Saggio
Appunti in tema di DURC e concordato preventivo in continuità*
Alessandro Farolfi, Giudice nel Tribunale di Ravenna
30 Novembre 2020
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Nel poco spazio a disposizione, questo intervento ha quindi l’obiettivo, per quanto è possibile fare, di ricostruire sinteticamente questo sistema di fonti, cercando altresì di fornire anche qualche indicazione di carattere pratico per gli uffici chiamati ad operare in merito.
Per iniziare, si deve ricordare che il DURC, o documento unico di regolarità contributiva, è stato introdotto dall'articolo 1 comma 1175 e 1176 della legge n. 296/2006 [2] ed è poi stato attuato da un primo decreto ministeriale del 24/10/2007 [3], di cui in particolare appare rilevante per quanto qui interessa l'articolo 5; troviamo poi una riscrittura di questa disciplina regolamentare con il decreto ministeriale 30/01/2015 [4] di cui in questa sede vengono in particolare in evidenza gli articoli 3 e 5. Va peraltro subito aggiunto che questo decreto ministeriale del 2015 è stato poi quasi immediatamente modificato, in alcuni aspetti che vedremo, da un successivo decreto ministeriale del 23/02/2016[5]: questo anche per sottolineare come la tematica assegnata sia oggetto di una serie stratificata di disposizioni, alle quali nel tempo hanno fatte seguito, naturalmente, una serie di risposte ad interpello e circolari del Ministero del Lavoro, sulle quali in questa sede evidentemente si offrirà unicamente qualche indicazione di massima, anche perché sicuramente materia già nota ai destinatari di questo intervento.
Quello che credo sia importante sottolineare sin da subito, ogni qual volta si affrontano temi della disciplina concorsuale che si intrecciano strettamente con altre normative di diritto comune o amministrativo o, ancora, come in questo caso, con le peculiarità connesse all’ente gestore di crediti contributivi e previdenziali, è cercare di comprendere come queste relazioni portino a soluzioni distoniche rispetto a quelle ordinarie o, comunque, di diritto comune per la prevalenza che occorre assegnare alla concorsualità. Al riguardo è opportuno, infatti, partire da una premessa: la disciplina delle procedure concorsuali è tradizionalmente una disciplina speciale; una disciplina speciale che il nostro legislatore volta a volta, a seconda anche - bisogna ammetterlo - delle contingenze sociali ed economiche, fa prevalere su altre discipline ordinarie astrattamente applicabili alla medesima fattispecie.
Alcune esemplificazioni possono meglio chiarire questo concetto, destinato altrimenti a sembrare un astratto esercizio teorico, quando invece le ricadute sui rapporti concreti sono invece innegabili. Ad esempio, in materia di rapporti contrattuali pendenti la normativa concorsuale attribuisce delle facoltà al curatore che qualsiasi altro contraente privato di diritto comune non ha, né potrebbe vantare[6]. Così, se il rapporto contrattuale intercorso fra la società poi fallita ed un terzo è ancora pendente al momento dell’apertura del concorso, questo rapporto può rimanere sospeso e il curatore può non in ogni tipo di rapporto, ma comunque molto spesso a sua insindacabile decisione - chiaramente confrontandosi con il Comitato dei creditori sotto la vigilanza e l'autorizzazione del delegato - decidere se proseguire oppure sciogliersi da questo rapporto. Basterebbe questa semplice indicazione per comprendere l’importanza del tema, ma si potrebbero fare anche degli esempi in materie in cui si assiste ad un conflitto/concorso di disposizioni della legge concorsuale e disposizioni del diritto societario, come ad esempio la tematica delle operazioni straordinarie nel concordato preventivo[7].
Quello a cui si vuole alludere, in altri termini, è in realtà proprio questa problematica di fondo: verificare in concreto la prevalenza o meno, oppure la specialità o meno, della disciplina concorsuale rispetto a quella che altrimenti comunemente si verrebbe ad applicare, e questo certamente – per ritornare al tema assegnato – riguarda anche il DURC relativo alle imprese in crisi, così da comprendere come la soluzione del caso concreto sia spesso “piegata” alle logiche del diritto concorsuale o fallimentare tout court, piuttosto che a quelle che ordinariamente regolerebbero la fattispecie, qualora la stessa non coinvolgesse una impresa insolvente.
Ciò posto, le problematiche relative al rilascio del DURC sono chiaramente di preminente rilievo per quelle imprese che si occupano di appalti, e in particolare di appalti pubblici, un settore certo abbastanza peculiare ma estremamente importante per il nostro paese[8]. Legate alla regolarità contributiva attestata dal DURC vi sono, infatti, non soltanto alcune disposizioni di favore nella legislazione fiscale o amministrativa, ma soprattutto si pongono dei vincoli alla partecipazione alle gare per l'aggiudicazione di contratti d'appalto di lavori pubblici e molto spesso delle forti limitazioni contrattuali, anche nella fase esecutiva. Questo perché, con un esempio particolarmente paradigmatico, i pagamenti vengono solitamente eseguiti soltanto qualora il DURC del debitore, appunto, sia regolare. Tale questione deriva a sua volta da una disposizione che occorre tenere ben presente: si tratta dell'articolo 29 comma 2 del d.lgs. n. 276/2003 il quale stabilisce che il committente nei limiti di due anni dalla cessazione del contratto appalto è obbligato in solido con l'appaltatore e gli eventuali subappaltatori con riferimento ai trattamenti retributivi, nonché ai contributi previdenziali ed ai premi assicurativi che risultano dovuti con riferimento al periodo di esecuzione del contratto[9]. Ora, se in questa sede non è certo possibile entrare nel dettaglio di questa disposizione, è comunque chiaro che si tratta di una previsione cruciale, perché nessuno paga “a cuor leggero” correndo il rischio di essere costretto a pagare due volte, prima per il corrispettivo dovuto all’appaltatore, poi in corresponsabilità in base a questa disposizione, al fine di far fronte ai salari o ai debiti contributivi relativi ai dipendenti che sono stati impiegati nelle lavorazioni dell'appalto, e quindi correndo sostanzialmente il rischio di dover pagare due volte per le stesse opere. Non è quindi una sorpresa che il pagamento del corrispettivo venga sovente condizionato alla regolarità del Durc.
Ora questo problema, è facile comprendere, è destinato ad amplificarsi di fronte ad un'impresa in crisi che, tradizionalmente, incontra un problema insormontabile a soddisfare immediatamente e regolarmente i crediti anteriori. Proprio qui si palesa, secondo quella che potremmo definire una prima chiave di lettura, una prevalenza del diritto concorsuale, proprio perché questo ramo del diritto si occupa in qualche modo di realizzare - seppure con delle deroghe sempre maggiori – la par condicio creditorum, ossia una parità di trattamento fra tutti i creditori concorsuali. Evidentemente se si condizionasse il rilascio del DURC all'integrale pagamento di tutti i crediti anteriori per contributi, si finirebbe per realizzare di fatto una sorta di prededuzione indiretta: quindi qui si colloca in qualche modo uno primo vulnus nella disciplina ordinaria ad opera della normativa concorsuale.
Peraltro, va detto che già con riferimento al decreto ministeriale del 24 ottobre del 2007, il Ministero aveva in qualche modo fatto fronte a questa problematica emanando una Risposta ad interpello del 21 dicembre del 2012. Prima di affrontare funditus tale atto di indirizzo interpretativo, occorre però evidenziare un aspetto, legato alla seguente domanda: per quale motivo, nonostante il decreto ministeriale che ha disciplinato il DURC sia del 2007 dobbiamo attendere la fine del 2012 perché il Ministero affronti questo tipo di problematica con riferimento alle imprese insolventi o in crisi? Certamente un ritardo è fisiologico e fa parte del rilievo che, almeno inizialmente, i nuovi istituti stentano a trovare applicazione, ed occorre attendere il consolidarsi delle prime prassi dei diversi uffici coinvolti affinché emerga la consapevolezza delle questioni interpretative aperte. Io credo che, tuttavia, questo ritardo derivi anche dal fatto che negli anni 2008-2009 troviamo una prima profonda crisi dopo un periodo di espansione e, proprio nel corso del 2012, si è assistito all'introduzione di due istituti che da quel momento sono divenuti cruciali nella disciplina della crisi d'impresa: da un lato la previsione del concordato “in bianco”, meglio chiamato concordato prenotativo, il ricorso cioè previsto all'articolo 161 comma 6 della legge fallimentare e, dall'altro, l'introduzione dell'articolo 186 bis sul concordato in continuità. Si badi, il concordato in continuità non è certo un'invenzione del legislatore, anche prima del 2012 erano utilizzati dagli operatori dei piani riconducibili a concordati in continuità. Tuttavia, l’art. 186 bis L. fall. contiene la prima definizione espressa di questo istituto ed è una norma che, in particolare, contiene alcune prescrizioni specifiche (si pensi all’attestazione speciale di cui al comma 2, lett. b) ed una disciplina speciale e di favore. Nella stessa si coglie, ad esempio, una norma di favore immediato che riguarda la continuità dei contratti pubblici; ma si tratta di una norma che a sua volta, per quanto accennato, presuppone chiaramente che il DURC dell’impresa in concordato sia regolare, altrimenti la stessa programmata continuità finirebbe per risultare unicamente un vago programma irrealizzabile.
Tornando perciò al tema della regolarità contributiva, vi è da chiedersi se possiamo in qualche modo imporre ad un'impresa in crisi l'integrale pagamento dei relativi debiti pregressi. Non si vuole affermare certamente che tale problematica si ponga in ogni operazione di restructuring, perché vi sono evidentemente situazioni molto variegate e proposte concordatarie che prevedono la soddisfazione integrale dei creditori privilegiati. Ma in non pochi casi così non è, portando con sé tutto il problema relativo alla ex “transazione fiscale” oggi divenuta più semplicemente una forma di trattamento (falcidiato) dei creditori privilegiati di cui all'articolo 182 ter L. fall., così come modificato dalla legge n. 232/2016[10]. Si tratta di un aspetto problematico che si rapporta con un trend che non è difficile individuare nella legislazione della crisi di impresa: quello cioè di favorire per quanto possibile tutte le disposizioni che sono rivolte a facilitare il ritorno in bonis di un'impresa in difficoltà, mantenendone in essere la continuità aziendale ed evitando una desertificazione delle realtà produttive italiane. E’ chiaro che si tratta di un equilibrio difficilissimo, come è stato già meglio di me illustrato dagli altri relatori che mi hanno preceduto. Si tratta di un equilibrio complesso, perché da un lato occorre certo tutelare l’incasso dei crediti privilegiati di tipo erariale in senso lato, ma dall'altro occorre considerare che la chiusura delle realtà produttive ed i licenziamenti potrebbero determinare a livello sistemico delle conseguenze addirittura peggiori dell’ammissibilità di una falcidia al riguardo. E proprio seguendo questo secondo “corno” del dilemma il legislatore è recentissimamente nuovamente intervenuto, come si accennerà in chiusura, sugli artt. 180, 182 bis e 182 ter L. fall.
Riprendendo le fila del nostro discorso, come si diceva, con l'interpello n. 41 del 2012 il Ministero del lavoro ricordava già allora che il concordato preventivo è uno strumento che è volto a consentire la salvaguardia delle imprese che versano in uno stato di crisi e quindi diretto a tutelare l'impresa; perciò di fronte ai concordati preventivi in continuità veniva in considerazione – secondo detto atto interpretativo - l'articolo 5 comma 2 lettera B del d.m. 24 ottobre 2007, con una disposizione che poi ritroveremo anche nel decreto ministeriale del 2015, la quale prevedeva perciò, giusto appunto, che la regolarità contributiva sussistesse anche in caso di sospensioni nei versamenti a seguito di disposizioni legislative[11].
Fra queste ultime ipotesi di sospensione ex lege viene qui in considerazione l’esigenza del rispetto della par condicio, che si realizza anche attraverso una disposizione come l'articolo 168 L. fall.; si tratta di una disposizione che inibendo la possibilità per i creditori di esercitare azioni esecutive, o intraprendere iniziative aggressive sul patrimonio del debitore, è stata intesa come tale da vietare altresì il pagamento stragiudiziale di crediti anteriori alla pubblicazione sul registro delle imprese del ricorso previsto dall'articolo 161 o della domanda con cui si chiede l'omologa dell'accordo di ristrutturazione. Tale adempimento, in qualche modo, segna anzi uno spartiacque che è particolarmente rilevante proprio con questo tipo di concordato preventivo, perché appunto si ritiene che il creditore non possa conseguire volontariamente quello che non potrebbe neppure ottenere attraverso l'esecuzione forzata; e quindi sostanzialmente la giurisprudenza e la dottrina prevalente distinguono con riferimento a questo momento fra crediti anteriori e crediti posteriori. Pertanto, parlare di regolarità contributiva in questa fattispecie significa prendere atto che appunto vi è una norma di legge che impedisce il pagamento, come se si trattasse di una sorta di factum principis, per cui dal momento della pubblicazione del ricorso per l’accesso al concordato preventivo quel contegno che prima era certamente una forma di inadempimento diventa invece un comportamento doveroso. Con l’apertura della procedura di concordato, quindi, più semplicemente, si determina una situazione in cui diventa legittimo nella logica del diritto concorsuale il fatto che il debitore, l'imprenditore, non paghi i contributi precedenti, in quanto crediti anteriori[12]. Esiste in teoria, occorre aggiungere, la possibilità di avanzare una richiesta al giudice al fine di essere autorizzato a pagare i c.d. creditori o fornitori strategici: si tratta di una facoltà che è prevista all'articolo 182 quinquies, quarto comma, L. fall. Ma va subito aggiunto che la stragrande maggioranza della giurisprudenza ritiene che questa disposizione non sia applicabile al debito contributivo anteriore. Invece, dal momento in cui inizia la fase di concordato “in bianco”, le disposizioni prevedono che tutti i crediti per atti “legalmente compiuti” che sorgono durante questa fase siano prededucibili (cfr. art. 161 co. 7 ultimo periodo L. fall.), quindi viene meno il divieto di pagamento e occorre in qualche modo essere in regola nel pagamento dei debiti contributivi correnti, che maturano cioè nel corso della procedura concordataria in continuità aziendale.
Rispetto alla prima disciplina contenuta nel decreto ministeriale 24 ottobre 2007, si può certo affermare che questa indicazione ministeriale del 2012 fosse abbastanza favorevole per le procedure concordatarie mentre l’impressione, almeno stando alla verifica dei precedenti giurisprudenziali, è che qualcosa si sia complicato con la seconda ed ancora attuale disciplina, contenuta nel decreto ministeriale 30 gennaio 2015[13]. Tale conclusione si fonda sulla circostanza che il nuovo decreto del 2015 non contiene più soltanto una norma generale quale era quella contenuta nel “vecchio” articolo 5 del decreto ministeriale del 2007 (oggi invece riportata dall'attuale articolo 3 co. 2 lett. c), ma introduce una disposizione ad hoc in tema di procedure concorsuali, con l'articolo 5, che tuttavia non appare particolarmente perspicua ed è destinata, anzi, a creare più problematiche che altro – a parere del relatore – con riferimento particolare alla figura del concordato in continuità[14].
Credo che nel contesto di questo intervento almeno un flash su questa figura di concordato preventivo sia necessaria. Con le necessarie schematizzazioni dovute allo spazio a disposizione, ci si può forse limitare a richiamare due sentenze della Cassazione, con le quali gli interpreti si devono già oggi confrontare, almeno sino al primo settembre 2021, data prevista per l’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. La prima decisione da richiamare necessariamente è la sentenza del novembre 2018, numero 29742[15], che afferma la compatibilità con il concordato in continuità dell'affitto d'azienda, anche se pregresso. In secondo luogo, occorre anche ricordare la recente decisione gennaio 2020, si tratta della numero 734[16], la quale pur avendo ben presente che il concordato in continuità nel futuro Codice della crisi richiederà che i flussi finanziari che derivano dalla prosecuzione aziendale siano prevalenti rispetto ai flussi che derivano dall' eventuale liquidazione di beni non strategici, prende atto che nella realtà fenomenologica delle cose non abbiamo quasi mai fattispecie di continuità pura, ma si ritrovano delle situazioni intermedie dove non vi è neppure una liquidazione totale, assimilabile ad un fallimento o ad un concordato puramente liquidatorio. Si tratta di situazioni intermedie in cui, ad esempio, occorre procedere alla vendita di un magazzino che non serve più, oppure occorre alienare dei terreni su cui si era pensato di realizzare degli interventi speculativi ai quali l'andamento negativo dei prezzi degli immobili costringe a rinunciare; oppure si tratta di ridimensionare l’attività e ritornare al proprio core businness. Orbene, tutte queste situazioni in qualche modo intermedie ed incerte vengono ricondotte dalla pronuncia della S.C. appena ricordata, l’importantissima pronuncia del 15 gennaio del 2020, alla continuità aziendale. Questa decisione, in altri termini, ci dice che dopo l'introduzione dell'articolo 186 bis L. fall. non esiste più il concordato “misto” come tipo legale, ma esiste come fenomeno, come fattispecie concreta che va però sussunta legalmente o nel concordato liquidatorio, oppure nel concordato in continuità. Ora, se leggiamo insieme queste due sentenze, appare evidente che il novero dei concordati in continuità è destinato ad allargarsi enormemente.
Ed allora, ritornando “a bomba” al tema affidatoci, noi oggi incontriamo un articolo 5 del d.m. 30 gennaio 2015 che ci dice al suo primo comma che nel concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186 bis L. fall. l'impresa si considera regolare nel periodo intercorrente tra la pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e il decreto di omologazione, a condizione che nel piano di cui all'articolo 161 L. fall. sia prevista l'integrale soddisfazione dei crediti INPS, INAIL e Casse edili e relativi accessori di legge. Chiaramente questa norma pone nella pratica diversi problemi. La prima questione è che la disposizione richiede di verificare che il piano paghi in modo integrale i debiti contributivi. Quindi gli uffici degli enti amministratori dei trattamenti previdenziali ed assistenziali, in qualche in qualche modo hanno avuto agio a sostenere che durante il concordato “in bianco”, non essendoci ancora un piano e non potendo ancora sapere quale tipo di soddisfacimento quella proposta concordataria riserverà, si possano adottare prassi ostruzionistiche al rilascio del DURC regolare.
Il secondo problema consiste, a quel punto, nel rendersi però conto che in realtà le norme primarie sono state modificate e l'art. 182 ter L. fall., in particolare, non è più quella norma che in qualche modo rendeva molto restrittiva la transazione fiscale e la escludeva per l'IVA e per le ritenute, ma è diventata una norma che in qualche modo – anche sulla scorta delle sollecitazioni della giurisprudenza comunitaria - rende il debito erariale, sia per contributi che fiscale, sostanzialmente un debito “come gli altri” - che non va trattato chiaramente in modo deteriore – ma può essere soggetto a falcidia.
In ogni caso, come si diceva, il d.m. del 2015 ha creato alcune prassi difformi da parte degli uffici della pubblica amministrazione, anche perché in realtà questo primo comma dell’art. 5 deve “fare i conti” con il quarto e il quinto comma della stessa disposizione. Il quarto comma prevede che le imprese che presentano una proposta di accordo su crediti contributivi, ai sensi dell'articolo 182 ter ovvero nell'ambito delle trattative per un accordo di ristrutturazione dei debiti dell'articolo 182 bis L. fall., si considerano regolari per il periodo intercorrente tra la data di pubblicazione dell'accordo e il decreto di omologazione se nel piano di ristrutturazione è previsto il pagamento parziale o anche dilazionato dei debiti contributivi e accessori, ma nel rispetto delle condizioni e dei limiti dell'articolo 1 e 3 del decreto interministeriale 4 agosto 2009[17], che a sua volta prevede una rateizzazione massima nell'arco di 60 mesi, quindi al più 5 anni; mentre il comma successivo dispone che comunque l’impresa deve risultare regolare per i periodi che decorrono dalla pubblicazione della domanda di concordato.
Di fronte alle incertezze interpretative occorre richiamare la premessa che inizialmente ho cercato di ricordare, e che appare adesso nella sua rilevanza pratica: quella in qualche modo collegata alla specialità ed alla prevalenza del diritto concorsuale. Proprio tale rapporto di prevalenza spiega come si stia orientando attualmente la giurisprudenza di merito che, per fornire anche una indicazione di massima e di principio a chi si occupa di queste tematiche ed agli operatori degli enti coinvolti, appare massimamente orientata a favorire l’impresa in crisi e, quindi, la sua pretesa al rilascio del DURC regolare in pendenza della procedura concorsuale di concordato in continuità.
In questo quadro complessivo, naturalmente tratteggiato in sintesi, è possibile dividere i precedenti che si rinvengono in due diverse categorie. Da una parte abbiamo casi in cui le imprese in concordato si sono rivolte al giudice affinché questi provvedesse d’urgenza ad ordinare l’emissione del certificato di regolarità contributiva. Si trattava quindi di procedimenti iniziati con un ricorso d'urgenza, formulato ai sensi dell'art. 700 c.p.c., con cui si chiedeva che venisse ordinato all'ufficio dell'INPS il rilascio del Durc. I precedenti editi vanno chiaramente in questa direzione. Si ricorda in particolare Tribunale Roma, 8 novembre 2019[18]; Tribunale Pistoia, 4 maggio 2020[19]; Tribunale Cosenza 1° luglio 2015[20]; Tribunale Livorno, 16 ottobre 2018[21]. Si tratta di una serie di provvedimenti che oltre a stabilire la soccombenza dell'ufficio pubblico sono giunti ad ordinare alla pubblica amministrazione il rilascio d'urgenza del DURC, ritenendo che nelle more di un giudizio ordinario non soltanto l'impresa, ma anche i suoi creditori avrebbero altrimenti subito dei pregiudizi irreparabili, che come sappiamo sono in qualche modo collegati sia all'interruzione dei rapporti d'appalto, sia al blocco dei pagamenti, sia alla stessa conseguente impossibilità di mantenere quell’equilibrio finanziario che consente il mantenimento della continuità aziendale, ecc…
Vi è poi un'altra serie di pronunce, che si tratteggiano in sintesi per non rubare altro spazio agli altri interventi, dove invece i provvedimenti sono emessi in sede fallimentare. Chiaramente il giudice delegato non può in questi casi ordinare all'ente pubblico di emettere il certificato, perché non è un giudice che abbia la cognizione del rapporto sostanziale ordinario, ma è invece un organo che si occupa della vigilanza sulla procedura concorsuale. Si tratta di provvedimenti interessanti, perché comunque riconoscono il diritto dell'impresa in concordato di ottenere il DURC senza dover procedere ai pagamenti dei contributi anteriori già scaduti. In precedenza, si è già accennato all'articolo 182 quinquies comma 4 L. fall., cioè alla richiesta di autorizzazione al pagamento di crediti anteriori. Si tratta di una deroga alle regole della par condicio che richiede, appunto, un'autorizzazione giudiziale. Orbene, in questi provvedimenti si dice chiaramente che questi pagamenti non vanno autorizzati dal G.D. Le motivazioni sono varie, qui non è possibile ripercorrerle integralmente, ma in primo luogo si afferma dal punto di vista tecnico-giuridico che l'INPS non può essere considerato un fornitore “di beni o servizi” la cui prestazione sia essenziale per la continuità. La seconda obiezione, di carattere diciamo funzionale, rileva invece che la circostanza di (voler) pagare il credito anteriore è in realtà inutile e non conveniente per la procedura, così che non può essere assentita. Perciò l’impresa in crisi ha comunque diritto ad ottenere il DURC se – impregiudicato il mancato pagamento dei debiti contributivi anteriori - dal momento del deposito della domanda si è mantenuta “regolare”. Possono in proposito ricordarsi Tribunale Milano, 11 marzo 2016[22]; Tribunale Bergamo 23 aprile 2015[23]; Tribunale di Pavia 29 dicembre 2014[24].
Si tratta di orientamenti ormai ripetutamente espressi dalla giurisprudenza che impongono, ad avviso di chi interviene, la necessità che anche l’Istituto Nazionale per la previdenza sociale si doti, anche negli uffici periferici di livello almeno regionale, di strutture dedicate all’analisi delle procedure concorsuali, sia per la sempre maggiore complessità che le caratterizza, sia a fronte dell’entrata in vigore di nuove disposizioni normative di estremo rilievo che vanno a modificare le disposizioni in tema di trattamento dei privilegiati, estendendo alcune soluzioni che erano prefigurate soltanto nel nuovo Codice della Crisi e che vengono così anticipate.
Si deve al riguardo ricordare che il D.L. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito con modificazioni dalla legge 27 novembre 2020, n. 159[25], ha previsto nell’art. 180 L. fall. che il tribunale possa procedere alla omologazione del concordato preventivo “anche in mancanza di voto da parte dell'amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie”, purché: a) l'adesione sia determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze; b) anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista di cui all'articolo 161, terzo comma, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie risulti conveniente rispetto all'alternativa liquidatoria.
Si tratta di una disposizione che vien ripetuta anche all’art. 182 bis, in tema di omologazione degli accordi di ristrutturazione, prevedendo che il tribunale proceda in tal senso “anche in mancanza di adesione da parte dell' amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie” quando a) l'adesione è decisiva ai fini del raggiungimento della percentuale necessaria per l’approvazione dell’accordo; b) e ciò appaia conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria (anche in questo caso la valutazione è espressamente demandata al giudice anche per gli “enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie”).
Le novità riguardano infine anche l’art. 183 ter, ove si precisa che il credito erariale o contributivo può essere ritenuto chirografario anche a seguito di “degradazione per incapienza”, richiedendo però che “l'attestazione del professionista, relativamente ai crediti tributari o contributivi, e relativi accessori, ha ad oggetto anche la convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale; tale punto costituisce oggetto di specifica valutazione da parte del tribunale”, stabilendo inoltre che “copia della proposta e della relativa documentazione, con testualmente al deposito presso il tribunale, deve essere presentata all'ufficio competente sulla base dell'ultimo domicilio fiscale del debitore” (e tanto al fine di informare tempestivamente gli enti creditori, ma anche di consentire agli stessi una verifica circa la correttezza dei dati forniti oltre alla valutazione della proposta medesima).
E’ chiaro a questo punto che le norme regolamentari contenute nei decreti ministeriali che vi ho inizialmente richiamato, come pure a maggior ragione le disposizioni interne come circolari o risposte ad interpello, appaiono inattuali e rappresentano principi che già oggi confliggono ed ancor più andranno a confliggere con delle disposizioni di rango primario. Chiaramente si tratta di norme di rango secondario, come tali destinate a soccombere e ad essere disapplicate di fronte a queste innovazioni che chiamano il giudice ad esercitare una facoltà processuale particolarmente penetrante, esprimendo scelte chiaramente non arbitrarie, ma secondo un vaglio giudiziale sostitutivo, sempre guidato da un criterio di convenienza in cui, quindi, volta a volta sostanzialmente si dovrà verificare se quel trattamento che è riservato nel concordato sia migliorativo rispetto all’alternativa fallimentare. In tutto questo giocherà un ruolo essenziale la correttezza e veridicità dei dati messi a disposizione dall’imprenditore, nonché la tempestiva capacità di analisi degli stessi da parte degli uffici delle amministrazioni pubbliche coinvolte, potendo comunque il tribunale acquisire ulteriori informazioni orientative attraverso la richiesta di pareri al Commissario giudiziale (nel concordato preventivo) o di relazioni a consulenti tecnici appositamente nominati nei casi più complessi (nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti in particolare). Tale valutazione/adesione sostitutiva ope judicis richiede, tuttavia, come prescrivono i novellati artt. 180 e 182 bis L. fall. che l’espressione di voto o l’adesione dell’amministrazione finanziaria o dell’ente gestore di forme di previdenza o assistenza obbligatorie sia “determinante”: occorre cioè la prova controfattuale che senza il voto della P.A. il concordato non raggiungerebbe le maggioranze di legge o l’accordo l’adesione del 60% dei creditori. A parere dello scrivente, infine, considerato che dopo la riforma del 2015 la mancata votazione nel concordato equivale a voto contrario, si deve ritenere che la nuova facoltà processuale surrogatoria sia esercitabile – ferme le altre condizioni di legittimazione – non solo se l’amministrazione non abbia votato, ma anche se abbia votato in senso contrario. Infine, le nuove norme appaiono applicabili anche ai procedimenti in corso, prima della conclusione della fase di omologazione, rispetto ai quali potrà anche ipotizzarsi una rimessione in termini per riformulare la proposta di soddisfacimento degli enti coinvolti e procedere ad una nuova e più specifica attestazione di convenienza.
*Testo tratto dalla relazione tenuta al Corso annuale avvocati INPS in Roma, 30 novembre 2020, “Aspetti previdenziali e assistenziali nelle attuali emergenze sociali e nelle crisi di impresa”
Note: