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Saggio

Clausole abusive e decreto ingiuntivo non opposto: il consumatore alla ricerca del rimedio effettivo*

Raffaele Rossi, Consigliere della Suprema Corte di Cassazione

6 Aprile 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
**Testo della relazione tenuta al convegno “Giudicato implicito, titolo esecutivo, tutela del consumatore: principi della Corte UE e riflessi nelle procedure esecutive e concorsuali”, svolto a Bergamo il 1° febbraio 2023, aggiornato con i contributi editi sino al 25 febbraio 2023 ed integrato con riferimenti di dottrina e giurisprudenza.
L’A. si sofferma sulle implicazioni della nota pronuncia della Corte di Giustizia in tema di tutela del consumatore.
Riproduzione riservata
1 . Premessa introduttiva
Non di rado da decisioni della Corte di giustizia dell’Unione Europea sono scaturite significative incidenze sulla portata e sul significato di istituti caratterizzanti il nostro ordinamento, chiamando gli interpreti ad un’opera di rimeditazione di principi di diritto sui quali pure si erano formati orientamenti consolidati.
In questo contesto, l’onda d’urto generata dalla sentenza della Grand Chambre del 17 maggio scorso[1] sui rapporti tra clausole contrattuali abusive in danno di consumatori, decreto ingiuntivo e procedure di esecuzione forzata si è rivelata, sin da subito, di intensità elevatissima, siccome idonea non soltanto ad imporre un ripensamento di tradizionali categorie concettuali ma altresì a ingenerare difficoltà pratico - operative di non agevole soluzione.
Lo attestano, in modo inequivoco e sotto ambedue i profili, la messe di contributi dottrinali editi sul tema nei mesi decorsi dalla sua pubblicazione[2] e la rimessione - ancora pendente - alle Sezioni Unite della Corte di cassazione di una questione afferente l’individuazione dei rimedi di tutela apprestati dal diritto interno per il consumatore destinatario di un decreto ingiuntivo, non opposto, reso in forza di un contratto contenente clausole abusive[3].
2 . Il contenuto della sentenza Corte di giustizia dell’Unione europea SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza ed il tema della presente indagine
Per orientarsi sull’argomento, è doveroso muovere dal contenuto della citata pronuncia della Corte di giustizia. 
La vicenda sottoposta al vaglio del giudice euronitario può riassumersi nei seguenti termini: domanda d’ingiunzione proposta da un professionista per un credito nascente da un contratto concluso con un consumatore (secondo l’acronimo invalso nella dottrina di settore, un contratto “b2c”); decreto monitorio di accoglimento della domanda emesso senza espressa (o meglio, senza che nella motivazione del provvedimento fosse estrinsecata) una verifica circa l’inesistenza di clausole abusive nel contratto; esecuzione forzata promossa in forza di tale decreto ingiuntivo, una volta elasso il termine per la proposizione della opposizione ai sensi dell’art. 645 del codice di rito.
Specificamente interrogata dalle ordinanze di rimessione sui poteri del giudice dell’esecuzione nella descritta situazione, la Corte di giustizia articola le seguenti premesse:
- riafferma l’importanza rivestita, tanto nell’ordinamento unionale quanto nei singoli ordinamenti nazionali, dal principio dell’autorità di cosa giudicata, quale strumento finalizzato a garantire la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici nonché una buona amministrazione della giustizia;
- ribadisce, richiamando la propria giurisprudenza, la ratio della direttiva n. 93/13, fondata “sull’idea che il consumatore si trova in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista per quanto riguarda sia il potere negoziale sia il livello di informazione”;
- rimarca la natura imperativa dell’art. 6, paragrafo 1, di detta direttiva (nella parte in cui sancisce che le clausole abusive non vincolano i consumatori), disposizione “tesa a sostituire all’equilibrio formale fra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti determinato dal contratto un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra tali parti”;
- individua nel controllo di ufficio ad opera del giudice nazionale sul carattere abusivo delle clausole contrattuali lo strumento indefettibile per ovviare allo squilibrio tra consumatore e professionista, in quanto “in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto di cui trattasi, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva n. 93/13 non può essere garantito”.
All’esito di tale percorso argomentativo, conclude nel senso che “una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva n. 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali”, ragion per cui “in un caso del genere, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione”.
Le dirompenti conseguenze della pronuncia sul diritto nazionale sono state immediatamente poste in evidenza dai commentatori. 
Pur con sfumature ermeneutiche, si è fatto discendere dalla decisione in parola un vulnus, quasi esiziale, alla nozione del giudicato (quantomeno, all’accezione, diffusamente invalsa, del giudicato implicito)[4], fulcro insostituibile di un ordinamento che tenda alla stabilità dei rapporti giuridici ed alla certezza del diritto; si è lamentato uno stravolgimento della natura di titolo esecutivo di matrice giudiziale del decreto ingiuntivo[5] e paventata l’inadeguatezza del procedimento monitorio, per come all’attualità strutturato dalla legislazione nazionale, a rispondere alle esigenze sostanziali valorizzate dalla Corte europea, con conseguente maggiore difficoltà (o, comunque, incertezza) di accesso a tale strumento di salvaguardia dei crediti[6]; si è, non da ultimo, evidenziato un appannamento del discrimen (in precedenza nettamente tracciato) tra cognizione ed esecuzione, architrave del sistema di tutele disegnato dal diritto interno[7].
I limiti della presente trattazione non consentono di affrontare, in maniera adeguata, tutti i richiamati profili critici.
Si tenterà, pertanto, di definire il modo con cui realizzare, nel nostro sistema processuale, il controllo giudiziale di vessatorietà sulle clausole contenute in contratti tra professionisti e consumatori ed individuare i rimedi di tutela a disposizione del consumatore per l’ipotesi in cui detto controllo sua omesso o mal eseguito.
Si tratta, a nostro avviso, dell’aspetto di più immediato impatto operativo della sentenza SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza: attesa la sua immediata portata precettiva nel diritto interno[8], i princìpi da essa dettati trovano infatti applicazione anche ai decreti ingiuntivi emessi prima del 17 maggio 2022, con una sterminata quantità di possibili contenziosi.
3 . L’effettività della tutela del consumatore e le sue declinazioni
Il punto di partenza dell’indagine non può che essere la ratio che, al fondo e dichiaratamente, ispira la decisione della Corte di giustizia: l’effettività della tutela giurisdizionale avverso clausole abusive o vessatorie inserite in contratti b2c, ad un tempo obiettivo prioritario da raggiungere e metro della valutazione di eurocompatibilità delle discipline nazionali in tema di azioni del consumatore.
Nella giurisprudenza unionale, l’effettività della tutela ha una duplice declinazione: in chiave (per dir così) sia statica che dinamica.
Per i giudici di Lussemburgo, infatti, non è sufficiente sancire, in linea generale ed astratta e con disposizione di natura imperativa (l’art. 6 della direttiva n. 93/13), la non vincolatività delle clausole abusive per il consumatore[9], ma è necessario, nel momento di concreta applicazione della norma, che un organo giudicante compia - anche motu proprio (cioè senza necessità di sollecitazione ad opera della parte interessata) - un riscontro sulla effettiva ricorrenza, nel rapporto contrattuale b2c, di clausole abusive, di tale verifica dando adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento [10].
È, dunque, il controllo giudiziale sulla vessatorietà delle clausole il requisito coessenziale di una tutela del consumatore che possa definirsi effettiva: la modalità indispensabile per colmare lo stato di minorata consapevolezza dei propri diritti che, nella visione unionale, ontologicamente connota la posizione del consumatore che negozi con un professionista.
In definitiva, il ripristino di una condizione di equilibrio tra professionista e consumatore tra di loro contraenti passa attraverso due strade: dal punto di vista sostanziale, mercé la previsione della inderogabile non vincolatività delle clausole abusive, volta a bilanciare il minor potere di negoziazione del consumatore, situazione che predispone quest’ultimo ad accettare, in sede di trattative, le condizioni stabilite dal professionista; in ambiente processuale, tramite il rilievo officioso - che assurge a vero e proprio obbligo per il giudice[11] - della abusività delle clausole, finalizzato a stimolare il consumatore ad assumere le proprie determinazioni sul se avvalersi della prospettata abusività, colmando così, con il c.d. diritto all’interpello, il deficit informativo del contraente debole sulle proprie facoltà difensive[12].
La decisione in commento chiama a compiere tale controllo officioso un protagonista inedito per il nostro ordinamento: il giudice dell’esecuzione.
Se quest’ultima specificazione (espressa anche lessicalmente con l’utilizzo del relativo complemento) può apparire un elemento di rottura del sistema disegnato dal diritto interno, essa non è certamente un elemento nuovo o inedito per il diritto unionale.
Al contrario: la praticabilità di un controllo officioso sull’abusività delle clausole nei contratti b2c in fase di esecuzione forzata di un provvedimento che non abbia statuito sulla legittimità di esse rappresenta convincimento da tempo radicato tra i giudici di Lussemburgo.
Tracciando un percorso coerente e consapevole, numerose pronunce del Kirchberg affermano che l’efficacia preclusiva del giudicato postula, di necessità, che un accertamento sull’abusività delle clausole sia stato concretamente compiuto dall’organo emittente il provvedimento fatto valere nei confronti del consumatore.
Con la conseguenza che, ove siffatto accertamento officioso non venga espletato in un momento anteriore alla pronuncia dell’ingiunzione o della condanna, esso diviene praticabile (ed anzi doveroso) in ogni successivo sviluppo giudiziario della vicenda, quindi in fase di esecuzione forzata o di opposizione alla stessa[13], in ogni caso prima della forzata attuazione della misura in danno del consumatore[14].    
Al lume di ciò, le affermazioni della sentenza SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza rappresentano (né più né meno che) la conferma di un indirizzo ermeneutico consolidato nella giurisprudenza unionale: sicché contrapporre ad esso princìpi di ordine pubblico o connotanti la tradizione giuridica nazionale, mediante l’attivazione dei c.d. controlimiti interni[15], integrerebbe non soltanto un tardivo moto di resipiscenza degli interpreti nazionali quanto, soprattutto, operazione fatalmente destinata all’insuccesso, nemmeno potendosi immaginare la creazione per il diritto italiano di uno statuto di disciplina speciale, diverso e distinto (per non dire isolato) dal resto dell’Unione.
4 . Clausole vessatorie e nullità di protezione
Completezza di analisi esige ora spostare il piano d’indagine sui profili sostanziali della fattispecie, interrogarsi cioè sugli effetti della presenza in contratti b2c di clausole violative dello statuto del consumatore, perché soltanto così può comprendersi l’esito del controllo officioso su di esse.
Si tratta di un passaggio cruciale: centrando l’attenzione sui riverberi di natura processuale, è quasi invalso, in guisa di implicito presupposto, l’assunto secondo cui l’esistenza di una o più pattuizioni lesive del consumatore cagiona automaticamente l’invalidazione del decreto monitorio che accerti il credito del professionista ex contractu causalmente azionato.
É un ragionamento inficiato nel suo presupposto, che va pertanto, quantomeno nella sua assolutezza, confutato.
Alla presenza di clausole abusive non consegue, quale derivazione normale ed automatica, la nullità dell’intero contratto, poiché la regola sancita dal ius positum, interno ed unionale, a governo dei contratti business to consumer è esattamente quella contraria: utile per inutile non vitiatur.
Lo chiarisce, nitidamente, la recente Corte giust., 8 settembre 2022, cause riunite da C-80/21 a C-82/21, E.K. S.K.: “l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva n. 93/13, e in particolare la sua seconda parte di frase, ha quale scopo non la dichiarazione di nullità di tutti i contratti contenenti clausole abusive, ma di sostituire all’equilibrio formale che il contratto determina tra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra queste ultime, fermo restando che il contratto di cui trattasi deve, in via di principio, sussistere senza nessun’altra modifica se non quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive. Sempreché quest’ultima condizione sia soddisfatta, il contratto in questione può, in forza dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva n. 93/13, essere mantenuto purché, conformemente alle norme di diritto interno, una simile sopravvivenza del contratto senza le clausole abusive sia giuridicamente possibile”[16].
Ancor più perentorio, nella legislazione autoctona, il dettato dell’art. 36, primo comma, del codice del consumo[17]: “Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto” [18].
Mutuando l’icastica terminologia adoperata dal nostro giudice della nomofilachia, l’intrinseca caratteristica dell’istituto è la “vocazione funzionale” alla conservazione del contratto[19]: la clausola abusiva va disapplicata, cassata, espunta - quasi applicando la c.d. blue pencil rule del diritto inglese - dal regolamento d’interessi complessivo, mentre il contratto, nella rimanente parte, resta fermo e vincolante, purché ciò sia giuridicamente possibile (il che è da escludersi quanto l’eliminazione della clausola abusiva importi la modifica della natura dell’oggetto principale del contratto[20]) e consenta una migliore tutela del consumatore[21].
Appropriata si appalesa allora la positiva qualificazione (operata nella rubrica dell’art. 36 del codice del consumo) delle invalidità consumeristiche come “nullità di protezione”, poste cioè a salvaguardia della pars debilior del rapporto contrattuale: la caducazione del contratto nella sua interezza, quale sequenziale portato dell’abusività di una o più clausole, porrebbe il consumatore in una posizione addirittura deteriore rispetto a quella di rimanere astretto al contratto contenente la clausola abusiva, privandolo della possibilità di continuare a fruire del bene o del servizio acquisito convenzionalmente ed esponendolo alle conseguenti restituzioni[22].
Pure sotto altro angolo visuale si disvela il carattere protezionistico delle nullità in parola, ancora una volta reso manifesto dalle parole della Corte di giustizia: l’obbligo del giudice nazionale di disapplicare ex art. 6, paragrafo 1, della direttiva n. 93/13, le clausole abusive non opera “qualora il consumatore, dopo essere stato avvisato da detto giudice, intenda non invocarne la natura abusiva e non vincolante, dando quindi un consenso libero e informato alla clausola in questione”[23].
Emerge in tal modo il ruolo determinante della volontà del consumatore in àmbito processuale:  tanto fonda, per le nullità di protezione, la distinzione, mirabilmente scolpita in basilari arresti delle Sezioni Unite[24], tra la rilevazione (attività del giudice che si sostanzia nella indicazione al consumatore della clausola abusiva quale possibile fonte di nullità) e la dichiarazione (cioè a dire la pronuncia, previo accertamento, della nullità della clausola, ove la parte interessata decida di non avvalersene).
Le sintetiche osservazioni sin qui svolte evidenziano come il timore di una ecatombe dei decreti ingiuntivi emessi nei confronti dei consumatori appaia verosimilmente infondato: come meglio si chiarirà in appresso, nella concreta realtà operativa la vessatorietà delle clausole, laddove riscontrata, non pare in grado di determinare conseguenze così traumatiche.
5 . Il controllo officioso sulle clausole vessatorie: premessa
Può ora procedersi alla pars costruens: calare la regola stabilita dal giudice eurounitario nei concreti meccanismi procedurali interni, in ossequio ad uno dei fondamenti del diritto dell’Unione (che è diritto “di scopi, non di mezzi”), ovvero l’autonomia processuale riconosciuta agli Stati membri.
É doveroso, al riguardo, un avvertimento preliminare.
In mancanza di un (sempre auspicabile) intervento riformatore del legislatore, l’opera esegetica di trasposizione nell’àmbito nazionale dei princìpi enunciati dalla sentenza SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza (senza dubbio distonici rispetto all’assetto sistematico in precedenza definito dal diritto vivente autoctono) richiede, inevitabilmente, di rimodellare istituti e categorie processuali, ripensandone la tradizionale concezione.
É una prospettiva che non deve spaventare, ma che anzi deve essere consapevolmente condivisa: come è stato correttamente osservato, il diritto eurounitario “è la risultante dell’articolazione dei due ordinamenti, è un diritto a più livelli o multilivello”, sicché non si tratta di adeguare il diritto interno a quello unionale ma di applicare un diritto che è l’effetto della loro integrazione, in quanto “il diritto unionale, quando non si manifesta mediante regolamenti, è giuridicamente efficace solo attraverso il diritto interno”[25].
6 . Il controllo officioso in sede monitoria: il paradigma unionale…
In via ordinaria (o, se si preferisce, fisiologica), il controllo sulla vessatorietà delle clausole b2c compete al giudice del monitorio, investito della domanda di accertamento del credito formulata dal professionista nei riguardi di un consumatore.
Nella progressiva evoluzione della giurisprudenza eurounitaria in materia, il potere del giudice adito con il ricorso monitorio di apprezzare l’abusività delle clausole prima di emettere l’ingiunzione di pagamento configura un vero e proprio obbligo, un’attività doverosa poiché imprescindibile per l’effettiva attuazione dello statuto protezionistico del consumatore[26].
Il controllo officioso preventivo concreta, infatti, “l’intervento positivo da parte di soggetti terzi estranei al rapporto processuale”[27]volto al riequilibrio, anche sotto l’aspetto processuale, dell’ontologica asimmetria esistente tra professionista e consumatore, la quale può non essere sufficientemente compensata dalla facoltà per quest’ultimo di dare avvio, con la opposizione a decreto ingiuntivo, ad un giudizio a contraddittorio integro e a cognizione piena ed esauriente[28].
Anche il modo con cui compiere detto controllo è precisamente delineato da numerosi e concordi arresti dei giudici di Lussemburgo.
Ne vien fuori il tratteggio di un “attivismo giudiziale”[29]: nel procedimento d’ingiunzione, il giudice è tenuto ex officio alla verifica sull’abusività delle clausole del contratto litigioso “a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine”[30], potendo comunque disporre misure istruttorie (richiesta di chiarimenti alle parti oppure ordine di produzione di documenti, ivi incluso il contratto b2c[31]) qualora l’esame del fascicolo susciti “seri dubbi quanto al carattere abusivo di talune clausole”[32].
Dell’esercizio di questo potere-dovere di controllo, il giudice è onerato di dare argomentato conto nella motivazione del decreto monitorio: una motivazione adeguata, seppur sommaria, non già figurativa o di mero stile, idonea a certificare l’avvenuto espletamento di una specifica indagine sull’abusività delle clausole e a rendere comprensibili le ragioni della decisione adottata.
Una motivazione di tal fatta diviene il veicolo di trasmissione al consumatore delle “informazioni necessarie per consentirgli di determinare la portata dei suoi diritti” e “le conseguenze della sua eventuale inerzia”[33], aspetti sui quali va compiutamente avvisato, soltanto così rendendosi effettivo il rimedio dell’opposizione avverso il provvedimento monitorio.
Il contenuto del decreto d’ingiunzione ne risulta, per l’effetto, significativamente implementato: il giudice, oltre ad attestare di aver proceduto ad una disamina officiosa delle clausole del contratto fonte della pretesa creditoria ed esporre, almeno sommariamente, le ragioni della ritenuta insussistenza di situazioni di vessatorietà, deve altresì specificamente indicare che “in assenza di opposizione entro il termine stabilito dal diritto nazionale, il consumatore decadrà dalla possibilità di far valere l’eventuale carattere abusivo di siffatte clausole”[34].
6.1 . (segue) … e il difficile coordinamento con il procedimento ingiuntivo nazionale
Se questo è (in sintesi) il paradigma unionale di procedimento d’ingiunzione in materia consumeristica, non peregrine si rivelano le perplessità da più voci manifestate circa la compatibilità con esso delle connotazioni che informano nel diritto interno il rito monitorio.
La genesi del problema risiede, al fondo, nella complessità del sindacato di vessatorietà delle clausole di protezione del consumatore.
Diversamente da quanto possa prima facie apparire, l’accertamento della abusività delle clausole ben difficilmente si esaurisce in una mera emergenza evincibile dal testo del documento contrattuale: per converso, in base ai parametri stabiliti dall’art. 34 del codice del consumo[35], la valutazione sul punto coinvolge il rapporto tra professionista e consumatore nella sua globalità inteso.
Più precisamente, il giudice è tenuto ad un apprezzamento che non riguarda soltanto la “natura del bene o del servizio oggetto del contratto” e nemmeno si fonda unicamente sul canone di interpretazione complessiva delle clausole (cioè una lettura le une per mezzo delle altre), ma si estende al contesto circostanziale nel quale è avvenuta la stipulazione, potendo trarre elementi di giudizio anche da un diverso contratto inter partes dal quale dipenda o al quale sia collegato quello posto a base dell’istanza monitoria.
Si tratta, come ognun vede, di un accertamento che richiede sovente una pregnante ed incisiva indagine sul fatto e che, quindi, esige un’attività in senso proprio istruttoria, oltremodo a fronte di una (abitualmente praticata) sinteticità del ricorso monitorio: d’altro canto, un’indagine sul concreto andamento della vicenda può essere necessaria ai fini dell’attribuzione dello status di consumatore alla parte destinataria della richiesta di condanna[36] (e, dunque, ai fini della riconducibilità del rapporto dedotto in giudizio nell’alveo dei contratti b2c e dell’applicabilità della relativa disciplina) oppure per riscontrare la sussistenza di un elemento da cui discende la qualificazione di vessatorietà della clausola (si pensi alla nozione di domicilio rilevante per determinare il foro del consumatore) oppure ancora per verificare l’eventuale negoziazione individuale sulla clausola, circostanza che ne esclude l’abusività.
Una latitudine cognitiva davvero inusitata per il giudice autoctono chiamato a delibare sulla richiesta monitoria, abituato, per interpretazione da tempo pacificamente ricevuta, alla mera verifica delle condizioni, generali o speciali, di ammissibilità per la concessione dell’ingiunzione.
Non sono mancate, a dire il vero, proposte di un adeguamento in via di esegesi delle regole del procedimento monitorio.
In tale ottica, si è prospettata la configurabilità di un più intenso onere allegativo e asseverativo a carico del professionista ricorrente, concretato da una diffusa illustrazione circa il tenore del contratto fonte del preteso credito e circa la insussistenza di clausole lesive della posizione del consumatore, supportata da idonea documentazione a corredo dell’assunto[37].
Si è poi ricondotto l’esercizio di poteri istruttori ad opera del giudice del monitorio (laddove necessario a supplire il deficit deduttivo della parte istante) ad un - meno parco - utilizzo dello strumento codificato dall’art. 640, primo comma, c.p.c., potendo quest’ultimo, a dispetto del richiamo testuale alla integrazione della prova, servire, oltre che per un completamento documentale, anche per l’assunzione di maggiori delucidazioni sulle circostanze da valutare ai fini del giudizio sulla vessatorietà delle clausole[38].
I (pur validi) suggerimenti non elidono, tuttavia, la più rilevante criticità del procedimento, rappresentata dalla struttura necessariamente unilaterale della fase ingiuntiva in senso stretto, con la conseguente impossibilità di un’interlocuzione con il consumatore destinatario della richiesta di condanna, al fine precipuo di acquisire la sua volontà di avvalersi della clausola riscontrata come abusiva: neppure immaginabile appare l’instaurazione di un bizzarro contraddittorio anticipato[39] con il (supposto) debitore, risultandone altrimenti del tutto snaturata la cognizione “sommaria perché parziale” che identifica la procedura monitoria.
Va però detto come la descritta mancanza di contraddittorio con il consumatore è caratteristica che può rivelarsi del tutto neutra per la decisione sulla richiesta ingiuntiva: ciò si verifica quando i fatti oggetto (o effetto) di una clausola vessatoria integrino una questione rilevabile di ufficio dal giudice del monitorio (si pensi alla deroga al foro del consumatore, motivo di incompetenza territoriale inderogabile dell’A.G. adita) oppure siano valutabili come elementi costitutivi della pretesa azionata (ad esempio, una pattuizione sugli interessi convenzionali di entità manifestamente eccessiva, la cui illegittimità può ben essere rilevata motu proprio dal giudice del monitorio).
Nelle altre ipotesi, invece, lo svolgimento di un segmento procedimentale inaudita altera parte sembra alterare la connotazione di nullità di protezione che contraddistingue le invalidità consumeristiche e che postula la facoltà del consumatore di avvalersi o meno della clausola in abstracto lesiva delle sue prerogative (o di inibirne gli effetti inficianti l’intero contratto). Una strada per superare l’ostacolo - ma con un indiscutibile strappo alla coerenza del sistema - può consistere nel ritenere preminente, per ragioni di interesse pubblico, l’esigenza di sterilizzare la clausola abusiva, consentendone la disapplicazione al giudice del monitorio, senza necessità di attendere che il soggetto protetto manifesti la volontà di annullarla o renderla inoperante.
6.2 . (segue) … L’oggetto del controllo e l’incidenza delle clausole vessatorie sul decreto ingiuntivo
Il discorso sin qui condotto richiede una importante puntualizzazione.
Il controllo officioso sulla vessatorietà delle clausole contrattuali abusive incontra un limite, anch’esso puntualmente enucleato dalla giurisprudenza unionale, nell’oggetto della controversia: “solo le clausole contrattuali che sono connesse all’oggetto della controversia quale definito dalle parti alla luce delle loro conclusioni e dei loro motivi, rientrano nell’obbligo di esame d’ufficio incombente al giudice nazionale adito”[40].
Orbene, com’è noto, l’istanza di tutela formulata in via monitoria concerne, soltanto ed unicamente, un diritto di credito, avente possibili vari oggetti (una somma liquida di danaro, una determinata quantità di cose fungibili o la consegna di una cosa mobile determinata), causalmente nascente da un inadempimento contrattuale della controparte, con esclusione di pretese scaturenti da (o che sottendano l’esercizio di) azioni risarcitorie o costitutive.
Proprio la natura esclusivamente condannatoria della domanda azionata nel procedimento ingiuntivo segna, a nostro avviso, il perimetro delle clausole vessatorie da controllare in via officiosa: esso va circoscritto a quelle pattuizioni che, pur riconducibili alla previsione generale atipica del primo comma dell’art. 33 del codice del consumo oppure ricomprese tra le fattispecie tipizzate nell’elenco stilato dal secondo comma di detta norma, siano rilevanti ai fini dell’emissione del decreto monitorio, possano cioè spiegare una qualche incidenza ostativa al riconoscimento della pretesa creditoria, atteggiandosi in guisa di fatti estintivi, impeditivi o modificativi della stessa. 
Si spiega, esemplificando. A fronte della richiesta di condanna al pagamento di rate non onorate di un finanziamento, il riscontro di una clausola di sicura vessatorietà, quale quella che consente al professionista di sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto oppure di modificare unilateralmente le clausole del contratto (che non abbia però subito cambiamenti) oppure ancora di escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore ascrivibile a fatto del professionista, pur imponendo la disapplicazione, non osta all’accoglimento della domanda monitoria, sempreché ovviamente vi sia la prova del credito.
Scorrendo la black list del menzionato art. 33, riesce allora agevole cogliere la sostanziale ininfluenza nella fase ingiuntiva in senso stretto della maggior parte delle clausole presuntivamente considerate dal legislatore come vessatorie: alcune perché relative a circostanze inconferenti rispetto al denunciato inadempimento del consumatore, altre perché meramente ipotetiche nella loro verificazione, altre infine perché integranti fatti oggetto di eccezione in senso stretto del consumatore.
Alle strette (e con il conforto dei repertori giurisprudenziali), le clausole che vengono più frequentemente in rilievo si riconducono a due tipologie, con differenti effetti: la deroga al foro del consumatore, idonea, poiché determinante la incompetenza territoriale inderogabile del giudice adito, ad impedire in radice l’emissione del decreto ingiuntivo; la previsione di interessi moratori (o di somme per penali o ad altro titolo per inadempimenti o ritardi) d’importo manifestamente eccessivo, clausola che, in ogni caso, non può impedire la delibazione favorevole sulla istanza di condanna (quantomeno) per la somma pari alla sorte capitale, lasciando qui impregiudicata la problematica sostituibilità del saggio convenzionale di interessi con una disposizione nazionale suppletiva[41]. 
La descritta limitata incidenza delle clausole vessatorie sulla possibilità per il professionista di ricevere tutela monitoria ci sembra possa stemperare, su un piano pratico applicativo, le (pur innegabili) aporie sistematiche e di coordinamento tra regole eurounitarie e procedimento monitorio interno e ricondurre ad una dimensione meno allarmante le preoccupazioni, da più voci sollevate[42], sulla sua “vitalità”[43], cioè a dire sulla sua natura di strumento privilegiato di recupero del credito.
D’altro canto, se infatti il prezzo da pagare a causa del maggiore impegno accertativo imposto al giudice in materia consumeristica è un incremento dei tempi di definizione dei procedimenti ingiuntivi (con il rischio di minarne la tradizionale agilità e speditezza), il beneficio che si ritrae da un controllo sulla vessatorietà delle clausole effettuato e motivato in sede monitoria è, senza dubbio, una più sicura stabilità del provvedimento d’ingiunzione, sussumibile, se si vuole, in una accezione unionale di giudicato[44], a tutto interesse del creditore, reso immune da possibili doglianze di matrice consumeristica nella fase di successiva esecuzione coattiva del provvedimento.
7 . Il controllo officioso in sede esecutiva
Nel pensiero dei giudici di Lussemburgo, il potere (rectius, il dovere) del giudice dell’esecuzione di valutare il carattere abusivo delle clausole del contratto posto a base del decreto ingiuntivo non opposto presuppone che in quel decreto sia assente “qualsiasi motivazione”[45] che estrinsechi l’avvenuto controllo sulla vessatorietà delle clausole ad opera del giudice del monitorio.
Il sindacato sulle clausole abusive in fase esecutiva rappresenta dunque un’evenienza patologica: esso è praticabile (ed anzi imposto da esigenze di tutela giurisdizionale effettiva del consumatore), soltanto quando sia mancato il (doveroso) controllo in sede monitoria oppure quando detto controllo, pur eseguito, sia rimasto in foro conscientiae, cioè a dire non sia stato esplicitato nel provvedimento e di quest’ultimo sia decorso il termine per l’impugnazione ordinaria. 
Le ragioni che giustificare questo complesso meccanismo si leggono in una delle sentenze gemelle del 17 maggio 2022, Ibercaja Banco: dal momento che la decisione con cui il tribunale ha disposto l’avvio del procedimento di esecuzione ipotecaria non conteneva alcun punto della motivazione che desse atto dell’esistenza di un controllo del carattere abusivo delle clausole del titolo all’origine di tale procedimento, il consumatore non è stato informato dell’esistenza di siffatto controllo, né, almeno sommariamente, della motivazione in base alla quale il tribunale ha ritenuto che le clausole in discussione non avessero carattere abusivo. Pertanto, egli non ha potuto valutare con piena cognizione di causa se occorresse proporre ricorso avverso suddetta decisione”.
E’ il deficit informativo del consumatore sulle proprie facoltà difensive che legittima l’ingresso nella procedura esecutiva del controllo di vessatorietà in relazione ad un titolo formalmente definitivo: ove invece il decreto ingiuntivo rechi una motivazione, pur sommaria, sul riscontro compiuto in ordine alle clausole vessatorie, ogni questione su queste ultime (concernente la correttezza della valutazione del giudice o anche la mera sufficienza della motivazione spesa al riguardo) costituisce materia di impugnazione del provvedimento, restando così precluso ogni intervento del giudice dell’esecuzione.
Del pari, l’apprezzamento in sede esecutiva sull’abusività delle clausole è messo fuori gioco dalla esperibilità di una azione a cognizione ordinaria (purché effettiva) avente, quale possibile oggetto, l’accertamento di vessatorietà inficiante il contratto posto a base del titolo coattivamente azionato.
Chiaro, in tal senso, il tenore di un’altra delle sentenze gemelle del 17 maggio 2022, Impuls Leasing România IFN, con cui la Corte di giustizia ha reputato conforme alla direttiva n. 93/13 un sistema processuale nel quale non è consentito al giudice dell’esecuzione, adito con opposizione all’esecuzione, di valutare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole di un contratto b2c, a motivo del fatto che tale controllo può essere effettuato nell’ambito di un ricorso di diritto comune dal giudice di merito munito del potere di sospendere il procedimento di esecuzione sino alla pronuncia sul merito[46].
Ricomponendo in quadro d’insieme le affermazioni che precedono, il ricorso al giudice dell’esecuzione per la verifica sull’abusività delle clausole sembra in definitiva configurarsi come un’extrema ratio, come l’ultima strada rimasta percorribile dal consumatore per ottenere un controllo giudiziale sulle pattuizioni contrattuali, non già sottoposte a scrutinio (e non più sottoponibili, a cagione del decorso dei termini per esperire i rimedi impugnatori ordinari) in altro giudizio di cognizione.
Resta invece da chiarire se, versandosi in tema di nullità di protezione, al giudice dell’esecuzione competa soltanto la rilevazione dell’abusività della clausola (additando questa al consumatore come possibile motivo di nullità) oppure sia altresì consentita una pronuncia declaratoria di tale nullità.
Indizi nell’uno o nell’altro senso non si scorgono nella pronuncia SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza: in essa, la Corte di giustizia, nel descrivere il vaglio del giudice dell’esecuzione sul carattere abusivo delle clausole, adopera locuzioni generiche ed anodine (“valutare” e “controllare”), astrattamente riferibili ad ambedue le attività menzionate, a fronte del più incalzante e dettagliato quesito sollevato dalla ordinanza di rimessione (della causa C-839/19), nella quale si richiedeva di pronunciarsi sul potere del giudice dell’esecuzione di “superare gli effetti del giudicato implicito in caso di manifestazione di volontà del consumatore di volersi avvalere della clausola abusiva”, così suggestivamente evocando la possibilità della dichiarazione di nullità della clausola in sede esecutiva[47].
Afferendo ad un momento patologico della vicenda, la risposta all’interrogativo posto impone di sciogliere il nodo sugli strumenti a disposizione del consumatore per porre riparo alla mancata effettuazione del controllo preventivo sulla vessatorietà delle clausole nella fisiologica sedes del procedimento monitorio e per ottenere un controllo giudiziale siffatto, ancorché ex post e successivo, con le derivanti implicazioni (non sempre caducatorie, come sopra si è precisato) sul decreto ingiuntivo già emesso in suo danno.
8 . I rimedi di tutela del consumatore: la prospettiva d’indagine
L’individuazione di quale giudice adire e di quale strumento servirsi per reagire al decreto ingiuntivo non opposto violativo dello statuto consumeristico è compito impervio, per la eccentricità delle affermazioni del Kirchberg rispetto a schemi concettuali tradizionali e consolidati: ciò spiega perché ciascuna delle varie soluzioni prospettate dagli interpreti sconti un inevitabile margine di opinabilità e presti il fianco ad obiezioni di varia natura, dogmatica o pratico-applicativa.
Si tratta - è qui la ragione ultima delle difficoltà - di costruire in via esegetica il “diritto terzo”[48], il diritto della integrazione tra ordinamento interno ed ordinamento unionale, realizzando la sinergica operatività tra gli scopi (stabiliti dal diritto unionale) e i mezzi (riservati al diritto interno).
L’angolatura prospettica dell’interprete deve perciò mutare: non una disamina degli istituti processuali autoctoni visti come entità cristallizzate ed immutabili nelle scansioni per loro disegnate dalla legislazione nazionale, ma una funzionalizzazione degli stessi all’obiettivo di risultato richiesto dal diritto unionale, ovvero, nella specie, l’effettività della tutela del consumatore[49].
In questo percorso di ricerca, la direzione non può che essere tracciata dai canoni euronitari di equivalenza ed effettività che regolano l’autonomia processuale degli Stati membri: le forme di azione assicurate ai consumatori dall’ordinamento nazionale non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e non devono essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività).
Seguendo questi criteri, lo strumento di attivazione del controllo successivo sulle clausole vessatorie del contratto deve assicurare al consumatore la piena soddisfazione della situazione giuridica sostanziale[50]: far conseguire cioè utilità identiche (o equipollenti) a quelle ottenibili con l’esperimento dei mezzi di reazione ordinaria avverso il decreto ingiuntivo ed attraverso iter processuali tendenzialmente non dissimili o, comunque, non maggiormente ed insostenibilmente gravosi.
Per chiarire: quante volte il riscontro di una clausola abusiva assuma valenza inficiante (oppure incida sul contenuto precettivo) del decreto ingiuntivo emesso in base al relativo contratto, il rimedio di tutela successivo accordato al consumatore deve essere idoneo a cagionare la caducazione di tale decreto (o del contenuto precettivo viziato) con eliminazione ex tunc di ogni effetto di esso[51]. 
D’altro canto, l’effettività della tutela giurisdizionale del consumatore non può prescindere dall’osservanza del rule of law, cioè delle basilari garanzie del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e del giusto processo (art. 111 Cost.): tanto impone di prediligere opzioni che assicurino (o che meglio consentano) un contraddittorio effettivo tra le parti, un’esplicazione delle facoltà difensive delle parti nella massima estensione possibile, una durata ragionevole del processo, al contempo evitando, in ossequio al principio della c.d. economicità dei mezzi, la proliferazione o la sovrapposizione di controversie.
Così poste le coordinate di riferimento, si possono ora passare in rassegna i vari rimedi di tutela suggeriti dalla dottrina, scrutinati, secondo una distinzione a grandi linee, in base alla loro collocazione nell’àmbito delle procedure di esecuzione forzata del decreto ingiuntivo o nell’àmbito di autonomi (nemmeno funzionalmente collegati all’esecuzione) giudizi di cognizione ordinaria.
9 . I rimedi in àmbito esecutivo: profili comuni
In ambiente esecutivo, sono stati immaginati due possibili veicoli per il controllo successivo sull’abusività delle clausole: lo svolgimento di un incidente di cognizione innanzi al giudice dell’esecuzione (di impulso officioso o su istanza ex art. 486 c.p.c. del consumatore esecutato); la proposizione di una opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., deferita, nella fase sommaria ed a fini cautelari, al giudice dell’esecuzione[52].
Entrambi i rimedi non possono reputarsi, a nostro avviso, effettivi ed equivalenti: per una serie di ragioni, alcune comuni ed altre singolarmente riferibili, tutte, al fondo, rivelatrici dell’inidoneità al raggiungimento dell’obiettivo di risultato prefissato dal diritto unionale, la effettività dello statuto protezionistico del consumatore.
Riconoscere tutela (soltanto) all’interno della procedura esecutiva vuol dire, in primo luogo, costringere il consumatore a subire l’azione esecutiva (e patire così un - in thesi ingiusto - asservimento di beni del proprio patrimonio al vincolo del pignoramento per un non irrilevante periodo di tempo) prima di poter far valere la vessatorietà delle clausole e l’invalidità del titolo speso nei suoi confronti, di cui egli, benché non debitamente informato, si fosse avveduto.
Né, a tal fine, un efficace correttivo può rinvenirsi nella possibilità di promuovere opposizione preventiva all’esecuzione ai sensi dell’art. 615, primo comma, c.p.c., cioè a dire dopo la sola intimazione del precetto[53]: come l’esperienza pratica dimostra, lo svolgimento della controversia secondo il rito ordinario di cognizione rende assai difficile che il giudice in tale sede adito riesca a pronunciarsi sulla istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo prima che il creditore, nel breve termine dilatorio previsto dall’art. 482 c.p.c. (dieci giorni dalla notifica del precetto), esegua il pignoramento.
L’inadeguatezza della tutela circoscritta al momento esecutivo si palesa ancor di più ove si consideri che il decreto ingiuntivo non opposto ha potenzialità pregiudizievoli della situazione del consumatore proprie ed autonome, che prescindono cioè da un’eventuale iniziativa esecutiva del professionista creditore: a tacer d’altro, detto decreto è titolo per iscrivere ipoteca sui beni dell’ingiunto.
Perplessità di non minor rilievo investono la compatibilità dei rimedi in ambiente esecutivo con i princìpi del giusto processo.
É noto come in forza di un unico titolo il creditore possa legittimamente (sino a quando la sua pretesa non sia integralmente soddisfatta) promuovere, nel medesimo contesto temporale o in maniera diacronica, plurime espropriazioni forzate, anche su beni diversi[54]. Nella descritta eventualità, la tutela del consumatore con i mezzi endoesecutivi diviene eccessivamente gravosa ed impegnativa, senza che sia assicurata un’adeguata salvaguardia della sua posizione: il consumatore è onerato di reagire con tante iniziative giudiziarie per quante sono le esecuzioni promosse dal creditore, con il concreto rischio (non sventabile con meccanismi di coordinamento tra i vari procedimenti, specie se di diversa tipologia) di decisioni contrastanti da parte dei singoli giudici investiti delle distinte procedure, dagli effetti potenzialmente irreversibili per il patrimonio dell’esecutato[55].
9.1 . (segue) L’incidente di accertamento innanzi il giudice dell’esecuzione
Specifici rilievi possono appuntarsi poi all’idea che conferisce al giudice dell’esecuzione il potere di rilevare la vessatorietà della clausola del contratto sotteso al titolo azionato nonché, previa manifestazione di volontà del consumatore esecutato[56], dichiararne la nullità e pronunciare ordinanza, opponibile agli atti esecutivi, di “improcedibilità dell’esecuzione forzata per mancanza di un titolo esecutivo idoneo a legittimare l’azione”[57].
Ad una prima, superficiale, impressione, la soluzione sembra essere quella evocata dalla Corte di giustizia nella pronuncia SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza: si tratta, a ben vedere, di una fallace suggestione, dacché, come già sopra sottolineato[58], la sentenza, limitandosi all’affermazione di un (non meglio precisato) dovere di valutazione del giudice dell’esecuzione, non ha dato seguito all’impostazione articolata nel quesito del remittente, specificamente diretto a riconoscere al giudice dell’esecuzione il compito-obbligo di dichiarazione delle nullità consumeristiche.
Sgombrato il campo da tale possibile equivoco, sono le caratteristiche strutturali tipiche degli incidenti di cognizione endoesecutivi ad ingenerare forti dubbi sulla idoneità allo scopo di garantire tutela effettiva al consumatore.
Poste a confronto con le regole auree del giusto processo, le modalità di svolgimento di siffatto incidente di accertamento mostrano palmari difformità, significativamente rilevanti, in punto di effettività ed equivalenza della tutela, sotto (almeno) tre aspetti.
In primis, il contraddittorio tra le parti si realizza in forme semplificate (o attenuate, secondo una invalsa qualificazione), siccome rispondente non all’esigenza di una contrapposizione dialettica sull’oggetto della azione esecutiva ma al più limitato scopo di permettere al giudice dell’esecuzione il miglior esercizio della potestà ordinatoria lui deferita.
In secondo luogo, le facoltà difensive delle parti (qui rilevando soprattutto, quelle del consumatore abbisognevole di tutela) sono indubitabilmente compresse: l’attività assertiva non si dispiega (come invece accade nei giudizi a cognizione piena) secondo scansioni temporali e con modalità predeterminate dalla legge, ma si modella secondo le scelte ampiamente discrezionali del giudice dell’esecuzione; lo strumentario asseverativo utilizzabile è inoltre ridotto, trovando (pressoché) esclusiva estrinsecazione in prove di natura documentale.
Infine, non sono espressamente conferiti poteri istruttori officiosi al giudice dell’esecuzione, assimilabili a quello stabilito dall’art. 640 c.p.c. per il procedimento monitorio: e, pure a voler riconoscerne l’esistenza quale portato del generale potere di direzione del processo esecutivo, sono comunque prive di disciplina positiva le conseguenze del loro esercizio, come, ad esempio, la inosservanza da parte del creditore di un ordine a lui impartito di produzione del contratto.
Quanto all’estensione dei poteri lato sensu cognitivi del giudice dell’esecuzione, indiscutibilmente eccentrica rispetto a concezioni assunte da decenni come pietre angolari del processo esecutivo è la previsione di un sindacato officioso esteso ad un vizio intrinseco di un titolo di formazione giudiziale ed orientato, a cagione di ciò, alla negazione della tutela in forza di quel titolo invocata dal procedente, negazione assoluta (con ordinanza di chiusura anticipata della procedura, in caso di clausola abusiva che infirmi il decreto ingiuntivo nella sua interezza) oppure solo parziale, con riduzione dell’entità del credito meritevole di soddisfazione (in ipotesi di clausola incidente unicamente su parte del contenuto precettivo del decreto monitorio).
Ma, senza indulgere a considerazioni (che potrebbero essere tacciate di passatismo) sulla necessità di preservare il tradizionale discrimen tra cognizione ed esecuzione, l’aspetto dirimente, che rende manifesto il vizio di effettività della soluzione de qua, è un altro: esso consiste nella efficacia soltanto endoprocedimentale della statuizione che si ritiene adottabile dal giudice dell’esecuzione, sia essa la chiusura anticipata e atipica del procedimento sia essa un’assegnazione per somme inferiori a quelle formalmente risultanti dal titolo.
Ritenere infatti che l’accertamento di abusività delle clausole vessatorie compiuto dal giudice dell’esecuzione concerna la singola e specifica procedura, sia privo di incidenze caducatorie sul decreto ingiuntivo (nonché, a fortiori, sugli ulteriori effetti di esso, quale, ad esempio, la iscrizione di un’ipoteca) ed altresì inidoneo al giudicato[59] significa lasciare il consumatore esposto ad ulteriori aggressioni del proprio patrimonio sulla base del medesimo provvedimento monitorio (e, quindi, a potenziali valutazioni differenti sulla vessatorietà delle clausole), senza poter far valere, con valenza vincolante, la precedente decisione a lui favorevole: con buona pace non solo della effettività della tutela, ma anche della certezza del diritto e dell’economia dei mezzi processuali.
In relazione al principio di equivalenza, non si può ignorare che nell’impostazione in esame il consumatore-esecutato, costretto in prima battuta ad una minorata difesa, subisce la perdita di un grado di giudizio di merito rispetto agli ordinari strumenti di reazione avverso il decreto ingiuntivo.
Equivalenza ed effettività della tutela del consumatore impongono dunque di contenere il potere di controllo del giudice dell’esecuzione, genericamente tratteggiato nella sentenza SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza, alla mera attività di rilevazione della sospetta vessatorietà delle clausole del contratto sotteso al decreto ingiuntivo azionato.
Siffatto rilievo officioso va compiuto (motu proprio o su sollecitazione, anche non formale, del debitore) sulla scorta del compendio asseverativo acquisito al fascicolo dell’esecuzione per effetto delle produzioni delle parti, non potendosi ipotizzare cogenti poteri istruttori del giudice dell’esecuzione: e proprio quest’ultimo aspetto esclude che egli possa svolgere, in modo pieno e completo, l’accertamento sulla vessatorietà delle clausole, la cui complessità, sopra illustrata[60], richiede una (in sede esecutiva non efficacemente praticabile) penetrante indagine sul concreto andamento della vicenda contrattuale intercorsa tra il professionista ed il consumatore.
È preferibile ritenere che il compito del giudice dell’esecuzione si esaurisca nell’additare a sospetta abusività una o più clausole contrattuali e nell’indicare al consumatore il rimedio di tutela da esperire per l’accertamento di essa: il controllo giudiziale in àmbito esecutivo viene, in definitiva, ad assolvere la funzione di colmare il deficit informativo del consumatore in ordine alle proprie facoltà difensive provocato dal difetto di motivazione del decreto ingiuntivo e di sollecitare lo stesso consumatore ad avvalersi della prospettata abusività delle clausole.
9.2 . (segue) L’opposizione all’esecuzione
Rimedio effettivo ed adeguato non è l’opposizione all’esecuzione.
Alle criticità sopra riscontrate con riferimento ai rimedi interni (o comunque collegati) alle procedure esecutive, si aggiungono difficoltà operative, precipuamente legate al limite temporale per la formulazione della opposizione in discorso.
L’esigenza di effettività della tutela del consumatore non può arrestarsi per un evento del processo esecutivo, quale l’emissione del provvedimento che dispone la vendita (o l’assegnazione) delle res staggite, che non sottende o postula il controllo di vessatorietà delle clausole: tanto importa l’abrogazione di fatto, per il caso in esame, del termine decadenziale sancito dall’art. 615, secondo comma, del codice di rito[61].
In ordine a siffatto (fondamentale) aspetto, si apre così un vuoto di disciplina, non suscettibile di essere colmato (afferendo, appunto, alla previsione di una decadenza) con i consueti meccanismi di eterointegrazione normativa, ovvero l’interpretazione estensiva o l’applicazione analogica.
Certo, valorizzando indicazioni provenienti dai giudici di Lussemburgo, si potrebbe ancorare il limite per il dispiegamento della opposizione ex art. 615 c.p.c. al momento ultimo per il controllo officioso sull’abusività delle clausole, individuato dalla Corte di giustizia (nella sentenza gemella del 17 maggio 2022, Ibercaja Banco) nella vendita del bene pignorato[62].
A ben vedere, però, l’esposta soluzione rischia di far precipitare la procedura esecutiva in un insolubile cul de sac: compiuta la rilevazione ex officio della sospetta abusività delle clausole, il giudice dell’esecuzione non potrebbe fissare al consumatore esecutato un termine (che sarebbe di pura creazione) per esperire il sollecitato rimedio della opposizione all’esecuzione né, d’altro canto, mantenere il procedimento espropriativo in un indefinito stallo in attesa delle (soltanto eventuali) iniziative della parte debitrice.
Sotto altro profilo, la sentenza che definisce l’opposizione all’esecuzione - a tacer della opinabile riconducibilità della valutazione sulla vessatorietà delle clausole nell’oggetto di tale giudizio[63]- può rivelarsi non sufficiente per il pieno ripristino della situazione giuridica lesa del consumatore: ove fosse stata iscritta ipoteca in base al decreto ingiuntivo azionato, la cancellazione di essa disposta dal giudice dell’opposizione ex art. 615 c.p.c. configurerebbe una statuizione verosimilmente praeter legem.
Ulteriori perplessità concernono l’osservanza del principio di equivalenza: l’opposizione all’esecuzione può attribuire al consumatore esecutato una tutela financo eccessiva, ultronea cioè rispetta a quelle conseguibile con l’ordinario strumento di impugnazione del decreto ingiuntivo, ad ingiusto detrimento della posizione del creditore professionista.
Si ponga mente, per comprendere quanto detto, alla pattuizione cui si riconosce sicura portata inficiante il decreto ingiuntivo: la clausola di deroga al foro del consumatore. Orbene, in caso di esecuzione promossa in base ad un decreto ingiuntivo reso da giudice incompetente (siccome adito in conformità ad una vietata clausola di deroga al foro del consumatore), l’esito di una opposizione ex art. 615 c.p.c. (avente, come è noto, natura solo demolitoria) sarebbe unicamente la caducazione del provvedimento monitorio: in tal guisa, però, il consumatore esecutato spunterebbe un risultato maggiore rispetto a quello ottenibile con la proposizione della ordinaria opposizione ex art. 645 c.p.c. poiché, in quest’ultimo caso, alla declaratoria di nullità del decreto ingiuntivo seguirebbe, per effetto della translatio iudicii, la prosecuzione del processo innanzi il giudice competente per l’accertamento dell’esistenza o meno del diritto di credito del professionista[64].
10 . I rimedi nell’ambito dei giudizi a cognizione ordinaria: l’actio nullitatis
Va ora esplorato il campo delle azioni di cognizione ordinaria, onde rinvenire lo strumento migliore per l’eliminazione dal mondo giuridico del decreto ingiuntivo in thesi viziato.
Esclusa la praticabilità della impugnazione per revocazione di cui all’art. 656 c.p.c. (per la palese inconferenza delle fattispecie, tassative, ivi contemplate rispetto al nostro caso), due sono le alternative che si contendono la scena: l’actio nullitatis e la opposizione a decreto ingiuntivo, ordinaria ex art. 645 c.p.c. (previa rimessione in termini) oppure tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c.
Secondo la prima impostazione, fatta propria dal Procuratore Generale presso la Corte di cassazione nel processo al vaglio delle Sezioni Unite[65], il consumatore può, in ogni tempo (quindi, senza attendere la notifica del precetto o del pignoramento), promuovere, innanzi il giudice competente per territorio, materia e valore (determinato cioè in base al foro del consumatore), una ordinaria azione di accertamento negativo, avente ad oggetto “la caducità” del decreto ingiuntivo, “in quanto reso senza avere esaminato la questione sulla quale la Corte di giustizia esige un effettivo vaglio giurisdizionale nel contraddittorio delle parti, cioè il carattere abusivo o meno delle clausole in danno del consumatore”[66]; in tale controversia, il giudice può disporre la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo giudiziale in via cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c., con efficacia ex art. 623 c.p.c. sul processo esecutivo eventualmente pendente.
Se la proposta ha l’indubbio pregio di rimettere l’accertamento sulla validità del titolo esecutivo ad un giudice della cognizione (ancorché, non necessariamente, che ha pronunciato il decreto ingiuntivo[67]), essa desta perplessità, dal punto di vista della coerenza sistematica ed in ordine alle ricadute pratiche della sua attuazione.
Quanto al primo corno, va rammentato che l’actio (altrimenti chiamata querela) nullitatis rappresenta uno strumento, del tutto residuale, deputato a far valere la c.d. inesistenza giuridica o la nullità radicale di un provvedimento decisorio: situazioni abitualmente ravvisate (al di là della ipotesi del difetto di sottoscrizione, tipizzata dall’art. 161, secondo comma, c.p.c.) quando il provvedimento sia stato erroneamente emesso dal giudice carente di potere oppure vada qualificato come abnorme, in quanto privo dei requisiti essenziali per la sua riconoscibilità come atto processuale di quel tipo[68], ma escluse ogni qualvolta si adducano vizi attinenti al contenuto ed al merito del provvedimento. 
Ciò posto, emerge ictu oculi come una patologia del genere ben difficilmente possa costituire l’effetto ascrivibile alla presenza di clausole abusive in un contratto b2c, pur nelle (limitate) ipotesi in cui essa sia idonea ad infirmare il decreto ingiuntivo nella sua integralità o, a fortiori, soltanto l’entità della statuizione condannatoria in esso contenuta[69]. 
Circa il secondo aspetto, qualora il rilievo di abusività delle clausole sia svolto dal giudice di un’esecuzione già intrapresa con formulazione dell’interpello al consumatore, la procedura esecutiva rimane esposta al pericolo di una stagnazione sine die, stante l’assenza di un termine finale per la proposizione dell’actio nullitatis, accentuandosi in tal modo le difficoltà operative già segnalate in relazione all’opposizione all’esecuzione.
10.1 . (segue) L’opposizione a decreto ingiuntivo
Preferibile risulta, in conclusione, la strada della opposizione a decreto ingiuntivo, in una delle possibili declinazioni: ordinaria, previa rimessione in termini ai sensi dell’art. 153 c.p.c., oppure tardiva, per il tramite di un adeguamento ad hoc dell’istituto di cui all’art. 650 c.p.c.[70]. 
L’opposizione a decreto ingiuntivo ripristina il corso ordinario del procedimento monitorio nella sua articolazione bifasica: il giudice adito è il giudice naturale, competente funzionalmente a valutare la validità del decreto ingiuntivo; quel giudice, che ha emesso il provvedimento monitorio, effettua il controllo sulla vessatorietà delle clausole che ha omesso di compiere (oppure che ha compiuto ma non motivato) quando doveva, nella fase monitoria in senso stretto.
L’effettività della tutela per il consumatore è indiscutibile: questi può promuovere sua sponte il giudizio, senza essere costretto ad attendere iniziative della controparte; in pendenza di lite, l’esecutorietà del decreto può essere sospesa, con ordinanza ex art. 649 c.p.c. (cui fa relatio l’art. 650, secondo comma, c.p.c.), con l’effetto di sterilizzare tutte le possibili azioni esecutive del professionista creditore; l’accoglimento dell’opposizione comporta la rimozione dal mondo giuridico del decreto, privato di ogni efficacia, e può essere ordinata anche la cancellazione delle ipoteche.
Alcune precisazioni richiedono due aspetti di concreta disciplina dell’opposizione de qua: il presupposto per l’accesso al rimedio ed il termine finale di proposizione.
Ancora una volta, è dirimente, al riguardo, il corretto significato da attribuire, secondo il ragionamento della Corte di giustizia, al controllo sulla vessatorietà delle clausole in fase esecutiva: come si è innanzi puntualizzato[71], la rilevazione ad opera del giudice dell’esecuzione supplisce all’omesso controllo del giudice del procedimento ingiuntivo e al mancato monito sulla irretrattabilità del decreto, mette cioè in condizione il consumatore, finalmente reso edotto circa le proprie facoltà difensive, di determinarsi consapevolmente in ordine alla prospettata violazione del suo statuto protezionistico.
In correlazione a ciò, il mancato controllo in fase monitoria, e soprattutto il mancato avvertimento in decreto circa le decadenze in punto di contestazione del carattere abusivo delle clausole contrattuali, sembra possa atteggiarsi alla stregua di causa non imputabile o - con un allargamento in via interpretativa della nozione contemplata dall’art. 650 c.p.c.[72] - di causa di forza maggiore, ovvero di circostanza impediente (ma solo e soltanto in ordine alla deduzione della vessatorietà delle clausole) la proposizione dell’opposizione a decreto ingiuntivo nel termine stabilito dall’art. 645 c.p.c..
E tanto giustifica, in conformità al dettato dell’art. 153 c.p.c., il godimento del beneficio della rimessione in termini[73] e la possibilità di incardinare l’opposizione di cui all’art. 645 c.p.c., ponendo, quale limite preclusivo temporale ultimo, il termine di quaranta giorni a far data dalla comunicazione al consumatore del rilievo del giudice dell’esecuzione sulla sospetta vessatorietà delle clausole.
Nella diversa prospettiva dell’opposizione tardiva (maggiormente consentanea al carattere extra ordinem del rimedio, siccome consentito per motivi limitati e rivolto avverso un decreto ingiuntivo non opposto), l’individuazione del limite temporale ultimo di esperibilità richiede un adattamento interpretativo del disposto dell’ultimo comma dell’art. 650 c.p.c., occorrendo interpolare l’evento cui ancorare la decorrenza: il dies a quo del termine di dieci giorni va ravvisato, per le ragioni sopra illustrate, nella data di comunicazione al consumatore del rilievo del giudice dell’esecuzione sulla sospetta vessatorietà delle clausole.
A quale delle due opzioni si intenda accedere, risultano scongiurati pericoli di impasse della procedura di espropriazione: in caso di rilievo officioso di vessatorietà delle clausole, è sufficiente per il giudice dell’esecuzione disporre il differimento delle operazioni per un (modesto) lasso temporale, bastevole a consentire il dispiegamento dell’opposizione al decreto ingiuntivo, riservando alla successiva udienza, a seconda degli sviluppi, l’adozione dei conseguenti provvedimenti[74].
Resta infine fermo che il thema decidendum del giudizio di opposizione così instaurato non può che essere necessariamente circoscritto alla sola delibazione sulla abusività delle clausole del contratto, il cui mancato controllo rappresenta presupposto e ragione dell’esperibilità del rimedio.
11 . Postilla conclusiva
L’appartenenza dell’Italia all’Unione europea impone ai nostri giuristi, nelle materie di interesse comune, un profondo mutamento nell’attività interpretativa di norme, non più improntata al proprio particulare ma orientata ed ispirata ad una dimensione sovranazionale.
Occorre, come si è già rilevato, costruire in via ermeneutica il “diritto terzo”, il diritto della integrazione tra ordinamento interno ed ordinamento unionale, ponendo in sinergica correlazione gli scopi (stabiliti dal diritto unionale) e i mezzi (riservati al diritto interno).
Si tratta di una mission per nulla agevole.
Il diritto unionale è, prevalentemente, di matrice giurisprudenziale, si forma attraverso una sorta di case method, tramite le risposte offerte dalla Corte di giustizia sui rinvii pregiudiziali provenienti dai vari Paesi: una modalità che costringe l’interprete ad una attività di astrazione dei princìpi giuridici dalla vicenda concreta esaminata dalla Corte, di coordinamento e reductio ad unum delle affermazioni contenute in differenti pronunce e relative alle specifiche legislazioni nazionali, di ricostruzione sistematica della disciplina valevole per l’intera comunità eurounitaria.
Un’opera complessa, priva di saldi punti di ancoraggio, oltremodo in ragione della (fisiologica) mutevolezza degli orientamenti giurisprudenziali, dagli esiti fatalmente opinabili, a tutto scapito della certezza del diritto e della effettività della tutela delle situazioni sostanziali coinvolte: il caso esaminato in questo scritto ne rappresenta manifesto eloquente.
Nella descritta congerie, riconoscere eguali diritti al consumatore italiano, spagnolo, romeno, a fronte di significative disomogeneità degli strumenti di tutela (attraverso i quali quei diritti vivono) previsti dai singoli ordinamenti nazionali rischia di diventare vacua declamazione di intenti.
La necessità di vanificare tale rischio induce il Kirchberg a sempre più penetranti apprezzamenti sulle regole processuali interne, condotti sotto l’usbergo dei princìpi di effettività ed equivalenza: l’autonomia processuale dei singoli Stati, pur solennemente proclamata, ne risulta di fatto incrinata (e non poco) per far posto ad una disciplina creata di volta in volta (e non senza margini di discrezionalità) dalla Corte di giustizia.
È forse giunta l’ora di pensare, quantomeno per le situazioni sostanziali maggiormente sensibili, ad una codificazione del diritto processuale europeo[75].

Note:

[1] 
Resa nelle cause riunite C-693/19 e C-831/19, SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza, su rinvii pregiudiziali del Tribunale di Milano, e pubblicata coevamente ad altre tre pronunce interpretative, anch’esse pronunciate nell’autorevole composizione della Grande Sezione, a definizione di procedimenti pregiudiziali promossi da giudici della Spagna e della Romania concernenti, sotto diversi aspetti natura, finalità e portata del potere di controllo giudiziale sui contratti tra professionista e consumatore. Si tratta, in dettaglio, delle sentenze: Corte giust. 17 maggio 2022, causa C-600/19, Ibercaja Banco (all’esito di rinvio dal Tribunale di Saragozza); Corte giust. 17 maggio 2022, causa C-725/19, Impuls Leasing România IFN (su questione pregiudiziale proveniente dal Tribunale ordinario di Bucarest); Corte giust. 17 maggio 2022, causa C-869/19, Unicaja Banco (su quesito sollevato dalla Corte suprema di Spagna). Ad esse si farà cenno nel corso della trattazione.
[2] 
Senza pretesa di completezza, si citano: Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto e protezione del consumatore: la certezza arretra di fronte all’effettività, in Giur. it., 2022, 2117 ss.; Crivelli, Appunti sulla requisitoria del P.G. presso la Corte di Cassazione in ordine ai poteri del g.e. rispetto alle clausole abusive nei contratti con i consumatori, in Riv. esec. forz., 2022, 707 e ss.; D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto emesso nei confronti del consumatore dopo Corte di giustizia, grande sezione, 17 maggio 202 (cause riunite C-693/19 e C-831/19, causa C-725/19, causa C-600/19 e causa C-869/19): in attesa della Sezioni Unite, in www.judicium.it; De Stefano, La Corte di Giustizia sceglie tra tutela del consumatore e certezza del diritto. Riflessione sulle sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Camera della CGUE, in www.giustiziainsieme.it; dello stesso A., Le sentenze di Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia dell’U.E., ibidem; Febbi, La Corte di Giustizia Europea crea scompiglio: il superamento del giudicato implicito nel provvedimento monitorio, in www.judicium.it; Fiengo, Il decreto ingiuntivo non opposto privo di motivazione emesso nei confronti del consumatore: alla ricerca del rimedio effettivo, in Questione giustizia, 20.02.2023; Marchetti, Note a margine di Corte di Giustizia UE, 17 maggio 2022, (cause riunite C-693/19 e C-831/19), ovvero quel che resta del brocardo “res iudicata pro veritate habetur” nel caso di ingiunzioni a consumatore non opposte, in www.judicium.it; Parisi, Brevi note sui rapporti tra “esecuzione” e “accertamento” alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, in Riv. esec. forz., 2022, 686 e ss.; Rasia, Giudicato, tutela del consumatore, ruolo del giudice in sede monitoria ed esecutiva, in corso di pubblicazione su Riv. trim. dir. proc. civ., 2023, letto per gentile concessione dell’A.;Scoditti, Quando il diritto sta nel mezzo di due ordinamenti: il caso del decreto ingiuntivo non opposto e in violazione del diritto dell’Unione europea, in Questione giustizia, 17.1.2023; Soldi – Capponi, Consumatore e decreto ingiuntivo: le soluzioni ermeneutiche percorribili per l’integrazione tra diritto eurounitario e diritto interno, in www.judicium.it; Spaziani, Ampliamento della giurisdizione oggettiva e nuovi limiti del giudicato dopo la sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19), in Questione giustizia, 23.12.2022; Stella, Il procedimento monitorio nella curvatura delle nullità di protezione consumeristica, in Giur. it., 2022, 2126 ss.; Troncone, Decreto ingiuntivo non opposto: la Corte UE amplia il sindacato del giudice dell’esecuzione, in www.altalex.it.. Per dare conto del fervore del dibattito anche prima (ed in attesa) della pronuncia della Grand Chambre, si vedano i contributi raccolti nello speciale Consumatore e procedimento monitorio nel prisma del diritto europeo, a cura di Caporusso e D’Alessandro, in Giur. it., 2022, 485 e ss..
[3] 
Più precisamente, la Suprema Corte è chiamata ad enunciare principio di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363, terzo comma, c.p.c., su richiesta del Procuratore Generale (per essere il processo per cassazione destinato all’estinzione in conseguenza della rinuncia formulata da parte ricorrente) su un’opposizione esecutiva, spiegata in sede di distribuzione del ricavato, argomentata sulla (asserita) invalidità del titolo esecutivo azionato, un decreto ingiuntivo non opposto, siccome emesso da giudice territorialmente incompetente in forza di una clausola di deroga al foro del consumatore contenuta nel contratto di fideiussione posto a base della richiesta monitoria formulata da un professionista.
[4] 
Di “sfondamento della barriera del giudicato” discorre Marchetti, op. cit..
[5] 
Perplessità esprimono, al riguardo, Febbi, op. cit., e De Stefano, Le sentenze di Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia dell’U.E., cit..
[6] 
Dubita del fatto che il decreto ingiuntivo “continui a rappresentare lo strumento privilegiato di recupero di un credito consumeristico” Caporusso, op. cit., 2125.
[7] 
Diffusamente, cfr. ancora De Stefano, Le sentenze di Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia dell’U.E., cit..
[8] 
Equiparabile ad una vera e propria fonte di diritto (Corte Cost., 19 aprile 1985, n. 113), in ragione del ruolo di interprete qualificato del diritto unionale assegnato alla Corte di giustizia dal Trattato dell’Unione europea (art. 19, paragrafo 1) e del dovere di attenersi ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione. Più di recente, la Consulta ha precisato che le sentenze della Corte di giustizia assumono “valore non costitutivo bensì puramente dichiarativo, con la conseguenza che i suoi effetti risalgono, in linea di principio, alla data di entrata in vigore della norma interpretata”: sono le parole di Corte Cost., 22 dicembre 2022, n. 263.
[9] 
Per monolitico orientamento del giudice eurounitario, l’art. 6, primo comma, della direttiva n. 93/13 è norma imperativa, assimilabile alle disposizioni interne aventi il rango di norme di ordine pubblico (Corte giust. 6 ottobre 2009, causa C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones), che mira “a sostituire all’equilibrio formale che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’eguaglianza delle parti stesse” (Corte giust. 21 dicembre 2016, cause riunite C-154/15, C-307/15 e C-308/15, Gutiérrez Naranjo), giustificata dalla “natura ed importanza dell’interesse pubblico su cui si fonda la tutela che la direttiva garantisce ai consumatori” (Corte giust., 26 ottobre 2006, causa C-168/05, Elisa María Mostaza Claro). In senso analogo, cfr. Corte giust., 14 giugno 2012, causa C-618/10, Banco Español de Crédito, e Corte giust., 4 giugno 2009, causa C-243/08, Pannon GSM.
[10] 
Sulla necessità che il controllo d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali sia dal giudice esplicitato mediante una motivazione, quantomeno sommaria, si veda, specificamente, Corte giust. 17 maggio 2022, Ibercaja Banco, in cui si sottolinea che la motivazione deve dare atto “della sussistenza dell’esame” condotto e della “valutazione svolta in esito” ad esso.
[11] 
Chiara, in tal senso, l’evoluzione della giurisprudenza unionale, orientata ad un rafforzamento della protezione del consumatore: il rilievo officioso della vessatorietà delle clausole, concepito come mera facoltà in Corte giust., 27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, Océano Grupo Editorial, diviene un obbligo a partire da Corte giust., 4 giugno 2009, Pannon GSM, con affermazione poi reiteratamente ribadita (tra le altre, da Corte giust., 14 marzo 2013, causa C-415/11, Aziz; Corte giust., 11 marzo 2020, causa C-511/17, Györgyné Lintner; Corte giust., 4 giugno 2020, causa C-495/19, Kancelaria Medius). Per ulteriori richiami giurisprudenziali, cfr. Fiengo, Il ruolo del giudice alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, in Giur. it., 2022, 526 ss..
[12] 
Come sottolinea Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto ed effettività della tutela giurisdizionale: a proposito di due recenti rinvii pregiudiziali, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 1265 ss., spec. 1274, “il sistema delle tutele a favore del consumatore va letto dalla specola della condizione di fisiologica «sudditanza» nella quale versa il consumatore, il quale, vuoi per un minore potere contrattuale in sede di trattativa, vuoi per un minore grado di informazione, si trova ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista, senza potere in qualche misura incidere sul contenuto delle clausole contrattuali”. 
[13] 
E ciò anche se il controllo preventivo non sia stato eseguito perché non consentito (o vietato) da disposizione di diritto interno. Si tratta della vicenda esaminata da Corte giust., 18 febbraio 2016, causa C-49/14, Finanmadrid, il cui dispositivo recita: “la direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, dev’essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente al giudice investito dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento di valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, ove l’autorità investita della domanda d’ingiunzione di pagamento non sia competente a procedere a una simile valutazione”.
[14] 
Per ragioni di brevità, si segnalano unicamente due pronunce, inerenti alla legislazione spagnola, che testimoniano il progressivo ampliamento di estensione del controllo officioso, nella tensione all’innalzamento del livello di protezione consumeristica. La prima è rappresentata dalla già citata Corte giust., 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, in cui si stabilì che “un giudice nazionale investito di una domanda per l’esecuzione forzata di un lodo arbitrale che ha acquisito autorità di cosa giudicata, emesso in assenza del consumatore, è tenuto, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, a valutare d’ufficio il carattere abusivo della clausola compromissoria contenuta in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, qualora, secondo le norme procedurali nazionali, egli possa procedere a tale valutazione nell’ambito di ricorsi analoghi di natura interna. In tal caso, incombe a detto giudice di trarre tutte le conseguenze che ne derivano secondo il diritto nazionale affinché il consumatore di cui trattasi non sia vincolato da detta clausola”. Se questa decisione faceva perno sul principio di equivalenza (cioè a dire, più in particolare, sulla previsione del diritto spagnolo secondo cui il giudice dell’esecuzione deve verificare la eventuale contrarietà del titolo giudiziale all’ordine pubblico), ancor più significativo è, nella prospettiva della effettività della tutela del consumatore, il principio di Corte giust., 26 gennaio 2017, causa C-421/14, Banco Primus, così formulato in dispositivo: “la direttiva n. 93/13 deve essere interpretata nel senso che non osta a una norma nazionale che vieta al giudice nazionale di riesaminare d’ufficio il carattere abusivo delle clausole di un contratto, qualora sia stato già statuito sulla legittimità di tutte le clausole di tale contratto alla luce di detta direttiva con una decisione munita di autorità di cosa giudicata. Per contro, in presenza di una o di più clausole contrattuali la cui eventuale abusività non sia ancora stata esaminata nell’ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva n. 93/13 deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un’opposizione incidentale ad un procedimento di esecuzione, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d’ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l’eventuale abusività di tali clausole”.
[15] 
Opzione praticabile o chiamando la Corte Costituzionale a valutare conformità della regola eurounitaria con l’ordinamento costituzionale nazionale oppure rimettendo nuovamente la questione alla Corte di giustizia per una rimeditazione del principio enunciato. La prospettiva è diffusamente analizzata da De Stefano, Le sentenze di Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia dell’U.E., cit., il quale, pur descrivendo numerosi profili di criticità derivanti dalla sentenza del Kirchberg, astrattamente tali da integrare una “sovversione della stabilità dell’ordinamento nazionale”, ritiene conclusivamente che l’attivazione dei controlimiti, in ambedue le modalità specificate, costituisca “una scelta ardua”.
[16] 
Nello stesso ordine di idee, in precedenza, Corte giust., 26 gennaio 2017, Banco Primus: “Per quanto riguarda le conseguenze da trarre dall’eventuale carattere abusivo di una siffatta clausola, occorre ricordare che dal tenore letterale dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 risulta che il giudice nazionale è tenuto unicamente ad escludere l’applicazione di una clausola contrattuale abusiva affinché non produca effetti vincolanti nei confronti dei consumatori, senza essere autorizzato a rivedere il contenuto della medesima. Infatti, detto contratto deve sussistere, in linea di principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive, purché, conformemente alle norme di diritto interno, una simile sopravvivenza del contratto sia giuridicamente possibile”. Il principio era stato già affermato da Corte giust., 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito.
[17] 
Ovvero il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206. 
[18] 
Per una compiuta disamina dell’istituto si rinvia, anche per articolati riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, a Cordelli, L’interesse del consumatore tra nullità di protezione e integrazione del contratto, in Diritto e processo, 2020, 171 ss.. 
[19] 
La locuzione è tratta da Cass., S.U., 4 novembre 2019, n. 28314, edita in Foro it., 2020, I, 948, con nota di Pagliantini, La nullità selettiva quale epifania di una deroga all’integralità delle restituzioni: l’investitore è come il contraente incapace?, in Corr. giur., 2020, 5, con nota di Scognamiglio, Le Sezioni Unite e le nullità selettive: un nuovo spazio di operatività per la clausola generale della buona fede, e in Resp. civ. e prev., 2020,835, con nota di Greco, La nullità “selettiva” e un necessitato ripensamento del protezionismo consumeristico, in esito alla pronuncia delle Sezioni Unite. 
[20] 
Così Corte giust., 3 ottobre 2019, causa C-260/18, Dziubak, la quale precisa che la giuridica possibilità di sopravvivenza del contratto epurato dalle clausole abusive va verificata secondo un approccio obiettivo, senza poter prendere in considerazione “la situazione di una delle parti contraenti quale criterio determinante per disciplinare la sorte futura del contratto”.
[21] 
Secondo Corte giust., 15 marzo 2012, causa C-453/10, Pereničová e Perenič, la direttiva n. 93/13 non osta ad una normativa nazionale la quale “preveda, nel rispetto del diritto dell’Unione, che un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore e contenente una o più clausole abusive sia nullo nel suo complesso qualora ciò risulti garantire una migliore tutela del consumatore”.
[22] 
Sono le pertinenti notazioni di Cordelli, op. cit., 193, la quale ne inferisce che “la nullità totale del contratto dovrebbe restare una soluzione del tutto residuale, verificabile solo nell’ipotesi in cui il consumatore preferisca liberarsi dal vincolo contrattuale o qualora non sia possibile individuare alcuna tecnica di modifica del contratto capace di ristabilire efficacemente l’equilibrio alterato”. 
[23] 
Così Corte giust., 4 giugno 2009, Pannon GSM. Strumentale, a tal fine, la provocazione del contraddittorio: il giudice che rilevi l’abusività di una clausola è tenuto, nel rispetto delle norme processuali nazionali, ad informare le parti della sua valutazione d’ufficio, in modo che le stesse possano presentare proprie osservazioni al riguardo: Corte giust., 21 febbraio 2013, causa C-472/11, Banif Plus Bank.
[24] 
Il riferimento è a Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242-26243, annotate su Foro it., 2015, 862 ss., da Adorno, Sulla rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale: il nuovo intervento delle sezioni unite; Palmieri - Pardolesi, Nullità negoziale e rilevazione officiosa a tutto campo (o quasi); Di Ciommo, La rilevabilità d’ufficio ex art. 1421 c.c. secondo le Sezioni Unite: la nullità presa (quasi) sul serio; Pagliantini, Nullità di protezione e facoltà di non avvalersi della dichiarabilità:“quid iuris”?; Menchini, Le Sezioni Unite fanno chiarezza sull’oggetto dei giudizi di impugnativa negoziale: esso è rappresentato dal rapporto giuridico scaturito dal contratto; Proto Pisani, Rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale: una decisione storica delle Sezioni Unite. Ulteriori commenti si devono a Carbone, “Porte aperte” delle Sezioni Unite alla rilevabilità d’ufficio del giudice della nullità del contratto, in Corr. giur., 2015, 88 ss.; Consolo - Gordio, Patologia del contratto e (modi dell’) accertamento processuale, ivi, 2015, 225 ss.. 
[25] 
É il pensiero di Scoditti, op. cit.
[26] 
Si vedano, al riguardo, le pronunce citate supra, § 3., alla nota 15.
[27] 
Corte giust., 4 giugno 2020, Kancelaria Medius
[28] 
Come ha chiarito Corte giust., 20 settembre 2018, causa C-448/17, EOS KSI Slovensko, quando in sede di esecuzione dell’ingiunzione di pagamento non sia previsto alcun controllo officioso sulla natura potenzialmente vessatoria delle clausole contenute nel contratto sul quale il credito azionato si fonda, “una normativa nazionale deve essere considerata idonea a compromettere l’effettività della tutela voluta dalla direttiva n. 93/13, qualora essa non preveda un tale controllo nella fase di emissione dell’ingiunzione o, qualora un siffatto controllo sia previsto solo nella fase dell’opposizione contro l’ordinanza emessa, se sussiste un rischio non trascurabile che il consumatore interessato non proponga l’opposizione richiesta a causa del termine particolarmente breve previsto a tal fine o in considerazione delle spese che un’azione giudiziaria implicherebbe rispetto all’importo del debito contestato o, ancora, perché la normativa nazionale non prevede l’obbligo che gli siano trasmesse tutte le informazioni necessarie per consentirgli di determinare la portata dei suoi diritti”. Con riferimento a procedimenti d’ingiunzione, l’idoneità dello strumento oppositivo a realizzare un’effettiva tutela consumeristica va riguardata sotto un duplice profilo: da un lato, l’esistenza di specifici requisiti o limiti processuali per la proposizione del rimedio, quali un termine particolarmente breve oppure le spese che un’azione giudiziaria comporterebbe rispetto all’importo del debito contestato; dall’altro, la consapevolezza dei consumatori in ordine alla portata dei loro diritti, la quale potrebbe essere frustata dalla mancata ricezione delle informazioni necessarie per proporre le azioni oppure anche dal contenuto succinto della domanda d’ingiunzione introdotta dai professionisti. Su questi aspetti, Corte giust., 18 febbraio 2016, Finanmadrid, Corte giust., 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito.
[29] 
Così, con efficace qualificazione, Fiengo, Il ruolo del giudice alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, cit., 529, ad avviso del quale “la Corte di giustizia ha plasmato un modello di giudice che, pur se attivo, non è inquisitore, non è parziale, né autoritario o paternalistico”.
[30] 
Anche sul punto si vedano Corte giust., 4 giugno 2009, Pannon GSM e Corte giust., 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito.
[31] 
In questi termini Corte giust., 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito. Si tratta di un principio affermato anche con riferimento all’ingiunzione di pagamento europea disciplinata dal Regolamento CE 12 dicembre 2006, n. 1896: per Corte giust. 19 dicembre 2019, cause riunite C‑453/18 e C‑494/18, Bondora, il giudice investito della domanda “deve poter chiedere informazioni complementari al creditore quanto alle clausole invocate a fondamento del suo credito, quali la riproduzione integrale del contratto o la produzione di una copia di esso, al fine di poter esaminare il carattere eventualmente abusivo di dette clausole”.
[32] 
Questo il criterio indicato da Corte giust., 7 novembre 2019, cause riunite C-419/18 e C-483/18, Profi Credit Polska, poi confermato da Corte giust., 11 marzo 2020, Györgyné Lintner.
[33] 
Corte giust., 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito.
[34] 
Così Corte giust. 17 maggio 2022, Ibercaja Banco. Sull’importanza di siffatto avvertimento (integrato dal richiamo alla difesa tecnica obbligatoria) anche in ordine alla ingiunzione di pagamento europea si sofferma D’Alessandro, op.cit., la quale auspica un pronto intervento del legislatore europeo di riscrittura del modello E previsto per detta ingiunzione: “al momento, infatti, tale modulo nulla prevede in riferimento alla necessità di dare adeguata motivazione degli esiti della verifica della sussistenza di eventuali clausole abusive, quante volte si tratti di credito nascente da un contratto tra consumatore e professionista sub Dir. 93/13. Le conseguenze del mancato rilievo e/o di una adeguata motivazione circa la sussistenza di clausole abusive saranno, anche per il procedimento monitorio europeo, quelle indicate dalla Corte di giustizia nella sentenza del 17 maggio 2022, cause riunite C-693/19 e C-831/19”.
[35] 
Norma icasticamente definita “il convitato di pietra” da Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto e protezione del consumatore: la certezza arretra di fronte all’effettività, cit., 2125.
[36] 
Laddove a tal fine occorra indagare circa lo scopo (obiettivo o obiettivabile) avuto di mira dall’agente nel momento in cui ha concluso il contratto, dacché la stessa persona fisica svolgente attività imprenditoriale o professionale deve considerarsi consumatore quando conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività. È quanto recentemente chiarito da Cass. 17 febbraio 2023, n. 507, relativa ad un acquisto ad opera di un avvocato di un telefono destinato ad essere utilizzato (anche, seppur non in via esclusiva) per esigenze lavorative.
[37] 
Così De Stefano, Le sentenze di Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia dell’U.E., cit., il quale aggiunge che “il ricorrente avrà l’onere - in senso tecnico - di instare affinché il decreto ingiuntivo sia emesso con l’esplicita menzione della trattazione (anche sommaria) di tali questioni e con espresso avvertimento che, in mancanza di opposizione pure sul punto, esse rimarrebbero precluse”; tanto, secondo l’A., in virtù dell’ordinaria soluzione applicativa della motivazione per relationem alle ragioni del ricorso dovrebbe rendere sufficiente che il monitorio, apposto pedissequamente o di seguito al ricorso, rinvii alle richieste formulate.
[38] 
Ancora De Stefano, Le sentenze di Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia dell’U.E., cit.; similari considerazioni in Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto e protezione del consumatore: la certezza arretra di fronte all’effettività, cit., 2119, e Fiengo, Il ruolo del giudice alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, cit., 531.
[39] 
Qualificato come “completamente praeter legem” e privo di “qualunque base normativa” da De Stefano, Le sentenze di Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia dell’U.E., cit.
[40] 
Così si legge nella sentenza Corte giust., 11 marzo 2020, Györgyné Lintner.
[41] 
Sullo specifico argomento, indicazioni non sempre univoche offrono i giudici di Lussemburgo. In alcune occasioni è stata affermata la possibilità dell’integrazione giudiziale con diritto dispositivo del regolamento negoziale in conseguenza dell’accertata abusività di una o più clausole; così Corte giust., 3 marzo 2020, causa C-125/18, Marc Gómez del Moral Guasch: “l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che non ostano a che, nell’ipotesi di nullità di una clausola contrattuale abusiva che fissa un indice di riferimento per il calcolo degli interessi variabili di un mutuo, il giudice nazionale sostituisca a tale indice un indice legale, applicabile in assenza di un diverso accordo tra le parti contraenti, a condizione che il contratto di mutuo ipotecario di cui trattasi non possa sussistere in caso di soppressione di detta clausola abusiva, e che l’annullamento di tale contratto nella sua interezza esponga il consumatore a conseguenze particolarmente pregiudizievoli”. In senso divergente, tuttavia, sempre con riferimento a clausole relative ad interessi su somme erogate a mutuo, Corte giust., 8 settembre 2022, E.K. S.K., secondo cui “l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva n. 93/13 ostano a una giurisprudenza nazionale secondo la quale il giudice nazionale può, dopo aver accertato la nullità di una clausola abusiva contenuta in un contratto concluso tra un consumatore e un professionista che non determini la nullità di tale contratto nel suo complesso, sostituire tale clausola con una disposizione suppletiva di diritto nazionale ed ostano altresì a una giurisprudenza nazionale secondo la quale il giudice nazionale può, dopo aver accertato la nullità di una clausola abusiva contenuta in un contratto concluso tra un consumatore e un professionista che determini la nullità di tale contratto nel suo complesso, sostituire la clausola dichiarata nulla vuoi con un’interpretazione della volontà delle parti, al fine di evitare la dichiarazione di nullità di detto contratto, vuoi con una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva, anche qualora il consumatore sia stato informato delle conseguenze della nullità del medesimo contratto e le abbia accettate”. Sulla tematica, si rinvia, per una particolareggiata disamina, a Cordelli, op. cit., 197 ss.
[42] 
In particolare, da Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto e protezione del consumatore: la certezza arretra di fronte all’effettività, cit., 2125, e da De Stefano, Le sentenze di Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia dell’U.E., cit.
[43] 
La citazione evoca il titolo del saggio apparso sul primo numero della prestigiosa Rivista di diritto processuale: Calamandrei, Per la validità del processo ingiunzionale, in Riv. dir. proc., 1924, 56 ss.. È sorprendere osservare come, in una sorta di corso e ricorso storico di vichiana memoria, a distanza di un secolo risuoni ancora attuale (sia pure per ragioni differenti) l’accorata petizione del Maestro sulla centralità del procedimento monitorio per una efficace tutela dei diritti di credito e per un migliore funzionamento della giustizia civile.
[44] 
Qualora se ne ravvisi un’autonoma configurabilità. Non si intende qui approfondire la disamina delle incidenze della pronuncia in esame sui limiti e sulla portata del giudicato nonché, ab imis, sulla riferibilità di tale nozione al decreto ingiuntivo non opposto, le quali costituiscono, senza dubbio, il profilo di maggior interesse dogmatico: per una analitica ricognizione, si rinvia a Spaziani, op.cit.
[45] 
Testualmente proprio Corte giust. 17 maggio 2022, SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza.
[46] 
Muovendo da queste premesse, la Corte di giustizia è pervenuta a negare la compatibilità della disciplina romena con l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva n. 93/13 per una diversa ragione: la previsione, a carico della parte che richiede la sospensione dell’esecuzione nell’àmbito dell’azione di diritto comune, del versamento di una cauzione (calcolata sulla base del valore dell’oggetto litigioso) di entità tale da disincentivare il consumatore dall’introdurre e proseguire siffatta azione.
[47] 
Per il carattere non dirimente della pronuncia sullo specifico aspetto depone il fatto che la Corte di giustizia non abbia operato alcun riferimento ad una provocazione del consumatore in sede esecutiva per esprimere una possibile volontà di non avvalersi della clausola vessatoria, dato caratterizzante la tipologia della nullità di protezione. Significativamente diverse risultano, infatti, le affermazioni, contenute in altre pronunce, che sottolineano la interlocuzione con il consumatore quale necessario prodromo alla dichiarazione di vessatorietà delle clausole. Con inequivoca chiarezza, Corte giust., 21 febbraio 2013, Banif Plus Bank: “il principio del contraddittorio impone, di norma, al giudice nazionale che abbia rilevato d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale di informarne le parti della controversia e di dare loro la possibilità di discuterne in contraddittorio secondo le forme previste al riguardo dalle norme processuali nazionali […] il giudice nazionale non deve, in forza della direttiva, disapplicare la clausola in esame qualora il consumatore, dopo essere stato avvisato da detto giudice, non intenda invocarne la natura abusiva e non vincolante”. Di analogo contenuto Corte giust., 30 maggio 2013, causa C-488/11, Dirk Frederik Asbeek Brusse, nonché la più volte citata Corte giust., 4 giugno 2009, Pannon GSM.
Un diverso avviso esprime Fiengo, Il decreto ingiuntivo non opposto privo di motivazione emesso nei confronti del consumatore: alla ricerca del rimedio effettivo, cit., secondo cui la scelta lessicale della sentenza, letta in particolare alla luce dei termini presenti nella versione inglese e francese, depone nel senso della concentrazione in capo al giudice della esecuzione del potere di rilievo e di dichiarazione di vessatorietà delle clausole. 
[48] 
Per riprendere le parole di Scoditti, op. cit.
[49] 
Come acutamente rileva Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto e protezione del consumatore: la certezza arretra di fronte all’effettività, cit., 2124, “l’effettività della tutela del consumatore gravita attorno ad un obbligo di risultato e non riguarda anche il mezzo tecnico con il quale il primo si ottiene”.
[50] 
Sulla teleologica destinazione della effettività della tutela al risultato del processo, è doveroso il richiamo a Oriani, Il principio di effettività della tutela giurisdizionale, Napoli, 2008, spec. 74 ss., secondo cui i meccanismi processuali devono essere congegnati in modo tale da eludere il rischio di uno scarto tra le utilità riconosciute dal diritto sostanziale e quelle che possono ottenersi per il tramite del processo. Sul principio di effettività, per ulteriori approfondimenti, si rinvia a Proto Pisani, Il principio di effettività nel processo civile italiano, in Giusto proc. civ., 2014, 825 ss.; Trocker, Costituzione e processo civile: dall’accesso al giudice all’effettività della tutela giurisdizionale, in Giusto proc. civ., 2019, 15 ss.; Auletta, L’effettività nel processo, in Giusto proc. civ., 2018, 405 ss.
[51] 
L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che una clausola contrattuale dichiarata abusiva deve essere considerata, in linea di principio, come se non fosse mai esistita, cosicché non può sortire effetti nei confronti del consumatore. Pertanto, l’accertamento giudiziale del carattere abusivo di una clausola del genere, in linea di massima, deve produrre la conseguenza di ripristinare, per il consumatore, la situazione di diritto e di fatto in cui egli si sarebbe trovato in mancanza di tale clausola”: così Corte giust. 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo.
[52] 
L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che una clausola contrattuale dichiarata abusiva deve essere considerata, in linea di principio, come se non fosse mai esistita, cosicché non può sortire effetti nei confronti del consumatore. Pertanto, l’accertamento giudiziale del carattere abusivo di una clausola del genere, in linea di massima, deve produrre la conseguenza di ripristinare, per il consumatore, la situazione di diritto e di fatto in cui egli si sarebbe trovato in mancanza di tale clausola”: così Corte giust. 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo.
[52] 
In dottrina, la tesi dell’incidente endoesecutivo di accertamento, con attribuzione al giudice dell’esecuzione di un potere-dovere di rilevare e decidere la questione sull’abusività delle clausole, dichiarando l’improseguibilità della procedura, è sostenuta da Scoditti, op. cit.; propugnano la soluzione dell’opposizione all’esecuzione (anche in via preventiva ai sensi dell’art. 615, primo comma, c.p.c.) Capponi – Soldi, op. cit. Per la utile praticabilità di ambedue i rimedi si schierano D’alessandro, op. cit., e Rasia, op. cit. Favorevole al sistema binario di rimedi è anche Fiengo, Il decreto ingiuntivo non opposto privo di motivazione emesso nei confronti del consumatore: alla ricerca del rimedio effettivo, cit., il quale vede nella descritta alternativa un rafforzamento della dimensione effettiva del sistema rimediale.
[53] 
Pacifico che l’opposizione ex art. 615 c.p.c. non possa essere proposta prima della notifica dell’atto di precetto (ad esempio, per reagire alla mera notifica del titolo esecutivo), per difetto dell’interesse ad agire, tipizzato dal legislatore con riferimento all’intimazione del precetto: Cass. 4 agosto 2016, n. 16281.
[54] 
Fermo l’orientamento del giudice della nomofilachia: il creditore, in forza del medesimo titolo esecutivo, può procedere esecutivamente in tempi successivi su beni omogenei oppure eterogenei (ossia mobili, crediti ed immobili) ed anche a più pignoramenti dello stesso bene, senza dover attendere che il processo di espropriazione aperto dal primo pignoramento si concluda, atteso che il diritto di agire in esecuzione forzata non si esaurisce che con la piena soddisfazione del credito portato dal titolo esecutivo (Cass. 26 luglio 2012, n. 13204; Cass. 18 settembre 2008, n. 23847; Cass. 16 maggio 2006, n. 11360).
[55] 
Per rendersi conto di ciò, basti por mente all’ipotesi in cui, intraprese più espropriazioni forzate, uno o più giudici dell’esecuzione, non ravvisando violazioni della disciplina consumeristica, neghino provvedimenti di sospensione o di chiusura anticipata di una o più procedure, così determinandone lo sviluppo verso la vendita del bene o l’assegnazione del credito staggito: in tal caso, il consumatore si vedrà definitivamente privato del bene, residuando in suo favore soltanto la possibilità della ripetizione dai creditori di quanto ricavato dall’espropriazione oppure l’esperibilità di inadeguati rimedi risarcitori.
[56] 
Ad avviso di D’Alessandro, op. cit., ai fini della dichiarazione di nullità è necessario che il consumatore-esecutato, convocato innanzi il giudice dell’esecuzione nel contraddittorio con il creditore-professionista procedente, dichiari di volersi avvalere della nullità della clausola. Similmente, Fiengo, Il decreto ingiuntivo non opposto privo di motivazione emesso nei confronti del consumatore: alla ricerca del rimedio effettivo, cit.
[57] 
Testualmente, Scoditti, op. cit.
[58] 
Si veda § 8., nel testo ed al richiamo della nota 52.
[59] 
Inidoneità al giudicato che si ravvisa anche se l’accertamento venga operato in sede di opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione, statuendo la sentenza resa all’esito del giudizio ex art. 617 c.p.c. sulla regolarità formale dell’atto esecutivo impugnato, non certo sul titolo o sul diritto a procedere esecutivamente. 
[60] 
Si veda § 7.1.
[61] 
L’introduzione di un termine finale di ammissibilità per la proposizione dell’opposizione all’esecuzione si deve alla novella dell’art. 615 c.p.c. operata dal D.L. 3 maggio 2016, n. 59, convertito dalla legge 30 giugno 2016, n. 119, ispirata allo scopo di garantire la speditezza della complessa fase liquidativa, evitando intralci o rallentamenti alla stessa a causa di opposizioni che l’esecutato avrebbe potuto spiegare prima del suo inizio: nella impostazione eurounitaria, detta ratio non pare conferente rispetto al consumatore non avvisato dal decreto ingiuntivo circa gli strumenti di reazione per far valere l’abusività delle clausole.
[62] 
Momento da riferire più precisamente, nella nostra esecuzione forzata, all’aggiudicazione del bene staggito, attesa la positivamente sancita (art. 187 bis disp. att. c.p.c.) ininfluenza di accadimenti processuali successivi (quali la estinzione o la chiusura anticipata del procedimento) sulla posizione dell’aggiudicatario, titolare di uno ius ad rem, cioè a dire di un diritto, condizionato all’effettivo versamento del saldo prezzo, al trasferimento del diritto, a tutela dell’interesse generale, di matrice pubblicistica, alla stabilità degli effetti delle vendite giudiziarie: sul punto, anche per aprire la catena di riferimenti, basti qui il richiamo a Cass. 8 febbraio 2019, n. 3709. 
[63] 
Secondo l’opinione maggiormente ricevuta in dottrina ed in giurisprudenza, l’opposizione all’esecuzione si configura come un’azione di accertamento negativo del diritto del creditore a procedere esecutivamente, senza estendersi, ove l’esecuzione sia minacciata o promossa in forza di un titolo di formazione giudiziale, al rapporto sostanziale sottostante o a vizi intrinseci del provvedimento. Si tratta del tradizionale inquadramento dell’opposizione all’esecuzione, frutto dell’opera di Mandrioli, L’azione esecutiva. Contributo alla teoria unitaria dell’azione e del processo, Milano, 1955, 416 ss. (riproposta in Id., Opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi, voce dell’Enc. dir., XXX, Milano, 1980, 431 ss.), seguita tra gli altri, pur con diversificate sfumature euristiche, da Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, Torino, 1993, 242 ss., Oriani, Opposizione all’esecuzione, in Digesto civ., XIII, Torino, 1995, 598 ss., Romano, L’azione di accertamento negativo, Napoli, 2006, 136 ss., Micali, L’opposizione all’esecuzione come azione in giudizio, Napoli, 2020, spec. 236 ss., 312 ss. L’attualità del dibattito sull’oggetto dell’opposizione all’esecuzione è testimoniata dal proliferare di contributi negli ultimi anni: in particolare, si vedano Micali, L’opposizione all’esecuzione come rimedio avverso l’esecuzione illegittima o ingiusta: oggetto del giudizio ed efficacia della sentenza, in Riv. dir. proc., 2021, 896 ss.; Comastri, L’opposizione all’esecuzione forzata. Spunti ricostruttivi, in Riv. dir. proc., 2021, 1246 ss.; Amadei, Nuovi orizzonti dell’opposizione all’esecuzione, in Riv. dir. proc., 2021, 1277 ss. Per ulteriori considerazioni e riferimenti, si vis, Rossi, Caducazione del titolo esecutivo e opposizione all’esecuzione: è soltanto un problema di spese, in Giusto proc. civ., 2021, 1113 ss.
[64] 
Tra le tante, da ultimo, Cass. 14 gennaio 2022, n. 1121.
[65] 
La requisitoria del P.G., reperibile integralmente sul sito Procuracassazione.it, è stata pubblicata su Riv. esec. forz., 2022, 699 ss. In dissenso rispetto all’impostazione seguita nella requisitoria, D’Alessandro, op. cit., osserva che “il punto debole di questa proposta è quello per cui l’actio nullitatis, in quanto avente un oggetto che è un minus rispetto alla minima unità azionabile nel processo civile, ossia la mera dichiarazione di abusività di una o più clausole contrattuali e non già l’accertamento della validità ed efficacia di un intero contratto, dovrà necessariamente fondarsi su una previsione normativa ad hoc che consenta l’instaurazione di un giudizio avente siffatto oggetto”. 
[66] 
Locuzioni pedissequamente estratte dalla requisitoria del P.G.
[67] 
Come accade nell’ipotesi in cui esso sia pronunciato da giudice incompetente per violazione del foro del consumatore: si determina in tal modo una significativa discrasia rispetto al regime codicistico che individua, per l’opposizione al decreto ingiuntivo, una competenza - tradizionalmente definita come funzionale - del giudice emittente lo stesso.
[68] 
Anche in tali casi, peraltro, il rimedio è stato concepito come alternativamente concorrente rispetto all’opposizione all’esecuzione (pacificamente ammessa, ad esempio, per dedurre la inesistenza della notifica del decreto ingiuntivo: da ultimo, Cass. 3 gennaio 2023, n. 51; Cass. 18 maggio 2020, n. 9050) e non già esclusivo, come invece prospettato dai fautori di questa tesi.
[69] 
Analoghi rilievi esprime Scoditti, op. cit.: “L’actio nullitatis è un rimedio esperibile non in relazione alla fattispecie sostanziale, ma nei confronti del provvedimento giurisdizionale, che si assume non riconducibile al relativo modello legale. Anche a voler seguire la strada dell’ordinaria azione di accertamento negativo rivolta al provvedimento, non si vede quale sia l’inesistenza giuridica o la nullità radicale che attingano il decreto ingiuntivo in questione”.
[70] 
Sono le prospettive indicate da Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto ed effettività della tutela giurisdizionale: a proposito di due recenti rinvii pregiudiziali, cit., 1283 ss., la quale ravvisa nella situazione del consumatore “tutti gli estremi per qualificare l’inerzia del debitore come incolpevole: qualificativo che ci sembra così idoneo a fondare il ripristino del potere processuale (di opposizione al decreto ingiuntivo) dal quale questi era decaduto, proprio perché in questo caso la decadenza non è ascrivibile ad una condotta negligente dell’ingiunto”; richiamato il carattere generale dell’istituto disciplinato dall’art. 153, secondo comma, c.p.c., l’A. conclude nel senso che “si potrebbe perciò immaginare una lettura estensiva del disposto di cui all’art. 650 c.p.c., sì da ammettere l’opposizione tardiva dell’intimato non soltanto per irregolarità nella notificazione del decreto ovvero per caso fortuito o forza maggiore, ma anche, più in generale, per ragioni non imputabili al debitore e, quindi, per errore incolpevole”. In favore dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo milita Carratta, L’ingiuntivo europeo nel crocevia della tutela del consumatore, in Giur. it., 2022, 485 ss.
[71] 
Sopra, sub § 10.
[72] 
É quanto suggerisce Carratta, op. cit., 487, con riferimento tanto all’opposizione tardiva nel procedimento ingiuntivo interno quanto al riesame nel caso del procedimento ingiuntivo europeo di cui al Reg. n. 1896/2016, rimedi esperibili, secondo l’A., “nelle ipotesi in cui il debitore-consumatore dimostri che, a causa del mancato esercizio dei poteri ufficiosi del giudice del monitorio, non abbia potuto consapevolmente prendere in considerazione l’opportunità di proporre l’opposizione tempestiva”.
[73] 
Beneficio che - si badi - deve essere specificamente invocato (con l’allegazione delle relative circostanze) dal consumatore nell’atto introduttivo dell’opposizione: la verifica del presupposto (da compiersi attraverso il mero riscontro del contenuto del decreto monitorio) rappresenta oggetto di valutazione preliminare sull’ammissibilità del rimedio. 
[74] 
In base a valutazioni di mera opportunità, il giudice dell’esecuzione potrebbe anche stabilire un differimento per periodo più esteso, utile a ricomprendere anche il tempo verosimilmente occorrente per la decisione del giudice adito con l’opposizione a decreto ingiuntivo sulla (assai probabile) istanza di sospensione dell’esecutorietà del provvedimento.
[75] 
Sul punto si condivide, anche nelle premesse argomentative, la proposta di D’Alessandro, op. cit.

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