Specifici rilievi possono appuntarsi poi all’idea che conferisce al giudice dell’esecuzione il potere di rilevare la vessatorietà della clausola del contratto sotteso al titolo azionato nonché, previa manifestazione di volontà del consumatore esecutato[56], dichiararne la nullità e pronunciare ordinanza, opponibile agli atti esecutivi, di “improcedibilità dell’esecuzione forzata per mancanza di un titolo esecutivo idoneo a legittimare l’azione”[57].
Ad una prima, superficiale, impressione, la soluzione sembra essere quella evocata dalla Corte di giustizia nella pronuncia SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza: si tratta, a ben vedere, di una fallace suggestione, dacché, come già sopra sottolineato[58], la sentenza, limitandosi all’affermazione di un (non meglio precisato) dovere di valutazione del giudice dell’esecuzione, non ha dato seguito all’impostazione articolata nel quesito del remittente, specificamente diretto a riconoscere al giudice dell’esecuzione il compito-obbligo di dichiarazione delle nullità consumeristiche.
Sgombrato il campo da tale possibile equivoco, sono le caratteristiche strutturali tipiche degli incidenti di cognizione endoesecutivi ad ingenerare forti dubbi sulla idoneità allo scopo di garantire tutela effettiva al consumatore.
Poste a confronto con le regole auree del giusto processo, le modalità di svolgimento di siffatto incidente di accertamento mostrano palmari difformità, significativamente rilevanti, in punto di effettività ed equivalenza della tutela, sotto (almeno) tre aspetti.
In primis, il contraddittorio tra le parti si realizza in forme semplificate (o attenuate, secondo una invalsa qualificazione), siccome rispondente non all’esigenza di una contrapposizione dialettica sull’oggetto della azione esecutiva ma al più limitato scopo di permettere al giudice dell’esecuzione il miglior esercizio della potestà ordinatoria lui deferita.
In secondo luogo, le facoltà difensive delle parti (qui rilevando soprattutto, quelle del consumatore abbisognevole di tutela) sono indubitabilmente compresse: l’attività assertiva non si dispiega (come invece accade nei giudizi a cognizione piena) secondo scansioni temporali e con modalità predeterminate dalla legge, ma si modella secondo le scelte ampiamente discrezionali del giudice dell’esecuzione; lo strumentario asseverativo utilizzabile è inoltre ridotto, trovando (pressoché) esclusiva estrinsecazione in prove di natura documentale.
Infine, non sono espressamente conferiti poteri istruttori officiosi al giudice dell’esecuzione, assimilabili a quello stabilito dall’art. 640 c.p.c. per il procedimento monitorio: e, pure a voler riconoscerne l’esistenza quale portato del generale potere di direzione del processo esecutivo, sono comunque prive di disciplina positiva le conseguenze del loro esercizio, come, ad esempio, la inosservanza da parte del creditore di un ordine a lui impartito di produzione del contratto.
Quanto all’estensione dei poteri lato sensu cognitivi del giudice dell’esecuzione, indiscutibilmente eccentrica rispetto a concezioni assunte da decenni come pietre angolari del processo esecutivo è la previsione di un sindacato officioso esteso ad un vizio intrinseco di un titolo di formazione giudiziale ed orientato, a cagione di ciò, alla negazione della tutela in forza di quel titolo invocata dal procedente, negazione assoluta (con ordinanza di chiusura anticipata della procedura, in caso di clausola abusiva che infirmi il decreto ingiuntivo nella sua interezza) oppure solo parziale, con riduzione dell’entità del credito meritevole di soddisfazione (in ipotesi di clausola incidente unicamente su parte del contenuto precettivo del decreto monitorio).
Ma, senza indulgere a considerazioni (che potrebbero essere tacciate di passatismo) sulla necessità di preservare il tradizionale discrimen tra cognizione ed esecuzione, l’aspetto dirimente, che rende manifesto il vizio di effettività della soluzione de qua, è un altro: esso consiste nella efficacia soltanto endoprocedimentale della statuizione che si ritiene adottabile dal giudice dell’esecuzione, sia essa la chiusura anticipata e atipica del procedimento sia essa un’assegnazione per somme inferiori a quelle formalmente risultanti dal titolo.
Ritenere infatti che l’accertamento di abusività delle clausole vessatorie compiuto dal giudice dell’esecuzione concerna la singola e specifica procedura, sia privo di incidenze caducatorie sul decreto ingiuntivo (nonché, a fortiori, sugli ulteriori effetti di esso, quale, ad esempio, la iscrizione di un’ipoteca) ed altresì inidoneo al giudicato[59] significa lasciare il consumatore esposto ad ulteriori aggressioni del proprio patrimonio sulla base del medesimo provvedimento monitorio (e, quindi, a potenziali valutazioni differenti sulla vessatorietà delle clausole), senza poter far valere, con valenza vincolante, la precedente decisione a lui favorevole: con buona pace non solo della effettività della tutela, ma anche della certezza del diritto e dell’economia dei mezzi processuali.
In relazione al principio di equivalenza, non si può ignorare che nell’impostazione in esame il consumatore-esecutato, costretto in prima battuta ad una minorata difesa, subisce la perdita di un grado di giudizio di merito rispetto agli ordinari strumenti di reazione avverso il decreto ingiuntivo.
Equivalenza ed effettività della tutela del consumatore impongono dunque di contenere il potere di controllo del giudice dell’esecuzione, genericamente tratteggiato nella sentenza SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza, alla mera attività di rilevazione della sospetta vessatorietà delle clausole del contratto sotteso al decreto ingiuntivo azionato.
Siffatto rilievo officioso va compiuto (motu proprio o su sollecitazione, anche non formale, del debitore) sulla scorta del compendio asseverativo acquisito al fascicolo dell’esecuzione per effetto delle produzioni delle parti, non potendosi ipotizzare cogenti poteri istruttori del giudice dell’esecuzione: e proprio quest’ultimo aspetto esclude che egli possa svolgere, in modo pieno e completo, l’accertamento sulla vessatorietà delle clausole, la cui complessità, sopra illustrata[60], richiede una (in sede esecutiva non efficacemente praticabile) penetrante indagine sul concreto andamento della vicenda contrattuale intercorsa tra il professionista ed il consumatore.
È preferibile ritenere che il compito del giudice dell’esecuzione si esaurisca nell’additare a sospetta abusività una o più clausole contrattuali e nell’indicare al consumatore il rimedio di tutela da esperire per l’accertamento di essa: il controllo giudiziale in àmbito esecutivo viene, in definitiva, ad assolvere la funzione di colmare il deficit informativo del consumatore in ordine alle proprie facoltà difensive provocato dal difetto di motivazione del decreto ingiuntivo e di sollecitare lo stesso consumatore ad avvalersi della prospettata abusività delle clausole.