Abbiamo appena visto che la riunione delle contrapposte domande di omologa dell’accordo di ristrutturazione e di apertura della liquidazione giudiziale nell’alveo di un simultaneus processus garantisce l’uniformità delle rispettive decisioni sui profili a rilevanza comune.
Il punto è, però, che a detta riunione non sempre è dato addivenire. L’istanza liquidatoria potrebbe sopravvenire quando il giudizio di omologazione già sia venuto a conclusione; così come potrebbe sopravvenire quando la causa già sia stata rimessa al collegio per la decisione, dunque oltre l’ultimo momento utile designato dall’art. 40, comma 9, CCII[17], perché alla riunione si possa provvedere. Ed altresì potrebbe accadere che, per una qualsivoglia ragione, alla riunione delle domande non si dia corso ancorché l’istanza liquidatoria sia stata tempestivamente presentata, tanto più, questo, ove si ritenga, in linea con quanto sostenuto da uno dei più attenti studiosi della figura di simultaneus processus di cui si sta discorrendo, che la pretermissione di quella misura non possa rilevare di per se stessa come causa d’invalidità delle successive attività processuali, ossia possa rilevare come tale solamente quando si sia tradotta in una violazione della regola di prioritaria trattazione delle istanze d’accesso agli strumenti alternativi alla liquidazione, posta dal comma 2 del predetto art. 7 del Codice[18].
Ebbene, tornando al quesito da cui siamo partiti e meglio puntualizzandolo in relazione alle eventualità che si sono appena tratteggiate di omessa riunione delle domande, possiamo effettivamente pensare che l’accertamento per cui l’accordo messo in campo dal debitore non sarebbe in grado di liberare le risorse necessarie per soddisfare i creditori estranei e, quindi, di porre rimedio alla denunciata situazione d’insolvenza, non abbia a spiegare effetti vincolanti nei confronti del giudice adito in separata sede con la domanda di liquidazione giudiziale del patrimonio di quel debitore medesimo?
Indubbiamente, quell’accertamento è racchiuso nella parte motiva della pronuncia di negata omologa dell’accordo[19] ed è comune avviso che l’autorità del giudicato non copra la soluzione delle questioni via via affrontate dal giudice per arrivare alla decisione finale sulla domanda sottoposta al suo esame e, come tali, confinate nella motivazione del provvedimento medesimo. V’è, però, un non trascurabile particolare che occorre tenere presente e, cioè, che l’accertamento di cui si discorre, ben lungi dal rappresentare un mero passaggio intermedio dell’iter logico-giuridico che abbia condotto il giudice a decretare il rigetto della domanda di omologa, ne esprime al contrario, il fondamento, il sostegno necessario, nella fattispecie, in buona sostanza, incarnando quel “motivo portante” della decisione che, secondo una teoresi ormai largamente recepita nella dottrina processualistica[20], imprescindibilmente concorre alla definizione del giudicato e del perimetro oggettivo dei vincoli che, di volta in volta, ne scaturiscono[21]: in linea, peraltro, di sostanziale continuità, come è stato esattamente notato[22], con quel radicato insegnamento giurisprudenziale postulante l’estensione del giudicato al così definito antecedente logico necessario della sentenza finale[23].
Ma anche a voler prendere le distanze da questo modo di vedere le cose[24], le conclusioni, nella sostanza, non cambierebbero.
Certo, il rifiuto delle impostazioni concettuali testé accennate implicherebbe dover prendere atto di ciò, che, nell’obiettiva divergenza intercorrente tra la decisione che non abbia concesso l’omologa all’accordo perché reputato inidoneo a rimuovere lo stato d’insolvenza in cui versa il debitore e quella che rifiuti l’apertura della liquidazione giudiziale nei suoi confronti assumendo che detta insolvenza, l’accordo, sarebbe in realtà idoneo a rimuoverla, non siano ravvisabili gli estremi del contrasto pratico di giudicati, bensì, al più, quelli del contrasto logico o teorico[25] se non, addirittura, del mero conflitto tra motivazioni[26]: situazioni notoriamente tollerate dall’ordinamento e reputate, per certi versi, come inerenti alla fisiologia del sistema.
Attenzione, però. Quanto appena osservato può essere vero nell’ottica del contenzioso ordinario, ossia, con maggior precisione, nell’ottica di quello che è il sistema ordinario di tutela dichiarativa dei diritti soggettivi; e può esserlo perché quel sistema offre molteplici strumenti, dalle domande di accertamento incidentale alle domande riconvenzionali, dall’intervento volontario di terzi nel processo alla chiamata in causa di terzi, atti a prevenire o neutralizzare siffatte situazioni di contrasto logico tra i giudicati o tra le rispettive premesse o motivazioni, al punto da potersi dire che chi ne abbia a scontare le conseguenze pregiudizievoli, imputet sibi. Ed invero: i) costui ha avuto il mezzo per evitare quel contrasto di decisioni; ii) non ne ha profittato; iii) peggio per lui.
Ma qui, nel settore giurisdizionale attualmente sotto la nostra lente d’osservazione, ammesso che taluno di quegli strumenti sia disponibile – come già s’è detto, in effetti, della domanda di apertura della liquidazione giudiziale esperita in via incidentale al giudizio di omologa degli accordi -, è obiettivamente difficile sostenere che chi non se ne avvalga meriti per ciò stesso di essere penalizzato nei termini, per l’appunto, del contrasto logico cui s’è or ora fatto riferimento. Perché se, come è possibile leggere in una recente pronuncia del Tribunale di Bologna[27], “a fronte della mancanza negli accordi di ristrutturazione di una procedura che importi comunicazione effettiva ai creditori e possibilità di esprimere un consenso informato, il mero rimedio dell’opposizione all’omologa potrebbe risultare insufficiente per la tutela dei propri interessi”, onde la necessità di sottoporre il merito dell’accordo a un vaglio officioso del giudice[28]; identicamente, e per le stesse ragioni – difetto di comunicazione effettiva -, la possibilità di agire per l’apertura della liquidazione in via incidentale/riconvenzionale al giudizio di omologa degli accordi non può apprezzarsi come garanzia sufficiente a mettere al riparo i creditori dal rischio che accordi giudicati inadeguati ai fini della rimozione dello stato d’insolvenza in sede di omologazione dei medesimi appaiano viceversa, a quello stesso fine, adeguati al giudice conseguentemente chiamato ad aprire la procedura liquidatoria.
Tirando le fila di questo complessivo ragionamento, ritengo, pertanto, di poter esprimere il convincimento che, negata l’omologa agli accordi di ristrutturazione suggellati dal debitore, un vincolo alle ragioni fondanti di quel diniego, ove si tratti di ragioni di merito, si debba necessariamente manifestare nelle sedi giudiziali che siano successivamente adite per la regolazione dell’insolvenza di quel debitore medesimo. E così, laddove, a determinare quel diniego, sia stata la reputata inidoneità degli accordi conclusi a generare le risorse necessarie per pagare i creditori estranei, la domanda di apertura della liquidazione che sia successivamente proposta potrà anche essere rigettata, ma giammai assumendo che grazie agli accordi, comunque rimasti sulla scena, quelle risorse in realtà vi sarebbero. Così come, respinta la domanda di omologa sul presupposto della natura non imprenditoriale dell’attività svolta dal debitore, l’accesso alla liquidazione giudiziale dovrebbe considerarsi definitivamente precluso, spazio residuando soltanto per strumenti di regolazione dell’insolvenza attinti dall’area delle procedure da sovraindebitamento.