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Saggio

Appunti sull’autonomia privata e sulla rinegoziazione nel d.l. 118/21*

Giorgio Lener, Ordinario di Istituzioni di diritto privato nell’Università di Roma “Tor Vergata”

1 Febbraio 2022

*Questo scritto è la riproduzione della relazione svolta al Convegno “La crisi e la ripartenza”, tenutosi a Mantova il 1° e il 2 ottobre 2021. Pertanto, si è mantenuta la forma discorsiva della relazione, senza il corredo di note bibliografiche.
Il saggio è stato altresì sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
La centralità dell’autonomia privata, nel contesto della composizione negoziata, conferma l’interazione e l’integrazione tra diritto dei contratti e diritto della crisi d’impresa. L’obiettivo del risanamento si pone quale obiettivo comune a tutti i portatori di interessi, in primis il debitore e i creditori ai quali si indirizza l’ipotesi di accordo per il superamento della crisi. La cooperazione, pertanto, espressione del principio solidaristico, s’impone agli attori in gioco e orienta e guida l’esercizio dell’autonomia privata.
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1 . Crisi d’impresa e autonomia privata nel d.l. 118/21: cenni introduttivi
Il d.l. 118/21 (convertito in l. 147/21), con l’introduzione della composizione negoziata, rappresenta l’ultima manifestazione del costante dialogo e intreccio tra diritto civile (e diritto dei contratti, in particolare) e diritto commerciale (e della crisi, o pre-crisi d’impresa, nella specie), che, a partire dalle riforme del 2005, ha nel contratto e, più in generale, nell’esercizio dell’autonomia privata – con le più varie declinazioni, anche in termini, a seconda dei casi, di mediazione o disintermediazione giudiziale – lo strumento per eccellenza del risanamento o, anche, e in direzione opposta, dell’uscita dal mercato. Intreccio fecondo, non solo, ovviamente, perché la composizione negoziata, per il suo carattere stragiudiziale e, potenzialmente, riservato, si attua attraverso la stipulazione di contratti, come reso palese dalle possibili soluzioni delineate, con ampio “ventaglio” di ipotesi, dall’art. 11; ma, soprattutto, perché al centro della scena vi è, sì, l’autonomia privata, ma un’autonomia privata che, dal contesto e nel contesto della crisi d’impresa, viene ad essere, ora, “incentivata”, ora “controllata”, ora “guidata”. S’intende riferirsi, rispettivamente, agli incentivi bilaterali (perché per imprenditore e creditori, sia pur in misura asimmetrica), volti a facilitare il raggiungimento di un accordo per il risanamento; alla coesistenza della libertà di gestione dell’impresa, sia quanto ai pagamenti sia quanto agli atti di s.a., col controllo da parte dell’esperto; sia, infine, al tema – su cui, in via prevalente, si soffermeranno le presenti considerazioni – della rinegoziazione del contenuto dei contratti c.d. “di durata” e dell’eventuale adeguamento giudiziale (ma non dei contratti di lavoro, per ovvie ragioni, ove occorresse rafforzate dall’impianto della dir. 1023).
La principalenovità del d.l. 118, sul piano culturale, è nel tentativo di porre le basi affinché l’imprenditore – specie PMI – possa acquisire tempestiva consapevolezza delle condizioni di difficoltà (di grande rilevanza, in questa direzione, tra l’altro, è il c.d. “auto-test”, di cui alla Sezione I del Decreto dirigenziale del Ministero della Giustizia del 28.9.2021), delle possibilità di porvi rimedio in sede stragiudiziale e nel fornirgli analitiche indicazioni ai fini della predisposizione di un “corredo” documental-informativo completo sin dal momento in cui si avvia la procedura di composizione negoziata (si veda, al riguardo, l’art. 5, co. 3, d.l. 118). Il successo della fase stragiudiziale di composizione della crisi dipende, peraltro, in larga misura, dalla qualità – meglio, dall’autorevolezza (che, all’evidenza, è ben più della mera terzietà) – dell’esperto. Anche su questo il richiamato Decreto dirigenziale si sforza di costruire un percorso di formazione dettagliatamente descritto e che dovrebbe portare alla “creazione” di nuove figure professionali, diverse da quelle che, al presente, rivestono il ruolo di organi delle procedure concorsuali.
2 . L’obbligazione di negoziare secondo buona fede
Ecco perché la indiscutibile centralità dell’autonomia privata viene a “colorarsi” di note nuove, nel costante e indefettibile dialogo tra chi la esercita – in primis, l’imprenditore, ma, va da sé, anche i creditori – e l’esperto, manifestandosi quale autonomia privata “controllata” e “guidata”, per l’appunto dall’esperto. Prim’ancora, ai fini dell’accesso alla composizione negoziata, presentandosi quale autonomia privata “incentivata” (con un sistema premiale che richiama l’art. 24 CCI, ma con la novità di poter ricorrere alla rateazione dei debiti tributari ex art. 19 d.P.R. 602/73, anche se non iscritti a ruolo, cui adde l’art. 15 d.l. 118, norma che si ispira all’art. 14 CCI, calandolo nel nuovo contesto della composizione negoziata, nel presupposto della vigenza di altra disposizione, senz’altro innovativa, l’art. 2086 c.c.; ma si vedano anche la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione e dell’operatività delle cause di scioglimento). Anche l’autonomia privata dei creditori, per il vero, è “incentivata” (con deducibilità delle perdite ex art. 101, co. 5, TUIR) e, soprattutto, è, per così dire, “indotta”, nel senso che i creditori vengono indotti ad esercitare l’autonomia privata nella direzione della seria negoziazione di un accordo di risanamento: infatti, in caso di esito infruttuoso, l’evenienza dell’approdo nel concordato semplificato ex art. 18 d.l. 118, tra l’altro senza soglie di soddisfacimento, dovrebbe indurre a comportamenti cooperativi e non passivi, se non addirittura ostruzionistici, nella sede della composizione negoziata.
In essa, infatti, il legislatore insiste, forse anche con enfasi pleonastica sul piano precettivo, riguardo all’obbligazione di agire ex bona fide: l’art. 4, co. 4, d.l. 118, infatti, reitera il generale obbligo di comportamento secondo buona fede nel corso delle trattative ex art. 1337 c.c. Il co. 7 dell’art. 4 è rivolto a «tutte le parti coinvolte nelle trattative», le quali «hanno il dovere di collaborare lealmente e in modo sollecito» (non si tratta, peraltro, di tutti i creditori, bensì dei creditori “coinvolti”, possibile delimitazione della platea degli interlocutori di cui si ha conferma, in relazione all’attività dell’esperto, nell’art. 5, co. 5, ove si fa parola delle «parti interessate al processo di risanamento»: anche qui sta la flessibilità dello strumento in esame, perché a “geometria variabile”). E, con particolare riguardo al “ceto” bancario – la cui inerzia, specie in operazioni di risanamento di non significativo valore, risulta determinante per il “naufragio” di esse –, il co. 6, anticipazione della richiamata e successiva norma del co. 7, stabilisce che «le banche […] sono tenute a partecipare alle trattative in modo attivo e informato». Sul piano precettivo, il sesto comma non pare esigere un quid pluris dalle banche rispetto alla generalità dei creditori (coinvolti), a cui si indirizza il successivo comma 7: l’informazione è il presupposto della partecipazione (effettiva) ad una trattativa, e la partecipazione attiva è assimilabile alla partecipazione sollecita. Piuttosto, l’attenzione va focalizzata là dove il legislatore afferma che le banche «sono tenute a partecipare […]” e, più in generale, nel co. 7, là dove si legge che «le parti coinvolte nelle trattative […] danno riscontro […] con risposta tempestiva e motivata»: ciò perché il coinvolgimento è deciso dall’imprenditore ed è, dunque, atto unilaterale e discrezionale di quest’ultimo (se del caso, guidato dall’esperto), sì che è dato chiedersi se si sia inteso sancire, in primo luogo, l’obbligo di partecipare alle trattative, per poi procedere a quella specificazione di contenuto di cui si è detto (partecipazione attiva e informata, risposte sollecite, etc.). In effetti, nella Relazione al d.l. si legge che, «se l’impresa non riesce a perseguire il risanamento e viene dichiarata fallita per la mancata cooperazione delle parti chiamate al tavolo delle trattative [chiamate, per l’appunto, dall’imprenditore] […] le conseguenti responsabilità potranno essere oggetto di accertamento giudiziale». Una responsabilità, quindi, che, rispetto al generale modello dell’art. 1337 c.c. (relativo – è ben noto – alla modalità comportamentale nello svolgimento delle trattative), potrebbe retroagire ad una fase antecedente, imponendo la partecipazione alle trattative (ovviamente, dei creditori determinanti ai fini del buon esito dell’operazione di risanamento). D’altronde, si tratta di prendere parte non già ad una trattativa per l’instaurazione di una relazione contrattuale ex novo, bensì ad una trattativa nell’ambito di un procedimento volto, per il tramite (anche) della revisione dei rapporti debitori, a consentire il risanamento.
3 . L’esercizio dell’autonomia privata e i poteri di controllo dell’esperto
In ragione della natura squisitamente privatistica e non concorsuale della composizione negoziata, l’imprenditore permane nel pieno governo dell’impresa, senza che siano inibiti i pagamenti. Qui viene in rilievo quella che, in precedenza, si è indicata quale autonomia privata “controllata” e che concerne non solo i pagamenti, ma anche gli atti di straordinaria amministrazione.
L’art. 9 d.l. 118 prevede, infatti, che l’imprenditore informi l’esperto prima del compimento di atti di straordinaria amministrazione oppure prima di eseguire pagamenti che non siano coerenti con le trattative o con le prospettive di risanamento. Per quanto la formulazione linguistica sia al plurale (e, quindi, la non coerenza possa riferirsi anche agli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione), l’obbligo di informare l’esperto parrebbe concernere qualunque atto di straordinaria amministrazione e, quanto ai pagamenti, sussistere solo qualora l’imprenditore li ritenga non coerenti (ipotesi, per il vero, di improbabile verificarsi, perché, se egli stesso dovesse dubitare della relativa coerenza, si asterrebbe dal compierli). L’obbligo di segnalazione in ipotesi di ravvisata incoerenza, poi, opera con riguardo ad entrambe le fattispecie, mentre discrezionale è l’iscrizione del dissenso nel registro delle imprese (sì che la segnalazione potrebbe permanere ad uno stadio di confidenzialità); segnalazione che è, viceversa, obbligatoria, qualora, ad avviso dell’esperto, l’atto possa arrecare pregiudizio ai creditori. Come chiarito dal Decreto dirigenziale ex art. 3, co. 2, d.l. 118, sono ragionevolmente coerenti con l’andamento delle trattative, tra gli altri, i pagamenti delle retribuzioni ai lavoratori subordinati; dei debiti fiscali e previdenziali; dei ratei di mutuo o di leasing; dei debiti commerciali funzionali al ciclo degli approvvigionamenti di beni o servizi; possono essere coerenti – va aggiunto, se il “sottostante” è funzionale alla continuità – anche i pagamenti di debiti rateizzati, ove l’inadempimento fosse sanzionato con la decadenza dal beneficio del termine. Peraltro, adempiendo all’obbligazione di informazione preventiva (la cui violazione riterrei esponga a responsabilità risarcitoria), l’imprenditore può conseguire un significativo beneficio, sempre che non vi sia l’espressione del dissenso da parte dell’esperto, vale a dire l’esenzione da revocatoria, ai sensi del co. 2 dell’art. 12. Ma, al riguardo, lo scrutinio del peculiare atteggiarsi dell’autonomia privata deve interrompersi qui, perché il ragionamento che andrebbe svolto allontanerebbe significativamente dal tema centrale di queste considerazioni, vale a dire l’obbligo di rinegoziare, espressione dell’esercizio dell’autonomia privata “guidata”.
4 . La rinegoziazione dei contratti di durata e la rideterminazione giudiziale del relativo contenuto
Certamente di grande novità, infatti, perché su un tema tradizionalmente divisivo, soprattutto per i civilisti, è la norma dell’art. 10, co. 2, d.l. 118: essa regola la rinegoziazione, prima, e la rideterminazione giudiziale, poi, del contenuto del contratto ad esecuzione continuata o periodica, nonché – ma è fattispecie, all’evidenza, di minore portata – del contratto ad esecuzione differita.
Può essere utile compiere un breve passo indietro, d’ordine generale, sulla rinegoziazione. La dimensione contrattuale nell’ambito dell’attività d’impresa, oltre a manifestarsi attraverso contratti ad esecuzione istantanea, si manifesta, soprattutto, attraverso contratti ad esecuzione continuata o periodica, comunemente denominati, da alcuni decenni, “contratti di durata”, sebbene si tratti di categoria concettuale assente nel codice civile. Infatti, l’archetipo di parte generale è il contratto ad esecuzione istantanea e ad effetto traslativo, quale fattispecie per eccellenza attraverso cui trasferire il diritto di proprietà, fulcro – è ben noto – dei codici dell’età moderna. E’ vero che vi sono tipi contrattuali di parte speciale (su tutti, la somministrazione), nonché specifiche disposizioni (su tutte, l’art. 1664 c.c. sulla rideterminazione del corrispettivo del contratto d’appalto, nel caso di sopravvenienze) che valorizzano la rilevanza causale del tempo, a dispetto – quasi, potrebbe dirsi, in contrasto – con la disciplina di parte generale, unicamente di carattere demolitorio, con la sola preoccupazione della salvezza delle prestazioni già eseguite (e.g., art. 1458 e 1360 c.c.). Tuttavia, se si ha riguardo alla parte generale, l’irrilevanza della prospettiva diacronica – sembra paradossale – trova conferma proprio nella innovativa, al tempo del “varo” del codice civile, disciplina delle sopravvenienze nei contratti di durata, vale a dire l’art. 1467 c.c.: la scelta generale del rimedio “demolitorio” (giacché è il solo contraente non sfavorito dalla sopravvenienza a poter evitare la caducazione del rapporto, offrendo di modificare equamente le “condizioni” del contratto) conferma l’adozione – e qui riposa il paradosso – di una visuale istantanea o sincronica (che ha riguardo al momento in cui si realizza lo squilibrio).
La dimensione relazionale dei contratti di durata nell’ambito dei rapporti d’impresa, all’opposto, si caratterizza per la convergenza, e non per la contrapposizione, di interessi, che ruota proprio intorno al “valore” del tempo di svolgimento del rapporto, sì che, a maggior ragione in uno stato di crisi, il problema non è semplicemente di “sistemazione” del debito. Ovviamente, qualunque contratto, anche ad esecuzione istantanea, cristallizza un dato assetto di interessi e, per ciò stesso, rappresenta il punto di convergenza dei contrapposti interessi. Nei contratti di durata, però, vi è un quid pluris, vale a dire la cooperazione, che da essi si origina e che costituisce il “mastice” della realizzazione diacronica dell’interesse di entrambe le parti, il “collante” di una necessaria convergenza e, dunque, di comportamenti non opportunistici (quali quelli che possono sfociare nella stipulazione di un singolo contratto, uno actu), bensì, per l’appunto, necessariamente cooperativi (può essere utile osservare, in via di comparazione, che l’art. 1011 del Codìgo civil argentino, del 2015, nel regolare i “Contratos de larga duraciòn”, prevede l’obbligo di rinegoziare, peraltro senza menzionare esplicitamente le sopravvenienze, in quanto considera il tempo «essenziale per la realizzazione dell’oggetto, di modo che si producano gli effetti programmati dalle parti o si soddisfino le esigenze che le hanno indotte a contrattare»).
In questa direzione, uno dei fronti principali di fruttuoso incontro tra diritto civile e diritto della crisi d’impresa è proprio rappresentato dai contratti di durata, che per l’arco temporale che li connota, pongono in esponente la (possibile) esigenza di rinegoziare il relativo contenuto, e non già di demolire il rapporto, quale “strumento”, la rinegoziazione, tra gli altri, per superare la crisi: e la rinegoziazione si presenta quale massima espressione dello “spirito” cooperativo che innerva il rapporto di durata. Si tratta, dunque, di aver riguardo all’operazione economica nella sua interezza (indipendentemente dall’essere, o non, l’operazione economica categoria concettuale ordinante), non isolando l’attenzione sulla fattispecie in sé, bensì prendendo in esame il complessivo assetto d’interessi divisato dalle parti. Si tratta, per il vero e su un piano generale, di un dato acquisito alla riflessione della dottrina e della giurisprudenza: basti pensare al fenomeno dei contratti collegati o ancora alla sempre più ricorrente tendenza del legislatore europeo a disciplinare “attività” e non “atti” o “fattispecie” (emblematica è, tra le altre, la direttiva sulle garanzie finanziarie, n. 47/2002). Ecco, appunto, che l’innesto del contratto nell’attività d’impresa implica la valorizzazione della dimensione diacronica dell’attività anche sul piano dell’atto, vale a dire del contratto, che, d’altronde, è programma o pianificazione di una determinata operazione economica che, se di durata, ha, nel suo nucleo causale, il tempo come fattore determinante.
La sopravvenienza altera la programmazione originaria, ben oltre l’alea normale del contratto, e impone l’adozione di rimedi “manutentivi” più che “demolitori”, per rispettare il “disegno” cooperativo. In questa prospettiva, è noto, viene in rilievo la buona fede nell’esecuzione del contratto, ex art. 1375 c.c., giungendosi a ritenere, secondo l’orientamento oggi dominante, che, in presenza di sopravvenienze, vi sia l’obbligo – pur se non stabilito nel regolamento pattizio – di rinegoziare il contenuto, per consentire a quel regolamento di produrre effetti coerenti con l’originaria programmazione, sconvolta dalle sopravvenienze. O, se si vuole, in una prospettiva parzialmente diversa, perché non passa attraverso l’obbligo di rinegoziare, ipotizzandosi – secondo altre impostazioni – il ricorso all’equità ex art. 1374 c.c. (sebbene, per l’appunto, di equità integrativa dovrebbe trattarsi, e non già correttiva). L’esigenza di approntare una tutela conservativa in caso di sopravvenienze appare ancor più opportuna se si ha riguardo al fenomeno del c.d. “terzo contratto”, vale a dire alla sostanziale asimmetria, informativa e di potere negoziale, che, nel concreto, assai spesso connota i rapporti contrattuali d’impresa: un’asimmetria emersa all’attenzione legislativa soprattutto con la disciplina dell’abuso di dipendenza economica, ai sensi dell’art. 9, l. 192/98, ritenuta, oramai pacificamente, “transtipica”, a partire da una pronuncia della Suprema Corte, n. 24906 del 2011.
Rispetto a questo contesto generale, la norma dell’art. 10, co. 2, d.l. 118 non introduce affatto nell’ordinamento la disciplina della c.d. “hardship”, in quanto non regola una fattispecie generale di ri-negoziabilità dei “long-term contracts”, come sarebbe stato se si fosse collocata in “scia” della soft-law dell’Unidroit (artt. 6.2.2 e 6.2.3.) o dei c.d. “PECL” (art. 6:111, n. 2, in tema di “Change of circumstances”) o, ancora, del DCFR (art. III – 1:110 in tema di “Variation or termination by court on a change of circumstances”). O, ancora, per richiamare norme di diritto positivo (dunque, disposizioni di c.d. “hard-law”) di ordinamenti giuridici coi quali siamo soliti confrontarci da sempre nell’età moderna:
(i) il §313 BGB («Se le circostanze divenute fondamento del contratto si sono modificate, con grave incidenza [in misura significativa], dopo la conclusione e le parti non avrebbero concluso il contratto o lo avrebbero concluso con un contenuto diverso, se avessero previsto tali mutamenti, può chiedersi l’adeguamento del contratto, qualora, non possa pretendersi che la parte resti vincolata al contratto immodificato, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto e, in particolare, alla distribuzione contrattuale o legale del rischio. […]»), come novellato dalla “Modernisierungsgesetz” del 2002 (ma in un sistema che, da tempo, conosceva la presupposizione o “Voraussetzung”, prima, e la c.d. base negoziale o “Geschäftsgrundlage”, poi, e, per l’effetto, l’adeguamento del contratto o “Vertragsanpassung”);
(ii) ancor di più, l’art. 1195 del Code civil (francese) del 2016, perché di totale innovazione rispetto al passato, secondo cui «qualora si verifichi un mutamento imprevedibile delle circostanze avute presenti al tempo della conclusione del contratto, tali da renderne l’esecuzione eccessivamente onerosa per la parte che non aveva assunto il relativo rischio, questa può richiedere la rinegoziazione alla sua controparte. […] In mancanza di accordo in un termine ragionevole, il giudice può, ad istanza di parte, revisionare [adeguare] il contratto o porvi fine […]».
Nella stessa direzione, ancor più di recente, è andato il d.d.l. n. 1151, presentato al Senato dal primo Governo Conte (e lì rimasto quiescente), di delega al Governo per la riforma del codice civile: vi si prevedeva, all’art. 1, lett. i), che, in ipotesi di «contratti [recte: prestazioni] divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili”, le parti potessero “pretender[n]e la […] rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali, in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti» medesime.
Spingendosi ancora oltre, si potrebbe addirittura schiudere l’adito ad una riflessione in ordine alla crisi d’impresa quale “causa sufficiente” per la rideterminazione del contenuto del contratto, indipendentemente da sopravvenienze dovute ad eventi straordinari e imprevedibili (la crisi, di là dall’attuale fase pandemica, di regola essendo tutt’altro che il frutto di eventi imprevedibili). La crisi o, meglio, il superamento di essa e la preservazione della continuità aziendale, secondo il solco da ultimo tracciato dalla direttiva “insolvency” (1023/2019), potrebbero ergersi a fondamento della rinegoziazione: e qui si dovrebbe, allora, discutere della tutela del credito, nel sistema della direttiva, e del «miglior soddisfacimento» dei creditori, con ruolo almeno in parte recessivo nella normativa comunitaria, rispetto al nostro ordinamento nazionale; ma il discorso porterebbe assai lontano. All’evidenza, comunque, il legislatore del d.l. 118 non è giunto a tanto; e bene ha fatto, avuto riguardo alla “divisività” del tema della rinegoziazione, in generale, e della sede legislativa dello specifico intervento, emergenziale. Fermo restando – va, però, aggiunto – che la disposizione in parola costituisce la prima “epifania” normativa della rinegoziazione e dell’adeguamento contrattuale (se si eccettua la disciplina in tema di locazione, appresso menzionata); e si tratta di circostanza tutt’altro che secondaria.
In effetti, vi è una sostanziale differenza tra il dibattito generale in tema di hardship e l’intervento dello scorso agosto del legislatore dell’emergenza: il dibattito generale aveva riguardo allo stravolgimento del singolo programma negoziale di medio-lungo termine; la crisi, a cui ha riguardo il legislatore del d.l. 118, anche ai fini della rinegoziazione del contenuto del contratto, è crisi di sistema e non del singolo rapporto. Il che pone necessariamente all’attenzione dell’interprete l’esigenza di procedere ad una valutazione particolarmente attenta del possibile “effetto domino” che la rideterminazione del contenuto potrebbe avere non solo sulla controparte, ma anche sui suoi aventi causa.
Anche per questo l’art. 10, co. 2, regola attentamente l’iter che può portare all’intervento giudiziale, e delimita rigorosamente i relativi presupposti, che ruotano, sì, intorno all’eccessiva onerosità sopravvenuta, ma per effetto del Covid. Tale rigorosa delimitazione, infatti, non è solo volta ad «evitare ricorsi indiscriminati al provvedimento d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c.» (con risultati, peraltro, nel concreto altalenanti), come si legge nella Relazione al d.l. 118, bensì, e soprattutto, è volta ad evitare di attribuire al giudice una discrezionalità eccessiva, quale si avrebbe ove gli si chiedesse di basarsi solo su clausole generali, quale quella di buona fede; all’opposto, lo si dota di parametri tali da delineare, con sufficiente puntualità, il “perimetro” del suo intervento di adeguamento.
Proprio in questo ambito, per così dire, “governato”, si colloca la più rilevante novità sul punto, vale a dire che, in caso di rinegoziazione non solo tout court mancata (con violazione dell’obbligazione ex bona fide), ma fallita (anche, in ipotesi, senza responsabilità), possa intervenire il giudice a ri-determinare il contenuto del contratto (che, indubbiamente – per l’alea sempre insita nel rimettersi al giudizio di un terzo, sebbene “governata”, come or ora osservato, da una serie di presupposti espressamente indicati dal legislatore –, ha una valenza indirettamente suasoria verso l’osservanza di un comportamento effettivamente cooperativo nel corso della rinegoziazione stragiudiziale).
E’ il caso di rammentare che il tema della c.d. “rinegoziazione pandemica” è stato affrontato da subito, specie dalla dottrina civilistica. Vi sono state svariate proposte, lo scorso anno: basti cennare a quella dell’Associazione dei Civilisti Italiani (che aveva suggerito di introdurre nel c.c. l’art. 1468-bis per imprenditori minori e professionisti iscritti ad albi, che, in conseguenza delle misure di contenimento, avessero subito una contrazione degli ordinari flussi di cassa, prevedendosi l’obbligo della rinegoziazione, ma con esclusivo approdo risarcitorio, in caso di violazione, e una serie di cautele accessorie) oppure a quella dello European Law Institute (Principio 13, circa l’obbligo di rinegoziare secondo buona fede, se l’esecuzione della prestazione sia divenuta «eccessivamente difficoltosa […], incluso il caso in cui il costo di tale prestazione sia aumentato in modo significativo»). Dunque, proposte solo in punto di obbligo di rinegoziazione (mentre il documento del luglio dello scorso anno, del Segretariato Unidroit, relativo ai Principi Unidroit sui contratti del commercio internazionale e alla crisi sanitaria da Covid, andava, sì, nella direzione della rideterminazione contenutistica, ma perché meramente applicativo della menzionata, e preesistente al Covid, clausola in tema di “hardship”). Senza trascurare lo studio n. 56, del luglio dello scorso anno, dell’Ufficio del Massimario, assai articolato, nel quale – in conclusione – si adombrava, viceversa, un’ipotesi di rideterminazione giudiziale ex art. 2932 c.c., soluzione, tuttavia, per l’appunto solo adombrata, perché, dichiaratamente (aspetto trascurato da taluno in dottrina) pressoché impossibile da riscontrare nel concreto (in quanto è dal regolamento contrattuale che dovrebbero «emergere i termini in cui le parti hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto», così da fornire al giudice «i criteri atti a ristabilire l’equilibrio negoziale», tanto da farsi parola di «angusto contorno»).
Sul piano legislativo, di là dall’unica norma di “respiro” generale (sulla necessità di valutare «sempre» il rispetto delle misure di contenimento «ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c. [dunque, dell’inadempimento e del conseguente risarcimento], della responsabilità del debitore»: è l’art. 3, co. 6-bis, d.l. 6/2020, regola, peraltro, già rinvenibile nell’ordinamento), la più parte degli interventi legislativi è proceduta in una direzione, per così dire, “verticale”, a sostegno di una delle parti (si pensi alle detrazioni d’imposta per i conduttori), e non in una direzione “orizzontale” (operando sul contenuto del rapporto). Fanno eccezione, ma quali normative micro-settoriali, le previsioni di riduzione del canone nella misura presuntiva del 50% per impianti sportivi di proprietà di privati, limitatamente a 5 mensilità, da marzo a luglio 2020, di cui all’art. 216, co. 3, l. 77/2020, di conversione del c.d. “Decreto Rilancio”; più sensibile, perché non settoriale, bensì relativa ad un tipo contrattuale, la previsione dell’art. 6-novies, l. 69/2021, di conversione del c.d. “Decreto Sostegni”, con riguardo all’obbligo di rinegoziare il canone di locazione, per un massimo di 5 mesi, nel caso in cui il locatario non abbia già fruito di benefici di carattere economico e finanziario, normativi o pattizi, abbia subìto una diminuzione del 50% del fatturato tra il 1° marzo 2020 e il 30 giugno 2021, rispetto al corrispondente periodo 2019-20, e abbia subito la chiusura – obbligatoria, dunque – dell’attività per almeno duecento giorni anche non consecutivi a partire dall’8 marzo 2020. Al riguardo, è significativo segnalare che il d.l. 41/2020 conteneva solo il generico obbligo di rinegoziazione, poi fortemente delimitato in sede di conversione, con l’inserimento degli stringenti presupposti appena indicati.
Venendo più da presso all’art. 10, co. 2, e procedendo con ordine: è l’esperto ad invitare le parti alla rinegoziazione, il che non toglie che l’invito possa provenire anche dall’imprenditore in crisi; tuttavia, l’assunzione dell’iniziativa da parte dell’esperto (a riprova di un ruolo che non si esaurisce nella mera facilitazione delle trattative), siccome – deve ritenersi – muove da una preliminare valutazione della ricorrenza dei relativi presupposti, anche se prima facie, è certamente più persuasiva ai fini dell’avvio di una effettiva ri-negoziazione. Qui, fermo quanto osservato in precedenza con riguardo alle trattative in generale coi creditori «interessati» (art. 4, co. 4 e ss., d.l. 118), non appare dubitabile che vi sia l’obbligo di “sedersi al tavolo” della rinegoziazione, chiunque sia ad avervi dato impulso, esperto o imprenditore.
La più significativa novità – come cennato in precedenza – è nell’intervento sostitutivo (nei riguardi dell’autonomia privata) del giudice, che può essere adito dall’imprenditore: in teoria – perché, nella pratica, si tratta di ipotesi di improbabile, se non impossibile, verificarsi – anche senz’aver previamente esperito un tentativo di rinegoziazione nella sede della composizione negoziata, che non sembra porsi, dunque, quale condizione di procedibilità dell’azione.
La continuità aziendale, poi, è l’indefettibile finalità della rideterminazione del contenuto del rapporto (in coerenza con l’intero impianto del d.l. 118): quella ri-determinazione, infatti, dev’essere «indispensabile ad assicurare la continuità aziendale», sì che l’adeguamento del contenuto dovrebbe limitarsi a contratti di valenza strategica o, comunque, di rilevanza centrale nell’esercizio dell’impresa. E, però, non è sufficiente di per sé sola, occorrendo – lo si ripete – che la prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa «per effetto della pandemia da Sars-Cov2». La modificazione giudiziale del contenuto, va aggiunto, è per il solo tempo «strettamente necessario», potendovisi, inoltre, procedere solo dopo aver «tenuto conto delle ragioni dell’altro contraente»: inciso che non sta ad indicare semplicemente ed esclusivamente l’esigenza del bilanciamento dei contrapposti interessi (connaturata a qualsivoglia intervento equitativo), ma che richiama l’attenzione sia sulle condizioni di mercato sia, soprattutto, sulle possibili conseguenze pregiudizievoli che la rideterminazione in parola potrebbe arrecare alla controparte. Infatti, va ribadito che non si è dinanzi – come nelle oramai tradizionali clausole di “hardship” – ad una crisi del singolo contratto per eventi imprevedibili, bensì ad un crisi di sistema (sì che gli squilibri contrattuali da pandemia sono divenuti – per riprendere le parole di un’autorevole dottrina civilistica – per così dire «’vizio’ del mercato, nei termini di una crisi generalizzata dell’impresa […]», a causa delle misure adottate per contrastare l’emergenza sanitaria). Con l’aggravante che l’intervento a sostegno dell’una parte potrebbe generare effetti distruttivi a cascata sull’altra e sulle controparti di quest’ultima (e non è un caso che il legislatore, come si ricordava poc’anzi, abbia preferito, sin qui, intervenire in linea, per così dire, “verticale”, in pro di una delle parti, e non già in linea “orizzontale”, sul piano dei rapporti inter partes).
Ciò posto, la richiamata “cifra” cooperativa rende ragione della modificabilità del contenuto, non solo economico: il ripristino dell’equilibrio, qui necessariamente scosso dalla pandemia (fonte dell’eccessiva onerosità sopravvenuta), non si attua, giocoforza, rideterminando le “condizioni” economiche del rapporto, ma può passare attraverso la ri-determinazione di altri profili regolamentari, quale, ad es., la durata, anche, in ipotesi (forse, estrema), a corrispettivo invariato (di modifica delle «condizioni», senza ulteriori specificazioni, d’altronde, fa parola l’art. 1467, co. 3, c.c.). Di qui la previsione della possibile fissazione giudiziale di un indennizzo, a beneficio della parte non in crisi, se funzionale ad assicurare l’equilibrio tra le prestazioni: ma non nel senso di stabilire la riduzione del corrispettivo a vantaggio dell’uno e l’indennizzo a vantaggio dell’altro, perché, a quel punto, sarebbe più logico disporre una minore riduzione del corrispettivo. D’altronde, e come ovvio, concettualmente “indennizzo” non sta ad indicare “integrale ristoro”; peraltro, com’è stato ben osservato, l’indennizzo non deve, a sua volta, ostacolare il ripristino dell’equilibrio economico-finanziario dell’impresa e potrà anche essere dilazionato nel tempo, se più confacente a quel ripristino.
Manca, nella norma in esame, il riferimento – che si ha, ad es., ne(ll’art. 6.2.3 dei Principi Unidroit oppure nel richiamato d.d.l. Senato n. 1151 –, rispettivamente, all’adattamento del contratto «al fine di ristabilire l’equilibrio delle prestazioni» e al ripristino «della proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta tra le parti». Tuttavia, non diversamente dall’art. 1467 c.c., la rideterminazione equitativa del contenuto (non esclusivamente economico) muove dall’eccessiva onerosità sopravvenuta di una delle prestazioni; sì che la finalità non può che essere il recupero di quella “proporzione”, ma in una direzione non squisitamente matematica (d’altronde, anche il legislatore francese è muto sul punto, facendo solo parola del potere del giudice di «réviser le contrat»). In tempi oramai lontani (era l’inizio degli anni ’60) un autorevolissimo studioso francese, Carbonnier, aveva scritto che, in mancanza di accordo, «il giudice non deve procedere ad un riequilibrio matematico del contratto, ma ad un regolamento equitativo, [aggiungeva] ‘transactionnel’, nel quale i due interessati saranno chiamati a contribuire alle perdite». E, dunque, se si vuol ragionare di “proporzione originaria”, lo si può pure fare, purché sia chiaro che non si tratta di ripristinare il rapporto economico tra le prestazioni, tra l’altro perché la revisione contrattuale potrebbe tradursi nella revisione di profili non immediatamente economico-patrimoniali, quale la durata del rapporto (si ha conferma di quanto precede, e del parametro per l’adeguamento, nelle attente considerazioni svolte dall’Ufficio del Massimario nel richiamato studio n. 56 del 2020, in cui, se, da un canto, il riferimento è alla «preservazione dell’originario equilibrio», dall’altro, opportunamente si sottolinea che «plurime sono le modalità di adeguamento del rapporto», esemplificandosi in punto di modifica delle modalità attuative della prestazione). E’, comunque, condivisibile la scelta del legislatore del d.l. 118 di non aver ingenerato fraintendimenti, omettendo tout court il riferimento alla proporzione originaria tra le prestazioni.
Molto rilevante, infine, è – per il giudice – poter conoscere il comportamento delle parti nel corso del tentativo di rinegoziazione, anche al fine di consentirgli, se del caso, di condannare al risarcimento dei danni. Quand’anche, infatti, il giudice disponesse l’adeguamento del contratto, vi sarebbe spazio per una statuizione risarcitoria, là dove, nella fase della composizione negoziata, si fosse agito in spregio alla buona fede, non osservando una condotta effettivamente cooperativa. In questa direzione, le preoccupazioni – pur comprensibili – in ordine all’obbligo di riservatezza, nella specie dell’esperto, con riguardo al contenuto di quel tentativo, “naufragato”, di rinegoziazione, dovrebbero, forse, cedere il passo dinanzi alla necessità di “disclosure” nei riguardi del giudice. Salvo a ritenere che l’esperto, nel parere che è richiesto di rendere al Tribunale, debba limitarsi a tratteggiare in modo (apparentemente) asettico il “ventaglio” delle possibilità di adeguamento (apparentemente, perché sfronderà il suo parere da ogni riferimento al concreto svolgersi della negoziazione, esprimendo un’opinione con riguardo a ciò che ha concretamente sperimentato); sarà, però, l’imprenditore a dedurre le condotte inadempienti altrui e a chiedere che il giudice assuma dall’esperto «le informazioni necessarie», come indica il comma 2 dell’art. 10, d.l. 118. In ogni caso, nel parere, l’esperto dovrà rappresentare che l’intervento modificativo è «misura indispensabile» ad assicurare la continuità aziendale e indicare il «periodo strettamente necessario» a tal fine.

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