dal suo ammontare, essa appartiene alla categoria del capitale di prestito; diversamente, nel caso opposto, ovvero quando la restituzione e la remunerazione dell’apporto sono eventuali ed aleatori e, quindi, i fattori risultano vincolati alla gestione dell’impresa, ciò qualifica un’operazione quale appartenente alla categoria del capitale proprio, assimilando cosi lo strumento ad uno “finanziario di rischio””.
L’appena citato Documento, al par. 3, approfondisce poi le varie ipotesi, proponendone le varie classificazioni contabili.
Inoltre, un’utile ricostruzione è proposta anche dal Consiglio Notarile di Milano, secondo cui “Gli strumenti finanziari partecipativi emessi ai sensi dell’art. 2346, comma 6, c.c., possono prevedere o meno, a carico della società, l’obbligo di rimborso dell’apporto o del suo valore. Nel primo caso, l’obbligo di restituzione comporta 1’iscrizione di una voce di debito nel passivo dello stato patrimoniale; nel secondo caso, invece, l’apporto comporta 1’appostazione di una riserva nel patrimonio netto della società nella misura in cui esso sia iscrivibile nell’attivo dello stato patrimoniale o nella misura della riduzione del passivo reale” (così, testualmente, la Massima n. 164) [9].
In estrema sintesi, giova quindi riepilogare che, sulla base dell’elaborazione dottrinale citata, gli SFP possono essere assoggettati al seguente trattamento contabile:
• laddove, a fronte dell’apporto da parte del soggetto terzo, non sussista obbligo di restituzione da parte della società emittente e, pertanto, l’apporto stesso sia gravato dal rischio aziendale (essendo il rimborso solo eventuale o comunque aleatorio), l’emissione degli strumenti finanziari partecipativi interesserà le riserve di patrimonio netto;
• al contrario, laddove 1’apporto preveda un obbligo di restituzione da parte dell’ente emittente e non sia agganciato all’andamento societario, l’emissione dovrà essere categorizzata come un elemento di debito.
Alla luce di quanto qui offerto, non è dunque un caso se i maggiori interventi della prassi contabile, ad oggi sviluppatisi sugli SFP, hanno poggiato le proprie ponderazioni sui fattori sopra menzionati, ossia (i) l’assenza di un obbligo di restituzione, (ii) la partecipazione al rischio d’impresa, quest’ultima declinata come (iii) la remunerazione collegata all’andamento gestionale, e (iv) le perdite che possano determinarsi; per l’effetto, reputando che fosse la prevalenza di uno di tali parametri sull’altro a dover orientare il giudizio circa la natura dei tali strumenti (capitale di debito o capitale di proprietà) e la loro conseguente iscrizione nel bilancio delle società emittenti.
In altre parole, l’individuazione delle corrette modalità di contabilizzazione degli strumenti finanziari partecipativi deve necessariamente essere fondata su un’analisi delle peculiarità e delle concrete caratteristiche della specifica singola emissione e deve riflettere la natura giuridica dello strumento finanziario e la concreta causa dell’apporto che si contrappone all’emissione dello stesso.
In definitiva, si parlerà di strumenti finanziari partecipativi “di rischio” (come si vedrà, assimilabili, sotto il profilo fiscale, alle azioni), laddove la combinazione dei diritti patrimoniali ed amministrativi ad essi associati – appositamente demandata dal Legislatore all’autonomia negoziale delle parti coinvolte – risponde prevalentemente alle esigenze tipiche di una raccolta di capitale di proprietà e risulta, dunque, strutturata al fine di disporre di risorse finanziarie senza alcun obbligo giuridico di restituzione, con una eventuale remunerazione legata alla partecipazione agli utili e, in ogni caso, subordinata al soddisfacimento dei legittimi interessi dei creditori.
All’opposto, si parlerà di strumenti finanziari partecipativi “di debito” (dal punto di vista fiscale, similari alle obbligazioni), in presenza di operazioni di finanziamento caratterizzate dall’obbligo giuridico di rimborso a favore dei possessori degli strumenti finanziari secondo tempi e modalità predefinite.
Quale ideale chiusura del percorso appena illustrato – che suggerisce di procedere, ai fini tanto civilistici quanto contabili, ad una indagine del caso concreto, rifuggendo da aprioristiche catalogazioni – si recuperano due recentissimi approdi della giurisprudenza di merito, aventi ad oggetto proprio il rapporto tra strumenti finanziari e procedure concorsuali:
i) Tribunale Bologna, decr. 1 ottobre 2020, che si è trovato a dirimere se gli strumenti finanziari partecipativi emessi da una società, successivamente dichiarata fallita, debbano computarsi, nella procedura, a titolo di debito o di capitale (in specie, dovendosi valutare l’opposizione allo stato di passivo proposta da una società alla quale era stato ceduto un pacchetto di questi strumenti finanziari). Ebbene, il Giudice bolognese ha stabilito che la soluzione va ricercata in concreto, dipendendo dallo statuto della società emittente e dall’eventuale regolamento adottato con riguardo ad ogni emissione, come segue: “La disciplina di tali strumenti, che hanno natura ibrida tra azioni e obbligazioni, è rimessa essenzialmente allo statuto e ad un eventuale regolamento, non valendo per essi le normali regole contrattuali. Quanto al diritto alla restituzione, la dottrina ha avuto modo di precisare come lo stesso debba essere oggetto di una espressa pattuizione tra le parti, non essendo implicita, vista la rimessione all’autonomia negoziale della disciplina di tale strumento. Corollario che deriva dalla previsione statutaria del diritto alla restituzione è la conseguente contabilizzazione a bilancio dell’apporto: se lo stesso si configura come un finanziamento, dovrà essere contabilizzato nel passivo; se invece partecipa al rischio d’impresa, con conseguente mancanza di un obbligo di restituzione, verrà contabilizzato nel patrimonio netto” [10];
ii) Tribunale Ravenna, decr. 29 maggio 2020, che ha affrontato il tema dell’ammissibilità di una proposta concordataria facente leva sulla categoria degli SFP quale modalità di soddisfacimento dei creditori, alternativa rispetto a quella prevista in forma monetaria (il tutto secondo lo schema dell’art. 1197 c. c.). Nello specifico, il Tribunale si è soffermato ad illustrare le ragioni di tale ammissibilità, richiamando in particolare l’art. 160 L.F., che come noto – in una prospettiva di estrema apertura verso il buon esito della crisi d’impresa – accoglie l’atipicità della proposta concordataria; così, ben consentendo che il piano concordatario venga realizzato anche mediante il compimento di operazioni di carattere straordinario (nel caso concreto, mediante l’emissione di SFP, sotto forma di datio in solutum a favore dei creditori o di singole classi di essi, per l’effetto dandosi luogo ad integrale esecuzione del concordato) [11].