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Saggio

Codice della crisi e impresa individuale: assetti organizzativi e ruolo della gestione familiare nella prevenzione e nella ripresa*

Simonetta Ronco, Professore aggregato di diritto commerciale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Genova

20 Novembre 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il contributo propone alcune riflessioni sul modo in cui il legislatore del Codice della crisi e dell'insolvenza ha dispiegato le misure di prevenzione attraverso la costruzione di assetti organizzativi specificamente dedicati. In questo ambito, si presterà particolare attenzione al contenuto e agli effetti del coordinamento delle disposizioni riguardanti l’impresa individuale. Va tenuto infatti presente che le imprese individuali hanno caratteristiche molto diverse tra loro, soprattutto per quanto riguarda il tipo di attività svolta e la struttura interna, differenze che influenzano anche il modo in cui ogni crisi è organizzata e gestita. A tal proposito è interessante esaminare la teoria del Business Family Management, che sta riscuotendo sempre più attenzione da parte degli studiosi, e che analizza le metodologie più efficaci di corporate governance utilizzate nelle realtà a conduzione familiare con ottimi risultati, sia in termini di prevenzione delle crisi, che in termini di resilienza.

The contribution proposes some reflections on the way in which the legislator of the Crisis and Insolvency Code has deployed prevention measures through the construction of specifically dedicated organizational structures. In this context, particular attention will be paid to the content and effects of the coordination of provisions concerning sole proprietorships. It should be borne in mind that sole proprietorships have very different characteristics, especially as regards the type of activity carried out and the internal structure, differences that also influence the way in which each crisis is organized and managed. In this regard, it is interesting to examine the theory of Business Family Management, which is receiving more and more attention from scholars, and which analyzes the most effective corporate governance methodologies  used in family-run realities with excellent results, both in terms of crisis prevention and in terms of resilience.
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1 . Introduzione
Se è vero che uno degli obiettivi principali del nuovo codice della Crisi e dell’insolvenza è quello di evitare la dissoluzione dell’impresa e incentivare l’adozione di misure che possano contribuire al risanamento e alla soluzione dei conflitti con i creditori, è altrettanto vero che il debitore deve poter intervenire quando la situazione non è irrimediabilmente compromessa[1]. Ecco perché una delle idee che hanno ispirato il legislatore della riforma, fin dalle prime battute della procedura di revisione della materia, è stata quella di prevedere un impianto normativo volto non solamente a curare le situazioni di crisi già in atto, ma anche a prevenirne l’insorgenza[2], attraverso meccanismi che conducano a una maggiore responsabilizzazione di imprenditori e manager, secondo la ragionevole convinzione che un lungo decorso di tempo non può fare altro che aggravare una situazione già critica, rendendola più difficile da sanare. 
È chiaro che solo una conoscenza approfondita dell’azienda e della sua gestione, oltre che delle condizioni del mercato di riferimento e della concorrenza generale e locale, può portare a una corretta analisi delle cause di difficoltà e a una scelta mirata delle strategie di risoluzione della stessa, a breve, a medio e a lungo termine, nella consapevolezza che l’impresa, inevitabilmente, nel corso del suo ciclo di vita, dovrà affrontare momenti di difficoltà che possono essere, sì, correlati a eventi aziendali, ma che, occasionalmente possono essere determinati anche dal mutamento dell’ambiente economico esterno (crisi c.d. sistemica), tale per cui solo a seguito di un’attenta analisi di elementi interni ed esterni si potrà comprendere lo stato di difficoltà e la connessa reale esigenza dell’impresa. In quest’ottica, lo strumento dell’Allerta, mutuato dal sistema francese[3] e ormai da noi definitivamente archiviato, avrebbe potuto costituire uno degli strumenti più interessanti se, ispirandosi di più al modello originario, fosse stato effettivamente finalizzato ad anticipare l’emersione della crisi[4]. 
Il legislatore del CCII ha quindi sostituito il sistema dell’allerta con altri strumenti, endogeni, indicati come “misure idonee” e “assetti organizzativi”, strumenti che, appunto, devono essere parte integrante dell’ingranaggio interno dell’impresa, e che devono essere costantemente utilizzati dall’imprenditore, sia individuale che collettivo, in modo sistematico, non certamente occasionale né eccezionale.   Tuttavia, leggendo in coordinamento gli articoli del CCII e del Codice civile dedicati alla tematica delle misure idonee e degli assetti organizzativi (artt. 3 e 4 CCII e art. 2086 c.c.), possono essere formulate alcune osservazioni parzialmente critiche, relativamente alla formulazione delle norme stesse. 
Una prima osservazione riguarda il fatto che, dopo aver indicato all’art. 1 come destinatari delle norme contenute nel CCII tutti i soggetti che svolgano un’attività economica di qualsiasi genere, e quindi anche di tipo consumeristico, nelle disposizioni relative ai doveri del debitore relativamente all’utilizzo di strumenti organizzativi di rilevazione tempestiva della crisi, il legislatore non fa alcun riferimento ai debitori non imprenditori, se non per ricordare i doveri di lealtà e correttezza, da rispettare nel momento della composizione negoziata, quindi quando già la crisi si è manifestata. Pur riconoscendo che, da un punto di vista strettamente aziendalistico le misure e gli assetti organizzativi sono più pertinenti all’attività di impresa che a quella non imprenditoriale, è innegabile che, se nel comma 1 dell’art. 3 si fosse scritto “Il debitore” invece che “L’imprenditore individuale”, si sarebbe potuto garantire a tutti i debitori individuali (imprenditori, professionisti e consumatori), un humus normativo di pari portata, e un trattamento uguale, in termini di correttezza e buona fede, dei creditori di tali soggetti.
Una seconda osservazione riguarda la formulazione normativa relativamente a strumenti e obiettivi, che non pare chiara ed esaustiva. Cominciando dall’art. 3 CCII, al primo comma si fa riferimento all’imprenditore individuale e si dice che esso deve adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi, e assumere senza indugio le iniziative necessarie. Ciò parrebbe significare che le misure da adottare devono essere finalizzate a far emergere uno stato di crisi già in atto, ma di quali misure si parli non è dato capire. E nemmeno la formulazione dell’art. 2086 c.c. al comma 1 aiuta, in quanto vi si dice soltanto che l’imprenditore individuale è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori[5]. Non è chiaro, pertanto, a quali misure il legislatore volesse riferirsi, ed è peraltro evidente che, se vogliamo definire l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile come il complesso delle direttive e delle procedure stabilite per garantire la gestione efficiente delle imprese, esso è pilastro fondamentale sia nelle imprese collettive che in quelle individuali e deve essere adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa stessa, in modo che in base a un giudizio ex ante, rispettoso dei limiti di prevedibilità dei fenomeni economico-finanziari, sia astrattamente idoneo ad assicurare l’operatività delle funzioni aziendali. 
Di misure si parla ancora all’art. 4 CCII, dicendo che esse devono consentire di prevedere tempestivamente l’emersione della crisi (su questa espressione tornerò più avanti), ma sulle tipologie di misure non si dice, di nuovo, nulla. Ora, per tentare di fare chiarezza, occorre domandarsi che cosa il legislatore intenda per misure. Se prendiamo quale termine di paragone, ad esempio, le misure di protezione e prevenzione in ambito di sicurezza sul lavoro, esse sono strategie e azioni dirette a ridurre o eliminare i rischi per la sicurezza e la salute dei dipendenti sui luoghi di lavoro. Strategie e azioni, dunque, atti e fatti concreti, che si sostanzino in dispositivi e infrastrutture che eliminano i rischi; processi e procedure per minimizzarli (ad esempio, la pianificazione del lavoro, la rotazione dei turni, l'implementazione di procedure di emergenza e la limitazione dell'accesso a determinate aree); misure comportamentali. Sarebbe dunque risultato utile che anche con riferimento alle misure di cui stiamo parlando si fosse data quanto meno una definizione generale. 
In questo senso è interessante notare en passant (anche se non è questa la sede per approfondire il problema) che sia gli indici che gli strumenti indicati dal CCII  devono essere calati nella gestione ordinaria dell’esercizio dell’impresa, con le declinazioni comportamentali previste dal codice civile e distinte per ciascun attore della governance societaria (amministratori, sindaci, management, revisore) coinvolto nel disegno, nella valutazione e nella vigilanza della pianificazione strategica dell’impresa, in un’ottica di gestione anticipata del rischio, secondo un approccio evidentemente analogo a quello della disciplina della responsabilità da reato dell’ente prevista dal d.lgs. 231/2001. Ma di questo, appunto, si potrebbe parlare a lungo, in un altro studio.
C’è un altro punto, a mio avviso poco chiaro: l’art. 4 CCII stabilisce che le misure (per l’imprenditore individuale) e gli assetti (per l’impresa collettiva) devono consentire di rilevare e ricavare tutta una serie di indizi che portano alla previsione dell’emersione della crisi[6]. Qui si parla di previsione, non di rilevazione, quindi si fa riferimento a quella fase prodromica al manifestarsi della crisi, che la procedura di Allerta era destinata a disciplinare. Pare, dunque che, da un lato il legislatore del CCII abbia voluto imporre misure e assetti organizzativi che consentano di rilevare la crisi in atto, e dall’altro, invece, abbia voluto indicare una qualche necessità di approntare misure e assetti che rilevino la probabilità di una crisi in potenza. Si tratta di una differenza di approccio che può sicuramente essere utile all’imprenditore in momenti diversi della sua attività, ma che, appunto per questo, dovrebbe essere ulteriormente approfondita per chiarire quando e cosa può essere fatto per evitare conseguenze devastanti per l’impresa. Certo è che, come ha giustamente rilevato la dottrina maggioritaria, il CCII ha innovato i contenuti primari del comportamento che il debitore deve tenere nei confronti dei creditori, in quanto è mutato il contenuto della diligenza, criterio utilizzato per valutare se il comportamento del debitore nell’eseguire la prestazione dovuta sia stato omogeneo e conforme a quello richiesto per l’adempimento della prestazione stessa.[7] In questo senso, e particolarmente a proposito delle PMI, è chiaro che esse si troveranno ad affrontare un cambiamento culturale nella gestione dell’impresa, in un’ottica di risanamento e di conservazione del «patrimonio» aziendale; esse dovranno dotarsi di sistemi di allerta, ma soprattutto di assetti organizzativi adeguati alla prevenzione del rischio di crisi, e dovranno confrontarsi necessariamente con un incremento della cultura del controllo, soprattutto in chiave preventiva.
2 . Misure idonee: ma quali?
Detto questo, occorre tornare al problema prospettato come oggetto principale di questo contributo, e domandarsi che cosa il legislatore del CCII intenda con misure idonee facendo riferimento all’imprenditore individuale e, quindi, interrogarsi su quali tipologie di assetti organizzativi, amministrativi e contabili possano essere considerate, a questi fini, a sua disposizione.
Se infatti è vero che l’apparato normativo del CCII, coordinato con l’art. 2086 c.c., pare spingere l’imprenditore verso nuovi compiti, passando da una struttura con elementi personalistici forti, e rapporti per lo più informali, al modello della c.d. impresa manageriale, capace di superare i rischi insiti nel primo modello di imprenditorialità, occorre anche ricordare che le imprese individuali presentano caratteristiche molto diverse le une dalle altre, soprattutto con riferimento al tipo di attività svolta e alla struttura interna.  Ma soprattutto, occorre ricordare che l’imprenditore individuale (così come il socio della società di persone), è comunque illimitatamente responsabile per le obbligazioni contratte nell’esercizio della sua attività e, pertanto, è fisiologicamente portato ad approntare un sistema di controlli preventivi sulla situazione organizzativa ed economica, in linea teorica molto più stringenti di quelli che possono venire approntati in una realtà societaria a colorazione manageriale.
Se pensiamo a come vengono trattati, sotto il profilo della sottoposizione alla disciplina del CCII, gli imprenditori individuali, occorre partire dal tipo di attività svolta. L’imprenditore individuale, è noto, può svolgere attività commerciale o agricola: in base al nuovo CCII, l’imprenditore agricolo, non è sottoponibile a liquidazione giudiziale o a concordato preventivo, ad eccezione di quello c.d. minore, ma può usufruire di altri strumenti di composizione della crisi. Per l’imprenditore agricolo è prevista l’iscrizione in una sezione speciale del Registro delle imprese, egli non è obbligato alla tenuta del libro giornale e del libro degli inventari, e neppure è obbligato a redigere il bilancio con cui, ai sensi dell’art. 2217, comma 2, c.c., l’inventario si chiude. Stesso discorso vale per l’imprenditore che svolge la sua attività in forma “minore”, ossia quello che nella vigenza della vecchia Legge Fallimentare veniva indicato come piccolo imprenditore, in collegamento con l’art. 2083 c.c.. Anch’esso non può essere sottoposto a liquidazione giudiziale né a concordato preventivo, né (a differenza, pare, dell’imprenditore agricolo), agli accordi di ristrutturazione dei debiti (l’art. 57, comma 1, CCII parla, infatti, di “imprenditore, anche non commerciale, diverso dall’imprenditore minore, in stato di crisi o di insolvenza”).
Detto questo, con riferimento alla tipizzazione delle c.d. “misure idonee”, e facendo un parallelo con quanto disposto per le società e gli altri enti collettivi, per i quali si parla di “assetti”, esse possono essere distinte in misure organizzative, amministrative e contabili. E, se volessimo, di nuovo, parificare, per ragioni di coerenza sistematica, la posizione dell’imprenditore individuale a quella dell’imprenditore collettivo face à assetti organizzativi e misure idonee, dovremmo ritenere che anche il primo debba provvedere alla loro individuazione e realizzazione ex ante, definendo con maggiore precisione ruoli e percorsi decisionali. Ma, riflettendo su quelle che realisticamente sono le caratteristiche dell’impresa individuale (agricola, commerciale, minore o meno che sia), emergono alcune discrepanze concettuali che occorre evidenziare.
È chiaro che l’imprenditore individuale è (come del resto esprime anche l’art. 2086 comma 1 c.c.), il capo dell’impresa, ma non solo. Spesso, infatti, il profilo organizzativo dell’impresa individuale si esaurisce nell’imprenditore stesso, che organizza da solo i mezzi della produzione o della prestazione del servizio. L’organizzazione, in questo senso, diviene appunto l’insieme degli strumenti e soprattutto dei rapporti interni che l’imprenditore utilizza nell’esercizio dell’attività. È da ricordare, inoltre, che in alcuni settori, in primis in quello agricolo, il significativo mutamente della disciplina, anche in seguito alle modifiche apportate nel 2001 all’art. 2135 c.c., ha favorito la multifunzionalità dell’impresa. 
Detta multifunzionalità è divenuta ormai la scelta strategica intrapresa da molte aziende agricole che, a vario livello, svolgono diverse attività, per rispondere agli effetti negativi derivanti da un sistema orientato prevalentemente alla produzione di beni materiali. Per le imprese agricole, quindi, la multifunzionalità può rappresentare una nuova modalità di organizzazione dei fattori produttivi (risorse interne), finalizzata al perseguimento di obiettivi economici, ambientali e sociali nel medio e lungo periodo. E le strutture e le politiche decisionali approntate per gestire, appunto, detta multifunzionalità, posso comunque costituire misure idonee a rilevare tempestivamente un pericolo di crisi, modificando, per esempio, quanto meno nel breve periodo, il peso di ciascuna attività all’interno dell’impresa, attraverso scelte strategiche che pesano, ancora una volta, sull’imprenditore.
Volendo approfondire meglio il tema delle pratiche a carattere multifunzionale attivate dalle imprese, esse possono essere suddivise in tre categorie: Nella prima, indicata con il termine deepening (approfondimento, intensificazione), l’azienda valorizza e differenzia il suo potenziale produttivo, orientandolo su beni agricoli con caratteristiche diverse rispetto a quelli convenzionali (es.: prodotti biologici o tipici, denominazioni d’origine e indicazioni geografiche), oppure muovendosi lungo la filiera, per avvicinarsi al consumatore finale, acquisendo funzioni a valle della fase della produzione (es.: vendita diretta). Nella seconda categoria indicata con il termine broadening (allargamento, espansione), si amplia il ventaglio delle attività che producono reddito, alcune delle quali possono essere anche indipendenti dalla produzione agricola vera e propria; si valorizza l’attività imprenditoriale espandendola (allargandola), in un contesto rurale non più soltanto strettamente agricolo (es.: turismo rurale, gestione del paesaggio, conservazione della biodiversità). Nel terzo caso, quello del regrounding (riallocazione esterna), si parla di pluriattività e di quella che nella letteratura anglosassone viene definita come economical farming. La pluriattività, che ha avuto anche un ampio sviluppo in Italia negli anni Ottanta e Novanta, rappresenta un fenomeno strutturale e vitale, frutto di una strategia attiva di adattamento del settore primario alle dinamiche più generali del sistema socio-economico.[8]
Nelle imprese commerciali la multifunzionalità risulta invece più difficilmente applicabile e, pertanto, per migliorare il profilo organizzativo, si potrebbero individuare, di volta in volta, e a seconda del caso concreto, soggetti che, in funzione delle loro qualifiche e della loro posizione all’interno dell’impresa, possano fornire una sponda organizzativa all’imprenditore, dal punto di vista del controllo del funzionamento dell’organizzazione stessa. È noto che nell’esercizio di un’impresa (soprattutto commerciale), l’imprenditore può avvalersi della collaborazione di altri soggetti legati o da un rapporto di lavoro subordinato oppure, quali ausiliari esterni o autonomi, legati da un diverso rapporto contrattuale. È questo il caso, per esempio, di un giurista specializzato in diritto dell’impresa, che venga assunto con la funzione di esperto interno all’azienda, oppure, in casi meno ambiziosi, di un institore. Concretamente, la figura dell’institore è quella del direttore generale dell’impresa o di una filiale o di un settore produttivo della stessa e, nella maggior parte dei casi, si tratta di un lavoratore subordinato con la qualifica di dirigente, posto al vertice della gerarchia del personale: se preposto all’intera impresa dipenderà solo dall’imprenditore, soltanto da lui riceverà direttive e solo a lui dovrà rendere conto del suo operato[9].  
Parlando poi di misure di tipo amministrativo, non si può fare a meno di ricordare che l’amministrazione dell’impresa individuale è rimessa totalmente al soggetto imprenditore, e che, pertanto non si può esorbitare da tale dimensione. Sarà pertanto l’imprenditore che dovrà occuparsi di definire l’assetto organizzativo (costituito da presidi funzionali, regole interne e strumenti); valutare in continuo il prevedibile andamento aziendale; valutare costantemente l’equilibrio finanziario e la sostenibilità del debito.
Sotto il profilo delle misure contabili, infine, le prescrizioni del CCII non paiono in linea, in particolare con la perdurante facoltà dell’imprenditore individuale agricolo o minore o piccolo, di non tenere le scritture contabili, a meno che non si ritenga che l’obbligo di adottare misure idonee a consentire la tempestività delle iniziative necessarie per far fronte alla crisi, implichi necessariamente il venir meno della facoltà concessa di non tenere le scritture contabili. Questa possibilità sembra fondata, se si pensa che, in base a quanto previsto dall’art. 4, comma 2, lettera a) del CCII, il debitore ha il dovere di illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza prescelto. È comunque (e conclusivamente) da tenere in conto che l’adeguatezza degli assetti organizzativi risponde a un’esigenza di ordine più ampio, e investe il modo stesso di fare impresa, anche a prescindere dall’eventualità di una crisi. L’imprenditore accorto e visionario sa benissimo che nel modo in cui egli organizza le funzioni all’interno della propria impresa sta il valore aggiunto che gli consente di ottenere una struttura maggiormente resistente alle intemperie economiche e sicuramente più resiliente. Per questo risulta particolarmente importante sviluppare una sorta di pedagogia imprenditoriale che consenta alle imprese, soprattutto a quelle di minori dimensioni e a carattere prevalentemente familiare, di approntare un sistema di organizzazione che consenta di prevenire piuttosto che di curare le fasi di crisi.
A questo particolare proposito, è interessante prendere in considerazione i recenti studi condotti sul business family management, sia nell’ambito della gestione corrente e dell’assunzione delle decisioni, sia nell’ambito della crisi di impresa, al fine di puntare l’attenzione su quelle che sono, attualmente, le strategie di resistenza alla crisi e di resilienza post crisi tipicamente messe in atto nelle imprese a gestione familiare. Ciò in quanto le imprese a base familiare, differentemente dalle loro pari a base non familiare, beneficiano della convergenza di obiettivi e d’interessi che per sua natura la famiglia proprietaria persegue (preservare il controllo familiare per le generazioni future) e traggono giovamento sia dall’atteggiamento che i membri della famiglia solitamente adottano, sia di quel complesso di risorse uniche, rare, non imitabili e non sostituibili tipiche delle family business e che in letteratura vengono identificate come il termine familiness.[10]
Preciso che, in questo caso, faccio riferimento all’accezione classica di impresa familiare, ossia quella che è condotta attraverso l’attività lavorativa costante prestata all’interno dell’impresa individuale da uno o più familiari dell’imprenditore, quella che all’art. 230 bis c.c. è definita come l’impresa in cui collaborano continuativamente il coniuge, i parenti entro il terzo grado o gli affini entro il secondo. È, nel nostro sistema economico, questa, la forma normale di esercizio dell’attività imprenditoriale nelle famiglie dei coltivatori diretti, negli esercizi di vendita al dettaglio di prodotti alimentari (e non solo), nelle botteghe artigiane, nei piccoli alberghi e nella maggior parte delle attività di ristorazione.
3 . Il Business Family Management come misura di prevenzione della crisi e di resilienza
Nell’impresa a gestione familiare, e azienda sono legate, evolvono insieme e associano funzioni economiche, ambientali, riproduttive, sociali e culturali. Numerosi sono gli elementi che sono stati individuati come caratteristici del successo dell’impresa familiare. In primo luogo la famiglia proprietaria è in grado di subordinare i propri personali interessi di breve termine all’obiettivo di sviluppo di lungo periodo dell’impresa (c.d. Capitale paziente). Inoltre, la governance è solitamente disciplinata, in quanto i familiari sanno ben distinguere tra i ruoli di socio, amministratore e manager e aprono i consigli di amministrazione al contributo di amministratori non familiari, indipendenti. In terzo luogo è considerata fondamentale la scelta del leader aziendale: superata la fase del fondatore, e anche in mancanza di eventuali Patti di famiglia, che predispongono il passaggio della gestione secondo la volontà del fondatore stesso, orientata quasi sempre alla conservazione del valore economico dell’impresa, la scelta avviene solitamente in base a criteri che prescindono dal nepotismo e che salvaguardano i valori di efficienza e di efficacia dell’impresa. Infine e non da ultimo, sono molto importanti l’integrazione e la condivisione: spesso infatti le imprese familiari si integrano bene con il territorio, offrono vantaggi per la comunità che li circonda, condividono i propri valori con i dipendenti. Insomma, il family business rappresenta una parte importante dell’economia europea, un modello produttivo che ha saputo coniugare azienda, famiglia e patrimonio, e negli anni ha dimostrato la sua efficacia e potenzialità, non solo nel settore delle PMI ma anche delle grandi imprese e in alcuni casi delle multinazionali[11]. 
Tuttavia, allo stato dell’arte, nell’ambito degli studi dedicati ai temi del risanamento e della riorganizzazione delle imprese in difficoltà, capita raramente di imbattersi in riflessioni che riguardino strettamente le imprese di tipo familiare. Prendere in considerazione tale argomento e successivamente affrontare idee che riguardino l’efficacia di processi di rigenerazione strategica dell'impresa familiare è una questione di non poco rilievo, sia per lo sviluppo economico e sociale generale che per la sopravvivenza alla crisi di queste unità e di tutti i loro stakeholder
Esistono ancora pochi studi estesi che si interessino ai problemi dell’impresa familiare, soprattutto di quella multigenerazionale, alle possibilità e capacità strategiche peculiari di questo tipo di società ad affrontare le crisi, e al ruolo che gioca la famiglia in questo processo di rigenerazione, anche in considerazione del fatto che la scomparsa di un'impresa, compresa quella a conduzione familiare, può avere un forte impatto sul tessuto imprenditoriale circostante, in particolare, nel caso in cui si tratti di un'azienda la cui attività ha segnato positivamente generazioni o regioni, per l’impatto che ha non solo nei confronti degli shareholders ma anche di altri stakeholders
Alcuni studi sono stati condotti in Francia, dove l’analisi di una interessante casistica imprenditoriale ha permesso di evidenziare anche l'importanza e il ruolo che queste aziende hanno svolto, o svolgono ancora, nel panorama economico e/o sociale a livello nazionale. Attraverso questo tipo di analisi gli studiosi hanno potuto far luce sulla questione della rigenerazione strategica[12]. E, anche se, come si è detto, quello dell’impresa familiare è un campo poco esplorato, soprattutto per quanto riguarda i meccanismi di controllo e monitoraggio delle eventuali difficoltà che possono intervenire nel corso della vita dell’impresa e che possono mettere in pericolo la continuità della gestione, ricercatori e professionisti hanno cominciato a prestare maggiore attenzione all'azienda di famiglia come un'entità separata e un campo disciplinare separato. 
Da una serie di analisi che sono state compiute sul Business Family Management è risultato, per esempio, che la medio-grande impresa familiare, nonostante risenta di una crisi sistemica, spesso è in grado di resistere meglio rispetto alle aziende caratterizzate da altre forme proprietarie. Oggetto tipico delle analisi di cui si darà brevemente conto in questa parte di studio, è la cosiddetta "classica" azienda familiare, in cui proprietà e controllo si intrecciano nella famiglia, i cui membri sono coinvolti sia nella strategia che nel processo decisionale. Il cosiddetto “movente dinastico”, è l’elemento di politica economica che differenzia queste realtà dalle altre imprese, che sono sostanzialmente eterodirette. E questa particolare forma di direzione consente di connotare l’inquadramento dell’attività di impresa in modo fortemente “conservativo”, nel senso che l’obiettivo principale della famiglia è e resta sempre quello di mantenere il controllo per trasmetterlo alle generazioni future. L'azienda familiare "classica" è ancora una realtà delle economie avanzate, una realtà tendenzialmente forte, che trova proprio nella forte presenza dello spirito familiare la spinta per mantenere due obiettivi: quello della sostenibilità e quello del controllo interno. 
4 . Criteri di analisi delle performance aziendali nelle imprese familiari
La complessità dello studio delle imprese familiari deriva anche dall'intreccio di due sistemi: famiglia e azienda. Il sistema familiare svolge un ruolo importante in determinate situazioni di gestione e di governance nell'azienda familiare. Concepita come istituzione, la famiglia influenza le pratiche manageriali nell'azienda di famiglia, vista come una forma di organizzazione produttiva la cui origine è difficile da definire nel tempo o nello spazio. 
Il Family Business Group, un organo costituito dalla Commissione Europea per discutere i principali problemi delle aziende familiari nei singoli Paesi e per promuovere un’azione di stimolo nei confronti della Commissione Europea nella sua azione di governo dell'economia, ha identificato più di 90 definizioni diverse di impresa familiare, ciò che mostra come, all’interno di uno stesso Paese, possono essere utilizzate definizioni differenti basate su vari aspetti quali la proprietà familiare, il coinvolgimento del management, il controllo, l’impresa come principale fonte di reddito per la famiglia e il trasferimento generazionale. Nel 2009, il FBG, con l’obiettivo di individuare una definizione semplice, chiara e facilmente applicabile nei diversi Paesi Membri, ha coniato la seguente definizione di family business: “A firm, of any size, is a family enterprise if: 1. The majority of votes is in possession of the natural person(s) who established the firm, or in possession of the natural person(s) who has/have acquired the share capital of the firm, or in possession of their spouses, parents, child or children's direct heirs. 2. The majority of votes may be direct or indirect. 3. At least one representative of the family nor kin is involved in the management or administration of the firm. Listed companies meet the definition or family enterprise if the person(s) who established or acquired the firm (share capital) or their families or descendants possess 25 per cent of the right to vote mandates by their share capital”.   
Allo scopo di comprendere meglio il modo in cui le imprese familiari sono “naturalmente attrezzate” per affrontare e assorbire le crisi, e quale è il loro strumentaria, si ritiene opportuno illustrare, seppur in maniera succinta, i principali criteri applicati allo studio della relazione tra governance familiare e performance, al fine di ottenerne un quadro d’insieme. I criteri più importanti ai quali attingono la maggior parte degli studi in ambito scientifico sono: l’agency theory, la stewardship theory, e la socio-emotional wealth theory. Vero è che tali teorie, nate e sviluppatesi in ambiti diversi da quello specifico del family business, se considerate separatamente, appaiono essere tra loro confliggenti e nessuna di esse si rivela in grado di spiegarne in modo esauriente le determinanti della performance. Tant’è che la letteratura più avveduta suggerisce di utilizzarle in modo complementare e con un’ottica multi-prospettica che appunto consenta di evidenziare le peculiarità proprie del sistema “impresa familiare” le cui interazioni producono effetti di volta in volta positivi e negativi, che influiscono sulle performance. Pertanto in questa sede mi limiterò a fornire per cenni gli aspetti più importanti rilevabili all’interno del Family Business.
5 . La Teoria dell’Agenzia
La teoria dell’agenzia (AT) nasce negli anni ’70 con l’obiettivo di indagare le modalità organizzative che caratterizzano le imprese all’interno del contesto dell’economia dell’organizzazione. Viene definito “relazione di agenzia” il rapporto che si instaura tra due soggetti economici, denominati principale e agente, che interagiscono all’interno dell’impresa secondo determinate modalità, hanno ruoli distinti ruoli e compiti aziendali e perseguono scopi e obiettivi differenti. Tale relazione viene a esistenza nel momento in cui il principale incarica l’agente dell’esecuzione di un determinato compito affinché egli, grazie alle abilità di cui dispone e in ragione della delega di autorità che ha ricevuto, lo porti a compimento per suo conto. È chiaro che se entrambe le parti coinvolte nella relazione contrattuale mirano alla massimizzazione della loro utilità, esistono buoni motivi per credere che non sempre l’agente agirà al fine di conseguire il migliore interesse per il principale. La teoria dell’agenzia si basa su una visione “contrattualistica” dell’impresa e individua nella relazione tra azionista e manager un contratto con cui l’azionista assume il manager delegandogli determinate attività e responsabilità decisionali. Sotto il profilo delle criticità insorgenti, pertanto, si affermerà che è prevalentemente la diversità di obiettivi tra agente e principale che provoca i maggiori problemi nella scelta delle strategie e nel differente approccio al rischio che ispira i comportamenti di agente e principale. Mentre la diversità di obiettivi e l’asimmetria informativa influiscono sugli aspetti di carattere organizzativo della relazione (organizational assumptions) questa può altresì essere condizionata da attitudini personali dei soggetti in essa coinvolti, come l’adozione di un atteggiamento di opportunismo, ovvero il diverso approccio al rischio (human assumptions). Tale teoria, quindi, studia i problemi che sorgono quando sussiste una divergenza d’interessi e di approccio al rischio tra le due parti e vi è un’asimmetria informativa dovuta al fatto che l’agente possiede normalmente più informazioni del principale. Inoltre alla asimmetria informativa viene ricondotto un duplice ordine di problemi: i) quello della c.d. Selezione avversa, definita anche opportunismo pre-contrattuale: si verifica quando l’agente gode di migliori informazioni rispetto al principale. Egli gode di un vantaggio informativo che gli consente di influenzare, durante la relazione, il benessere del principale. Al fine di minimizzarne le conseguenze negative, il principal è costretto a sostenere elevati costi di ricerca, di monitoraggio e di verifica. ii) quello del c.d. Azzardo morale, che consiste nella mancanza di impegno dell’agente, e viene anche definito come opportunismo post-contrattuale. In tale situazione l’asimmetria informativa è successiva alla formalizzazione del contratto: per esempio, quando chi deve eseguire il contratto può compiere azioni non osservabili dall’altro contraente (hidden action) ovvero acquisisce informazioni a cui l’altra parte non può accedere (hidden information). La risoluzione dei problemi derivanti dal moral hazard è affidata a formulazioni contrattuali che siano in grado di minimizzare i costi derivanti dall’opportunismo post-contrattuale. Il principal, quindi, deve individuare e implementare, a sue spese, adeguati sistemi di incentivi e di monitoraggio sull’operato dell’agente. Facendo applicazione di tale teoria, quindi, lo studioso è in grado di individuare attraverso quali accordi principale e agente gestiscono la loro relazione, quali ne sono le conseguenze in termini di costi e quali possono essere i sistemi di prevenzione di tali asimmetrie. In particolare, riguardo a questi ultimi, è chiaro che il sistema più efficace sarà quello di non separare la proprietà dal controllo. Questa è una caratteristica frequente nell’impresa familiare. Infatti le imprese familiari - nelle quali sovente la proprietà e la gestione aziendale non sono separate, ma piuttosto coincidenti - costituiscono una peculiare struttura di governance capace di eliminare o quanto meno ridurre i costi derivanti dai problemi di agenzia. In tale prospettiva, le caratteristiche tipiche della proprietà familiare sono state ritenute un rimedio ai problemi derivanti dalla proprietà diffusa tipica delle grandi imprese. Il fatto che la famiglia sia “personalmente” coinvolta nella proprietà e nella gestione, fa sì che gli obiettivi degli agenti convergano maggiormente con quelli della proprietà e che quindi minore sia la possibilità che i primi assumano comportamenti opportunistici; inoltre, la “peculiarità” delle relazioni personali che intercorrono tra gli agenti, che essendo proprietari rivestono anche il ruolo di principali, genera una spinta al controllo ed all’impegno reciproco. Di conseguenza, un forte coinvolgimento da parte dei membri della famiglia all’interno dell’impresa è potenzialmente in grado di attenuare i rischi di comportamenti opportunistici, di favorire la convergenza degli interessi nonché di ridurre i conflitti tra le differenti categorie di soggetti. In tale contesto i componenti della famiglia incrementano la conoscenza reciproca e quella dell’impresa, sviluppano un senso di lealtà e un forte commitment verso la continuità dell’impresa. Inoltre le family firms differiscono dalle non family in ragione del fatto che la proprietà è parzialmente o interamente controllata da un limitato numero di investitori. Questo dovrebbe agevolare la creazione di una visione unica e condivisa, abbreviare i processi decisionali e incoraggiare le attività di controllo, rendendo così meno probabile che gli agenti coinvolgano la società in attività che potrebbero compromettere il benessere degli shareholders e mettere a rischio la performance aziendale.
6 . La Stewardship Theory
Secondo la Stewardship Theory, i membri della famiglia coinvolti nella proprietà e/o gestione dell’azienda assumono comportamenti tali che i vantaggi che l’azienda riceve sono molto maggiori di quelli che loro stessi ricevono, a causa dei forti legami esistenti all’interno della famiglia, legami che non sono solo di natura economica, ma anche emotiva. Da un lato, infatti, la ricchezza dei membri della famiglia è direttamente dipendente da quella dell’impresa; dall’altro l’impresa consente loro di godere dei benefici emotivi derivanti dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo riconosciuto e socialmente rilevante. Nell’impresa, infatti, i membri della famiglia investono le proprie emozioni: fortuna, reputazione e soddisfazione dipendono e sono da questa influenzati. Inoltre, si è riscontrato che nelle imprese familiari il management familiare è generalmente più longevo rispetto alle altre tipologie di imprese, in quanto il manager membro della famiglia tende a identificarsi nell’impresa. Il protrarsi della permanenza alla guida dell’azienda, e soprattutto la consapevolezza che tale situazione potrà durare nel tempo, agevola l’assunzione di decisioni ispirate a obiettivi di lungo periodo come ad esempio gli investimenti in formazione, tecnologie innovative e ricerca e sviluppo. Il management, poi, in ragione del lungo tempo trascorso in azienda, durante il quale ha potuto accrescere la propria esperienza, è in grado può rendere un servizio migliore: si è riscontrato, infatti, che sono i manager che hanno trascorso almeno una decina d’anni nella stessa azienda coloro maggiormente capaci di massimizzarne le performance. 
Nelle imprese familiari si riscontrano spesso comportamenti che, comprimendo la reddittività attuale, consentono alle stesse di porre le basi affinché vi sia continuità e perché il futuro si riveli solido e meno incerto per la famiglia. La compagine familiare, infatti, manifesta la tendenza a reinvestire internamente i profitti generati, nonché a costruire una solida reputazione aziendale che consenta di fidelizzare i propri clienti anche al fine di rendere stabili le vendite in periodi di crisi. 
Ancora, in coloro che guidano l’impresa è spiccata la tendenza a coinvolgere nella vita aziendale i membri più giovani. Non è un caso che in molte imprese familiari non vi sia un confine netto tra contesto familiari e contesto aziendale, tanto che le decisioni di maggior impatto vengono spesso assunte al di fuori delle mura aziendali e anzi all’interno di quelle familiari. Inoltre, il contesto lavorativo risulta caratterizzato da un approccio informale nel quale è più agevole il contatto tra management e lavoratori; le decisioni risultano più efficaci e quindi più efficienti. L’azienda viene quindi considerata dai lavoratori quasi alla stregua di una tribù, un gruppo unito con un unico scopo e valori condivisi. Ciò si verifica soprattutto quando la distanza tra la base e il vertice è minima, la comunicazione inter-funzionale frequente, la burocratizzazione pressoché inesistente. 
7 . La Socio Emotional Wealth
Con l’acronimo SEW (Socio Emotional Wealth), ci si riferisce al fatto che tutte le scelte operative e strategiche prese dalla famiglia sono condizionate dalla volontà di preservare, in maniera implicita o esplicita, una serie di “non economic utilities” raggruppate con il termine “affective endowments”, anche a rischio di incorrere in performance economico-finanziarie negative. L’aspetto fondamentale di tale paradigma consiste nel ritenere che le scelte decisionali dell’impresa sono determinate dall’obiettivo che il principale persegue e che verranno assunte sempre in maniera tale da proteggere e mantenere gli affective endowments. La famiglia, al fine di proteggere detta dotazione, si rivela addirittura disposta ad assumere decisioni antieconomiche tali da sacrificare la stessa sopravvivenza dell’impresa. I proprietari-familiari, infatti, inquadrano i problemi da risolvere a seconda di come le soluzioni che adotteranno produrranno effetti su tale dotazione, tanto che sono i guadagni e le perdite in termini di SEW che orientano le scelte strategiche dell’impresa familiare. Con il concetto di SEW si intendono ricomprendere tutti quei valori e quelle risorse che derivano alla famiglia dalla posizione di controllo rivestita in seno all’impresa, quali l’illimitato esercizio di autorità dei membri della famiglia, il piacere derivante dalla personale gestione del business, la stretta identificazione con l’impresa che spesso ne porta il nome. In ossequio alla logica della behavioral agency theory, la famiglia agisce secondo un approccio “loss mode” e quindi, assumerà decisioni strategiche volte a evitare potenziali perdite di SEW, anche se nel fare ciò si dovessero produrre svantaggi a danno degli altri principals (ad es. investitori istituzionali o soci di minoranza) che sono estranei alla conservazione di SEW. Per i principali familiari, l’avversione alla perdita potenziale di SEW è predominante rispetto all’avversione al rischio finanziario. Ed è per tale ragione che i membri della famiglia vedono l'impresa come un investimento famigliare di lungo termine che può essere trasmesso ai discendenti. Secondo tale teoria, quindi, per le imprese familiari la preservazione della ricchezza socio-emozionale della famiglia rappresenta un obiettivo fondamentale a cui viene conferito primario rilievo in quanto è anzitutto animata dal perseguire risultati non economici come la legittimazione sociale, la salvaguardia della reputazione sia aziendale sia familiare, la qualità delle relazioni con i fornitori, con i clienti e con gli stakeholder, il desiderio di contare nella comunità e di essere membri attivi dello sviluppo locale. 
8 . Conclusioni
I risultati ottenuti dagli studi compiuti sulle teorie applicate nel BFM confermano l’idea secondo cui le imprese familiari ottengono performance superiori durante i periodi di crisi rispetto alle imprese non familiari, in quanto adottano comportamenti più propensi al rischio e fanno uso delle risorse accumulate durante i periodi di stabilità economica. Tale atteggiamento resiliente consente alle imprese familiari, rispetto alle non familiari, una maggiore capacità di sopravvivenza in momenti di forte stress esogeno. 
Pertanto, se l'impresa familiare può essere considerata come un'entità separata con caratteristiche specifiche data la sua natura e visione, è legittimo focalizzare la sua strategia di gestione "atipica": lo studio degli effetti della presenza della famiglia sui risultati aziendali rappresenta un filone di ricerca di grande rilievo all’interno degli studi sul family business. Negli ultimi decenni, si è assistito ad un aumento del numero di ricerche condotte sul coinvolgimento della famiglia nella governance aziendale e sugli effetti che ciò produce sulle performance dell’impresa. Numerosi studi hanno dimostrato che le imprese familiari presentano performance aziendali superiori rispetto alle loro pari non familiari e spesso si è sostenuta l’esistenza di una relazione positiva fra natura familiare e risultati economici. 
Le considerazioni che precedono e che hanno condotto a focalizzare l’attenzione sulle strategie di salvaguardia dalla crisi e di resilienza tipiche delle imprese familiari, portano a quello che nelle scienze gestionali, è un termine utilizzato solo da pochi decenni: rigenerazione. Ritengo infatti che l’attenzione degli studiosi, soprattutto nel nostro ordinamento, si debba concentrare maggiormente sulla comprensione del processo e dei fattori di rigenerazione strategica delle imprese familiari, concentrandosi sul ruolo della famiglia nel processo decisionale e sull'azione della rigenerazione strategica. La rigenerazione strategica è l'insieme di attività strategiche che, di fronte al cambiamento ambientale, sia interno che esterno, influenzano la strategia, la struttura, le attività e gli attributi dell'azienda attraverso tensioni costruttive. È quindi un processo dinamico attraverso il quale l'azienda risponde ai cambiamenti nell'ambiente o li anticipa (o addirittura li crea). Questo processo è soggetto a tensioni (dilemma: continuità contro cambiamento) e può avere forme differenti di risposte, ma è solo attraverso una maggiore attenzione che si potrà arrivare a una migliore comprensione delle misure e delle forme di organizzazione che più sono funzionali all’impresa familiare. È chiaro che l'implementazione di strategie di rigenerazione per garantire la sostenibilità dell'azienda di famiglia richiede lo sviluppo delle capacità e delle competenze dell'azienda attraverso l'apprendimento organizzativo. Così, la socializzazione del successore in azienda e la pianificazione della successione permettono l'istituzionalizzazione di un comportamento organizzativo che sarà condiviso dai membri dell'azienda e la sua trasmissione nel corso delle generazioni. Quindi, il coinvolgimento della famiglia nell'azienda può essere visto come una fonte di vantaggio competitivo che consente la continuità dell'azienda e la trasmissione di conoscenze, competenze, social network, e che, se considerato a medio – lungo termine, può consentire come e forse meglio di altri strumenti economici, il salvataggio dalla crisi dell’impresa.

Note:

[1] 
È infatti importante considerare che anche se l’imprenditore è in crisi, l’impresa può comunque conservare un certo valore produttivo. Ciò, come correttamente osservato da alcuni autori, può verificarsi, per esempio, quando l’imprenditore è in crisi per cause che non attengono direttamente alla gestione dell’impresa, quali ingenti perdite al gioco. Oppure quando l’impresa è in difficoltà a causa di scelte gestionali sbagliate che tuttavia hanno lasciato integra la potenzialità di tornare a produrre valore, tramite operazioni strategiche come dismissioni, cambi di strategie o altro. A questo proposito si v. L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007; L. Guatri, Turnaround, Declino, Crisi e Ritorno al valore, Milano, 1995.
[2] 
Pare opportuno ricordare qui alcuni studi fondamentali in ambito di accordi di soluzione della crisi che hanno preceduto o sono coevi all’avvio della riforma: M. Arato, Gli accordi di salvataggio o di liquida­zione dell’impresa in crisi, in Fall., 2008, 1237; G. Battaglia, La composizione delle crisi da sovrainde­bitamento del debitore non fallibile: alcuni profili pro­blematici, in Dir. fall., 2012, I, 423; A. Bello, Gli ac­cordi di ristrutturazione dei debiti nella riforma della legge fallimentare, in Riv. not., 2006, 321; A. Caiafa, Accordi di ristrutturazione dei debiti: natura giuridi­ca e giudizio di omologazione, in Dir. fall., 2006, II, 536; G. Canale, Le nuove norme sul concordato pre­ventivo e sugli accordi di ristrutturazione, in Riv. dir. proc., 2005, 897; E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: un nuovo procedimento concorsuale, Padova, 2009. Di quest’ultima autrice si ricordano i fondamentali studi sul concordato stragiu­diziale: Il concordato stragiudiziale, Padova, 1984 e Effetti della composizione stragiudiziale dell’insol­venza, Padova, 1995.
[3] 
La letteratura d’oltralpe sugli strumenti di risanamento e risoluzione concordata della crisi è sterminata. Si citano qui soltanto alcuni dei numerosissimi contributi. C. Regnaut Moutier, Les risques et responsabilités en droit des procedures collectives. Propos introductifs. Actes du colloque de Cane du 15 octobre 2010, in Revue des procedures collectives, 6, 2010, 62 ss.; J.P. Sortais, Entreprises en difficulté. Les mécanismes d’alerte et de conciliation, Parigi, 2010,
14 ss.; A. Jacquemont, Droit des entreprises en difficulté, Parigi; V. M.H. Monsérié Bon, Entreprise en difficulté. Détection des difficultés, Tolosa, 2012.
[4] 
Sullo strumento dell’allerta in Francia e sul confronto con quello italiano si v. S. Ronco, Salvataggio e risanamento dell’impresa. Strumenti a confronto, TAB Edizioni, 2020. 
[5] 
La proposta di decreto legislativo delegato formulato dalla Commissione Rordorf nel dicembre 2017 prevedeva che gli assetti organizzativi riguardassero «l’imprenditore, che operi in forma individuale, societaria o in qualunque altra veste», ma in seguito alle critiche in base alle quali la “sovrastruttura” degli assetti era eccessiva per l’imprenditore individuale, il legislatore ha limitato la previsione agli enti “societari e collettivi”, privando così realtà imprenditoriali anche di un certo rilievo di parametri importanti. Certo è, comunque, che il principio di proporzionalità previsto nel comma 2 dell’art. 2086 c.c., dovrebbe valere anche per le misure dell’imprenditore individuale, posto che anche nell’impresa individuale, se di dimensioni analoghe a quelle di una società, i doveri di chi gestisce l’impresa sono i medesimi. di carattere patrimoniale o economico-finanziario rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta. 
[6] 
Come stabilito dal CCII, costituiscono segnali per la rilevazione tempestiva della crisi (art. 3, comma 4): l’esistenza di debiti retributivi scaduti da almeno 30 giorni pari a oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni; l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno 90 giorni di ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti; l’esistenza di esposizioni nei confronti delle banche e degli altri intermediari finanziari che siano scadute da più di 60 giorni o che abbiano superato da almeno 60 giorni il limite degli affidamenti ottenuti in qualunque forma purché rappresentino complessivamente almeno il 5% del totale delle esposizioni; l’esistenza di una o più delle esposizioni debitorie nei confronti del Fisco e dell’Inps nelle soglie previste dal nuovo articolo 25 novies, comma 1 CCII, di ammontare oggetto di segnalazione da parte dei creditori pubblici qualificati (INPS, Agenzia delle Entrate e Agenzia delle entrate–Riscossione), segnalazione recante l’invito a presentare l’istanza di accesso alla composizione negoziata della crisi.
[7] 
A questo proposito si v. B. Inzitari, Crisi, insolvenza prospettica, allerta: nuovi confini della diligenza del debitore, obblighi di segnalazione e sistema sanzionatorio nel quadro delle misure di prevenzione e risoluzione, in AA.VV., Le crisi di impresa e del consumatore, Zanichelli, 2021, 72 ss.
[8] 
Per qualche approfondimento in materia, si v. https://www.researchgate.net/; G. Van Huylenbroeck  - G. Durand, Multifunctional Agriculture: A New Paradigm for European Agriculture and Rural Development, Ashgate Publishing, 2003, pp. 1–16; https://www.sciencedirect.com/. 
[9] 
La preposizione institoria solitamente non richiede l'adozione di formule e forme particolari, infatti per il conferimento dell’incarico non è necessaria la forma scritta né per la validità (ad substantiam) e nemmeno a fini probatori (ad probationem) dal momento che la sussistenza di tale preposizione può essere provata con ogni mezzo comprese le presunzioni.
[10] 
G. Lazzati in un discorso rivolto ai giovani, così si esprime a proposito dell’economia al servizio della società: «Se essa ha come fine unico e assoluto il profitto, è fatale che ad esso si sacrifichi l’uomo che viene considerato un elemento di processo di produzione della ricchezza, ma non uno dei suoi beneficiari» (Pensare politicamente, AVE, Roma, 2018, p. 116). Nel concreto dell’attività lavorativa lo stile che si deve perseguire quindi è la professionalità del lavoro come elemento fondamentale dell’azienda in tutti i suoi livelli e come fattore valoriale dell’etica lavorativa.
[11] 
V. tra gli altri: E.J. Poza, M.S. Daugherty, Family Business, Cengage Learnings, 2013; L. Anselmi, N. Lattanzi, Il Family Business made in Tuscany, Franco Angeli, 2016; J. Marceau, A Family Business? The making of an international business élite, Cambridge University Press, 1989-2009.
[12] 
Tra gli studi principali su Family Buisiness: J. Allouche.- B. Amann., Le retour triomphant du capitalisme familial, L'expansion, in Management Review, 85, 1997, pp.92-99; J. Allouche – B. Amann – J. Jaussaud – T. Kurashina., The Impact of Family Control on the Performance and Financial Characteristics of Family Versus Nonfamily Businesses in Japan: A Matched-Pair Investigation, in Family Business Review, 1998, pp. 315-329; V. Ambrosini – C. Bowman, What are Dynamic Capabilities and are they a Useful Construct for Strategic Management?, in International Journal of Management Reviews, 2012, pp. 29-49.

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